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CAPO XXII. | 113 |
triti di nettare e d’ambrosia, ma implacabili nello sdegno, macchiati di colpe, viziosi e osceni, appariscono anzi di lor natura provvidenti e benigni all’uman genere, di cui son tutori e padri. Invigilavano essi all’opre dell’agricoltura; alla custodia della proprietà; alla concordia coniugale; a tutte le sante leggi della veracità, della giustizia, dell’onore: in fine sotto mille nomi e mille forme erano a un modo promotori e dispensatori di beni, così al pubblico, come a un privato. Dionisio stesso d’Alicarnasso è costretto a riconoscere questa rilevantissima differenza che passa tra l’antica mitologia italica e la greca: se bene, per interpretazione cortese a’ suoi, egli ne adduca ragione tanto scipita, quanto falsa1. E di vero nessun lavoro d’arte propriamente toscanico si può citare, il qual finora ne abbia posto davanti agli occhi alcuna di quelle sensuali figurazioni mitologiche, che diedero liberamente ai Greci, promulgatori ingegnosi delle divine fralezze, sì licenzioso tema alle opre de’ loro artisti ed alla fantasia de’ poeti con certo danno del buon costume: essendo vano lo sperare che un popolo sia miglior de’ suoi iddii.
Ma il fondamentale principio della religione etrusca, e per cui differiva essenzialmente dalla greca, si è la dottrina di due contrarie potenze nell’universo, contrastanti l’una coll’altra, così nell’ordine fisico, come nel morale. Ambedue emanazioni necessarie del