Storia degli antichi popoli italiani/Capitolo XIII
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CAPO XIII.
Sanniti
Dopo che la nazione sabina s’era costituita nella forma che vedemmo di sopra, mediante l’aggregato di non poche tribù circonvicine del suo proprio sangue, crebbe naturalmente in tal soprabbondanza di popolo, che il paese natìo per sua infelicità non si trovò più bastante a sostentare la moltitudine degli abitatori. Nessuna maggiore calamità affligge un popolo scarso di mestieri quanto la mancanza dell’ordinario alimento; ma in sì difettoso stato di vita civile era pronto il rimedio in chi reggeva la gente coll’espulsione del superfluo, sotto colore di pubblico voto o di sacra primavera. Or dunque una numerosa mano di gioventù consacrata, mandata fuori delle paterne montagne con auspicj divini, si mosse dall’alta Sabina inverso la bassa Italia. Li proteggeva per via il nume difensore: passarono, siccome mostra la topografia dei luoghi, pe’ vicini Marsi e Peligni, nè trovarono colà impedimento, non tanto per riguardo di consanguinità, quanto per reverenza di religione: onde venuti innanzi sino alle falde dell’aspro Matese, che ha sopra quaranta miglia di estensione, si collocarono quivi intorno per la continuata giogaia che lega insieme il monte Matese con lo smisurato Taburno, e vi diedero così principio alla nazione dei Sabelli o altrimenti Sanniti1. Le tradizioni di quella età superstiziosa narravano, che un toro salvatico, celeste guida, condusse i passi della gioventù guerriera là dove si posarono nelle terre degli Osci i primi popolatori di tutte queste regioni meridionali: e sì fatto mito nazionale era in effetto talmente sacro, ed accetto al popolo, che lo ritroviamo tal quale rappresentato per benaugurata impresa nelle medaglie sannitiche battute al tempo della guerra sociale2. Stabilitosi di tal forma lo stipite della nazione sannite, di cui la gente osca formava il pieno della popolazione3, non andò guari che cresciutavi in troppo numero ancor di quivi si mossero nuove colonie, giusta il costume de’ padri. Una di queste passò ad abitare le falde del Taburno ed i prossimi monti, che discendendo l’un dopo l’altro van per gradi sino alla Puglia piana: e per là entro quella montuosa regione vi compose la società degli Irpini, tolto il nome con voce sabina da quel del lupo, che tenean per auspice e conduttore della colonia4. Nell’istesso modo un’altra banda di giovani sanniti per diversa via tragittò il fiume Silaro, e distendendosi inverso al mezzogiorno vi diede origine alla forte nazione dei Lucani. Laddove i Frentani, popolo ugualmente sabello, pare che fin dal principio della grande migrazione sabina, tenendo la via de’ Peligni e Marrucini, si ponessero nel più agiato territorio che si parava loro dinanzi tra le bocche dei fiume Aterno e del Frentone5.
La discendenza dei Sanniti, Irpini, Lucani e Frentani dalla Sabina è uno de’ fatti più certi delle nostre istorie. Ma in qual tempo avvennissero coteste migrazioni di popolo, ella è una circostanza al tutto ignota, nè dobbiamo mai sperare di saperla da senno. Che però la propagazione dei Sabini nell’Italia meridionale sia seguita intorno al 300 di Roma6, non può ammettersi con ragionevole fondamento: poichè un’epoca sì bassa è non tanto repugnante alla qualità del fatto, quanto incompatibile con tutto insieme il tenore della storia antica. Noi crediamo per lo contrario, che lo stabilimento dei Sanniti debba aversi per un evento collegato di sua natura cogli altri successi di sopra narrati, e massimamente con la cacciata o fuga dei Siculi; il qual gravoso accidente, posto nell’ordine dei tempi circa all’epoca troiana, fu anche principale cagione degli scorrimenti che tramutarono molte genti paesane di luogo a luogo, cambiandone l’essere e il nome7. Tutte condizioni di vita poco civile, quali comportava la dura età, e sì consuete a popoli di stato mobile, che pure oggidì non poche tribù indigene dell’America settentrionale commosse per interni danni, van mutando sedi alla volta, pigliando nomi differentissimi l’uno dall’altro benchè abbiano comune la stirpe8. Non v’ha dubbio per altro che coloro, i quali furono appellati Sanniti, e generalmente i popoli detti per uguale origine Sabelli, non si congiungessero di per tutto con altre genti della medesima loro razza osca, e non s’immedesimassero, per così dire, con quelle, dandosi uno stato politico e fermo. Di che fa piena certezza sì l’universale favella osca, e sì la facilità che per essa ebbero i Sabini di collegarsi e ristrignersi coll’altre genti paesane della meridionale Italia. E benchè da queste unioni ne uscissero al mondo popoli nuovi, è tuttavia notabil cosa, che anco in istato più civile invariabilmente serbassero i costumi e gli abiti de’ padri loro. Anzi ne tolsero sì fattamente le fogge, che in tutti ugualmente i Sabelli ritroviamo vita pastorale e rusticana: natural disposizione e attitudine all’armi: una stessa moderazione, frugalità e temperanza domestica: culto conforme: indole a un modo superstiziosa e pari credulità; ma più che altro amore caldissimo e insuperabile della natìa indipendenza. E tanto in loro era vivo l’affetto a’ luoghi dove nacquero, e possente la forza della educazione, che quantunque incalzati per grandi strette a migrare e’ si tennero sempre di luogo in luogo per le giogaie dell’Appennino, senza punto curarsi de’ piani sottoposti. Il che è sì vero che la bassa Campania, benchè conterminale al Sannio, rimase a’ suoi primi abitatori: nè, dalla parte di levante, gl’Irpini oltrepassarono le radici de’ monti che confinano alla pianura pugliese.
Strabone9 dà cenno di cotidiane guerre degli Umbri come incentivo della prima mossa dei Sabini: e ben può essere, che alla penuria s’unissero anche i mali della guerra. Ma in ogni modo l’uscita dei Sabini dalle native montagne si fece sotto l’ombra della religione, e per religione soltanto ebbe luogo l’istituzione civile dei Sanniti ed altri Sabelli. Vivean dunque anch’essi in guardia e tutela del governo sacerdotale: e quanta fosse tenacissima in Sannio la forza di religione, ben lo dimostrano quei tetri apparati delle vetuste leggi sacre, che ne’ maggiori frangenti della guerra riprodussero i magistrati nel quinto secolo, qual massimo schermo e difesa della repubblica. Un sacro recinto entro cui penetrava poco e tenue lume; silenzio profondo, altari, vittime e spade di fidati centurioni; tutto mettea nell’animo dei chiamati santità e tremore. Quivi ciascuno, con orribil formola imprecativa10, dovea giurare obbedienza e illimitata sommessione11. Sì tanto i custodi della religione paterna ottimamente sapevano, che a voler tirar gli uomini son potentissime, sopra ogni altra cosa, le apparenze astruse e mirabili. Nè per altri mezzi la poderosa aristocrazia sacerdotale, ch’era il forte d’ogni città, intendeva con prescritto fine a reggere la moltitudine paziente, che, quasi in ceppi, non potea avanzarsi a niun progresso, fuor che cedendo alla forza delle opinioni dominanti. Il supremo magistrato di ciascun popolo dei Sanniti portava con voci osche il titolo di Meddix-Tuticus12. Livio, nel celebre suo giudizio di Papio Brutulo, in cui la tema religiosa fu preposta per causa di stato alla giustizia, chiama latinamente praetor il magistrato sannite13: nè di vero alcun fatto istorico del Sannio vai meglio di questo a confermare quanto mai possa nell’universale superstizione, inesorabil tiranna de’ popoli incolti.
Per vigor della prima istituzione la generale società dei Sanniti trovavasi civilmente fondata sopra un sistema di leggi agrarie confacenti al loro stato naturale di pastori e di coltivatori14. E per tali continovati esercizi ed abiti di vita rustica ebbero essi quella corporal forza, che validamente adoprata conduce all’incremento della morale. Bene Orazio, pittor del costume, mostra la prole guerriera duramente allevata non tanto a maneggiar la zappa e la scure, quanto a trasportare obbediente i recisi tronchi degli alberi ad ogni cenno delle madri severe15. Queste sollecite cure della maschile educazione impressero certamente ne’ Sanniti la virilità di quel robusto carattere, che non mai avvilito nella sventura non si rimaneva di far guerra per solo amore di libertà, e volea più tosto, come dice Livio, esser vinto, che non far prova di vincere. Nè mancavano tampoco le buone istituzioni a rafforzare ne’ loro animi il gagliardo affetto della città, che in se comprendendo ogni sublime e ragionevol sentimento, sostenne con gloria la virtù sannitica per tutto il corso della libertà pubblica.
La regione dei Sanniti, traversata dall’Appennino in linea obliqua, comprendeva nel suo intero tutto lo spazio montuoso posto tra la Campania, la Puglia e la Lucania. Dentro a questi termini, dimore predilette del coraggio e della indipendenza16, stava l’universale confederazione del nome sannite, la qual si componeva dei Pentri, Caudini, Irpini, Caraceni e Frentani. È impossibil cosa il determinare con qualche precisione i veri confini di ciascuno, non che le particolari loro città, terre e castella17. Il monte Matese, ch’è la punta più alta del Sannio, avea intorno a se quattro delle maggiori città dei Sanniti-Pentri, cioè Telesia, Esernia, Allife e Boviano presso alle fonti del Tiferno, e capo della unione18. Caudio, Salicula e Trebula erano i comuni principali de’ Sanniti-Caudini, che in più dolce clima abitavano le radici del Taburno, con la prossima valle, che fu di poi sì cognita sotto l’infamato nome di Forche caudine. Qui presso, dove innanzi avean stato gli Osci19, in un vallone d’aria frigida e nebbiosa irrigato dal fiume Calore siede Maluento, che una menzognera vanità volea far credere edificata da Diomede col nome più propizio di Benevento20: e dove di più al segretario di Belisario, che andava pescando curiosità, fu mostrata per altro misero fumo municipale la festa sannuta del cinghiale Calidonio21; emulando in ciò alla boria de’ Cumani che mostravano nel tempio d’Apollo l’orribil teschio della fiera d’Erimanto22. Assai più numerosi e potenti erano bensì gl’Irpini, tra le cui città più notabili sono da rammemorarsi Acudunnia23 o sia Aquilonia, Abellino, Eclano, Erdonia, Taurasia, Cominio, Romola, Consa, e quell’Equus-Tuticus24, di cui Orazio ben potea con vena satirica burlarsi al suo secolo di magnificenze, come d’una misera cittadella25. Nondimeno queste, ed altre terre non poche del Sannio, s’erano secondo fortuna dalla condizione di borghi o di villaggi alzate al grado di vere città munite con opere militari, ed aventi Foro, Comizj, Curia e propri magistrati. L’ostinata resistenza che ciascuna di loro fece da per se all’armi romane, sarebbe sufficiente a dimostrare quanto elle fossero potentemente fortificate con mura e torri26, segno certo di stabilità di governo e di civili costumi: benchè più maggiormente ne sieno testimonio sul luogo i vestigi delle mura stesse di Boviano, Allife, Esernia ed Eclano, per lo più costrutte di grandi pietre tagliate in figure irregolari27. Nè molto lungi alle ruine d’Eclano, nel profondo d’una valle circondata di selvosi monti, trovasi nel suo pristino stato il lagone d’Ansanto, che per le sue acque di fetido odore, nere e bollenti, posto in custodia della dea Mofeta, era di grandissima religione ai popoli del Sannio28. I Caraceni, o piuttosto Sariceni, così chiamati dal fiume Sarus, oggi Sangro, che nasce ne’ loro monti, aveano Alfidena29 per sede principale, città estrema del Sannio posta in sul confine dei Peligni. All’opposto i prossimi Frentani occupavano un territorio più largo e più fertile, il qual s’estendeva lungo il mar di sopra per una riva di ottanta miglia incirca dal fiume Pescara insino al Fortore. Appartenevano essi parimente alla famiglia dei Sanniti30, ed usavano non già caratteri latini31, ma sì bene osci, secondo che portava l’idioma, e come si vede per le stesse monete loro che han per leggenda Phrentred32, o sia il nome comune, così appellato forse dal fiume detto latinamente Frento33. La città d’Ortona, piazza di mercato e navale dei Frentani34, si presenta su d’un vago monticello presso al capo dov’era il porto più grande e più sicuro di quel lido procelloso. Molti residui d’un capace edifizìo marittimo si veggono ancora alla foce del fiume Foro: altre stazioni trovavano i naviganti alle bocche del Trigno35 e del Fortore: nè troppo lungi incontravasi Buca, terra marina, e Cliternio situata alla destra del Biferno36. L’antica Larino37, città primaria dei Frentani, risedeva dentro terra poco distante dalla moderna, benchè in sito più assai delizioso. Le rovine d’Ansano si veggono parimente su d’un colle discosto poche miglia dalla presente Lanciano; quelle d’Istonio si voglion con tutta certezza ravvisare nel bel paese chiamato il Vasto. Certamente i luoghi più principali finora mentovati, centro d’altrettanti comuni prosperosi, bastano a mostrare quanta fosse la copia e forza del Sannio: in oltre la forma medesima dell’abitare nel contado per villaggi aperti e per borgate, alla maniera dei padri, ed il semplice costume, erano da per tutto cotanto favorevoli al crescimento del popolo, che non senza fondamento alcuni scrittori politici trassero da probabili calcoli ragion di credere il paese sannite popolato anticamente oltre a due milioni d’abitanti38.
Tanta forza reale non poteva rimanersi inoperosa, nè lasciare lungamente sicure le nazioni circostanti. Vero è che l’università dei Sanniti non faceva un solo corpo di nazione unita: ma Pentri, Caudini, Irpini, Sariceni e Frentani, formavano ciascuno di per se una società distinta, e di pieno dritto sovrana nel suo proprio distretto: sicchè raramente uniti nelle imprese, o solo per breve tempo, non si trova che adoperassero mai tutti insieme il formidabile loro sforzo, nè pure nelle maggiori urgenze contro alle armi romane, sebbene talvolta tenessero sotto l’armi sino a ottantamila fanti e otto mila cavalli39. Che se nazioni sì valorose, come tutti i Sabelli, avessero fortemente collegate l’armi, e ristrette all’uopo sue difese, forse Roma non sarebbe più stata al mondo. Questo troppo largo principio di libertà politica, che rilasciava a ciascun popolo il dritto di guerreggiare separatamente a voler suo, senza troppo riguardo alla salute comune dei membri confederati, fu senza dubbio il vizio radicale del governo federativo di tutti gl’Italiani: vizio sì grande, che tramutato in licenza pose finalmente i popoli distinti l’un dopo l’altro sotto il giogo di Roma, che avente un sol centro e una sola capitale tutto movea da quella. Non pertanto questa istessa eccessiva passione della locale e originaria independenza, che caratterizzava i popoli di stirpe osca, e massimamente i Sabelli, è anche prova certisima, che coteste forti nazioni non erano state mai per avanti da nessun altro conquistate; ma venute a stato civile da gran tempo mediante le sue colonie sacre, nel modo che abbiamo descritto, si mantennero sempre sotto l’influenza degli ordini religiosi, indirizzati dal principio suo meno all’ingrandimento del territorio, che ad insinuare nel popolo tacita obbedienza, coraggio pubblico nelle difese, e prescritta sommessione: perchè ovunque si frammette il nome degl’iddii il sacrifizio della persona è sempre un dovete. Con tutto questo benchè poco o nulla sia noto particolarmente delle vicende militari e civili, che precedettero le feroci guerre romane, non di meno la potenza del Sannio trovavasi molto prima fermamente stabilita non tanto sull’interna forza, quanto sopra un esterno dominio. Per pochi cenni vediamo i Sanniti penetrati nell’alta Sabina, dove tennero Amiterno40. I Volsci perderono Cassino41; ma più lungamente e duramente gli Appuli furono travagliati dagl’Irpini, che stavano in sulla frontiera: di tanto quei montanari spregiavano, come dice Livio, gl’imbelli pianigiani42. Le conquiste bensì più valutabili e più durevoli dei Sanniti s’effettuarono a’ danni degli Etruschi, che dimoravano nella contigua Campania; e par vero che i Caudini, più prossimi, fossero anche gli aggressori. Per continuate offensioni tolsero in primo luogo agli Etruschi il bel paese dove avean Pompeja e Marcina43; altre città ivi intorno passarono similmente in dominio dei Sanniti, dopo che gli Etruschi, spossati dalle dovizie campane, s’indussero ad accettarli seco insieme in società come abitatori e compagni delle loro terre, e nominatamente di Capua44. Nel qual modo gli Etruschi medesimi, lasciando per viltà crescere e farsi potenti nella propria casa questi fieri vicini, non poterono poi dagli stessi luoghi mai più cacciarli. Anzi i Sanniti, a loro difesa e sicurezza, costruirono là presso al Sarno due castella Rufro e Batulo45. Ma questi eventi, che diedero ai Sanniti incentivi e mezzi a spogliare gli Etruschi del principato nella Campania, s’appartengono veramente ad un altr’ordine di tempi: perciocchè mancò il dominio loro soltanto nel 333 coll’infamata perdita di Capua.
Pochi e rari monumenti abbiamo del Sannio, perchè finora poco cercati: nè sapremmo qui ricordare, oltre alle mura di Boviano, Eclano, Esernia ed Alfidena, fabbricate con massi poligoni irregolari, se non che le loro monete con proprie leggende, per lo pili coniate al tempo della guerra marsica46, ed alcune iscrizioni di particolare nomenclatura sannitica47. Faceva il bestiame la principal ricchezza dei Sanniti, ugualmente che di tutti i Sabelli. Grandissima era la cura che davano in comune ai pascoli ed alla pastorizia48, e soprattutto abbondavano essi di greggi lanute. Di tal modo aveano come materia di permute immensa copia di finissime lane indigene49, e sapevano anche farne buon uso con tesserne drappi, coltri e vesti. Nè s’adoperavano meno i paesani ad allevare studiosamente copiose razze di cavalli, tra i quali son lodatissimi i puledri d’Irpino50. Laonde non è punto da maravigliarsi che, sebbene rustici per natura e per istato51, fossero di fatto i Sanniti già nel quarto e quinto secolo molto abbondevoli di ricchezze. La copia del rame monetato v’era sì grande che Papirio il giovane ne portò via oltre due milioni di libbre nella guerra del Sannio52. E Carvilio, di lui collega, con le sole armature di rame tolte ai fanti sanniti fece fondere il colosso di Giove in Campidoglio, che per la sua smisurata grandezza vedevasi dalla sommità del monte Albano53. Questa enorme quantità di metallo bisognevole a tutti veniva greggio di fuori per baratti di roba nel Sannio. Ciò che conferma la ricchezza dei privati massimamente: poichè ciascuno de’ militi delle prime classi doveva equipaggiarsi a sue spese. In tutte le cose belliche erano i Sanniti grandi amatori di pompa e d’apparati. I colori più belli rilucevano nelle loro vesti militari, e per mostra d’armi di gran vista usavano anche scudi intarsiati d’oro e di argento54; fatto sì vero, che nobilissime armature e di gran pregio, si ritrovano alle volte nei sepolcri di popoli ancor più semplici e frugali nel vivere. Tanto per general costume de’ nostri padri tutto ciò, che nelle cose di guerra poteva dare una ostensibile idea del potere, s’usava sempre con nobilità, con grandezza e profusione. Nè mai questo studio di pompeggiarsi in campo fu atto a scemare le virtù militari, che sollevarono a cotanta altezza il nome sannite. Era l’affetto alla repubblica troppo a fondo scolpito ne’ loro cuori: efficace il costume: potentissima la legge: nò per certo i Papii, i Ponzi ed i Pompedj, furono i soli grandi cittadini, che s’adoprarono virtuosamente per la prosperità e la gloria della loro patria. Che più? Quando il crudel Silla, quel gran distruttore del Sannio, esclamava nel suo insensato furore, non poter mai Roma aver riposo finchè restasse in vita un solo sannite55, questo suo acerbo rancore facea fede della magnanima virtù del popolo che iniquamente opprimeva. Non l’adulazione istorica, non favore ebbero di sicuro parte alcuna in esaltare la fama delle gesto immortali di que’ gloriosi cognite al mondo. E se fortuna fu tanto maligna inverso loro, che s’annullassero al tutto le memorie stesse sannitiche, ciò non ostante gli scritti medesimi de’ più fieri nemici suoi ed oppressori fanno pur sempre verace testimonio dell’eroica opposizione che venne da così nobili spade: ed a conforto almeno della virtù abbiamo in quelle storie romane un monumento eterno di quanto possa innato amor di patria, contro ambizioni ingiuste e crudeli.
Note
- ↑ Strabo. v. p. 172-173; Varro l.l. vi. 3.; Festus, v. Samnites.; Plin. iii. 5. Samnitium, quos Sabellos, et Graeci Saunitas dixere. Non occorre dire che l’etimologia greca da σάννια è una puerile sottigliezza di grammatici.
- ↑ Vedi i monum. dell’Italia ec. tav. lviii. 7. 10.
- ↑ Osci Samnites Italiae. Vibius Seq.; Hi sunt autem qui olim Ausones (vel Opicos) dicebantur. Philarg. ad Virgil. Georg. ii. 167
- ↑ Strabo v. p. 173.; Fest. v. Irpinos.; Serv. xi. 173. Il lupo s’avea per animale sacro a Mamers o Marte, ugualmente che il pico. Vedi sopra p. 204.
- ↑ Pescara e Fortore.
- ↑ Niebhur T. i. p. 103.
- ↑ Vedi p. 69. 75.
- ↑ Transactions of the histor. and literary Comittee of the American philosophical society: Memoria di Heckewelder, T. i. Philadelphia, 1819.
- ↑ v. p. 172.
- ↑ Diro carmine in execrationem capitis, familiaeque, et stirpis composito.
- ↑ Liv. ix. 40., x. 38.
- ↑ : in parecchie iscrizioni osche. Liv. xxix. 19.; Festus v. Meddix.
- ↑ Liv. viii. 39.
- ↑ Varro in Agemodo ap. Philarg. ad Georg. ii. 167.
- ↑ Horat. iii. od. 6.
- ↑ Regio gentium vel fortissimarum Italiae. Plin. iii. 12.
- ↑ Per la più recente, copiosa, ed accurata descrizione del Sannio vedasi Romanelli, Topografia del regno di Napoli.
- ↑ Caput hoc (Bovianum) erat Pentrorum Samnitium longe ditissimum, atque opulentissimum armis virisque. Liv. ix. 31
- ↑ Festus v. Ausoniam.
- ↑ BENVENTOD.; Liv. ix. 27.: Plin. iii. 11.; Serv. viii. 9. xi. 246. — Il nome corrisponde a Bonus: in antico Benus. Festus v. Eventus.
- ↑ Procop. Bell. Goth. i. 15.
- ↑ Pausan. viii. 24.
- ↑ , Acudunniad: come nelle sue monete, per l’innanzi male attribuite ad Acerenza di Puglia. Il sito e il nome antico si rinvengono nell’odierna Lacedogna.
- ↑ Cioè Equus-magnus, in Hierosol. itiner.
- ↑
Mansuri oppidulo, quod versu dicere non est,
Signis perfacile est. Venit vilissima rerum
Hic aqua: sed panis longe pulcherrimus.Horat. i. sat. v. 87-89.
- ↑ Liv. x. 43.
- ↑ I vestigi d’Eclano sono a Mirabella presso Frigento. Per una lapide ivi scoperta nel 1811 abbiam, ch’ella era munita con turreis moiros turreisque aequam qum moiro.
- ↑ Cicer. de div. i. 36.; Plin. ii. 93.; Virgil. vii. 563-571.
- ↑ Alfidena. Liv. i. 12.; Plin. iii. 12.
- ↑ Φρεντανοὶ Σαννιτικὸν ἔθνος. Strabo v. p. 166.; Scylax p. 5.
- ↑ Niebbhur, T. i. p. 106.
- ↑ . Vedi monum. dell’Italia av. il dominio dei Rom. tav. lix. 13.
- ↑ Portuosum Frento. Plin. iii. 12.
- ↑ Strabo v. p. 167.
- ↑ Trinium portuosum. Plin. iii. 12.
- ↑ Tifernum. Plin. iii. 11.
- ↑ Larinates cognomine Frentani. Plin. iii. 11.
- ↑ Galanti, Descriz. del contado di Molise. Grimaldi ec. Oggidì le Provincie del regno di Napoli corrispondenti al Sannio, ne contano incirca la quarta parte.
- ↑ Strabo v. p. 173. Nella rassegna delle milizie dei socj fattasi a Roma nel 529 per timore della invasione gallica, i Sanniti, ancorchè conquassati da tanti mali, potean dare settanta sette mila armati. Polyb. ii. 24.
- ↑ Liv. x. 38.
- ↑ Hoc enim a Sabinis orti Samnites tenuerunt. Varro l. l. vi. 3.
- ↑ ix. 13.
- ↑ Strabo v. p. 170. 173.
- ↑ Prius bello fatigatis Etruscis, in societatem urbis agrorumque accepti. Liv. iv. 87.
- ↑ Rufras Batulumque: castella Campaniae a Samnitibus condita. Serv. vii. 739. Male i comentatori, non eccettuatone l’Heyne, confondono Rufra, che secondo la topografìa virgiliana stava posta fra Nuceria e Avella, con Ruvo nella terra di Bari, di cui si hanno medaglie con leggenda greca.
- ↑ Vedi tav. cxv. 14. 15; ed I monumenti dell’Italia ec. tav. lviii.
- ↑ Una di queste già scopertasi a Rocca Aspramonte, 9 miglia lungi da Boviano, porge un prenome etrusco usitatissimo: : : . Tanas: Niumeriis: Phrunter. — Il nome è più speciale del Sannio (Fest. v. Numerius): l’ultima voce può esser cognome dalla patria, o sia dei Frentani. Vedi sopra p. 264.
- ↑ Varro, r. r. ii. i.; Horat. Epod. i. 27-28. et Vet. Interp.
- ↑ Lanam oscam ad Osceis. Nevius ap. Varr., l. l. vi. 5.
- ↑ Juvenal. viii. 62.; Martial. iii. ep. 63. Monte Irpino è anche oggidì una salutifera pastura nel sito medesimo.
- ↑ Duros Sabellos. Columell. x. 137.
- ↑ Liv. x. 46
- ↑ Plin. xxxiv. 7.
- ↑ Liv. ix. 40.
- ↑ Strabo V. p. 172. Oltre a quel che narrano le storie romane delle rovine del Sannio, e per cui Floro ebbe a dire: ut hodie Samnium in ipsa Samnio requiratur: un moderno geografo ha raccolto il nome di venti e più città sannitiche, delle quali non si trova più nè orma, nè indizio alcuno. Romanelli, Topogr. del regno di Napoli. T. ii. p. 278.