Storia degli antichi popoli italiani/Capitolo VII
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CAPO VII.
Etruschi
Se fu ingiusta la sorte annullando i fasti del più gran popolo che dominava Italia, innanzi che fosse Roma, non è lieve conforto all’umana virtù, che le nobili arti che quel popolo stesso sì degnamente esercitava ed amava, sien bastanti a rinnovarne la fama, e ad attestare al mondo, con opere di sua mano e d’ingegno, l’antica civiltà dell’Etruria. Questi nazionali monumenti, che ogni dì più maggiormente si traggon fuori delle sue ruine in gran numero, e che nel proseguimento di quest’opera saran materia di rilevanti considerazioni, fan certissima testimonianza che i civili Etruschi di lunga mano attendevano a quegli studi ed arti, che son mezzi di potenza e di decoro alle nazioni. L’istoria d’un popolo non ha di fatto importanza se non che dall’epoca della sua istruzione: nè meritan lode coloro, che senz’avanzamento di coltura morale son sterilmente invecchiati. Non basta che una nazione sia antica: è pur necessario che nella sua durata ella abbia giovato all’umanità di leggi, d’arti, e di ornati costumi.
L’origine degli Etruschi stava già inviluppata presso gli antichi in grandissime incertezze, e fu tema di nuove interminabili questioni pe’ moderni, sempre fecondi in controversie congetturali. Erodoto il quale riferiva, come ei dice, le cose che si narravano, senza esser tenuto a crederle totalmente1, scrive che vennero qua di Lidia condotti da Tirreno figliuolo di Ati, ma il suo schietto racconto si trova accoppiato a circostanze talmente favolose ed incredibili, che questo solo basterebbe a giudicarlo una novella2. Al contrario Ellanico, contemporaneo di Erodoto, darà ad intendere che i Tirreni fossero quei medesimi Pelasghi Tessali, che approdarono a Spina in sull’Adriatico, penetrarono nell’interno dell’Etruria, e vi dimorarono un tempo, prima che di nuovo errassero sotto il cognome di Pelasghi-Tirreni nell’Attica, e di là in Lenno ed Imbro, siccome narrava Mirsilio Lesbio3. Per un’altra storia di tradizione riferita da Plutarco4, si dicevano quei Pelasghi transitati dalla Tessaglia nella Lidia; di là nella Tirennia; e di nuovo in Atene e in Lenno: racconto che tendeva manifestamente a conciliare le due opposte sentenze d’Erodoto e d’Ellanico, senza aver per questo maggior fondamento di vero. E qui massimamente Dionisio, scioltosi dai lacci del suo proprio sistema, fa prova di sano criterio, dimostrando l’insussistenza e la fallacia insieme d’ambo quelle opinioni. Perciocchè non solo le istorie lidie di Xanto, autorevole scrittore, non facevan nessuna menzione di Tirreno, nè d’una colonia di Meoni passata di colà nell’Etruria: ma, quel che più vale, oppone Dionisio, che gli Etruschi non avevano in fatto di lingua, leggi, religione e costume, nulla di rassomigliante coi Lidj, nè tampoco coi Pelasghi5: e ciò affermava egli allorchè quella lingua si manteneva ancor viva, nè spenti erano i vecchi costumi; e sussistendo scritture originali etrusche, potevano pure ben sapersi le cose maggiori attenenti alla nazione. Che Dionisio avesse studiato a fondo un’istoria degli Etruschi, ne’ loro instituti, e nella forma del governo, lo dice aperto egli stesso6: e grandemente dobbiamo anzi deplorare la perdita di que’ libri, dov’ei trattava de’ fatti loro con particolar proponimento. Tenne dunque opinione l’istorico d’Alicarnasso, che gli Etruschi fossero essi stessi un popolo originario dell’Italia: sentenza non già nuova, nè di suo avviso soltanto, ma divolgata per l’innanzi da altri narratori di storie; e forse la stessa che già confermavano le proprie nazionali tradizioni. Noi, uomini moderni, non potremo mai sperare di togliere nè di aggiunger forza alle conclusioni dettate dall’imparziale giudizio di Dionisio. Ma pure qualvolta i Tirreni, più tosto che indigeni, fossero stati un popolo lidio approdato alle spiagge del mar inferiore come portava la tradizione7; sebbene i Lidj mai non abbiano avuto da per se navilio, nè colonie; si sarebbono i suoi fermati in sulla marina, siccome fecero al loro tempo gli Elleni nella bassa Italia: laddove, al contrario, le più antiche città principali dell’Etruria furono fabbricate dentro terra, ed a bello studio situate in luoghi montuosi selvosi d’intorno e forti: eccetto Populonia, la sola tra le vetuste prossima al lido, concordemente dicono Strabone e Plinio8: e questa non era già una metropoli, ma bensì colonia dei Volterrani, che ne cacciarono i Corsi, annidatisi per la prossimità in quel seno di mare9. Certo che i due mentovati scrittori addussero un fatto istorico di gran momento; e questo fatto è tanto maggiormente notabile, quanto più concorde al naturale e civile progresso della nazione: poichè gli Etruschi, per ampliazione di dominio soltanto, s’avanzarono dall’interno paese alle basse contrade di maremma; nè prima che vi bonificassero i luoghi, d’aria infetta e pestilenziosa lungo tempo, poterono porvi sue dimore, edificandovi secondo l’opportunità terre murate, e le abitazioni sopra la marina fra Populonia e la ripa etrusca del Tevere, a comodo massimamente dei navigatori.
Con tutto questo il racconto posto avanti dal padre della greca istoria trovò di leggieri e ripetitori e seguaci in tutte l’età. Lo accolse fra i Greci Timeo10, cotanto vago di storie maravigliose; il poeta degli oscuri vaticinj11; Strabone12 e taluni altri: nè i latini scrittori cessavano di ridirlo l’un l’altro, e principalmente i poeti, che agli Etruschi soglion dare il nome di Meoni o di Lidj: ma tutte queste testimonianze si risolvono in una sola, nè aggiungono forza all’argomento. Si adduce per alcuni che gli Etruschi stessi riconobbero in certo modo la provenienza dalla Lidia, quando, sotto il governo di Tiberio, scrissero ai Sardiani come ad agnati; ma, benchè nel suo total servaggio non rimanesse all’Etruria nient’altro che vanagloria, nulladimeno questi da se vantati legami di parentela asiatica non trovarono fede, nè grazia davanti il senato13. Così pure l’opinione, appoggiata alla narrativa d’Ellanico, che i Tirreni fossero di stirpe pelasga, non mancava di fautori nè in Grecia, nè in Roma: e da che in fino per uso di favella il nome generico di Tirreni sonava alternamente in bocca de’ Greci e dei seguaci loro, ora quanto Pelasghi cognominati Tirreni, ora quanto Etruschi, ne venne da ciò nel linguaggio de’ libri quella tale ambiguità di nomi etnici, e confusione di fatti, che renderà sempre difficilissimo, se non del tutto impossibile all’istorico, lo sceverarli con pari critica e convenevolenza. Quindi, benchè la tradizione lidia sia oggidì rifiutata pienamente dai critici migliori, presupporre non ostante di ceppo pelasgo gli Etruschi, e di lingua e di dottrine più presto grecaniche, che d’altro fondo, è una tale sentenza che ancor piace ad alcuni per la facilità, se non altro, che porge loro di tentar grecizzando i misteri d’una lingua ignota, e di tirare a proprio talento, come suol farsi dai più, tutta questa materia a sistema. Se non che, per chiunque non ami fantasie, forza è confessare candidamente, che la massima parte dell’etrusche iscrizioni ne’ bronzi e ne’ marmi sono inintelligibili affatto: perchè di vero s’ignora la lingua o le lingue madri che formarono l’etrusca, innanzi ch’ella per commercio di popolo s’accostasse alla greca, di cui ritiene soltanto, e nulla più, alcuni temi compagni, o derivati.
Ma se dalla favola lidia, collegata con le nobili storie degli Eraclidi, traevano gli Etruschi meno antichi un qualche titolo di nazionale vanità, non abbiamo neppure un cenno, che eglino attribuissero in alcun tempo a se stessi un’origine pelasga. Anzi ciò era per esso loro soltanto una tradizione recitata dagli stranieri, sì come l’altra, che spacciava volgarmente la discendenza lidia del popolo. I paesani chiamavano originalmente se stessi Ra-seni14. All’opposto i Greci antichi gli appellavano Tirseni o Tirreni; dove che i Romani più generalmente nominarono la nostra gente Tusci, o altrimenti Etrusci: cognome che il popolo prendeva già di consuetudine sotto la dominazione romana, tanto che si ritrova usato coll’istessa forma italica nelle tavole eugubine15. Il tipo fisico, o la fazione delle teste che più caratterizza la razza italiana di costoro, e che la forza delle rivoluzioni politiche, nè l’azione medesima della civiltà, non han fatto mai perire fra noi, si scorge evidentemente in moltissimi ritratti maschili e femminili, effigiati in monumenti sepolcrali dell’età vetusta16. Son queste le vere e non alterate fattezze de’ padri nostri. Che dessi sieno stati antichissimo e illustre popolo, lo abbiamo per mille testimonianze. Cantava già Esiodo de’ forti Tirreni17; e il mito stesso di Latino, apparentemente italico, fa conoscere, ch’egli intese a poetare dei nostri antichi, anzichè dei Pelasghi. Altri miti celebravano i Tirreni come famosi e prodi al tempo del Bacco tebano18, d’Ercole19, e degli Argonauti20: Platone medesimo, filosofando sopra gli Atlantidi, pone soltanto contemporanei di loro, per rispetto alla grande antichità, Egizj e Tirreni21. Ma più propriamente nei tempi storici, i nostri Etruschi potentissimi, come dice Livio22, dominavano la maggior parte dell’Italia prima che fosse Roma. Furono niente meno formidabili ai Greci, come signori del mare Tirreno e dell’Adriatico, fino dal tempo delle guerre persiane: e vedremo al suo luogo per quante imprese navali divennero anche compagni od emuli ai Cartaginesi. Ciò non ostante è pur cosa certissima, che quanto narrano di loro le storie greche e romane, non sono che poche e disciolte memorie, di troppo insufficienti a dare a conoscere nella sua pienezza il più antico e vero stato della nazione e le sue fortune. Sono perdute per sempre le storie loro etrusche e nazionali23. Nè possiamo tampoco aver ricorso a quelle che scrissero due autori latini, Valerio Flacco e Cecina oriundo volterrano24. Manca la storia etrusca dettata grecamente in venti libri dall’imperatore Claudio25, che, ancor priva di eloquenza, non poteva non contenere importantissimi documenti, cavati soprattutto dai pubblici archivj o dai volumi sacerdotali, aperti a ogni ricerca del principe dilettante. E ne sien verissima testimonianza le narrazioni medesime di libri etruschi toccate da Claudio nella sua orazione al senato, cognita, per le tavole di Lione26. Non curiamo di Sostrato, scrittore poco valente de’ fatti dei Tirreni27: ma irreparabil perdita sono que’ libri testè mentovati di Dionisio, in cui narrava partitamente quali città abitarono, gli Etruschi qual fosse il modo del loro vivere e del governo; quali le belle azioni e la potenza. Così per taluni frammenti di Dione Cassio28 si conosce, che desso pure trattava, con grave giudizio e con moderazione delle cose pubbliche degli Etruschi, che nè Aristotile e un Teofrasto, per tacer d’altri, stimarono, degne delle meditazioni dei savi. Ma dappoichè perirono senza rimedio questi importanti sussidj per una storia intera e continovata degli Etruschi, narreremo almeno quei fatti principali, che nè forza di tempo, nè di mutazioni, nè di sorti han mai potuto svellere dalla memoria degli uomini.
L’Etruria centrale, sede propria e permanente della nazione, stava compresa già nei primi secoli di Roma fra l’Arno e il Tevere, dentro i seguenti tre chiari e naturali confini: 1.° la sommità della curva giogana dell’Appennino, cominciando dalla sorgente del Serchio e seguitando per le cime de’ monti fino a quella del Tevere; 2.° il Tevere medesimo fino al suo sbocco in mare; 3.° il lido del mar toscano dalla foce del Tevere fino a quella dell’Arno. Vero è che buona parte di questo divisato territorio era stato per l’innanzi occupato dagli Umbri, ne’ grandi commovimenti e romori, che tramutarono le abitazioni di molte genti29. Talchè la prima e forse l’originaria stanza degli Etruschi, tribù di paesani, convien cercarla in un tratto più ristretto, e principalmente nelle alture che dalla Falterona piegano per una continovata catena alle valli del Mugello dove anche oggidì si sostiene una gagliarda popolazione: e solo per cosa incidente, benchè domestica, qui notiamo, che «nostra antichità» chiamano il Mugello i vecchi cronisti fiorentini30. Or dunque di quivi intorno, o d’altra parte interiore tra ponente e settentrione si mosse quella gente fiera a’ danni degli Umbri, suoi molesti vicini e nemici: e domati costoro per fortissimi travagli ne’ luoghi che tenevano di qua dell’Arno, vennero i guerreggianti Etruschi, come di sopra dicemmo, in podestà di tutte le loro terre, sottoponendo i vinti a tollerabile dominio31. Non è incredibile che in questi lunghi e ostinatissimi contrasti di guerra, si adoperassero anche, come aiuti, quei venturieri Pelasghi, che vennero qua di Tessaglia, e vi diedero mano or all’una, ora all’altra impresa: ma Plinio, che raccoglieva ogni sorta di tradizioni, e scriveva in fretta, contraddice apertamente a se stesso, quando fa scacciare gli Umbri dall’Etruria per la sola forza dei Pelasghi32. Dopo tale successo, invigorite l’armi dalla naturale ansietà della potenza, crebbero gli Etruschi uniti di conquista in conquista a grande stato, afforzando la propria loro nazione e l’esercito delle genti che andavano a mano a mano facendo o tributarie, o soggette. Ed il secolo tutto guerriero incitava non poco a imprese coraggiose animi forti, e compagnie di soldati. Chè non altro erano ne’ suoi principj popoli d’incerto stato, e non ancora ben fermi, nè disciplinati. Ma la catastrofe degli Umbri diede agli Etruschi con istabile fondamento di potenza, anche l’opportunità di ordinarsi a miglior vita politica. Perchè già possessori di tutto lo spazio in tra l’Arno e il Tevere; occupanti la marina del Tirreno; e signori di fertile e ricco paese; quivi attesero a darsi stato, ed a legittimare il diritto della forza con regolalo dominio. Mediante un sistema fermo di leggi agrarie33, corroborato e fortificato da religione, la qual metteva così il paese, come i campi de’ privati, sotto la protezione degli Dei34, si vede manifesto che gli ordinatori del popolo si posero principalmente in cura di assicurare l’utile proprietà dei terreni a tutti gl’individui liberi, membri del comune. E quanto efficacemente si ritrovasse l’agricoltura congiunta con la prima salutare istituzione dell’Etruria, si dimostra pure col mito di Tagete, maestro sovrano d’ogni civile e religiosa disciplina, uscito fuor d’un solco, quasi come figlio della coltivazione, mentrechè stavasi arando nei campi di Tarquinia35. Allegoria d’alto intendimento vie più ampliata, o piuttosto esposta sotto i sensi medesimi del popolo, col simbolico rito etrusco di segnare il circuito e il pomerio d’una città nuova coll’aratro36: ciò che insegnava a tutti qual sana idea d’ordine politico e di conservazione applicasse il legislatore all’agricoltura madre di giustizia. Tal è l’ordinario corso delle nazioni fattesi civili. Soprattutto se consideriamo quanto natura, per l’opportunità de’ luoghi, desse ai Toschi mezzi valenti ed efficaci di pronto incremento. Sebbene originalmente popolo agreste, procedevano essi dalle parti le meno alpestri dell’Appennino, e da fertili vallate racchiuse tra le diramazioni secondarie di quello: per la qualità mite del ciclo vi sortirono trattabile natura, ed una temperata composizione di spirito e di talento abile ad ogni cosa: nè poco attamente, sia per la prossimità delle isole intorno alla marina, formanti l’arcipelago toscano, sia per le correnti che hanno luogo nei diversi canali di quello, ebbero gli Etruschi, meglio che ogni altro popolo italiano, presta via di cimentarsi a buon’ora nelle navigazioni, ed apprendervi a sprezzare i pericoli del mare. In così acconcia e quasi centrale positura di paese adoperandosi virilmente i nostrali e per terra e per mare, si renderono in breve tempo audaci sovra ambedue: s’ammaestrarono più facilmente mediante i commerci dilatati per altre contrade, ed insieme coll’uso di nuove fogge di vita, e con nuove arti: ed ordinatovi una volta stabilmente dai loro savi il governo politico dell’Etruria con dodici città guernite di leggi, e di milizia nazionale, in quel modo che diremo appresso, il valor che reggeva la lor fortuna li trasse di là ad occupare nell’Italia superiore ed inferiore le più belle regioni, ed a fondarvi per opera d’armi e di consiglio due nuovi stati.
La rovina degli Umbri, secondo il computo che porta la total narrazione di Dionisio (avuto riguardo alle incertezze della cronologia tecnica), sarebbe accaduta cinquecento anni in circa avanti la fondazione di Roma. E questa rovina fu anche il principio della potenza etrusca. Sicchè non parrà poco notabile corrispondenza di tempo, che gli annali toschi, scritti nell’ottavo secolo della nazione, cominciassero l’era degli Etruschi quattrocento trentaquattro anni prima di Roma37. Non si vuol fondare in questo suppositivo ragguaglio d’età nessuna prova istorica; ma è fatto certo, che fino da remotissimi tempi il popolo etrusco, di già gagliardo in sull’armi, progrediva di passo in passo a maggior fortuna. Ben dunque, come si ricava da Livio38, di molto innanzi all’impero romano s’avanzarono gli Etruschi attraverso l’Appenino superiore sin dove giungono le campagne bolognesi e ferraresi ed il Polesine: donde poi si distesero per l’adiacente pianura tra l’Appennino e l’Alpi. Errerebbe tuttavia di molto chi credesse che quest’ampio spazio di paese avesse in allora l’aspetto florido e dovizioso, che oggidì rimiriamo nella medesima contrada. Perocchè la natura del suolo di Lombardia mostra ad evidenza, che nella sua total superficie, dove corsero senza freno acque veloci e torbide, si ritrovavano moltissimi luoghi paludosi, lotosi ed acquidosi, che l’arte sola e la perseveranza umana han potuto rendere abitabili e colti39. Quindi il Po e le paludi intorno opposero dalla banda dei Veneti un argine fermo all’invasione etrusca: fra gli Appennini e il Po par che non oltrepassasse la Trebbia40, poichè i Liguri stanziati di presso nel suo natal sito per le alture di quei monti, che comprendono il sommo giogo di Gottro, vi si mantennero sicuri; ma, come niun altro gran riparo naturale sì frapponeva al progresso degl’invasori alla sinistra del Po, quivi oltre occuparono tutti i luoghi in tra questo fiume e le Alpi41. Nella maggior parie della pianura insino al Ticino, dove s’estese la conquista, abitavano popoli di stirpe ligure, prodi sì, ma incolti, che cederono l’un dopo l’altro, nulla men che gli Umbri, al valore unito degli Etruschi. Signori per tal modo di sì spazioso e ubertoso paese, che porge da per tutto un grasso fondo di pienissimi pascoli, e padroni della navigazione del gran fiume che porta con facile accesso al mare, saggiamente s’adoperarono i conquistatori non tanto a bonificare l’acquistato territorio, quanto a por quivi la sede d’uno stato possente. Adunque mandandovi tante colonie, quanti erano i popoli confederati, e capi di quella nazione, vi formarono una nuova Etruria42, che riceveva l’essere da dodici città collegate dello stesso sangue43. Una delle più principali fra queste era sicuramente Adria prossima alla Venezia, già sì potentissima in quel mare, che ne prese il nome l’Adriatico44. Città di tanto antica, che i boriosi Greci la volean del loro seme fondata da Diomede45. E benchè fabbricata in fondo d’un piccolo golfo presso al ramo inferiore dell’Adige, si trova al presente, per continuo accrescimento della spiaggia, distante dal lido attuale venticinque mila metri46. Nè vie meno famosa d’Adria, per terrestre potenza era Mantova47, che posta in mezzo d’un lago che forma il fiume Mincio, teneasi ancora al tempo di Plinio per un durevole monumento dell’imperio etrusco di là dell’Appennino48. Felsina oggidì Bologna, si trova illustrata col titolo di città capitale49: cioè a dire, una delle dodici sovrane di questa nuova Etruria, nel cui numero si vuol comprendere anche Melpo, che Cornelio Nipote chiama opulentissima50, e che dipoi fu disfatta dai Boj e Senoni il giorno stesso in cui Cammillo prese Vejo. Nulla di più sappiamo nè del nome, nè della situazione dell’altre otto città che completavano l’unione: ancorchè da per tutto ugualmente i dominatori attendessero a migliorare il paese, cangiando l’antico stato palustre di grandissima parte del territorio più depresso in fertili campagne. Così nel tenimento di Adria fecero essi con arte maestra, per traverso alle bocche impaludate del Po, quegli scavi e canali che da sette laghi, chiamati i sette mari, scaricavano le piene del fiume in mare51; e mediante le fosse Filistine, che da lontano e interno paese portavano l’acque soprabbondanti al mare vicino a Brondolo, era parimente riuscito agli Etruschi di sanare intorno il Delta intero del Po, compreso tra le lagune venete e il lago di Comacchio. Tutti lavori grandissimi e di perseverante volere, che attestano con piena certezza le cure instancabili del civili dominanti sì per la salubrità della provincia, come per la continuazione del miglioramento, e accrescimento della popolazione soggetta. Nè pruova men sicura del buon uso fattosi per loro dell’arti proprie qua recate, son l’etrusche iscrizioni, i bronzi, i vasi dipinti, che in ogni tempo si van ritrovando per l’alta Italia, e fino in Piemonte.
Una moderna opinione vorrebbe non ostante dare a credere, che gli Etruschi dell’Italia superiore, piuttostochè venuti dall’Etruria di mezzo, sien dessi calati dalle montagne dell’alpestre Rezia ad occupare il paese dintorno al Po; e di quivi trapassati qual gente straniera ed avventizia nell’Etruria contigua, donde ne cacciarono Umbri e Tirreni52. Ma questa ipotesi infelicemente promossa altre volte53, è per se stessa talmente contraria a tutte le testimonianze istoriche degli antichi, che non può sperare di trovar mai favorevole accoglimento. La narrativa di Livio54 è troppo schietta, piena e circostanziata, per non poter levare neppure un dubbio, che nell’invasione gallica al secondo secolo di Roma gli Etruschi della pianura scacciati di per tutto dalla ferocia dei transalpini, non si rifugissero a salvezza ne’ luoghi forti della Rezia; il quale avvenimento importantissimo delle italiche storie narammo noi stessi distesamente altrove55. Quel Flacco tra gli altri, e Cecina, che scrissero l’istoria degli Etruschi, raccontavano a un modo, che le dodici città settentrionali v’erano state fondate da un Tarconte, condottiere dell’esercito che valicò gli Appennini56: il qual nome di Tarconte, benchè originalmente eroico, fu anche proprio e speciale patronimico dell’Etruria media57. Se può addursi l’autorità d’un poeta, nativo di questi paesi, il dominio etrusco si sarebbe esteso al lago di Garda58, che altro non è che il fiume Mincio* 1: e quindi gli Etruschi avrebbero cautamente occupato alle radici delle Alpi anco i luoghi e le strette che danno passo, onde tenersi aperta la via delle montagne, e rendere più sicuro il basso territorio dalle irruzioni degli Alpigiani. E questi luoghi forti han dovuto all’uopo servir loro non solamente di riparo, ma di mezzo opportunissimo ad internarsi nella Rezia, ed a dimesticarsi quivi coi montanari, dopo che specialmente mancò agli Etruschi fuggitivi ogni qualunque speranza di poter superare la forza vie più crescente dei Galli. Le tribù alpine prossime all’Italia, che in quel frangente potevano sole contrastare all’entrata, o non erano nemici degli Etruschi per usata comunicazion di persone e di cose, o debole resistenza potean fare alle spade di chi cercava salute: atteso massimamente, che in questo fatto al tutto locale nulla avean che travagliarsi gli altri alpigiani, in genere detti Reti, divisi l’uno dall’altro per foreste e montagne, e dimoranti più addentro fin presso al Danubio, o intorno al gran lago di Costanza59. E giustamente là nel moderno paese dei Grigioni e nel Tirolo si ritrovano tuttora luoghi, nomi e vestigi, che dimostrano con evidenza l’antica dimora dei Toschi60: nè son decorsi molti anni da che in sul Dos di Trento vi fu scoperta, fra le rovine d’un edifizio, una iscrizione etrusca avente il nome di principale deità61, che si rinviene frequente in monumenti dell’Etruria media. Colà dunque si fa ognor più manifesta l’esistenza di popolo civile, che v’avea recato di fuori sue proprie religioni, scrittura ed arti. Qui torna bene soprattutto il raziocinio dei vetusti monumenti figurati degli Etruschi, e de’ simboli loro più evidenti, nessun de’ quali si confà alla natura, all’ingegno ed ai miti di popolo settentrionale62. Tanto che se verissimo è il total racconto di Livio, autenticato per molti fatti da se provanti, resterà sempre fermo, che l’Etruria centrale fu prima e stabil sede della nazione dei Toschi.
Ma il robusto vigore di popolo unito cresciuto all’armi, e fortunato nelle imprese, non poteva, per continuo successo di prosperità, non prorompere con empito in altre offensioni contro a’ suoi men gagliardi vicini alle frontiere di mezzogiorno. Quindi è che dopo i primi acquisti fatti dell’altrui, si rinviene seguitamente nella lega etrusca una forza conquistatrice, e progressivamente in moto verso l’Italia inferiore. I Casci o prischi Latini, più prossimi di territorio, nè forse per ancora ben collegatisi in corpo di nazione, patirono i primi le violenze degli Etruschi sotto l’armi63. Guerreggiarono infra loro coll’usata acerbità dei vicini confinanti, nè forse tutto è favola, che i Latini pagassero una volta tributo agli Etruschi64. Quel superbo Mezenzio, re o lucumone piuttosto di Cere, cotanto infesto ai Latini nella guerra contro i Rutuli, non è soltanto un personaggio epico, ma pur anche istorico. Fidene, posta negli angusti termini del vecchio Lazio, era per certo colonia degli Etruschi-Vejenti65. Altri non dubbj segnali si rinvengono quivi medesimo o di dominio, o di attenenza, o di parentela coll’Etruria66. E, come dice Livio, l’Albula, o sia il Tevere, divenne all’ultimo confine fermo dai Toschi e Latini insieme d’accordo. Limite che tuttavia sussisteva di diritto all’epoca del decemvirato. I legami che l’amicizia o l’unione compose fra i due popoli, l’uno all’altro sì propinquo, si ristrinsero vie maggiormente con l’adozione di riti e usi comuni: ond’è che da prima s’introdussero per istituzione legittima nelle città del Lazio gli ordini religiosi e civili dell’Etruria medesima67. Per traverso le terre latine si dirizzarono da poi gli Etruschi guerreggianti a soggettare il paese tra i monti e il mare occupato dai Volsci, come narrava Catone68: ed il nome stesso di Tirrenia, il qual s’estendeva per tutta la riviera oltre il capo di Circello, all’età vetusta69, è assai manifesto contrassegno del grido e del poter dei dominatori in quella contrada. Senzachè non mancano nè pure per là entro indubitate tracce della loro antica signoria, il che ci sarà uopo dimostrare appresso. Ed ecco in che modo avanzandosi gli Etruschi anche per l’Italia meridionale giunsero di luogo in luogo alle sponde del Liri, oggi detto Garigliano. Trapassarono quel fiume: si piacquero nel molle e dilettoso territorio: e quivi fermatisi nelle felici contrade della Campania vi ordinarono, come già nell’Italia superiore, uno stato eguale confederato.
Gli Opici od altrimenti Osci, copioso e antichissimo popolo, erano in allora possessori di quel tratto dell’Opicia che occuparono gli Etruschi, e che prese di poi il nome di Campania. Allevati in un suolo fertilissimo non par che i nazionali vi facessero troppa resistenza agli invasori del loro paese, facile preda dei forti: onde gli Etruschi, tolti per se i be’ campi d’intorno al Vulturno, di là progredirono per l’adiacente contado sino al fiume Silaro, che verso mezzodì pose il termine della Campania antica, e in un del dominio etrusco70. Secondochè fatto avevano oltre l’Appennino condussero quivi dodici colonie, e vi edificarono altrettante città, tra le quali primeggiava Vulturno, di poi detta Capua71. Vellejo72, che discute sensatamente qual fosse l’epoca meno dubbia della fondazione di Capua, opponendo al parere dell’autor delle Origini altri scrittori, la pone, per computo di questi medesimi cronologisti, cinquant’anni più alta dell’era romana, o in quel torno. E Nola fu similmente e fermamente etrusca d’origine; siccome lo accerta l’autorità principale di Catone e di Polibio73. Ivi presso, ne’ luoghi tolti agli Opici74, tennero ugualmente i nostri Ercolano e Pompeja: e alquanto più distante Marcina intorno al golfo di Salerno: deliziosa contrada la cui signoria, e lo conferma Plinio, pertenne indubitabilmente ai Toschi75. In questa importante conquista della Campania par di certo che gli Etruschi avessero per ausiliarj e compagni gli Umbri76, che uniti con esso loro nelle imprese s’adoperarono assai, anche in processo di tempo, a’ danni dei Cumani e degli altri Greci di Calcide stanziati nell’Opicia. Di più non sappiamo della condizione, nè della forza del nuovo impero etrusco in queste parti meridionali, dove tuttavia i nativi paesani Oschi formavano il grosso della popolazione: ma sicuramente i conquistatori v’acquistarono, e vi mantennero gran tempo stabile e prospero dominio, finchè arricchiti e spossati essi stessi dalle delizie campane non lo perderono; prima per oltraggi, poscia per tradimento dei Sanniti.
Che però i Tirreni possessori della Campania sieno da reputarsi con le città loro originalmente Pelasghi anzichè Etruschi, secondo che porterebbe a credere il total sistema d’un moderno scrittore77, ella è opinione sì repugnante all’universale credenza istorica, ed alla testimonianza concorde degli scrittori antichi di maggior peso, che non troverà per avventura facile consentimento. Catone, Polibio, Dionisio, e Strabone medesimo, per tacer di altri, son d’uno stesso avviso: benchè questo ultimo, a se contraddicente, abbia scritto, che Ercolano e Pompeja furono entrambi edificate da Pelasghi e da Tirreni78. Notizia ambigua e dubbiosa, che il geografo riporta transitoriamente affatto. Laddove ella è pur cosa manifesta a tutti, che nelle narrative più veridiche, e specialmente in riguardo all’istoria italica, il cognome di Tirreni vien usato comuncaiente nel senso proprio di Etruschi, piuttosto che di Pelasghi, conforme al primo divolgato racconto di Ellanico. Forse ancora una mano di quei bellicosi Pelasghi, che si mischiarono nelle guerre per l’innanzi narrate fra Etruschi ed Umbri79, poterono farsi parimente aiuti nella spedizione della Campania, e passarvi insieme con esso loro, da che una qualche memoria di tradizione lo rammenta; ma l’onore, il titolo, ed il vantaggio della conquista, rimasero solo agli Etruschi durabilmente. Che eglino dominassero di lungo tempo in Capua e nella regione campana fintanto che non vi furono oppressi dai Sanniti, era un fatto fuor d’ogni controversia nel secolo d’Augusto, ripetuto formalmente dagli scrittori, e che in tutto consuona col tenore delle storie meglio confermate. Così realmente gli Etruschi venuti dalle regioni superiori80, e posatisi nella Campania con fermo stato, vi tennero per secoli la signoria; guerreggiarono per terra e per mare coi Greci italici e siciliani; e quantunque sì temuti da loro e sì di frequente nominati dopo le guerre persiane nelle storie contemporanee, non troviamo che mai gli Etruschi-Campani sieno stati qualificati come originari Pelasghi. Senza che i fatti stessi di gran momento, cui diedero cagione i Tirreni stessi della Campania durante i primi quattro secoli di Roma, dimostrano non dubbiamente ch’essi furono un popolo di nostro sangue, e nemico acerrimo de’ Greci, anzichè di loro congiunto. E l’unione politica del principato di Campania, che Polibio81 chiama grecamente dinastia, con dodici città82, conforme agli ordini della madrepatria, ed alla lega etrusca settentrionale, non lascian tampoco menonissimo dubbio intorno alla medesimità della gente. L’istoria scritta è anche confermata in certo modo con i monumenti della nazione: perocchè non poche iscrizioni della Campania convengono in particolarità con nobili casati e nomi dell’Etruria centrale83. Argomento grave della ereditaria affinità del popolo, ancorchè queste scritture osche della Campania, e le leggende stesse delle sue medaglie, non s’appartengano all’epoca etrusca, ma siano anzi da riferirsi convenevolmente al tempo della dominazione sannitica. Forse un giorno verranno quivi in luce anche lettere etrusche: nel modo che, per casuale scoperta, certa qualità di vasi dipinti dei sepolcri nolani più antichi si sono ritrovati di tanto somiglianti per la fattura e gli emblemi loro a quelli di Chiusi, di Tarquinia e di Vulci84. In oltre qui nella Campania lasciarono gli Etruschi monumenti delle paterne religioni: fra i quali, a riverenza di Minerva la santa, il celebratissimo tempio posto in sulla cima del promontorio di questo nome85.
Non dubbiamente i nostri propri Etruschi abitarono lungo la marina adriatica ne’ luoghi per avanti usurpati agli Umbri. Cupra montana e la marittima presso la moderna Ripatransone, pigliavano entrambe il nome da una propizia divinità dei Toschi86: oltre a ciò è credibile molto che sì queste, come l’Adria picena, fabbricata alquanto dentro terra in luogo alto, con vicino porto alla foce del Matrino, oggi chiamato la Piomba, fossero al pari colonie dell’Adria superiore dominante l’Adriatico. Nella qual Adria picena, antichissima città, Dionisio il vecchio, re di Siracusa, pose al suo tempo nuova gente87, con animo di raffrenare e reprimere quella mano di coraggiosi siciliani, che in fuggendo la sua dura tirannide avean fondato Ancona88. Iscrizioni, bronzi, ed altre antichità veramente toscaniche si sono ritrovale spesse volte nel Piceno; e la qualità, la vetusta, e la copia delle monete d’Adria che vanno attorno, non men che le loro impronte simbolizzanti cose marine89, fan sicura testimonianza, che questo lembo d’Italia godeva di molta prosperità per commercio marittimo, già ne’ primi secoli di Roma. Nè poco a dir vero era acconcio il luogo a navigare e mercare intorno intorno al golfo. Inverso il mare di sotto la prossimità dei Liguri-Apuani al confine occidentale dell’Etruria, era stata similmente da quel lato cagione di feroci contrasti, che fruttarono agli Etruschi il possesso dello spazioso golfo della Spezia, e del paese più propinquo alla Magra, dove edificarono Luni, che indi appresso divenne col suo porto l’emporio più grande della nazione. Ed alla scoperta recentissima di un monumento con lettere etrusche90 dobbiamo la certezza, che là intorno ne’ monti all’occidente del golfo s’estendeva non pure il dominio, ma l’uso ancora della lingua etrusca. Che di lontani tempi gli Etruschi attendessero con ardentissima competenza di navigazioni alle arti marine, e che talune città dovessero a queste le sue ricchezze, è fatto manifesto per la vituperosa nota di pirati, che davano loro senza rispetto i Greci. Ma la pirateria, lungi dal recare infamia, era impresa di gente d’alto cuore; e fu anche l’origine della nautica pe’ Greci stessi91, e della potenza insieme per i Fenici e Cartaginesi92. Poichè il mare apre ad ogni popolo animoso un vasto campo d’azione, e insolite vie d’ingrandimento, dirizzando potentemente gli animi ad opre fortunose. Nè altresì vuol tacersi che mediante il frequente corseggiare fece al suo tempo grandi progressi la nuova nata navigazione europea. – Così gli Etruschi padroni della riviera marittima dal Tevere insino a Luni, computata da Strabone di 2500 stadi93; possessori delle due Adrie in sul mare di sopra, e signori di buona parte dei lidi della Campania; erano con fortissimi stimoli incitati a darsi virilmente alle arti marinaresche, nelle quali infatti divennero sì valenti da poter all’ultimo non tanto contrastare ai Cartaginesi e Siracusani il dominio del Mediterraneo occidentale con forza di marineria, ma di tentare anche più ardue navigazioni per l’Atlantico94. Fossero pur dessi, come si vuole, molto infesti ai meno audaci naviganti per arte piratica95: alle imprese loro navali doverono certamente gli Etruschi il non conteso possesso dell’arcipelago toscano, e de’ luoghi littorali della Corsica, dove fabbricarono Nicea, colonia per avventura d’alcuna delle più vicine città marittime sopra il Tirreno: tra le quali Populonia era la scala consueta donde si facea vela per l’Elba, la Corsica e la Sardegna96. Quivi pure avean gli Etruschi navali stazioni: e di per tutto traevano da quei selvaggi isolani grosse derrate e annuali tributi97. Le spesse boscaglie delle contrade di maremma, e le inesauste miniere di ferro dell’Elba98, fornivano largamente i navigatori di buoni materiali per la costruzione dei navigli, e per ogni altra sorte di armamento in casa propria. Laonde il dominio marittimo degli Etruschi fu lunga età sì ben fermo e sicuro ne’ due mari inferiore e superiore, che, per rispetto alla loro preminenza navale, l’uno chiamossi Tirreno, e l’altro Adriatico, fin da tempi quasi inaccessibili alla storia99. Nè fa maraviglia che per tanta fama al mondo e viva e vera, dica Livio, che il none dell’Etruria sì per la potenza terrestre come per la marittima, empieva della sua gloria tutto il paese dalle Alpi al mar siciliano100.
Al par di tutte le umane cose hanno le città lento e umile principio; indi se le assiste il proprio valore crescono a gran potenza, e si dilatano. Ma vanamente senza buone leggi, e senza permanenti discipline sarebbesi l’Etruria tanto innalzata di laude e di stato. Quanto è al sistema politico, dodici popoli d’uno stesso sangue formavano la lega: e da questo inviolabile patto traeva l’Etruria i principj fermi non meno della sua forza interna che del dilatato imperio. Un supremo magistrato elettivo, chiamato Lucumone101, generalissimo in guerra e capo della unione, veniva eletto in comune dai confederati: ed egli solo disponendo sovranamente a luogo e tempo di tutta la forza pubblica della nazione, poteva ben con ardire prendere le imprese, e dar grande impulso col valore e col senno alle future ambizioni. Di tal modo la lega etrusca, ancor piena di fresco vigore, proseguì lungamente e prosperamente nel cammino delle ben incominciate conquiste; sicchè da un angolo dell’Etruria come Roma dai sette colli, avviandosi a miglior fortuna, pervenne di grado in grado a dominare grandissima parte dell’Italia. Molto saggiamente considerava Strabone102, che fintantochè gli Etruschi rimasero a questo modo uniti nelle imprese, acquistarono grande potenza: laddove, in progresso di tempo, discioltosi quell’ordine di governo, le città divise cederono l’una dopo l’altra all’ardimento de’ vicini. E qualora accortamente noi stessi avvisiamo alla qualità del governo federativo, disposto meno all’ingrandimento, che alla limitazione del dominio, dovremo tener per vero che le straordinarie sorti dell’Etruria, finor narrate, fossero da attribuirsi principalmente alla virtù di chiari ed illustri magistrati, i quali bene adoperassero tutto lo sforzo della unione: in quella guisa che la saviezza di Arato, il valor di Filopemene, e lo zelo di Licorta, eminentemente sostennero nella repubblica degli Achei la spirante libertà della Grecia. Rappresentava il forte d’ogni città dell’Etruria una poderosa aristocrazia, privilegiata del dritto degli auspicj, e naturale aiutatrice e conservatrice del prescritto ordine politico. Quando tratteremo appresso più distesamente del governo civile, diremo qual si fosse il propio essere di questo patriziato sacerdotale, e quale altresì la condizione dello stato plebeo nella città sotto la clientela de’ più potenti. Ma tanto è ardua in giurisprudenza la forma d’una ben ordinata confederazione, che quantunque il vincolo della lega etrusca, corroborato da osservanze religiose, fosse stato in principio bastantemente efficace a raccorre sotto il formidabil vessillo della unione, ed a volgere a uno scopo compagnie di valorosi, non per questo, come mostra l’istoria più certa dei secoli susseguenti, si trovò al bisogno forte abbastanza a tener concordi in una sola volontà, e uniti i confederati, fattisi più confidenti nella loro apparente fortuna che nella società comune. Bastò tuttavolta la fede giurata al patto federale ad impedire civili guerre tra le città collegate. La qual ventura, se non sovvenne in universale al popolo per la difesa, fu di grandissimo momento per la quiete interna.
Trovavasi adunque signoreggiata Italia dagli Etruschi con istabile maggioranza innanzi l’imperio di Roma103. Ma l’ingrandimento loro, frutto di travagli, di fortezza e d’armi, fu anche l’opra di non pochi secoli di prudenza e di consiglio. Bene la fanteria era il nervo dei loro eserciti, ugualmente ordinati per istudio di milizia sì alle oppugnazioni, che alle difese; e sicuramente, più che altro, la virtù e forza militare dell’Etruria domò il men disciplinato valore di tanti suoi competitori feroci: nel qual continuo esercizio delle cose belliche ritroveremo appresso gli Etruschi stessi, nulla men che i Sanniti, maestri di guerra ai Romani. Non però di meno gli ordini politici e civili facevano la più certa e più stabil possanza dell’Etruria centrale fra l’Arno e il Tevere. Qui stava l’unione: qui entro il popolo sovrano: qui finalmente il forte della nazione. Ed a maggior dimostranza del suo fermo imperio basti notare, che ancor dopo perduto lo stato esterno così nell’alta, come nella meridionale Italia, l’Etruria propria mantenutasi libera, ebbe al di dentro l’inestimabil sorte di non cangiar mai nè nome, nè governo, nè leggi, fino a tanto che durò la sua dominazione antica. L’avanzamento più grande del viver civile degli Etruschi derivava per cosa certa dall’uso costante di ricingere e munire le terre principali di salde mura104, a differenza degli altri italici, che dapprima abitavano in luoghi aperti, o solamente difesi con poc’arte. Furono gli Etruschi chiamati inventori di quella maniera d’architettura militare, forse perchè adoperandola maestrevolmente la migliorarono105: e vera pruova della somma lor perizia nell’arie di fabbricare coteste fortificazioni con grandissime pietre rettangolari, sono i sorprendenti avanzi, che stabili ancora dopo la caduta di tanti imperi, si veggono indistruttibili a Volterra, Fiesole, Cortona, Roselle e Populonia106. Nè questi son già monumenti che nella loro mole portino l’impronta di lavoro servile, nè tampoco della soggezione o sudditanza intera del popolo107; ma sì bene opere di saviamente avvisati cittadini, le quali, a chi le vede, non han realmente in se nulla che avanzi per manuale artificio le facoltà di libere, ancorchè non grandi comuni: e soprattutto perchè il materiale della edificazione comodamente s’avea sul luogo stesso, o ne’ monti vicini, abbondantissimi di pietra macigna. Che i fabbricatori attendessero principalmente alla forza si conosce manifesto dal sito medesimo di queste, ed altre città maggiori tutte collocate in luoghi montuosi, e che quasi a disegno han per entro il lor circuito due poggi, sovra il più rilevato de’ quali stava per ultima difesa la rocca: uniformità di sito e di positura da non ascriversi sicuramente se non se all’osservanza de’ riti comandati ne’ libri sacri, e senza de’ quali mai non davasi mano all’edificazione di città legittime108. Per il che si comprende più bene, come rinchiusi entro a quegli insuperabili recinti, dove la forza non si temeva, fossero i cittadini nelle offese più pronti, e nelle difese più sicuri. Riparati in casa propria, e formidabili ai nemici di fuori, poterono di fatto gli Etruschi con riposato vivere civile, non solo dar opera nell’interno a statuire, ed a mantenere gli ordini politici, ma sì ancora a indirizzare il coraggio pubblico nelle disegnate imprese fuor delle mura. Onde crebbe in esso loro con la possa anche il genio per le conquiste. Vero è che in vigor della unione confederativa di tutto il popolo etrusco i soldati cittadini, obbligati sotto giuramento, guerreggiavano e conquistavano insieme, non già per far comodo e prò ai primi capi della città, ma solo per vantaggio della patria comune. La terra acquistata dal collegato valore era un nazionale possesso dovuto unitamente ai confedederati109: sì che a buon diritto dai dodici popoli principali dell’Etruria uscirono altrettante colonie del nome loro così nell’alta come nella bassa Italia. Dove pur seguitarono tutti i modi del reggimento domestico, e ogni uso, e nome, ed ufficio etrusco. Con qual forma e qual proporzione d’ugualità s’effettuasse tra i compagni la divisione del territorio acquistato coll’arme non può dirsi affatto; tuttochè, al certo, di dominio del guerreggiante s’avessero per diritto di guerra le terre tolte ai vinti: una parte delle quali, incorporate al pubblico, usufruttavano gli occupanti nuovi110: tenevano l’altra, sotto condizioni e obbligazioni prescritte di servizio militare e di tributo, gli antichi possessori. Ma fu notabile in questo la prudenza civile. Perciocchè i capi o conduttori delle anzidette colonie etrusche vi aggregarono politicamente tutti gli uomini liberi del già soggettato territorio, sia ch’essi fossero onorevoli campagnuoli, sia municipali. Forse ancora in ciò s’accordarono con esso loro per iscambievoli patti. Di tal modo che gli uomini drittamente ingenui o Liguri d’origine, od Umbri, od Osci che si fossero, vi stavano commischiati e uniti per concordia con i nuovi signori111; v’erano ammessi alla parentela di quelli; davano forza al comune; ed insieme vi partecipavano il dritto di città, siccome membri ascritti alle sue tribù, o divisioni fondamentali della cittadinanza raccolta nelle stesse mura. E se in Mantova, mista di razze diverse, la forza del sangue etrusco vi stava composta di tre rami distinti, nel modo che dice il suo più grande cittadino112, ragion vuole che al tronco del popolo preponderante ad ogni altro fossero aggregate alla città legittimamente anco le tribù dei compagni. In fine fu per certo nella somma delle cose clemente quel dominio che lungi dal distruggere le città de’ vinti n’edificò delle nuove: rese migliore il clima seccando le paludi: propagò per tutto giovevoli arti: e da stato di rustichezza ridusse a più temperato e civile governo i soggetti.
Divisata sin qui la potenza esterna degli Etruschi, e innanzi che procediamo a trattar dell’interna, ci rimane a considerare l’importante problema, che ora s’affaccia alla mente di ciascuno. In qual forma, cioè, abbiano potuto gli Etruschi avanzare tutti gli altri Italiani in prosperità, e rendere alfine se medesimi cotanto civili. La macchina di tutto il governo etrusco era fuor d’ogni dubbio d’instituzione sacerdotale. Derivava dunque da quella sapienza, che reggeva in allora il mondo civile per conformità di bisogni, di mire e di circostanze, così nell’Oriente, come nell’Egitto. Nessun discreto lettore vorrà sapere da noi fermamente come ciò avvenisse; ma s’appagherà per ragione con la morale certezza del fatto. Pure, divinando del modo, non è di poco credibile, che in tante rivoluzioni di popoli e di schiatte, le quali agitarono il mondo antico, uomini travagliati, e famiglie fuggiasche di stirpe sacerdotale siensi ricoverate in Italia, dove, o con la dignità del grado, o coll’arti misteriose, poterono bene farsi maestri a popoli, che avean sì la forza, ma non la scienza. E questo pare anco maggiormente probabile, se vuolsi allegare un solo fatto grande narrato nelle storie, ragguardandolo soprattutto allo stato conturbato dell’Egitto all’epoca remotissima dell’invasione e della lunga signoria dei ferocissimi Hikschos, tribù di pastori arabi o fenici113: tirannide sì dura per ogni maniera d’infelicità e di mali, che diè impulso e cagioni a successive migrazioni di primarie famiglie, sì dal superiore, come dall’inferiore Egitto. Dove sprezzati i numi, chiusi i tempj, o lasciativi senza uficiatura e senza legittimo sacerdozio tutto era ingiuriosa violenza. Buona parte di primati, e nominatamente generazioni dell’ordine sacerdotale114, o di quel de’ militi, passarono nella Babilonia: Cecrope Saite nell’Attica: e, per tacer di Cadmo e d’Eritteo, Danao partitosi dalla Tebaide approdò co’ suoi nell’Argolide, recandovi a un modo i salutari doni d’una vita più civile. D’altri uomini potenti, e di colonie egizie, che dalla opportunità aiutate o sospinte trapassarono similmente in altre regioni straniere, sia in quel torno di tempo, sia ne’ secoli susseguenti all’uscita de’ Pastori, ne facevano piena menzione gli annali stessi dell’Egitto115. Ma in riguardo alla positura geografica, ed alla sua prossimità, era l’Italia nell’occidente una delle terre più facili ad afferrare navigando dall’Egitto; e qualvolta potessimo addurre per testimonianza delle cose o l’istoria intera di Manetone, o il libro che scrisse Istro delle colonie egizie116, ne verrebbe per avventura a noi la certezza di alcuna non conosciuta migrazione di cotali schiatte, apportatrici di beni e d’arti civili in queste nostre contrade, quanto almeno indubitatamente ne fu debitrice all’Egitto, quasi al tempo stesso, e per le medesime cagioni, la Grecia europea. Perchè anche pochi savi uomini son bastanti a mansuefare una moltitudine, ed a potentemente influire nel lor morale ammaestramento. I primati o sacerdoti dell’antichità, qualunque ne fosse la razza, formavano in oltre un ordine unico nell’umana società, i cui membri iniziati nei medesimi misteri, e strettamente collegati per uno stesso fine di dominio, mantenevano da un tempio all’altro, e di paese a paese, scambievoli ma celati commerci, frammischiando in tutte cose la divinità, e tirandola quaggiù dal cielo all’uso terreno. Surse così una potente aristocrazia sacerdotale, che in Etruria massimamente di poco cedeva in autorità a quella dell’Asia o dell’Egitto. Colà, dove distese le comunicazioni de’ nostrali per uso di viaggi e di mercatura, e per frequentazione di gente, spiriti avveduti dovean pur raccorre quanto di utile di buono trovavano, facendone studio e profitto nella patria. Che più? Ne dice un racconto, che vuol aversi per isterico, come certi Cabiri fuggiaschi della patria introdussero qua in Etruria i misteri di Bacco, indi coltivato dall’universale qual Dio primario117; e di grande efficacia fa per certo la virtù di cotesti santi misteri nella vita civile, essendo le sperate ricompense ed i premi della iniziazione connessi d’obbligo con la pratica de’ sociali doveri. Queste correlazioni di cose che han dovuto esistere fin da lontani tempi tra l’Etruria e l’Asia occidentale e l’Egitto, son comprovate con la maravigliosa corrispondenza che si ritrova tanto nelle dottrine teologiche, quanto in altri instituti religiosi e civili, ed in costumanze conformi della vita pubblica e privata. Nè parrà fuor di proposito se rammentiamo in questo luogo, che di nuovo, dopo la seconda barbarie, i popoli marittimi italiani, mediante le rinate navigazioni ed i novelli traffici, recarono dalle regioni stesse del sole in occidente profittevoli studi ed arti col desiderio di nuovi godimenti. Chè ben sa ognuno come la mente degli uomini cresca di facoltà, tutte volte che gli crescon intorno le novità, le cognizioni ed i comodi, coll’ampliazione dell’umano commercio. Il che a giudizio nostro dee aversi per il principale, se non l’unico argomento dell’anticipata civiltà degli Etruschi, non meno che della mischianza verissima delle discipline, dell’arti e de’ costumi stranieri con i paesani, che ad ogni imparziale indagatore si manifesta nell’essere morale e civile dei popoli italiani.
Che dall’Egitto principalmente sien venute in Etruria le radici delle idee orientali non è mera speculazione d’ingegno: perciocchè ne abbiamo dimostrazione verissima ne’ suoi stessi monumenti; li quali con gran forza d’autorità confermano, che già esisteva fra gli Etruschi un centro d’incivilimento contemporaneo della cultura orientale ed egizia. E qui intendiamo parlare dei monumenti più vetusti, o rappresentativi almeno delle credenze più anticamente approvate, ne’ quali soltanto si può studiare il vero legittimo costume nazionale. Laddove quelli in cui per qualunque modo traluce l’arte e la greca mitologia, spettano ad un’epoca affatto secondaria, nè posson dare se non false idee intorno la storia de’ primitivi Etruschi. Or dunque i simboli principali che passarono primieramente in Etruria qual velame di arcane dottrine, si ritrovano in gran copia, massime ne’ monumenti di sepolcri: che gli antichi uomini, sempre profondamente occupati da idee religiose, riguardavano come lor vera e sempiterna stanza. Ivi si veggono vasi canopici, figure di doppia natura, alate sfingi, ed ogni altra qualità di mostruosi animali, tutte immagini significative dell’Oriente o del misterioso Egitto: vi si rinviene per moltissime rappresentanze la dottrina stessa dell’Amenti: i mali Genj posti a contrasto con i Genj protettori: scarabei in gran numero: e ciò che spetta più particolarmente alle arti del disegno il fare e l’imitazione degli Egizj, che quasi diremmo lo stile ieratico dell’Etruria, e il più distintivo delle opere con proprietà chiamate toscaniche118. Immagini aventi quattro ali, e altre insolite forme e segni simbolici, che meglio distinguono le divinità fenicie o sirie o babilonesi, mostrano di più, che gli Etruschi religiosissimi prendevano di per tutto dove navigavano e mercavano celesti protettori, e principalmente nell’Oriente, fonte abbondantissima di superstizioni119. Ancorachè, senza andarne sì lontano, dalla prossima Sardegna, ove abitavano Fenici, Cartaginesi ed Etruschi120, poterono questi ultimi assai facilmente far sue molte di quelle cose aliene che vie più si conformavano colla loro propia instituzione. E queste medesime idee asiatiche, fenicie ed egizie, primo ordito della mitologia nazionale etrusca, che in moltissimi particolari s’allontana affatto dalla greca e romana, erano sì profondamente radicate in Etruria per la vecchiezza, che ancor quando il popolo andava perdendo le sue antiche credenze, declinato il potere del sacerdozio, e che l’arte figurativa grecizzava totalmente, per la sola imitazione di fogge elleniche, ritroviamo posti in iscena non pochi de’ simboli e miti dell’antiquata religione, comechè sotto forme più leggiadre. Noi tocchiamo di volo una materia importantissima, che avrà il suo pieno sviluppo nel volume seguente, dove ci riserbiamo a ragionare più compiutamente dello stato intellettuale, morale e politico dei popoli italiani. Ora basti ciò, che ha più immediata correlazione con la prima epoca istorica e con la più antica civiltà degli Etruschi.
L’Etruria di mezzo era stata divisa per originario istituto in dodici corpi civili confederati121, ciascun de’ quali aveva una città principale. E questo ancora s’aggiugne a confermare, che gli ordini della civiltà venivano dalle nazioni che più s’accordavano con forme e leggi di provata sapienza. Non altrimenti per sottrar l’Egitto dall’anarchia, dopo la dominazione degli Etiopi, fu diviso quello Stato in dodici principati, che tenevano un concilio di amministrazione comune a Menfi122. Cecrope aveva osservato l’ordine stesso distribuendo la moltitudine degli Attici in dodici comuni123. Ugual numero di città fondarono gli Eoli e gl’Ionj nel continente asiatico124. E senza uscire dell’Italia i Sallentini, che s’avean per Cretesi, stavano parimente congregati in tre genti e dodici città125. Nè senza mistero di sapienza si rinvengono certi numeri fissi nelle politiche istituzioni dell’antichità: ciò poteva bene riferirsi in Etruria all’anno solare di dodici mesi, introdottovi nell’uso civile così come in Egitto. Non possiam dire con certezza quali si fossero le dodici città che Livio chiama popoli principali e capi della nazione126. Ma par non si possa dubitare che questa maggioranza s’appartenga specialmente a Chiusi, Cortona, Arezzo e Perugia127, edificate in un medesimo interno cantone dell’Etruria orientale, ed a Volterra, Vetulonia, Roselle, Tarquinia, Cere, Volsinio e Vejo. Il selvoso e quasi che orrido monte Ciminio formato di tre sommi gioghi, o sia de’ monti di Soriano, di Viterbo e di Fogliano, e fortezza del paese dove giace la moderna Toscana, divideva naturalmente l’Etruria in settentrionale e meridionale: talchè la prima più difesa, e più discosta da Roma, fu anche l’ultima a cedere alle sue fortune. Volterra128 posta in sulla tortuosa cima d’un alto e ripido monte tra il fiume della Cecina129 e l’Era, che signoreggia tutto il paese intorno fino al mar toscano, aveva di circuito quattro miglia incirca come mostrano gli avanzi delle sue saldissime mina, tuttora decorate d’una ben proporzionata doppia porta di vera costruzione etrusca130. Nè città meno forte per natura ed arte avrebbe potuto resistere sì ostinatamente alle armi di Silla, che per le sue crudelissime vendette diè l’ultima mano alla ruina dell’Etruria. La grande fortuna di Chiusi o Camars in lingua tosca, è sì altamente celebrata da Livio131, che non abbisogna di altre prove: ancorchè nel suo territorio, più che in qualunque altro luogo, si ritrovino tutto giorno abbondanti quei preziosi monumenti di remota antichità, che fan precipuamente conoscere quanto la regal sede di Porsena fosse per l’innanzi ammaestrata e civile. Cortona, sedente in su d’un monte che domina la val di Chiana e il prossimo lago Trasimeno, si ritrova ancora entro al ricinto antico delle sue mura, che fan fondamento alle moderne; e sì per la sua forma bislunga giù pendente sopra il collo del monte, sì per la disposizione interna delle sue vie strette ripide e tortuose, ne dà il vero prospetto d’una delle più vetuste città etrusche edificate pe’ bisogni della vita pubblica, più presto che per il comodo de’ cittadini132. Molto maggiori di grandezza, e più giustamente encomiate per la magnificenza e per l’arti nobili, erano senza dubbio Vejo, il cui circuito viene paragonato da Dionisio a quel di Atene133, e Volsinio, oggi Bolsena, la qual risiede quasi nel mezzo del fianco settentrionale del suo lago, intorniato da selvosi monti134. Città sì fornita di beni che nella sua espugnazione vi predarono i Romani duemila statue135. Nè tacevano l’etrusche favole in vanto di ciascuna del nome de’ paterni eroi. Tra i quali Tarconte, che dicevasi canuto nella puerizia è senza dubbio il più celebrato136. In difetto della storia, le rovine di Tarquinia, ed i suoi stupendi ipogei, che quasi uguagliano per adornamenti di pitture e di sculture i sepolcri egizj, basterebbero ad attestare ch’ella fu degno seggio di popolo dovizioso e possente137. Nè può di certo far maraviglia ad alcuno che in queste nostre contrade di maremma, allora sì copiose e floride tanto per moltitudine di popolo, quanto per istudio d’agricoltura, e per arti e commerci, giungesse a tanto la prosperità civile. Non minor fama di opulenza portava Agilla, delta altrimenti Cere138, notissima nelle parti orientali pe’ suoi traffici di oltremare139: e bella lode a’ cittadini si fu principalmente l’essersi astenuti in ogni tempo dalla pirateria, e l’aver nome di giusti e forti140. Vetulonia141 e Roselle son di rado mentovate nelle storie, tuttochè comprese unitamente con Chiusi, Arezzo e Volterra, tra le principali142. Onde a ragione diede Silio143 a Vetulonia i fregi della sedia curule, dei fasci e delle scuri, insegne di precipua sovranità. Arezzo, differentemente da tutte le altre, aveva il muro di mattoni egregiamente fatto144. La spenta Roselle si vede ancora fabbricata non lungi dall’Ombrone su di un poggio, che domina tutto il piano sottoposto insino al mare: e le sue mura quasi che intere, costruite di grossissimi sassi ben tagliati paralellepipedi, han presso a poco due miglia di circuito145. Al contrario Saturnia, detta per l’innanzi Aurinia146, alla sinistra del fiume Albegna, ha qualche residuo di mura fabbricate con pietre a poligoni irregolari, come si veggono in Cossa147: entrambi le sole di qua dal Tevere di quella tal costruzione, che vuol chiamarsi ciclopica, e che potrebb’essere la meno vetusta148. Nè in questo ragguaglio delle città più notabili, che han lasciato di se vestigi, vogliamo tacere di Fiesole, madre di Firenze, e la sola prossima all’Arno, la quale nel suo sito e nelle sue muraglie mostra tuttora la forza antica149. Ma gli altri pochi avanzi d’edifizj, che quivi s’additano allo straniere, sono per certo fabbricazioni dei tempi Romani, non mai opra di veri Etruschi150. Di artificio loro più tosto è l’anfiteatro di Sutri, mirabile a vedersi, tutto scavato nella solida rupe, e che può avere forse a mille passi di circonferenza.
Le dodici città capitali rappresentanti insieme l’unione e la lega degli Etruschi, erano di più dominatrici sovrane nel loro proprio distretto, e reggeva ciascuna sotto sua giurisdizione le minori terre. Assai per tempo edificarono colonie del loro sangue, sia che ciò facessero per voto sacro in quel d’altrui151, sia ne’ propri terreni, da cui ne aveva l’autorità, con osservanze più civili. Nell’uno o nell’altro modo Capena e Fidene furon colonie di Vejo152. Volterra per darsi la comodità d’un porto vicino, fabbricò Populonia153 in cima d’un monticello che sporge in mare154. Parimente il comune di Cere, alquanto discosto dal lido155, costruì Pirgo, che gli serviva di navale e di luogo di mercato: e nel suo nome stesso, venuto a noi grecizzato, qual versione probabile di altra voce indigena, abbiamo una riprova che quel castello marittimo era munito di fortificazioni o di torri alla maniera etrusca156. Nobile soprattutto per le ricchezze del suo venerato santuario, dove i naviganti facevano d’ogni tempo al nume protettore157 copiose offerte, che indi furono preda in un sol giorno dell’avidità di Dionisio il vecchio158. Gravisca situata fra la Marta e il Mugnone in basso luogo maremmano159, ha dovuto essere la stazion navale dei Tarquiniesi. Alla foce del fiumicello Osa stava l’antico Telamone col suo porto: e presso al promontorio Argentaro Cossa, chiamata colonia dei Volcenti160. La sede certa di questo popolo161 di cui trionfò Roma nel 473 insieme coi Volsiniesi, difensori ambedue dell’ultima libertà dell’Etruria, si rinviene più indentro terra nel luogo nominato da tempo immemorabile piano di Volci162. Alla destra mano della Fiora, anticamente chiamata Arnine163, riviera che bagna la pianura giacente tra le radici del gruppo vulcanico di santa Fiora e il mare, stava situata sopra una bassa collina l’antica Vulci: città a quel che pare dal luogo, non molto grande, quasi come Fiesole o Roselle; ed al pari collocata in tale acconcia posizione, che può aversi per cosa certa esservi stata edificata da un popolo coltivatore dell’interno. E questo ancora lascia intendere come i Volcenti, venuti tempo dopo in istato, posero una colonia a Cossa per darsi quivi i vantaggi ed i comodi del mare. Or poco innanzi, solcando nel terreno, si è scoperta tutt’intorno nel disegnato territorio un’ampia necropoli, copiosa di vasi dipinti in gran numero e d’ogni altra sorte antichità di molto pregio, che ottimamente manifestano i commerci, la ricchezza, le nobili arti e il buon gusto che durarono per secoli in quel comune, di cui appena serbavasi il nudo nome nelle storie de’ suoi oppressori, per sola cagione del sangue da lui versato. Più che altro qui sul posto eccita la maraviglia un complesso di fabbriche ritrovate attorno e nel bel mezzo d’un’artefatta collina, che domina la pianura circostante, ed ivi con altre costruzioni, veramente etrusche, son due piccole celle di buona struttura formate con massi rettangolari, e che han porta arcuata quasi a sesto acuto: altre due fabbriche d’assai maggiori, alte di presente forse a trenta piedi, ugualmente costruite con pietre disposte in linea orizzontale senza cemento, s’alzano in forma di torri, l’una quadrata, l’altra circolare, la cui diroccata cima si ristrigne a guisa di cono: alla sommità si trovarono parecchie sfingi alate di pietra del paese; al di sotto, quasi come guardiani del luogo funereo, leoni e grifi vendicatori164: tutte cose rilevantissime quanto è al concetto simbolico, ed al costume, e che fanno sperare, proseguendosi l’investigazione e il total disgombramento del poggio165, che verrà in luce un grande monumento sepolcrale non meno importante per l’arte, che per l’istoria civile degli Etruschi166. Può essere ancora, siccome suona il nome, che i Volcenti toschi avessero originalmente attenenza e parentela col popolo stesso dei Vulsci o Volsci: forse una colonia di questi condotta quivi fino dal tempo in cui gli Etruschi signoreggiavano nel paese volsco. Ed è pure notabilissimo fatto, congiunto per certo coll’istoria delle origini, questa chiara derivazione di tanti nomi propri di città, di popoli e di persone dell’Etruria media settentrionale e meridionale, da una stessa e unica radice primitiva167: come, per tacer di altri, in Volsinio, Volterra, Vetulonia, Vejo, Fescennia, Fiesole, Felsina, Volturno, Volci, Volcenti168. Nè vuolsi passare sotto silenzio, che Voltumna è altresì il nome d’una dea principalissima, e conservatrice della lega etrusca, nel cui tempio si faceva dai principi del governo il consiglio comune delle città confederate. Per tutti questi luoghi, prima ancora della dominazione romana, strade selciate conducevano da una città all’altra: com’è quella, tutto dì visibile che da Cere portava a Vejo, e di quivi a Capena: nè pochi sono gli altri vestigi e segnali di vie pubbliche indubitabilmente vetuste. Differenti cale, foci di fiumi, ed altre stazioni marittime notate negli itinerarj, servivano di comodo riparo ai naviganti per la costa occidentale del Tirreno tra il Tevere e l’Arno: però Luni, alla bocca della Magra, città validamente murata di bianchi marmi169, era sovr’ogni altra degna d’attestare la potenza navale degli Etruschi, allora ch’ella fioriva a causa del suo spazioso e profondo porto, che riparato intorno dal monti liguri può mettere in sicuro ogni quantunque numeroso naviglio170.
Abbondano i geografi nella descrizione di moltissimi altri luoghi dell’Etruria, che pienamente accertano quanto copiosa ne fosse un tempo e la popolazione e la forza171. Ma noi ci siamo con disegno fermati a ragionare più particolarmente delle città che attendevano ai traffici di mare, per dar meglio a intendere con quale e quanto studio s’adoperassero gli Etruschi, fattisti potenti, anco nelle cose navali. Di lungo tempo usavano essi per navigazioni e commerci sia col rimanente dell’Italia, sia con remote e straniere nazioni. Nè par cosa dubbiosa, che massimamente i nobili e facoltosi cittadini traessero dal commercio marittimo, di cui fornivano il capitale, abbondevoli ricchezze. Diremo altrove qual era la materia di questi lucrosi negozj, e per qual gius convenzionale proteggeva e cautelava un popolo marittimo la navigazione ne’ suoi propri mari. Talchè navigando pur sempre, e commerciando d’ogni banda per tutti i paesi d’intorno al Mediterraneo, la mercatura e la nautica divennero al fine nazionali mestieri, che davano permanente ed utile lavoro agli uomini di mare, o mercenari o servi che si fossero. Pisa in allora situata al confluente dell’Arno e del Serchio, che riuniti in un alveo solo portavano le navi al placido seno pisano, oggidì mutato in fruttiferi campi, era di già operosa molto, qual si mostrò anche appresso, nell’arti navali. Pure si tien per dubbioso se quella città famosa, edificata in suolo etrusco, sia di origine tosca. Le tradizioni divolgate intorno la fondazione di quella sono incertissime. Quei Teutoni, che secondo un racconto risedevano in Pisa, non si potrebbe dire chi fossero172: più tosto il nome stesso della città, nella sua forma primitiva, può aver suggerito ai Greci non tanto il supposto della sua provenienza dall’altra Pisa dell’Elide, quanto le favoleggiate leggende dei Pilii, che ivi andarono erranti con Nestore, e dei Focesi con Epeo173. Licofrone, che seguiva la favola lidia, fa conquistare Pisa dai Tirreni avventizj sopra gli occupanti Liguri174. Al tempo di Catone correva già questa medesima incertezza circa i veri fondatori della città: onde, con raro buon senso, quel grande indagatore delle nostre origini se ne mostrava ignorante, nè poteva dire egli stesso chi tenne Pisa innanzi gli Etruschi175. Il volerla tuttavia edificata da Tarconte l’eroe176, come riferivano o storie o poesie nazionali, dimostra bensì che volgarmente dai paesani premettevasi l’opinione della sua origine tosca.
Qualora potesse prendersi in considerazione la facoltà sì pubblica, come privata dell’Etruria intera, il valor delle terre, del bestiame, delle case, dei mobili, de’ preziosi arredi e la moneta in circolazione di ciascuna città, una tanto inestimabile opulenza nell’interno potrebbe sola dare a conoscere quanto immensa fosse già la ricchezza nazionale, frutto di perseveranti fatiche e d’arti177. Il commercio principalmente arricchiva l’Etruria: traeva derrate e danaro dalle sue colonie e dagli stati tributari: ma il più saldo fondamento della copia pubblica trovavasi non di meno nel suo proprio territorio, e nell’arti rurali. Erano i campi fecondi e doviziosi per util cultura: abbondanti gli armenti178: ed i piani di maremma, per infelicità di suolo ancorchè d’aria grave e pestilente, davano pure ai lavoratori quantità grandissima di biade. Molti erano stati nell’interno i terreni allagati, ed i paludosi, prima che l’arte e la perseveranza umana non v’attendessero alla difesa. Quivi in Toscana coprivano le paludi buon tratto del Val d’Arno inferiore, massimamente intorno i laghi di Bientina e di Fucecchio e di là fin nella regione più alta salendo su verso Firenze: nè men pieno di marosi e di stagni era il paese nel Val d’Arno di sopra, e nella Val di Chiana originariamente fondo di mare, che la nostra arte moderna delle colmate da stato palustre ha potuto sola mutare in un ampio colto di campi. Così la pertinace fatica, e in un la maestria de’ nostri padri avea tratto fuori o dalle foreste, o dalle paludi, luoghi di mirabil fecondità, dove si vivea prosperamente, e nella somma delle cose prodotte dal lavoro s’avean comodi e aumento di beni. Tanto che non è soltanto una bella frase poetica, ma un detto profondo del gran georgico latino, aver l’agricoltura fatto crescer forte l’Etruria179.
Tal era lo stato florido degli Etruschi nei secoli del nascere e del crescer di Roma. Perciocchè lungi che in allora salisse l’Etruria nella sua massima forza, ella trovavasi già cominciata ad iscadere, e grandemente in preda di que’ vizi morali e politici, che andavan disponendo la lenta sì, ma infallibil caduta dell’imperio. Segni apparenti di potenza erano ancora le sue nobili città e provincie: le sue dovizie ed armi: e non pertanto infievolita la nazionale unione, le città medesime confederate, raramente concordi, o si trovavano isolate nelle imprese, o soltanto collegate accidentalmente e per breve tempo l’una coll’altra. Quindi ancorchè Porsena prendesse Roma. e tentasse con tutto suo sforzo il conquisto d’Aricia, non si vede che il lucumone o re di Chiusi, grave al suo popolo180, traesse dalla vittoria alcun permanente vantaggio, nè riuscisse tampoco per intervento di socj a conservare gli acquisti. Non altrimenti ne’ più soprastanti pericoli dell’Etruria veggiamo i confederati, anzichè d’accordo, guerreggiar disuniti: confusi di consigli incerti: tardi nelle azioni: inabili alle grandi difese181: e pieni d’increscevoli odj e di perturbazioni civili. Nè mai, dopo il crescimento di Roma, le colonie etrusche dell’Italia superiore ed inferiore, separate di governo e d’intenzioni, si mossero a salute della madre patria. Quei nazionali parlamenti che s’adunavano nel tempio di Voltumna, e dove i primati avean tante volte prudentemente e fortemente deliberato con sentimento comune, non porgevano più alla nazione pericolante se non che provvedimenti impotenti, e voglie divise182. Di tanto erano scemate nelle già prospere sorti, e negli agi, le virtù cittadine. Non tutta la buona ventura di Roma vinse l’Etruria; chè più di quella poterono i mal fermi legami del suo governo politico, e gli scorretti costumi in pace e in guerra, che infiacchirono col vigor morale anche l’amore per avanti sì gagliardo della patria. Con tutto questo, sebbene la potenza terrestre degli Etruschi si ritrovasse combattuta da presso quasi nell’istesso tempo dai Romani, Galli e Sanniti: la marittima dai Cartaginesi, Siciliani, e Greci-italioti: pure altri cinque secoli di ferocissime e mai non interrotte guerre furon necessari ad annullare la forza intera d’uno stato antico, che ancor serbava rigogliosi nell’interno buona parte de’ suoi ordini religiosi, civili e militari. Riprova non dubbia della stabile virtù della prima instituzione; non già della fortuna, che non ha tal sorta di costanza.
Tanta era in effetto la possente forza della legge sacra costitutiva, che in combattendo gli Etruschi per la salute di tutti al Vadimone nel 444, vincolati col giuramento di vincere o di morir virtuosamente, parve ai Romani, dice Livio, non più contrastare con nemici tante volte rotti per l’addietro, ma con gente nuova183. Cessata nondimeno forse a trent’anni dopo per nuovo sterminio la dominazione dell’Etruria184: e fu questo l’ultimo sangue versato per la causa della libertà: l’ultimo sagrifizio pubblico a un ordine e ad un governo politico, che per le cangiate sorti non poteva ormai più ostare agli estremi suoi fati. Soggettata la nazione giuridicamente al prepotente imperio romano con titolo di socj italici, e privo ciascuno della facoltà di farsi ragione con l’arme, nessuna garanzia nè difesa potevano dare i nomi dove più non esistevan le cose. Ma il governo municipale, all’ombra di cui seguitarono a reggersi le città disciolte dal legittimo nodo federale, era tuttavia buon compenso al peso della loro soggezione, ed alla necessità di mantenere col proprio sangue la grandezza di un popolo oppressore. La già dominante aristocrazia s’avvicinò d’allora in poi più dappresso a’ suoi novelli signori; separò i suoi sentimenti e l’util suo da quelli delle masse popolari, e ne fu anche rimunerata a luogo e tempo con ispecial favore e protezione: in quel modo che i Licinj, potente famiglia, coll’appoggio del romano senato contennero in casa i popolani d’Arezzo185. Gli aruspici stessi, interpreti del poter sovrano, fecero la loro pace, e divennero anch’essi quasi istrumenti della romana signoria. Perciocchè illanguidita, ma non ispenta affatto la riverenza sacerdotale, durava ancora potentissimamente nell’ordine loro il proficuo celato monopolio della maestria tremenda delle divinazioni. E la forzata generale obbedienza di ciascuno, insinuatasi a poco a poco in animi prostrati, nulla meno tendeva di sua natura a scemare e rallentare il desiderio delle già ambite opre cittadinesche. Ebbe in tal guisa da indi innanzi l’Etruria calma e non riposo: pompe senza gloria: servitù con nomi onorandi. Pure non cessava per questo l’amore dell’arti, nè degli studi che più s’aveano in pregio. Perchè i nobili, i facoltosi, ed ogni altro favorito della fortuna, nell’ozio della pace usava sue dovizie in temperare o abbellir la vita col diletto e conforto dell’arti leggiadre. Quanto fosse radicato l’affetto a coteste arti, e quanta l’ostentazione e la pompa ne’ grandi, sì palesa chiaramente per la copia innumerabile di monumenti, che ogni dì maggiormente vengono a luce per tutta Etruria. E con più maraviglia ancora nella grande necropoli di Vulci sopra mentovata, donde son tratti fuori a un tempo migliaia di vasi, bronzi, suppellettili e arnesi d’ogni maniera, ivi riposti nel corso di secoli quale onor di sepolcri. Tutte cose più meno di pregio o per la materia o pel lavoro, e che pienamente confermano quali e quanti si fossero gli agi, non meno che l’opulenza dei privati ancor dopo la perduta libertà. Essendo cosa manifesta, per chiunque puol fare paragoni, che buon numero di cotesti monumenti, al par di molte sculture volterrane, furono condotti da etruschi artefici secondo lo stile e le fogge usate nei secoli della dominazione romana. Continovava pur allora nelle città marittime qualche commercio oltremarino, che andò gradatamente mancando, mentrechè le fatiche dell’agricoltore tenevan dovunque aperte inesauste sorgenti di ricchezze. Ma si mutaron tosto, e per sempre, le sorti del cittadino, allora quando caduta in altre mani la proprietà territoriale, necessitato il terrazzano a lavorare come fittajolo il podere che fu già suo, e scacciati o duramente oppressi gli uomini liberi, questi nostri campi vennero dati a coltivare dai nuovi padroni ad agricoltori e pastori forestieri di stato servile: la qual miseria estrema della Toscana fu anche l’incitamento più forte, dicea Cajo Gracco, che mosse Tiberio suo fratello a fare la legge agraria186. Non però era spento affatto nell’universale il valore, nè il desio di libertà: fecero moti alcune città dell’Etruria nella guerra annibalica187: si rianimarono nella sociale: e nella guerra sillana contrappose di nuovo l’Etruria una pertinace resistenza alle tiranniche vendette del crudel dittatore di Roma. Molte delle più principali città furono in quell’epoca sanguinosa o rovinate o disfatte o date in guardia a colonie di rapaci soldati, che, le ricchezze per ingiusti modi acquistate, iniquamente spendevano188. Nobili casati vennero al tutto spenti o mutarono paese. Nè sì grandi flagelli distruggevano soltanto le cittadinanze, ma insieme con esse a grado a grado perivano i monumenti pubblici, le scritture, la letteratura, l’arti migliori: in somma quasi che ogni retaggio della virtù degli avi. La sola aruspicina serbò la sua autorità formidabile fino al sesto secolo dell’era volgare189: sì tenacemente il credulo etrusco, tuttora inviluppato ne’ lacci delle fallacie, andava cercando alle sue miserie speme e conforto negli ingannevoli aguati della divinazione paterna.
Note
- ↑ Ἐγὼ δὲ ὀφείλω λέγειν τὰ λεγόμενα, πείθεσθαί γε μὲν οὐ παντάπασι ὀφείλω, καί μοι τοῦτο τὸ ἔπος ἐχέτω ἐς πάντα λόγον
- ↑ Herodot. I. 94.
- ↑ Vedi sopra p. 86.
- ↑ Romul. II.
- ↑ Dionys. I. 27-30. Qui notiamo di passaggio, che il nome degli Iddii della Lidia meglio conosciuti, come Ma, Anaïtis e taluni altri, in nulla somiglia ai titoli etruschi divini: così, per toccar cosa di poco momento, la toga di porpora semicircolare, divisa regia dei Lucumoni, era diversa da quella dei Lidj lunga e quadrata (Dionys. iii. 61): foggia costante del vestimento orientale.
- ↑ Dionys. i. 30.
- ↑ Lycophr. v. 1359-62.
- ↑ Strabo v. p. 154; Plin. iii. 5.
- ↑ Serv. Ad Æn. X. 172.
- ↑ Ap. Tertull. De Spect. 5.
- ↑ Lycophron. l. c.
- ↑ Lib. v. p. 152.
- ↑ Tacit. iv. 52. Probabilmente Seneca faceva allusione a questa controversia del suo tempo: Tuscos Asia sibi vindicat (Ad Helv. 6.)
- ↑ Dionys. I. 30.
- ↑ Turscum; Tuscorum più volte.
- ↑ Vedi i monumenti tav. xiv. xv. xvi.
- ↑ Theogon. 1015.
- ↑ Aristid. Orat. in Bacch.; Lucian. De Saltat. 22.
- ↑ Ptolom. Hephestion. ap. Phot. p. 250.
- ↑ Posis. Magnes. ap. Athen. VII. 12.
- ↑ In Critias. Altri dirà Pelasghi, più tosto che antichi Etruschi o Toschi; ma questi eran notissimi a Platone, non meno che ad Aristotile ed a’ suoi discepoli, dai quali sono sempre chiamati propriamente Tirreni. Non voglio per ciò essere qui tacciato di storico errore: sì bene protesto di non consentire in questo tanto facilmente alla opinione sistematica di un’altra scuola. V. Niebuhr, e Muller, Die Etrusker, T. I. p. 75 sqq.
- ↑ v. 33
- ↑ Vedi sopra p. 39.
- ↑ Schol. veron. ad Æneid. x. 179
- ↑ Τυῤῥηνικῶν: Svet. Claud. 42. Della erudizione di Claudio, alunno di Tito Livio, danno plausibil giudizio Svetonio loc. cit. c. 41.42.; Dione Cassio, In Excerpt. Vat. pag. 554, e Giovanni D’Antiochia, excerpt. ap. Vales. p. 805.
- ↑ Gruter. p. dii.
- ↑ Plutarch. Parallel. 56.
- ↑ Excerpt. a. in coll. Vat. T. ii., pag. 136.
- ↑ Vedi sopra p.75.
- ↑ Vedi Cron. di Gio. Morelli, in più luoghi.
- ↑ Vedi p. 77.
- ↑ Plin. iii. 5.
- ↑ Terra culturæ causa attributa olim particulatim hominibus, ut in Etruria Tuscis. Varro ap. Philarg. ad Georg. ii. 167.
- ↑ Fragm. ex lib. Vegojæ ap. Rei agr. auct. p. 258. Goes.
- ↑ Cicer. de Div. ii. 23. 38. Uno de’ libri sacri (scriptum vocibus Tagæ) portava per titolo: Terræ ruris Etruriæ. Serv. i. 2.
- ↑ Caeminius, de Italia, ex Tageticis libris ap. Macrob. Sat. v. 19.
- ↑ Varro ap. Censorin. 17.
- ↑ Ante romanum imperium. Liv. v. 33.
- ↑ Vedi appresso cap. xvii.
- ↑ Modena e Parma si trovano: in agro qui ante Tuscorum fuerat. Liv. xxxix. 55.
- ↑ Transpadani omnia loca, excepto Venetorum angulo, qui sinum circumcolunt maris, usque ad Alpes tenuere. Liv. v. 33.
- ↑ Etruria nova. Serv. x. 220.
- ↑ Liv. v. 33.; Polyb. ii. 17.; Strabo v. p. 152.; Diodor. xiv. 113.; Plutarch. Camill.
- ↑ Hecath. ap. Steph. v. Ἀτρὶα.; Theopomp. ap. Strab. vii. 219. et Strabo v. p. 143. Scylax, Peripl. p. 12. Liv. v. 33.; Plin. iii. 16.
- ↑ Steph. Byz. l. c.; Justin. xx. 1.
- ↑ De Peony, nota al disc. prelim. di Cuvier: Recher. sur les ossem. fossiles. T. i. § 216. p. 73.
- ↑
Mantua dives avis: sed non genus omnibus unum;
Gens illi triplex, populi sub gente quaterni:
Ipsa caput populis; Tusco de sanguine vires.- Virg. x. 201.
- ↑ Mantua Thuscorum trans Padum sola reliquia. Plin. iii. 19.
- ↑ Bononia, Felsina vocitata, quam princeps Etruriæ esset. Plin. iii. 15. Il suo omonimo si rinviene in Velsinii o Volsinii dell’Etruria media: l’e: cangiavasi spesso in o: così da Felathri, Volaterræ.
- ↑ Opulentia præcipuum. ap. Plin. iii. 17.
- ↑ Plin. iii. 15.
- ↑ Niebuhr. T. i. p. 114. 115.
- ↑ Cluverio ne ha dato la prima idea: ebbe a sostenitore questa sentenza già nel 1785 il C. d’Arco (della patria primit. dell’arti, p. 123 sqq.): la toccarono Heyne e Freret con la stessa mala sorte: e non ha guari tempo la rinfrescava Salverte: Essai hist. sur leu noms d’hommes des peuples et des lieux.
- ↑ Liv. v. 33. 34.; Plin. iii. 24.
- ↑ Italia av. il dominio dei Romani. T. iii. c. 4.
- ↑ In i. Rerum Etruscarum. Schol. ver. ad Æn. x. 198. conf. Serv. ibid.
- ↑ Tarchu nelle iscrizioni, giusta la forma primitiva; ond’è e cognome della Gens Tarquinia.
- ↑ Lidyæ lacus undæ. Catull. xxxii. 13.
- ↑ Muller, Geschichte der Schweiz. T. i. c. 5.
- ↑ Come Tusis o Tusciana presso le sorgenti del Reno, Retzuns, ed altri luoghi ben riconosciuti dagli antiquarj della Rezia. Tracce più notabili, al dire d’un istorico paesano, si ritrovano nelle valli tirolesi Gugana, di Sulz e di Non. Hormayr, Geschichte von Tyrol. T. i. 26 n. 127.
- ↑ Sethlans; scopertavi nel 1813: la forma dei caratteri tuttavolta non indica molta antichità. Giorn. dell’alto Adige. n. 61.
- ↑ Vedi i monumenti tav. xvii. sqq.
- ↑ Sane notum est bello multum potuisse Tyrrhenos, et fuisse præcipue infestos Latinis. Serv. vii. 426.
- ↑ Plutarch. Quæst. rom. 18. La forza personificata in Ercole, gli liberò, dice la tradizione.
- ↑ Fidenates quoque Etrusci fuerunt. Liv. i. 15.; Plutarch. Romul.
- ↑ Vedi appresso c. x.
- ↑ Oppida condebant in Latio etrusco ritu multa. Varro, l. l., iv. 23.
- ↑ Gente Volscorum, quæ etiam ipsa Etruscorum potestate regebatur. Cato ap. Serv. xi. 567. 581. Così pure Virgilio, seguendo l’istoria, alle città volsche dà il nome di etrusche o tirreniche.
- ↑ Per questo l’isola d’Aea, od altrimenti di Circe, vien posta giustamente da Apollonio (iv. 660) nella Tirrenia al tempo degli Argonauti: lo stesso si trova nel titolo d’uno degli epigrammi del Peplus, attribuito ad Aristotile (Epig. 20), e nell’antico scoliaste d’Omero: ad Odyss. i. 32.
- ↑ Strabo v. p. 173.
- ↑ Vulturnum Hetruscorum urbem, quæ nunc Capua est. Liv. iv. 37.; Cato ap. Vellej. i. 7.; Polyb. ii. 17.; Strabo v. p. 167.; Plin. III. 5.; Mela ii. 4.; Serv. x. 145.
- ↑ i. 7.
- ↑ Cato ap. Vellej. l. c.; Polyb. ii. 17.; Solin. 8 ex Lips. emendat, in Vellej: conditam a Tyrrhenis.
- ↑ Strabo v. p. 170. 173.
- ↑ Ager Picentinus fuit Tuscorum. Plin. iii. 5.
- ↑ Vedi sopra p. 79.
- ↑ Niebuhr. T. i. p. 47. 74-77.
- ↑ Strabo v. p, 171. Non si vuol fare gran conto della narrativa di Conone, favoleggiatore, che chiamava i Sarrasti di Nuceria Pelasghi del Peloponneso. Serv. vii. 738.
- ↑ Vedi sopra p. 105.
- ↑ Dionys. vii. 3.
- ↑ ii. 17.
- ↑ Δώδεκα δέ πόλεις ἐγκατοικήσαντες. Strabo v. p. 167.
- ↑ Larth Campanu si legge in epigrafe perugina: in altre di Campania Maisius Vesius, Veltinicisim, Purina ec. tutti genlilizj replicati anche in Etruria. L’appellativo Clan o Clanis, che portarono anticamente l’Uffente, il Liri, ed altre riviere minori della Campania, si rinviene tuttora in un fiumicello della Toscana moderna, dettovi la Chiana: il quale scorre per una valle altre volte palustre.
- ↑ Vedi monumenti tav. lxxiv.
- ↑
Est inter notos Sirenos nomine muros,
Saxaque Tyrrhenæ templis onerata Minervæ.Stat. Silvar. ii. Così la pensava il napolitano Stazio. All’opposto i Greci, che tutto attribuivano a sè, lo dicevano edificato da Ulisse. Strabo v. p. 171.
- ↑ Strabo v. p. 166.; Plin. iii. 5.
- ↑ Etim. Magn. v. Ἁδρίας τὸ πέλαγος, Tzetz. ad Lycophr. 63o.
- ↑ Strabo v. p. 166.
- ↑ THA, Hatri è la leggenda; il cui nome rimane oggidì qual era: Atri nell’Abruzzo superiore. Vedi Delfico, dell’ant. numis. d’Atri.
- ↑ Cippo sepolcrale trovato presso la Rocchetta, al confine del Genovesato. Vedi i monumenti tav. cxx. 7.
- ↑ Thucyd. i. p. 4
- ↑ Idem p. 5.; Festus v. Tyria maria.; Justin. xliii. 3. Latrocinia maris, quod illis temporibus gloriæ habebatur.
- ↑ Strabo v. p. 153: o sia miglia 250, valutando lo stadio di Strabone, secondo d’Anville, a ragione di 10 miglia per ogni miglio antico romano.
- ↑ Diodor. v. 13. 40. Τυῤῥηνοι θαλαττοκρατοῦντες. Vedi appresso cap. xix.
- ↑ Cicero in Hortensio ap. Serv. viii. 479.; Idem, de Rep. 11. 4.; Strabo v. p. 152. 160.
- ↑ Agathemer. Geogr. i. 5.; Strabo v. p. 154.
- ↑ Diodor. v. 13. XI. 88.
- ↑ Insula, inexhaustis Chalybum generosa metallis. Virgil. x. 74.; Auct. de Mirab. p. 1158.; Strabo v. p. 154. 155.
- ↑ Liv. v. 33.; Strabo v. p. 148. vii. p, 219.; Plin. iii. 16.
- ↑ Tanta opibus Etruria erat ut jam non terras solum, sed mare etiam per totam Italiæ longitudinem ab Alpibus ad fretum Siculium fama sui nominis implesset. Liv. i. 2.
- ↑ (Lauchme), Lucumo, in iscrizioni.
- ↑ Τότε μὲν οὗν ὐφ’ ἑνὶ ἡγεμόνι ταττόμενοι, μέγα ἴσχυον. Χρόνοις δ’ ὕστερον διαλυθῆναι τὸ σύστημα εἰκὸς, καὶ κατὰ πόλεις διασπασθῆναι βίᾳ τῶν πλησιοχώρων εἴξαντας. v. p. 152. Nam Thuscia Lucumones reges habebat, et maximam Italiæ superaverat partem. Serv. viii. 65.
- ↑ Liv. v. 33. Thuscorum ante Romanum imperium late terra marique opes patuere. Cato ap. Serv. xi. 567. In Thuscorum jure pene omnis Italia fuerat. Idem ad Georg. ii. 563. Nam constat, Thuscos usque ad mare Siculum omnia possedisse.
- ↑ Liv. i. 44. Per tale costume ne venne la greca etimologia del nome di Tirseni o Tirreni da Τύρσεις: edificio munito.
- ↑ Dionys. I. 26.; Tzetzes, ad Lycophr. 717. Τύρσις τὸ τεῖχος ὅτι Τυρσηνοὶ πρῶτον ἔφευρον τὴν τειχοποΐαν.
- ↑ Vedi i monumenti tav. ix-xii.
- ↑ Niebuhr, T. i. p. 133.
- ↑ Carminius, ex Tageticis libris ap. Macrob. Sat. v. 19.; Festus v. Rituales.
- ↑ Bene Virgilio (xii. 120) chiama vario l’esercito etrusco confederato: dove chiosa Servio: Quia de variis gentibus Tuscorum etc.
- ↑ Per le tradizioni più antiche, e per l’istoria certa di Roma, abbiamo che i vincitori toglievano per se ai vinti la terza parte del territorio: questo era di diritto un bene comune, la cui possessione utile veniva soltanto concessa altrui dallo stato.
- ↑
Iunctosque a sanguine avorum
Mœonios italis permixta stirpe colonos.
Silv. iv. 722.Meglio che l’autorità d’un poeta conferma il fatto la promiscuità dei cognomi attestata per moltissime iscrizioni. Vedi p. 62. p. 121. ed appresso cap. xiv. xviii.
- ↑ Vedi p. 110. nota 47. Ottima è la sposizione di Servio: quia Mantua tres habuit populi tribus. . . et robur omne de Lucumonibus habuit: cioè a dire che tirava sua forza dai fondatori etruschi.
- ↑ An. 2052-1822 avanti l’era volgare: giusta la cronologia dell’Usserio.
- ↑ Αἰγυπτίοις ἱερεῖς, Diodor. I. 28.
- ↑ Diodor. i. 28.
- ↑ Constant. Porphir. Tem. 15, p. 46.
- ↑ Clem. Alex. Protrep. p. 12. ed. Sylb. Vedi appresso T. ii. c. 22.
- ↑ L’acuta mente del Lanzi comprendeva bene la parte debole di quel suo sistema d’universale grecismo, e come facilmente sarebbe caduto a terra qualora si porgessero in mostra altri monumenti diversi a quelli da lui unicamente conosciuti cinquant’anni addietro, quando scriveva, e per la massima parte dell’ultima epoca dell’arte etrusca; la quale non malamente puossi protrarre in certe sculture sino al secondo secolo dell’era volgare. Ecco le sue notabili parole: Qui torna il raziocinio de’ simboli egizj, che proverebbon lo stile primitivo de’ Toscani propagato di Egitto, qualora fossero in Etruria molti ed antichissimi. Saggio T. ii. p. 182. — Vedi i monumenti tav. xiv sqq.
- ↑ Fu talmente tradito il Lanzi al tempo suo dalla scarsità dei monumenti cogniti, ch’ei grida disdegnoso: ov’è in Etruria una deità con quattro ali come i Fenici e i Maltesi loro scolari le figurarono? Anzi fra gli antichi bronzi di Etruria, che soli posson pretendere all’età più rimote, dov’è un idolo non dico di quattro, ma di due ali? Saggio T. ii. p. 258. Vedi i monum. tav. xxi. xxix. xxxv. ii.
- ↑ Vedi appresso cap. xix.
- ↑ Liv. v. 33.; Strabo v. p. 152.; Serv. x. 172. 202.
- ↑ Herodot. ii. 147.; Diodor. i. 66.
- ↑ Strabo ix. p. 274.
- ↑ Herodot. i. 145. 149.
- ↑ Varro fragm. x. iii. antiq. rer. hum. p. 205. ed. Bip.
- ↑ Quot capita originis erant. Liv. v. 33.
- ↑ Peruse o Perusei, nella gran lapide perugina del museo Oddi.
- ↑ Felathri, nelle sue medaglie.
- ↑ : casato gentilizio in molti monumenti volterrani.
- ↑ Vedi i monumenti tav. i. vii. viii. ix.
- ↑ Liv. i. 9.
- ↑ Vedi tav. vi. Non pochi muramenti etruschi si veggono ancora dentro la città: tra i quali il muro sotto la fortezza nel luogo detto Torremozza; e buona parte dei fondamenti del palazzo Laparelli.
- ↑ Dionys. ii. 54: incirca sei miglia. Per osservazioni topografiche fatte in sul posto, si riscontra aver l’antica Vejo occupato non già la sola rupe dell'Isola Farnese, ma lo spazio intero compreso da un lato fra il burrone d’Isola e ’l Cremera; dall’altro quanto si distende sino al piè d’un monticello chiamatovi tutt’ora singolarmente Piazza d’Armi. Il qual terreno tutt’insieme unito porge uno spazio più che sufficiente a chiudere una città grande, e ben difesa sì dalla natura, come dall’arte: Egregiis muris, situque naturali urbem tutantes. Liv. v. 2.
- ↑ Inter juga numerosa. Juvenal. iii. 191.
- ↑ Plin. xxxiv. 7.
- ↑ Strabo v. p. 152.; Serv. x. 166. 179.; Eusthat. ad Perieg. 347.
- ↑ Urbem Etruriæ opulentissimam. Cicer. de re pub. 11. 18.; Dionys. iii. 46.; Strabo v. p. 152. Vedi i monumenti tav. lxiv-lxviii.
- ↑ Hanc multos florentem annos. Virgil. viii. 481.; Liv. i. 2.; Dionys. iii. 58.
- ↑ Lycophr. 1352.
- ↑ Strabo v. p. 152. Il geografo chiama città dei Pelasghi Agilla, ed ivi presso pone la reggia d’un Maleote loro re (v. sopra p. 94. n. 27): il tutto probabilmente in sulla fede del relatore primo di quella novelletta, che lui stesso riferisce tanto bonariamente. All’opposto Licofrone l’appella Ausonia (v. 1355), come a dire opica, prima che tirrenica. Chi seguiva a suo talento la tradizione che gli si parava dinanzi, e chi un’altra. Nè con fondamento migliore per taluni dicevasi Tarquinia città tessalica. Justin. xx. 1.
- ↑ . fatluna, apparisce il suo nome in una medaglia inedita. Vedi tav. cxv. 8.
- ↑ Dionys. iii. 51.
- ↑ viii. 485 sqq. Il sito di Vetulonia non è ben certo; anzi controverso: si tiene che fosse nella maremma senese, non lungi da Massa. L’áncora nelle sue medaglie indica di fatto prossimità al mare, e commercio marittimo.
- ↑ Vetustum egregie factum murum. Vitruv. ii. 8.; Plin. xxxv. 2.
- ↑ Vedi i monumenti tav. iii. x.
- ↑ Saturnini, qui ante Aurinini vocabantur. Plin. iii. 5.
- ↑ Vedi tav, x. 3. 4.
- ↑ Cossa divenne colonia romana nel 481, nove anni innanzi la prima guerra punica (Vellej. i. 14.): e la sola ispezione delle sue mura, sì ben polite e conservate, dimostra una fabbricazione poco antica a fronte delle mura di Fiesole e dì Volterra, con pietre quadrilunghe, e di vera costruzione etrusca. Così Saturnia fu mutata in colonia nel 569 (Liv. xxxix. 55.); forse in allora o venne ricinta di nuovo, o restaurata con le attuali sue mura.
- ↑ Vedi i monumenti tav. v. xi. xii.
- ↑ Per alcun rapporto inesatto cita Niebuhr il teatro di Fiesole come un edifizio colossale degli Etruschi (p. 133. 139): ma l’opera è al tutto romana e di costruzione non molto antica. D’uguale fattura romana sono i residui dell’anfiteatro di Arezzo.
- ↑ Vedi sopra p. 33, n. 4.
- ↑ Vedi pag. 116.
- ↑ , Pupluna nelle medaglie. Vedi i monumenti tav. ii. x. i.
- ↑ Vedi p. 98.
- ↑ Cerveteri serba il nome e il sito antico di Cere: dove intorno, più che altrove, sarebbe desiderabile molto si scavasse una volta il terreno per trovarvi la sua Necropoli, donde sono venuti a luce più volte bellissimi vasi.
- ↑ Castellum nobilissimum eo tempore, quo Tusci piraticam exercuerunt. Serv. x. 184.
- ↑ Deità marina, chiamata alla greca Leucotea; mito originalmente fenicio.
- ↑ Diodor. xv. 14.
- ↑ Intempestaeque Graviscae. Virgil. x. 184.; Serv. ad h. l.; Rutil. i. 279. Per la descrizione di Rutilio il sito di Gravisca, ancora incerto, dovrebbe trovarsi presso il moderno porto Clementino alle saline di Corneto, anzi che più indentro sopra la Marta.
- ↑ Cossa Volcientum. Plin. iii. 5.; Strab. v. p. 151. Vedi i monumenti tav. iv. k.
- ↑ Volcentini cognomine Etrusci. Plin. iii. 5.; Ptolom. iii. i. Οὐόλκοι. Nei fasti trionfali son detti Vulcienter.
- ↑ Volgarmente Pian di Voce: nel territorio di Montalto di Castro, tenuta in Camposcala. — Mi sia lecito il dire, benchè senza presunzione, che io stesso aveva divinato e pubblicato, già venti anni sono, che in questo sito medesimo doveva trovarsi Vulci, metropoli di Cossa. Vedi l’Italia avanti il dom. dei Romani. T. i. p. 127. ed. 1810.
- ↑ Itiner. marit. Arnine fluvius (scorrettamente Armine o Armenia in altre tavole itinerarie), derivativo del nome tosco dell’Arno, vedi sopra p. 81, [[Storia degli antichi popoli italiani/Capitolo V#nota60|n. 60}}: così presso Firenze abbiamo il Mugnone, che porta il classico nome del Minio: fiume omonimo soprammentovato, che corre più sotto in queste maremme.
- ↑ Vedi tav. vii. 7.
- ↑ Una sola terza parte di questa collina, detta volgarmente Cucumella, si trova discoperta in quest’anno medesimo 1832. Vedi i monumenti tav. lxiii. i.
- ↑ Altri edifizj sepolcrali, ugualmente ricoperti da monticelli artificiali di terra (Ingens aggeritur tumulo tellus. Virgil. iii. 62), si sono trovati non ha guari tempo in parecchi luoghi dell’Etruria. Un sepolcro di tal sorta costrutto di travertini, dove stava uno scheletro insignito di nobili arredi, fu scoperto anni sono presso di Orbitello: e possiamo citare, come trovato più recente, due collinette artificiali o Cucumelle, che ricoprono altre fabbriche ad uso di sepolcro nel luogo detto il Baccano tra Viterbo e Montefiascone. Sì fatte prominenze di terra, o tumuli, con sepolcri interni, sono assai frequenti nel tarquiniese, nel viterbese, e nel vejentano. V. tav. lxii. 7. 8.
- ↑ : sillaba radicale che poteva significare o alcuna proposizione locale, o l’articolo da noi detto definito: onde felathri Volaterrae: felsinii Volsinii: felthurnu Vulturnum ec. Così da fel, tema nazionale il più trito, si formano prenomi, e quindi moltissimi gentilizj; come Velcia, Velicia, Velecia, Velonia, Velania, Veletia, Velosia, Velturia o Volturia ec.
- ↑ Di più oltre il Tevere abbiamo i Velienses compresi tra i Prisci Latini (Plin. iii. 9): e Velia era stato altresì l’appellativo primo d’uno dei sette colli di Roma: indi Velitrae ne’ Volsci; Vulci in Lucania ec.
- ↑ Candentia moenia. Rutil. ii. 63: il cui materiale doveva essere tolto dalle vicine cave di Carrara. In sul cadere della repubblica romana era Luni già molto spopolata: desertae moenia Lunae (Lucan. i. 586); ma l’ultima sua distruzione, e quella ancora di Populonia, si debbe alle incursioni marittime dei Saracini, an. 826. 828.
- ↑ Strab. v. p. 153. Del porto di Luni, o sia del magnifico golfo della Spezia, cantava Ennio: Lunai portum est operae cognoscere ceiveis. Fragm. p. 3 ed. Hessel.
- ↑ V. Cluver. p. 419-506: ma più particolarmente l’accurato e critico Mannert, Geogr. der Griech. und. Rom. T, ix. p. 347-428.
- ↑ Serv. x. 179.
- ↑ Strab. v. p. 154.; Plin. iii. 5.; Justin. xi. i.
- ↑ Lycophr. 1356 sqq.
- ↑ Serv. x. 179.
- ↑ Serv. ibid.
- ↑ Etruscis... gentem Italiae opulentissimam, armis, viris, pecunia esse. Così Livio (x. 16) parlando tuttavia d’un’epoca, in cui gli Etruschi erano già scaduti grandemente di potenza.
- ↑ Etrusci campi... frumenti ac pecoris et omnium copia rerum opulenti. Liv. xxii. 3.
- ↑ Sic fortis Etruria crevit. ii. 533.
- ↑ Praeterea fatigasse regni vires. Varro ap. Plin. xxxi. 13.
- ↑ Bene Virgilio xi. 782.
Quis metus, o numquam dolituri, o semper inertes,
Tyrrheni, quae tanta animis ignavia venit? - ↑ Liv. iv. 24. v. 17. et alibi.
- ↑ Liv. ix. 39.
- ↑ An. 473.
- ↑ Liv. x. 3.
- ↑ Ap. Plutarch. Gracch.
- ↑ Liv. xxvii. 21-24. xxviii. 10.
- ↑ Vedi l’agre rampogne che fa Sallustio delle profusioni e delle ree speranze de’ militi sillani: la maggior parie de’ quali stanziavano in Toscana. Calilin. 16. 28: e parimente Cicerone, Catil. ii. 9.
- ↑ Procop. Bell. Goth. iv. 12.