Storia degli antichi popoli italiani/Capitolo XXI

Capitolo XXI. Instituzione politica, governo, e leggi civili degl’Itali antichi

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Capitolo XXI. Instituzione politica, governo, e leggi civili degl’Itali antichi
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CAPO XXI.


Instituzione politica, governo, e leggi civili
degl’Itali antichi.


A chiunque ricerca nelle istituzioni civili la natura delle cause che le hanno prodotte, e lo spirito delle nazioni che le approvarono, si fa ognor più manifesta l’esistenza d’una costituzione teocratica primitiva, la qual porge ne’ suoi ordini fondamentali il principio il più largo della giurisprudenza dei popoli italiani. L’era legislativa sacerdotale succede in fatti all’era patriarcale, e precede ovunque l’epoca civile in tutta l’antichità. Perchè la legge teocratica è veramente la prima delle sperienze politiche messe in opra a mansuefare uomini fieri e materiali, ed a condurli quietamente a vita ordinata. Il dominio del sacerdozio si mostra dunque di per tutto fino dalla più vetusta istituzione italica, e con radici profonde si ritrova più o meno internato così nella credenza pubblica come nel governo e nel costume d’ogni popolo nostrale: dove ugualmente una medesima legge divina era unica norma e fondamento di stato civile. Ben vorrebbe l’istorico poter studiare addentro nei monumenti stessi di questa filosofia pratica delle nazioni, poichè le verità morali prendono tanta maggior forza quanto più elle muovono da lontano, e sono state o cognite a popoli diversi, o insegnate da maggior nu[p. 61 modifica]mero di savi. Ma se la troppa scarsità delle memorie fa ostacolo insuperabile a portare sì oltre l’investigazione delle cose, pure, quivi in Italia, apparisce non dubbiamente l’azione costante e vigorosa del governo teocratico, qual possente macchina di tutto il movimento della società. Talchè il dritto sacro, il pubblico e il privato, strettamente congiunti tra di loro, formavano insieme un solo e unico incommutabil sistema di legislazione, la cui tendenza si era d’operare fortissimamente con comandamenti prescritti sull’animo arrendevole delle genti, onde elleno potessero più facilmente e sicuramente essere infrenate e guidate da’ suoi rettori. E in vero sì grande in ogni cosa, ed a un modo sì efficace fu tra noi il vigore della teocrazia per lunghissima età, che col sussidio della sola religione si reggevano nel popolo paziente gli abiti dell’ubbidienza, la fede ne’ magistrati, il coraggio pubblico, la costanza nelle avversità, i sacrifizj più necessari: in somma tali virtù civili, che per esse si avea pronta a ogni bisogno la forza difensiva e conservatrice della città.

Niun fatto più notabile adduce l’istoria della umanità quanto l’esistenza d’un ordine sacerdotale, dominante gli altri, nel corso e ricorso di quei secoli, in cui la religione si rappresenta come il grande agente di tutti gli affari della vita umana. Indiani Babilonesi, Egizj, Etruschi, Celti; in fine tutti i popoli dei mondo antico aventi fra loro alcuna scambievole comunicazione d’idee; ponevano del pari in cielo le ra[p. 62 modifica]dici d’ogni dritto, e la ragion suprema, o divina piuttosto, di quel corpo di primati insegnatori e custodi d’ogni buona disciplina, i quali dopo essere stati i benefattori della specie umana per averla incivilita, finirono per esserne i tiranni, adoperandosi per tutte maniere a porre impedimenti al naturale progresso della ragione, ed a stato migliore. Certamente non si può dubitare che per tutta Italia la prima istituzione politica non derivasse da una legge conforme religiosa propagatasi da un luogo all’altro: ne son prova certissima i nostri propri miti, e la successiva diramazione di tante colonie sacre, che han dato civile cominciamento a numerosissimi popoli con modi e forme dirittamente imposte da comandamenti sacerdotali1. Così dunque tosto che dalle Alpi al mare siciliano le tribù paesane vi formarono tante distinte società civilmente congregate, il principio religioso, base della città, predominava dovunque nella giurisprudenza pubblica delle italiane genti, qualunque ne fosse la forza, lo stato e il nome. Sì che di fatto il principale od unico legame della necessaria, comechè debole concordia loro, stava nel culto religioso, inseparabile sussidio nel dritto delle genti. Le ferie solenni instituite fin dall’origine presso a ciascun popolo confederato, e alle quali per debito d’ufficio intervenivano i magistrati delle città o terre collegate, avevano per certo, sotto il velo della religione, lo [p. 63 modifica]scopo salutare di fermar l’amistà e l’unione dei compagni, invitandoli a riguardarsi l’uno l’altro come fratelli, ed a sacrificare concordemente agl’iddii della patria: siccome usavano insieme Sabini e Latini per le feste di Feronia2; i prischi Latini tra di loro3; Etruschi e Umbri4, ed altresì Lucani5. Questo sacro e fraterno vincolo tendeva così palesemente a fortificare il patto della lega sott’obbligo stabile di religione. E per lo stesso principio di governo tutti gli altri popoli, che si reggevano del pari a stato confederativo, convocavano solennemente, e con religiose osservanze, i pubblici loro parlamenti sia ne’ casi urgenti,, sia in stagioni e tornate prefisse. Di tal modo solean congregarsi gli Etruschi nel tempio di Voltumna6, i Latini nel sacro luco di Aricia, o in quel di Ferentino, ed i Sabini a Cure: siccome spesse volte istoricamente si fa uguale menzione dei concilj degli Equi, Ernici, Volsci, Sanniti, Lucani e Liguri. Il fine primario di queste adunanze nazionali, legalmente composte dei primati o principi del governo7 si era il grande af[p. 64 modifica]fare della guerra o della pace, l’ammissione dei nunzj, la ragion delle concordie, e ogni altra faccenda che riguardasse alla sicurezza della unione. Ma se i dritti di sovranità pertinenti alla difesa scambievole s’appartenevano di ragione al consiglio comune dei membri confederati, non recava poco turbamento alla concordia che questi medesimi dritti fossero di poi praticali separatamente da ciascun popolo senz’altro freno, in tutto quel che concerneva a’ suoi particolari e privati negozi. Così vuolsi che alcuni popoli sabini, Ceninesi Crustumini e Antennati, senz’attendere gli aiuti, s’opponessero da per se alle prime ingiurie di Roma. Parecchie città dell’Etruria sostennero per secoli guerre parziali, siccome tra gli Ernici quei d’Anagni, contro al voto della lega8. Nell’istesso modo Tuscolo si dipartì spontanea dall’unione latina9: Sutrio da quella dei Toscani10, senza che i compagni potessero impedirlo fuorchè colla forza dell’armi. Ed ecco in qual guisa ciascuna confederazione delle italiche genti portava in se fino dall’origine il germe della sua propria debolezza: poichè troppo tarde nel movimento, e troppo fievole il vincolo che univa in un solo e medesimo corpo i diversi membri della lega, le città disciolte dal legame comune cadevano sotto l’influenza di particolari ambizioni, le quali non mancavano di partorire sovente e disunioni e discordie. [p. 65 modifica]

L’antica potenza de’ Sabini, de’ Volsci, de’ Sanniti, e principalmente degli Etruschi, era stata nondimeno il frutto di buone istituzioni e di leggi. Ma nè di queste, nè dei savi uomini, che s’adoprarono per la prosperità delle loro patrie11, non abbiamo se non tronche e scarse memorie, dacchè la romana dominazione spense con la fortuna ancor la fama di quelle genti e cancellò quasi ogni traccia dei vetusti ordini civili. Tanto che appena del governo medesimo degli Etruschi, che trasmessero a Roma e religioni e leggi, si può trar norma certa dai soli cenni che si ritrovano sparsi qua e là in superficie per la letteratura classica. Già dicemmo come l’Etruria per originale instituto stava in dodici corpi civili insieme uniti12. I supremi magistrati di ciascun popolo, che i latini scrittori complimentavano con titolo regio, erano elettivi d’anno in anno13, e si chiamavano con proprio vocabolo Lucumoni14: carica che di fatto importava la piena potestà e gli onori del regio governo, fondato in una giusta obbedienza, ed esercitato con moderazione, piuttosto che con forza e terrore. Rendeva ra[p. 66 modifica]gione il Lucumone a’ suoi ogni nono giorno15; o sia quel dì che seguiva il periodo settimanale chiamato le None. Uno di essi, generalissimo in guerra e capo della unione, veniva eletto in comune dai dodici popoli confederati, ciascuno de’ quali per mostra d’uguale dominio forniva un littore16. La veste di porpora e la dipinta, una corona d’oro, lo scettro adorno alla cima di un’aquila, la sella curule, i fasci e le scuri17 erano i tremendi simboli, non men che le divise della di lui alla autorità, e del poter supremo che usar potea liberamente in nome e vantaggio della repubblica. La condotta della guerra dava soprattutto gran moto alle ambizioni di cotesti primi ufiziali della nazione, che in promuovere l’util della patria arrecavano a se stabile nominanza. La qual cosa avvenne non tanto a Porsena lucumone di Chiusi, ed a quell’Arimno, di cui Pausania vide un donativo in Olimpia18, quanto ancora a Celio Vibenna, altro lu[p. 67 modifica]cumone capitano soltanto di guerra, il cui fedele compagno Mastarna, secondochò riferivano le storie etrusche, tolse appresso il nome di Servio Tulio, e tenne il regno di Roma19. Con tutto questo l’autorità loro nella città era talmente limitata dalla predominante aristocrazia, che non senza grave rischio avrebbero potuto abusare delle regie prerogative, o in qualunque altro modo eccedere i termini d’un potere rigorosamente prescritto. Quando Mezenzio, ritratto d’animo sì empio, usurpò la signoria di Cere, veggiamo il suo popolo precipitarlo tosto dal soglio, senza valutar nulla i dritti d’un figlio infelice e virtuoso. Sdegnati anzi più maggiormente i Ceriti perchè Mezenzio ha trovato asilo fra i Rutuli, richiedono l’aiuto dei confederati. Tutta Etruria è in arme per tor via quel tiranno dalle mani de’ suoi difensori, e per condurlo al supplizio; furore ugualmente approvato e dalle leggi e dagl’iddii20. Benchè, per avventura, altra vera colpa non avesse dinanzi i suoi l’audace lucumone di Cere, fuorchè aver tentato cangiare in monarchia il governo aristocratico. Sorte poco diversa successe a quel Metabo, padre della fiera Cammilla, cacciato da Priverno ne’ Volsci pel suo feroce comandare ed animo superbo21. Ugualmente per odio [p. 68 modifica]del potere assoluto furono abbandonati dalla lega intera i Vejenti, che in rischioso frangente s’aveano eletto un capo investito di non ordinaria potestà22. La dottrina stessa simbolica degli aruspici dava per presagio funestissimo di governo regio la caduta di certi fulmini in libera città23. Ed a meglio manifestare quanto inveterate e propagate si fossero ancor tra i vicini dintorno queste credenze etrusche vaglia il racconto, che talune rovine di edifizj le quali, dice Dionisio, si resero visibili per grande siccità nel fondo del lago Albano, confermarono nel popolo la tradizione antica, ch’elle fossero il palazzo sprofondato d’un empio re punito dai cieli24. Di tal modo religione, leggi e costume, salvarono l’Etruria dalla tirannide d’un solo; ma non pertanto nulla meno esorbitante, benchè coperta dal dritto sacro, durava l’autorità dell’aristocrazia potente.

L’istituzione del governo è mezzo indispensabile a rendere efficace la legge fondamentale della città. La quale, per la condizione dei tempi che qui consideriamo, era unicamente appoggiata al principio teocratico, convertito in domma irrefragabile di diritto, e di [p. 69 modifica]respettivo dovere pubblico e privato. Onde tutte le leggi, e ordini e costumi, a quello, come ad un sol centro d’azione, si riferivano. Con tal forma ritroviamo presso a’ più antichi e civili popoli italiani l’autorità primaria posta già nelle mani di quella poderosa aristocrazia sacerdotale fondata nel giure divino, e nell’antichità della famiglia, e che di fatto era ovunque per conformità d’instituto il nervo della nazione politica e la proprietà territoriale. I membri di quest’ordine, massimamente privilegiati del dritto di tirar gli auspicj, erano di più i soli maestri di tutte le cose divine e umane; e con tal grado di primati25 d’insegnatori, e di custodi de’ misteri, certissimo è che componevano insieme per dritto ereditario l’ordine regnante dello stato, e il solo eligibile a qualunque siasi dignità. Che però il patriziato provenisse originalmente in Etruria da una stirpe di conquistatori, e che il popolo quivi soggetto a permanente servitù feudale vivesse inonorato e privo di libertà, con ordini diversi a quelli che reggevano i Volsci od i Sanniti, non può al certo sostenersi con ragionevoli fondamenti: perciocchè null’altro che una bella ipotesi di penne moderne si è il supposto, che gli Etruschi stessi divisi in tante caste, al modo degli asiatici, avessero ne’ Lucumoni e Larti, o propriamente signori, una tribù dominante sopra l’altre tribù vassalle, ognora tenute in bassa condizione servile26. Nè sussiste tampoco il [p. 70 modifica]fatto allegato27 di colossali edifizj dei dominatori etruschi, sì che non potessero esser costruiti di tanta mole fuorchè per le fatiche de’ loro propri schiavi: laddove al contrario, forza è ripetere in questo luogo, esser cotali opere, quali si hanno davanti agli occhi, niente altro che ordinarie, comechè maestrevoli fabbricazioni28. Sicuro è bene che la nazione intera degli Etruschi non ebbe mai ne’ suoi tempi istorici un essere politico sì mal confacente al costume generale italiano: ma più tosto la forza reale dell’Etruria, come quella d’ogni altro popolo nostrale, e di Roma stessa, stava posta nel libero stato plebeo temperato dal solo padronato.

Non abbiamo nessuna informazione certa del primo seme di queste generazioni maggiori, in cui, ad esclusione d’ogni altro, l’originale cittadinanza trovavasi congiunta colla qualità ereditaria di nobile. Ma se ricordiamo i tempi e il modo per cui i principali [p. 71 modifica]antichissimi popoli dell’Italia tolsero stabilmente forme civili mediante reggimento teocratico, e la successiva fondazione di vere colonie sacre, ne parrà pure probabilissimo, e al tutto conforme alla qualità del secolo, che gli originali membri di queste comunità medesime, tenuti per uomini consacrati ed eletti29, vi divenissero altrettanti capi di una stirpe, intorno alla quale si ristringessero con vincoli di religione comune gl’incoli stessi del territorio aggregato, che a loro s’unirono per difesa e protezione sotto tali scambievoli obblighi, che indi appresso tolsero l’essere d’una legittima clientela. In qualunque città nuova per accessione ai fondatori di cotal gente raccoltavi del contado formavasi una plebe: ed il padronato, o sia il patto giurato di sì fatta unione, v’era egli stesso una cosa santa data in guardia agli dei. Potette questo modo nascere e mantenersi senza contrasto, nè tumulto; perchè chi era del governo e reggeva il comune, non pure teneva in freno gli uomini aggiuntisi con loro, ma non gli adoperava in cosa dove potessero prendere autorità. Per certo mai non poteva capir nell’animo dei cittadini primitivi di qualunque terra, uomini quasi divini, e veri eponimi dei loro casati, l’ammettere altro sangue alla partecipazione di privilegi ben acquistati, e di diritti che inalterati passavano nei discendenti. Nè solamente gli Etruschi sino dalla prima loro istituzione, civile insieme e sacerdotale, avevano di [p. 72 modifica]cotali schiatte politiche (Gentes), che soprastavano eminentemente agli altri, ma Sabini, Volsci e Sanniti, vantavano al pari famiglie chiare per anzianità, e nulla meno privilegiate, nelle cui mani stavasi ristretta la potestà dello stato intero. Così da per tutto le ragioni dell’aristocrazia, fortificate colla maestà dei sacerdozj, erano consolidate da un lungo e non conteso possesso. Per tutto ugualmente era la clientela, onorevole di sua natura, uno de’ costumi più antichi degli stati d’Italia: e senza fallo esisteva appresso gli Etruschi30, Sabini31, Latini prischi, Volsci e Sanniti. Di modo tale che questi medesimi popolani, tolti già in protezione da’ più potenti sotto l’obbligo di mutui comodi e benefizj, comportavano di fatto una specie di coperto vassallaggio, che obbligandoli con debito di coscienza ad aiutare e onorare l’ottimate protettore, inceppava e limitava molto nella città le ragioni della plebe; da che in somma nessun cliente era libero di dar voto contro al patrono32. Per le costituzioni medesime degli Etruschi, consacrate ne’ loro propri Rituali33, veniva prescritta la distribuzione importantissima di tutto il popolo in tribù curie e centurie, ordine fondamentale di libera città. E pare cosa indubi[p. 73 modifica]tata che i savi di Roma non altronde prendessero la norma della cittadinanza novella che vi fermò lo stato: il nome stesso delle prime tribù romane era etrusco, al dir di Volunnio autore tosco34. Uguale distinzione civile avevano stabilita gli Etruschi in Mantova35, se non ancora in tutte l’altre colonie loro, del pari fondate con materna legge. Medesimamente l’usarono gli Umbri di tanto conformi nel costume agli Etruschi36. Nè soltanto in Tarquinia37 e in Arezzo, siccome narrano Dionisio e Livio38 con autorità di vetusti scrittori, erano uomini plebei e assemblee popolari, ma, vuol ragione, che ordini consimili fossero a un modo statuiti nell’altre città maggiori dell’Etruria centrale. Dove, a che sarebbe servito, come in Vejo39, l’aver di dentro un Foro senza adunanza di plebe e senza [p. 74 modifica]suffragj? Ben di più dimostra aperto il fatto medesimo di Vejo, toccato di sopra, che in coteste adunanze il popolo convocato dava il suo voto per l’elezione annuale del magistrato40; benchè non possa dirsi preciso in qual forma le tribù divise vi deliberassero, o vi praticassero il dritto di far la scelta. Senz’alcun dubbio la prescrizione di certe osservanze relative agli auspicj ne’ comizj di Roma, che conferivano agli auguri una specie di veto, si fondavano sopra un principio di opposizione alla plebe, cavato dalla dottrina fulgurale degli Etruschi41. Le spesse contenzioni fra patrizj e plebei, come quella dei prepotenti Licinj in Arezzo42, o dei popolani d’Ardea ne’ Rutuli43, aveano per eterna cagione l’abuso che ora l’uno, ora l’altro faceva de’ suoi propri diritti nella città. Talchè in somma non è punto dubbioso che il corpo intero de’ plebei, il quale contava da per tutto uomini apprezzati e facoltosi, non rappresentasse nella costituzione un ordine popolare legato colla gente patrizia; ancorchè sia impossibile giudicare, salvo che per analogia agli ordini romani, qual si fosse la debita corre[p. 75 modifica]lazione di quello con i privilegi dell’aristocrazia, regolatrice e rettrice di tutte le bisogne44. Non però di meno generalmente in Etruria l’azione interna del comune plebeo vi crebbe a misura che andava declinando l’autorità patrizia sacerdotale battuta per molti lati; laonde, sotto la dominazione stessa romana, tanto altamente si manifestavano ne’ municipj le pretensioni legittime della plebe che, malgrado la preminenza ereditaria delle onorevoli prosapie, non potevano i nobili mantenervisi in maggioranza senza ricorso alla protezione esterna o tacita, o palese. Formava in oltre la plebe il nervo e la vita della milizia. Tanto che, se ben ragguardiamo ai fatti più certi narrati nelle storie romane, l’ostinata perseveranza nella difesa delle fanterie coscritte d’ogni classe, e gl’incessanti sforzi che a mantenimento del vivere libero fecero per secoli l’etrusche città guerreggianti, collegate insieme o divise, si sostenevano ogni dove per la virtù di comuni dritti e doveri operanti con forza in sulle masse popolari.

Il governo di ciascuna delle dodici città sovrane dell’Etruria si componeva adunque d’un Lucumone, supremo capo: d’un senato, avente tutta la maggioranza e la consulta nelle deliberazioni del pubblico: di [p. 76 modifica]più un comune di plebei. Ma qualunque siasi dignità politica e sacerdotale, o altrimenti la somma del potere sovrano, si ritrovava soltanto nel popolo dei patrizj, originali e legittimi cittadini, perchè dessi soli avevano gli auspicj della città. Ogni altro sacerdozio, così in Etruria45 come altrove, era ugualmente un prescritto e speciale privilegio delle schiatte nobili. Sicchè per la natura medesima di cotal reggimento dell’Etruria, misto d’elementi sì diversi, ben si ravvisa, al nostro giudizio, come mitigatasi in progresso di tempo, e addolcita dall’uso l’istituzione teocratica primitiva, figlia dell’Oriente, la stessa sapienza politica si fosse all’ultimo concordata col genio più mite dell’Occidente. Nelle famiglie patrizie sacerdotali di numero e di nome immutabile, veggiamo in fatti la stabilità orientale, e in certo modo il costume delle nazioni asiatiche. Dove per lo contrario nella condizion del comune dei plebei, partecipi della cittadinanza, manifestamente si rinviene una tal qual franchezza di potere individuale, e il grande principio di mobilità, essenzial carattere della civilità progressiva in Occidente. I Greci dal lato loro, già innanzi al tempo di Omero, s’avean levato affatto dal collo il giogo sacerdotale, indirizzando l’umanità a tutt’altro sistema di civile governo. Gli Etruschi non progredirono tant’oltre; ma conservarono più tenacemente l’essenza del [p. 77 modifica]governo teocratico in moltissimi statuti e nel costume: ed il loro spirito, come si vede, penetrò molto indentro anche nelle prime costituzioni di Roma. Qua e là ugualmente mirava l’aristocrazia a infrenare per tutte vie e maniere la moltitudine: mai nessun movimento a pro della democrazia non s’appalesò in Etruria troppo fortemente contenuta dal sacerdozio: nè tampoco v’avrebbe potuto profittare a fronte delle astute sue arti divinatorie: onde francamente può dirsi che la nazione ubbidiente sì ed osservante, ma impedita ne’ suoi civili progressi, non aveva mezzi propri d’avanzarsi libera a quel grado di forza e di superiorità in cui poteva salire. Ciò non ostante la lunga prosperità dell’Etruria intera, la facile esecuzione delle leggi, l’obbedienza ai magistrati, la quiete interna, son pruove manifeste, che il governo non v’era tirannicamente usato.

La potente Capua, dapprima etrusca, indi sannite o campana fino dall’anno 331, era retta ugualmente da un sommo magistrato, un senato, e una plebe. E sì questa, come i patrizj, a distinzione de’ due ordini, aveano nella città separato Foro civile per trattarvi le cause del pubblico46. Nola, Calazia, Atella ed ogni altra città libera della Campania, si governavano nell’istessa forma durante ancora la seconda guerra punica. Presso di loro il supremo capo elettivo si chiamava Meddix Tuticus; titolo di magistratura propria[p. 78 modifica]mente osco47. Nè con ordine diverso si reggevano e Volsci e Sanniti insieme colle potenti nazioni della stirpe sabella, già diramatasi per tulle l’Italia meridionale. Perciò i Lucani d’uno stesso sangue, e nulla meno gelosi di libertà, si veggono guardati e difesi da un superiore, che Strabone chiama re, il qual di pieno diritto ai sovrani ufficj del governo civile univa il comando militare48. E qual capitano generale dell’armi desso intitolavasi in guerra Embratur, o sia imperatore49. Così di tratto in tratto, sotto il nome improprio di regi, si trova fatta menzione nelle storie d’altri capi e rettori dei Peucezi, Dauni50, e Messapi51, i quali si governavano come tutte l’altre genti a stato franco. Tal era Turno, principe dei Rutuli d’Ardea. Tra i prischi Latini ciascuna città eleggeva annualmente il suo proprio dittatore o il pretore52: e or[p. 79 modifica]dinariamente ancora un di loro in ufizio, come il primario lucumone tra gli Etruschi, vegliava sopra tutto il corpo del Lazio53: ministerio che nell’età più vetusta fu commesso in occasione solenne al dittatore Egerio tusculano54. Laonde, per fatto certo, anzichè imperio ereditevole in una prosapia nobile, come tennero molti stati della Grecia, mai non ebbe Italia se non che legittimi ed elettivi magistrati, la cui autorità deputata alla direzione dei pubblici poteri, comechè suprema e forte fu sempre dentro a limitati termini ristretta.

In ciascuna città, per giusta divisione e distribuzione d’ufficj, altri magistrati minori, legali custodi della libertà e sicurezza del cittadino, vi avevano tutta l’amministrazione del comune: fra i quali il prefetto, gli edili, i questori mentovati anche in monumenti degli Osci55. Il fatto principale di Papio Brutulo sannite56 dimostra che il pretore, giudice del diritto e dell’equità, vi pronunziava le decisioni supreme della legge nelle materie non pure d’ordine privato, ma pubblico. [p. 80 modifica]Magistrati municipali ora in funzione, ed ora sedenti per tribunale, si veggono di più rappresentati con mostra di loro seguito, qual era il costume, in monumenti degli Etruschi57. Davano materia ogni dove alla ragione civile le consuetudini, gli ordini, e gli statuti interni della città, prudentemente custoditi da ciascun popolo, e fermamente mantenuti in rigore da quelli sotto il dominio stesso di Roma colla legalità del gius italico. Principalmente quanto riguardava alla proprietà, ed ai suoi effetti, al diritto dei genitori, al matrimonio, alla successione, alla tutela, a’ dritti de’ creditori, e in breve a qualunque altro titolo di ragione. Sopra tutto l’inestimabile dritto di proprietà si ritrova molto efficacemente protetto con forti difese, dappoichè la più umana e discreta vita civile di tanti popoli, per natura villeschi e coltivatori, era stata dapprima ordinata mediante una legge agraria originale, la qual muniva di ragioni e titoli incommutabili la proprietà del fondo58. In vigore appunto di quel domma teocratico primitivo, che concepiva la signoria del terreno qual supremo dominio d’Iddio sopra tutte le cose trasferibile ne’ suoi prediletti. Ed avvisatamente i legislatori etruschi adoperando all’uopo la giurisprudenza prima, o simbolica, secondochè richiedevano i costumi ed i tempi, renderono sacra questa fondamentale disposi[p. 81 modifica]zione in facendo pubblicare dagli aruspici esser questa terra dei numi: «che Giove appropriata si fosse l’Etruria; ed a frenare la cupidigia umana avesse ordinato che i campi vi fossero segnati dai loro termini, i quali non si potessero mai rimuovere senza cadere nella indignazione divina»59. Stabilitasi così l’azione del confine, fu il territorio diviso per mezzo di limiti invariabili e certi60, i quali, come cosa sacra, davano al proprietario dritto impermutabile di reclamare contro dell’usurpatore. Da questo provido regolamento nacque al certo il dio Termine custode della proprietà, sì altamente santo per gl’Italiani61, e che Varrone dice originato dalle prime istituzioni toscane62, le quali pur santamente prescrivevano nella collocazione dei termini agrarj preghiere, [p. 82 modifica]vittime, sacrifizj, libazioni ed offerte63. Per ampliare in oltre l’efficacia di questo immutabile e permanente dritto di proprietà, la ragion civile dava di più a ogni uomo ingenuo facoltà di poter liberamente disporre delle sue sostanze: come, in forza dello statuto di Tarquinia, si vuol che facesse Demarato per volontà testamentaria64: talmentechè già gran tempo usavano gli Etruschi di quel medesimo diritto del padre di famiglia costituito per la legge delle dodici tavole65. Con tutta ragione un nostro grande scrittore66 vide in quelle tavole stesse un verace monumento del dritto naturale, dei costumi, e delle consuetudini in vigore presso le auliche genti italiche. Nè meno acutamente il Vico stesso, seguitato oggimai da sommi legisti e istorici, mostrò insussistente il fatto della legazione romana in Grecia per cogliervi il fiore delle leggi attiche, ed ivi erudirsi nei buoni ordini civili: quandochè al contrario le dodici tavole, sì repugnanti in tutto al costume greco, nacquero propriamente nel Lazio sotto l’influsso della dominante aristocrazia, quasi come un digesto di ciò che teneasi il meglio delle leggi consuetudinarie o scritte de’ popoli circonvicini. E certissimamente figlie dell’antica sapienza e religione loro si erano e il dritto di connubio fra genti [p. 83 modifica]d’uno stesso sangue, e le leggi stesse coniugali, tendenti specialmente a rendere consacrate le nozze con necessarie formalità: ancorchè queste, per intenzione della prima legge, adoperate dai soli cittadini patrizj con ispecial privilegio della stirpe, avessero principalmente per iscopo abilitare i figli a prendere i magistrati, di debito collegati con l’osservanza di certo uficiature sacerdotali rivelate soltanto ai loro casati67. Onde non dice male Giovanni Lido68, che ugualmente in Roma i magistrati della repubblica furono dapprima tanti preti. Così pure la legge attribuita a Numa69, la quale statuiva a dodici anni l’età legale atta a contrar matrimonio, ha dovuto essere un costume antico d’Italia, per cui il legislatore, meglio che alla robustezza della prole, tendeva moralmente a rendere non pure i corpi, ma gli animi delle spose più che mai puri ed incorrotti. E poichè di fatto la religione, norma d’ogni dritto, partecipava mai sempre o direttamente, o indirettamente, tanto nella dottrina delle leggi, quanto nell’azione del civil gover[p. 84 modifica]no, è fuor di dubbio che nell’istesso modo fortificava, o suppliva con grandissima efficacia e in ragione ed in pratica tutta la legislazione. Il qual vero si farà più maggiormente manifesto per molti esempi nel capitolo appresso, in cui tratteremo alla distesa delle cose sacre.

La moderata natura del dritto civile degli Etruschi si palesa chiaramente nella legge contro al debitore insolvente la quale, anzi che trattarlo come un colpevole, e d’obbligare anche il corpo, siccome nelle dodici tavole, non dava altr’azione al creditore fuorchè poter esporre l’obbligato a ignominia pubblica: il che consisteva in rappresentarlo dinanzi al popolo seguitato da una frotta di ragazzi, che portando in aria una borsa vuota significavano esser quel tale rifinito per debito, e in istato di decozione70. Esempio dimostrante come, a proposito, certe leggi di morale intendimento parlavano per via di simbolo massimamente ai sensi; efficacissimo linguaggio compreso anche dagl’idioti. Con principio nulla men lodevole e morale qualunque presto fatto a un uomo notoriamente scostumato, veniva punito presso ai severi Lucani con la perdita del capitale71. Ammenda di cose, propria[p. 85 modifica]mente chiamata multa con voce sabina72, era quanto alle offese e ai danni nocenti alla proprietà o a’ dritti altrui, l’ordinaria pena statuita dalla legge; massime tra i popoli di stirpe sabella, originalmente pastori. Conferma certissima che non poche usanze paesane, e leggi di discreta penalità, nacquero semplici e piene di fiduciale temperanza: cioè conformi a’ costumi buoni, e alle integre consuetudini della vita pastorale ed agricola.

I legislatori degli Etruschi tutto compresero ne’ libri sacri, dove ogni pubblico provvedimento vi si porgeva al popolo coll’istesso grado d’autorità divina. Ovunque i costumi sono forti, i principj fermi, e inflessibile la legge, hanno i lesti una voce di maestà potente, autentica, popolare. E tutto quanto spettava al ben della città trovavasi contenuto in quei prudentissimi codici, che si chiamavano Rituali. Per comandamenti e precetti inviolabili era in essi prescritta l’edificazione delle città e dei tempj, la consacrazione delle mura e delle porte, la distribuzione civile del popolo, gli ordini della milizia; in fine tutto ciò che riguardava alla salute, sicurezza e difesa del comune, [p. 86 modifica]o in pace o in guerra73. E buono interpetratore della legge è Varrone, ove dice fatte sacre le mura, perchè i cittadini combattano più coraggiosamente, fino a sacrificare la vita per ultima difesa di quelle74. Allo stesso modo il dritto Feciale, che avea per fine toglier via le cagioni della guerra, era stato per la sapienza degl'itali legislatori fortemente congiunto colla religione. Legge santissima ed universale di tutti i popoli italiani, e sicuramente trasmessa per alcun di loro ai primi re di Roma75. Le concordie e le paci, similmente corrette dal dritto Feciale col ministero del Padre Patrato, capo di quel sacerdozio, era uopo che fossero mai sempre santificate con religiose osservanze, e di più giurate sul corpo d’una vittima con rito speciale76. Il dritto d’asilo, il qual vegliava ad [p. 87 modifica]assicurare agl’infelici gli effetti della compassione, era pure dalla ragion delle genti approvato per tutti coloro che hanno un cuore innocente, ma che la fortuna perseguita. Una incalcolabile forza tuttavia derivava alla repubblica per cotesta universal riverenza della legge, e nel serbare inviolata la fede del giuramento77. Vincolo talmente sacro nella opinione di popoli sopra modo religiosi e leali, che per motivo principalmente dell’iniqua violazione che della giurata promessa fecero i Romani nella dedizione di Capua, e nel fatto delle Forche caudine, ebbe più vital nutrimento lo sdegno immortale dei Sanniti.

Se per fatalità periti non fossero irreparabilmente i libri d’Aristotile78 e di Teofrasto79 sul governo civile degli Etruschi, potremmo senza dubbio dimostrare più completamante i veri principj della lor politica società, o almeno giudicare con miglior senno degli ordini interni, e di molte usanze cittadinesche, il cui scopo principale si era di reggere la repubblica con statuti e leggi certe, sempre vantaggiose alla felicità umana, anche nella loro forma meno perfetta. Che massimamente la grand’opera del maestro dei dotti, [p. 88 modifica]in cui trattavasi de’ governi d’oltre cento cinquanta città80, contenesse importantissimi ragguagli e considerati giudizi, sì delle costituzioni e leggi, come di ogni altro instituto de’ nostri popoli maggiori, ed in particolare degli Etruschi, ne fanno fede i cenni che egli diede d’un loro singolare costume, per cui solean temperare e misurar col suono de’ flauti le fatiche e il gastigo dei servi81. Costituivano gli schiavi nella città una classe separata e distinta dai cittadini. Essi non erano persone, ma cose. Ineguaglianza di stato, tanto universale nell’antichità, quanto deplorabile, che risultava dalla sola legge o dal dritto propriamente detto. Tuttavia fino a che si mantenne abituale negli avi nostri semplice e laboriosa la vita, ella rendeva meno dura la servil condizione: i servi, per lo più italiani tolti in guerra, o non erano in gran numero, o gli schietti costumi, più che il rigor delle leggi, bastavano a cautelare della loro fedeltà: perciocchè convivendo, faticando, e cibandosi i servi stessi insieme co’ padroni, era d’uopo che questi avessero per esso loro indulgenza ed equità. Tal era in principio la famiglia, tipo della società: di che si conservava indelebile traccia nei Saturnali. Ma cangiatosi per altri tempi e modi di vivere il costume, massime nella opulenta Etruria, troviamo che quivi [p. 89 modifica]più universalmente, già ne’ primi secoli di Roma, gli schiavi domestici s’adopravano d’ogni maniera per tutti gli ufizi e mestieri: alle volte anche in guerra, come fecero con fidanza i Vejenti82; soventemente quali esperti ministri delle pompe e voluttà di facoltosi padroni83.

Con ragionato giudizio anteponeva Cicerone, per bocca di Crasso, la prudenza civile dei nostri a quella degli altri savi, e de’ Greci massimamente84. Tanto che, al dir di lui, il sapientissimo Numa avea di già insegnato e posto in pratica ottime leggi, avanti che i Greci pur s’avvedessero che Roma fosse nata85. Ma la sapienza alta e verace attribuita a Numa sabino altro non era che italica sapienza senile86: o sia quell’ordine politico fondamentale sacro insieme e civile, che costituiva e reggeva nell’universale l’italica società con forme sue proprie, forti e originali. Secondo la mente dei legislatori la morale pubblica, ed i virtuosi costumi, sostegno della città, dovevano es[p. 90 modifica]sere l’effetto di buone istituzioni locali, anzi che di leggi promulgate e scritte. In diffetto di migliori documenti possono i matrimoni sanniti dare una bella idea del vigor morale di quegli ordini interiori della patria, che destavano il cuore a emulazione, e che per abito virtuoso, meglio che per severità di magistrati, mantenevano i cittadini ognor disposti a ben fare. Costumavasi in qualche terra del Sannio, ed il costume s’addice bene al regolato vivere antico, che i suoi rettori in certe feste annuali ponessero alla presenza del popolo le azioni de’ giovani ad esame, e quindi eleggessero dieci de’ meglio costumati con altrettante ben allevate donzelle. Colui che reputato era il migliore sceglievasi in isposa tra le giovani elette quella che più gli aggradiva: chi otteneva in secondo luogo i suffragj sceglieva dopo il primo; e così l’uno dopo l’altro i meritevoli. Di tal modo essi ricevevano dalle mani stesse del magistrato e del giudice le loro donne87: la virtù civile era rimeritata degnamente in ciascun individuo: nè mai, al giudizio d’un acuto politico, fu imaginata mercede più grande e più nobile, meno gravosa a un piccolo stato, e più acconcia a influire possentemente sopra ambo i sessi88. L’educazione severa dei Sabini, Sanniti e Lucani, era parimente l’effetto di rigidi istituti, che avremmo oggidì per duro seme di virtù, quantunque cotesti va[p. 91 modifica]lorosissimi popoli non ad altro prezzo si meritassero i chiari elogi, che han perpetuato la fama de’ loro laudati costumi. Altre genti sabelle per l’integrità della vita, e per drittura nella giustizia, s’acquistarono le stesse lodi. Laddove appresso gli Etruschi, degenerati per vita scorretta, sarebbe da commendarsi quel provvedimento per cui il comune (se male non interpetriamo il dire d’un antico per verità maligno) toglieva il carico d’allevare i figliuoli di prole incerta89: della qual cura pubblica poteva esser ragione che costoro, fattisi adulti, solean spesso turbare la pace nelle repubbliche aristocratiche: nè potendo star quieti in casa, come i Partenj a Sparta, necessitava mandarli altrove.

Per tutto questo si comprende che i nostri savi sentivano bene, come la miglior legislazione sia quella dove le leggi sono più conformi a’ costumi del popolo, e per conseguenza più durevoli. Nè diversamente un antico oracolo avvisava doversi colle leggi primieramente cercare, che ben si comandi da una parte, e ben s’ubbidisca dall’altra. La dritta ragione concorreva per ciò ad inculcare in ogni classe l’osservanza degli ordini stabiliti, su cui riposava il gran disegno della pubblica quiete, e della conservazione del comune. Niuna persona inutile poteva aver parte nella cittadinanza. L’istituzione cauta dei collegi delle [p. 92 modifica]arti, che distribuiva i cittadini con debiti riguardi per professioni e mestieri, la quale fu introdotta in Roma ha dovuto essere un antiquato costume dei Sabini, se non ancora d’altri italici, ugualmente indefessi nelle fatiche, e pazientissimi sempre dei legittimi comandamenti de’ magistrati. Col proceder del tempo lo stato morale e civile de’ nostri popoli cangiò nondimeno ogni dove, per dar luogo a maniere e fogge di vita più accomodate al bisogno delle generazioni seguenti: perciocchè altri secoli portaron seco nuove idee, nuove voglie, e nuove leggi ed usanze. Così, per lo spettacolo d’una vita lussureggiante sontuosa e molle, quale vivevano gli Etruschi già tralignati totalmente dalla loro virtuosa stirpe, taluni storici dell’antichità esagerarono fino all’eccesso la licenza tirrena come fece di sicuro il mordace Teopompo90, dando ad intendere, per certo suo disonesto talento di mal dire, che la legge tollerante presso loro sfacciate lussurie metteva le femmine a comune: accusa per se stessa iniqua, ingiuriosa, assurda, e solennemente smentita dalle numerose iscrizioni funerali, in cui si fa espressa menzione del padre e della madre, e si riscontra per molte generazioni la successione certa delle famiglie. Non fu più cauto Timeo91 attribuendo alla nazione intera certa vita intemperante, che poteva esser vizio di privati: e la narrativa stessa che fa Posidonio92 di [p. 93 modifica]tante domestiche superfluità, e di delizie toscane, può essere verace quando a’ suoi giorni era più maggiormente viziato dalla soggezione pubblica il costume degli Etruschi, non mai del tempo antico, in cui essi attendevano faticosamente alla libertà e alla gloria. Or seguitando innanzi a porgere nel presente volume il prospetto dello stato morale e civile degl’Itali antichi, qual può trarsi dalla somma delle notizie che abbiamo, e dai monumenti, fo prego al lettore di por mente tanto a questa indispensabile distinzione dei tempi, quanto all’ordine nuovo degli eventi che interruppero, o cangiarono del tutto l’essere primo delle nazioni, che Roma andava soggettando a se con prepotente imperio.

Note

  1. Vedi Tom. i. p. 32. 34.
  2. Dionys. iii. 32.
  3. Vedi Tom. i. p. 216.
  4. Tom. i. p. 80.
  5. Tom. i. p. 303. 304.
  6. Così nel medio evo era consuetudine tra di noi che i consigli ed i magistrati convenissero per le chiese, prima che in un Palagio.
  7. Principium Etruriae concilium: Principes populorum. Liv. ii. 44. x. 16.; Nepesinorum princeps. Liv. vi. 10. — Così pure nella Sabina. Liv. ii. 16.
  8. Liv. ix. 43
  9. Liv. vi. 33.
  10. Liv. vi. 3.
  11. Si singulos numeremus in singulos, quanta jam reperiatur virorum excellentium multitudo? Quod si aut Italia Latium, aut ejusdem Sabinam aut Volscam gentem, si Samnium, si Etruriam, si magnam illam Graeciam collustrare animos voluerimus. Cicer. de Rep. iii. 3.
  12. Vedi Tom. i. p. 139.
  13. Liv. v. 1.
  14. Censorin. 4.; Serv. ii. 278. Vedi Tom. i. p. 126.
  15. Tusci nono quoque die regem suum salutabant, et de propriis negotiis consulebant. Macrob. Sat. i. 15.
  16. Ex duodecim populis communiter creato rege, singulos singuli populi lictores dederint. Liv. i. 8. Lucumones in tota Tuscia duodecim fuisse manifestum est: ex quibus unus omnibus imperavit. Serv. viii. 475., x. 202.
  17. Liv. i. 8.; Dionys. iii. 61. 62.; Strabo v. p. 152.; Diodor. v. 40.; Plin. ix. 39.; Macrob. Sat. i. 6.; J. Lyd. De magist. p. 13. Queste insegne toscane, usate dai re di Roma, rimasero ai consoli dopo il cacciamento di quelli; eccetto la toga picta adoprata dai soli trionfanti.
  18. Pausan. v. 12.
  19. Claud. Caesar. in orat. ap. Gruter. p. dii.
  20. Ergo omnis furiis surrexit Etruria justis:
    Regem ad supplicium praesenti Marte reposcunt.

    Virgil. viii. 494

  21. Virgil. xi. 535.; Cato ad. Serv. ad. h. l. — Questi casi, che trasse Virgilio dalle memorie prische, possono francamente ammettersi nella storia. Il cortigiano d’Augusto non avrebbe mai dato posto nel suo poema a tali episodj, qualora non fossero stati confermati con divolgate narrazioni.
  22. Liv. v. 1.
  23. Caecinna ap. Senec. Quaest. nat. ii. 49.
  24. Dionys. i. 71.
  25. Primores Etruriae. Claud. Caesar. ap. Tacit. xi. 15.
  26. Vedi Niebuhr T. i. 124-125.; Creuzer, Symbol. v. 2. 3. Di più Malte Brun (Précis de la géogr. T. vi. p. 106) vuol la nazione intera divisa a suo modo nelle caste dei Larti o signori; dei preti; del guerrieri e del popolo. La voce etrusca Lartes, benchè derivativa da Lar, non è stata mai, nell’uso civile, un titolo di preminente qualità significante principe o signore; era bensì un mero pronome virile, o nome individuale usitatissimo, le mille volte ripetuto nelle iscrizioni mortuali, come quello di Arunte, Atto, Aulo ec. Lartia è di donna. Per tutt’altro sistema filologico di già Swinton teneva che Lar valesse quanto summus in lingua fenicia.
  27. Niebuhr T. i. p. 133.
  28. Vedi Tom. i. p. 129.
  29. Vedi Tom. i. p. 33.
  30. Liv. ix. 36., xxiii. 3.; Dionys. ix. 5.
  31. Liv. ii. 16.; Dionys. x. 14.
  32. Che il padronato, quale veniva attribuito a Romolo dalla tradizione romana, fosse un costume italico d’assai più antico, si ricoglie in oltre da Dionisio manifestamente, ii. 9. 10.
  33. Festus v. Rituales.
  34. Varro l. l. iv. 10.
  35. Quia Mantua (Tusco de sanguine vires) tres habuit populi tribus, quae in quaternas curias dividebantur. Serv. x. 201. Vedi Tom. i. p. 132.
  36. Fatto manifesto per le tavole eugubine, in cui si fa menzione frequente di tribù, curie e centurie.
  37. Ηείσας δὲ γένος τὸ Ταρκυνιτῶν δωρεαῖς, καὶ δὲ εκεῖνων ἐπὶ τὴν εκκλησίαν παραχθείς. Dionys. v. 3.
  38. Habeo auctores... seditionibus tantum Aretinorum compositis, et Licinio genere cum plebe in gratiam reducto. Liv. x. 5. arret. plebs e vetvlonensivm plebs vrbana, sono di più rammentate in una stessa lapide. Gruter. p. mxxix. 7.; Murator. T. ii. p. 1094.
  39. Propert. iv. 10. Mostra di più in sul posto la topografia, che il Foro antico occupava una buona parte del sito, dove di poi fu piantata la nuova Vejo.
  40. Liv. v. 1.
  41. Itaque in nostris commentariis scriptum habemus: iove tonante, fvlgvrante, comitia populi habere nefas. Cicer. de Div. ii. 18. Jove Tonante cum populo agi non esse fas quis ignorat? Idem Philip. v. 3.
  42. Licinium genus praepotens. Liv. x. 3. Nelle iscrizioni il gentilizio è , Licinius; , Licinesia.
  43. Liv. iii. 71.; Dionys. xi. 52.
  44. Reggonsi tutte le genti che ci sono intorno per gli ottimati; nè la plebe in alcuna città egualmente delle cose con essi partecipa. Di tal modo l’annalista, da cui Dionisio (vi. 62) trasse il discorso che pone in bocca d’Appio Claudio, facevasi una giustissima idea dell’antico stato delle cose.
  45. Di tal modo A. Cecina di sangue etrusco, e di chiarissimo nome, aveva imparato quelle dottrine dal padre. Cicer. Fam. vi. 6.
  46. Valer. Max. ix. 5. 4. ext.
  47. Meddix apud Oscos nomen magistratus est. Liv. xxix. 19.; Festus s. v. Tuticus addiettivo valeva quanto magnus: onde in parecchie iscrizioni osche abbiamo , Meddix, magistrato del comune: e , Meddix-Tuticus, sommo magistrato. Vedi tav. cxx. 3. l. 2.
  48. Τὸν μὲν οὖν ἄλλον χρόνον, ἐδημοκρατοῦντο ἐν δὲ τοῖς πολέμοις ᾑρεῖτο Βασιλεύς, ὑπὸ τῶν νεμομένων ἀρχάς. Strabo v. p. 175. cf. Liv. x. 18.
  49. . Vedi i Monumenti dell’Italia ec. tav. lviii. 8.9.
  50. Strabo vi. p. 194.
  51. Thucyd. viii. 33.; Pausan. x. 13.
  52. Per gli antichi ordini un Dittatore era il sommo magistrato d’Alba, Tuscolo, Lanuvio, Aricia, Lavinio ec. La qual dignità, quanto è al nome, mantenutasi in vigore nel Lazio fino a’ giorni di Cicerone (pro Milon. 10), si riscontra spesse volte nelle lapidi municipali. Marini, Frat. Arvali p. 224. 258. 417
  53. Cinc. ap. Fest. v. Praetor. Il Dittatore chiamavasi anche Pretore, e tavolta Pretore massimo. Tali erano Lucio Annio da Sentine e Lucio Numizio da Circeo, ambedue pretori in carica nel 415, per cura de’ quali fu adunato in grave frangente il concilio latino. Liv. viii. 3.
  54. Vedi Tom. i. p. 216.
  55. Vedi Tom. i. p. 288. n. 70.
  56. Liv. viii. 39.
  57. Vedi tav. cxxii. 1. 2.
  58. Terrae culturae causa attributa olim particulatim hominibus ut in Etruria Tuscis, in Samnium Sabellis. Varro, in Agemodo, ap. Philarg. Georg. ii. 167.
  59. Scias mare ex aethere remotum. Cum autem Iupiter terram Hetruriae sibi vindicavit etc. Frag. ex lib. Vegojae ap. Rei agr. Auct. legesque variae, p, 258. ed. Goesio.
  60. Num quaedam pars Thusciae limitibus et nominibus ab Etruscorum Aruspicum doctrina, vel nuncupatione designatur. Frontin. ap. Rei agr. Auct. p. 117.
  61. Tu populos, urbesque, et regna ingentia finis:
    Onmis erit sine te litigiosus ager. Ovid. Fast. ii. 566.

  62. Limitum prima origo, sicut Varro descripsit, ad disciplinam Auruspicum noscitur pertinere. Fragm. ap. Rei agr. Auct. p. 215.; Hygin. de Limitib. p. 150. Virgilio, ottimo conoscitore del costume antico, mostra Turno che preso da furore scaglia contro Enea uno di que’ sassi smisurati, xii. 897.

    Saxum antiquum, ingens campo quod forte jacebat,
    Limes agro positus, lites ut discerneret arvis.

  63. Sic. Flacc. ap. Rei agr. Auct. p. 5.
  64. Dionys. iii. 47.
  65. Pater familias uti legassit super pecunia tutelave suae rei, ita ius esto.
  66. Vico Scienza nuova, i. 92.
  67. Quod nuptiarum initio antiqui reges ac sublimes viri in Etruria in conjunctione nuptiali, nova nupta et novus maritus primum porcam immolat. Prisci quoque Latini, et etiam Graeci in Italia idem factitasse videntur. Varro r. r. ii. 4. La porca sacrificata negli sponsali è chiaro simbolo d’addomandata fecondità. Rito ugualmente simbolico era la confarrazione, allusiva al primo cibo dei padri. Plin. xviii. 3.; Dionys. ii. 25.
  68. De Magistr. pop. rom. proem. p. i.
  69. Plutarch. in paral. Num. et Lycurg. Τῶν δὲ Ῥωμαίων δωδεκαετεῖς καὶ νεωτέρας ἐκδιδόντων. p. 310. ed. Reiske.
  70. Ὅταν δέ τις ὀφείλων χρέος μὴ ἀπωδιδῶ, παρακολουθοῦσιν οἱ παῖδες, ἔχοντες κενον θυλάκιον εἰς δυσωπίαν. Heracl. Pont. de Polit. pag. 213.
  71. Ἐὰν δέ τις ἀσώγῳ δανείσας χρέος ἐλεγχθῇ στέρεται αὐτοῦ. Nico Damasc. Histor. p. 273.
  72. Multae, vocabulum non Latinum sed Sabinum esse; idque ad suam memoriam mansisse lingua Samnitium. Varro Rer. hum. ap. Gel. xi. 1.; Multam, Osci dici putant poenam quandam. Festus. s. v. si legge infatti nella grande iscrizione osca di Abella: vocabolo ripetuto nello stesso significato di pena anche nella tavola Lucana di Banzia.
  73. Rituales nominantur Etruscorum libri in quibus prescriptum est, quo ritu condantur urbes, arae, aedes sacrentur, qua sanctitate muri, quo iure portae, quo modo tribus, curiae, centuriae distribuantur, exercitus constituantur, ordinentur, ceteraque ejusmodi ad bellum ac pacem pertinentia, Festus v. Rituales.
  74. Varro ap. Plutarch. Quaest. Rom. 27. conf. Cicer. de Nat. Deor. iii. 40. in fin.
  75. Chi nomina i Falisci dell’Etruria; chi gli Ardeati nei Rutali; chi gli Equicoli: nella qual sentenza concorda Cicerone (de Rep. ii. 17). Al dire di Valerio Massimo gli Equicoli: recitant Sertorem Resium, qui primus jus Feciale instituit. x.
  76. Cotal rito bene dichiarato da Varrone r. r. ii. 4; da Cicerone, de Invent. ii. 30; e da Virgilio, viii. 639; si vede tal quale figurato nelle medaglie osche e sannitiche, per occasione di concordie. Vedi tav. cxv. 15. 19. Livio dà la formola pontificale di imprecazione: ut cum ita Iupiter feriat, quaemadmodum a Fecialibus porcus feriatur. ix. 5.
  77. Nullum enim vinculum ad astringendam fidem jure jurando majores arctius esse voluerunt. Cicer. de Offic. iii. 31.
  78. Ἀριστοτέλης ἐν Τυῤῥηνιῶν νομίμοις. Athen. i 19.
  79. Τυρσενῶν, libro di Teofrasto, citato dallo Scoliaste di Pindaro in Pyth. ii. p. 5o6. ed. Heyne conf. Cicer. de Finib. v. 4.
  80. Il trattato, Περὶ Πολιτειῶν, d’Eraclide è un compendio, o piuttosto un estratto, dell’opera d’Aristotile perduta.
  81. Aristot. ap. Polluc. iv. 56.; et ap. Plutarch. de Cohibenda ira. T. ii. p. 460.
  82. Dionys. ix. 5.
  83. Diodor. v. 40.; Liv. v. 1.
  84. De quo multa soleo in sermonibus quotidianis dicere, cum hominum nostrorum prudentiam caeteris hominibus, et maxime Graecis antepono. De Orat. i. 44.
  85. Quo etiam major vir habendus est, cum illam sapientiam constituendae civitatis duobus prope saeculis ante cognovit, quam eam Graeci natam esse senserunt. De Orat. ii. 47.
  86. Quantus iste est hominum! ac tamen facile patior non esse nos transmarinis, nec importatis artibus eruditos, sed genuinis domesticisque virtutibus. Cicer. de Rep. ii. 15.
  87. Strabo v. p. 173.; Nic. Damasc. ap. Stob. serm. lxii. p. 291.
  88. Montesquieu, Espr. des loix. vii. 16.
  89. Τρέφειν δὲ τoὺς Τυῤῥηνοὺς πάντα τὰ γινόμενα παιδὶα οὐκ εἰδότας ὅτου πατρός ἐστιν ἕκαστον. Theopomp. l. 43. hist. ap. Athen. xii. 3. p. 517.
  90. Ap. Athen. xii. 3.
  91. Ap. Athen. l. c. et Diodor. frag. viii. p. 33.
  92. Ap. Diodor. v. 40, et Athen. iv. 12.