Storia degli antichi popoli italiani/Capitolo II
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CAPO II.
Avanzamento di civiltà, e nuovi ordini
introdotti per mezzo di colonie sacre.
Le più antiche e meno dubbie tradizioni della storia italica ci fan vedere le prime famiglie paesane già stanziate per le montagne. In quel modo che le indigene popolazioni del centro dell’Asia, dell’Affrica e dell’Europa, abitarono primieramente le grandi catene alpine, dove altresì vivevano per sostentamento loro grandissimo numero di animali, e massimamente le specie più acconce a farsi domestiche. Qui d’intorno al nostro selvoso Appennino il mare superiore ed inferiore ritiratosi successivamente dalle falde, come mostrano ancora le sue vestigie, lasciò di luogo in luogo scoperte le colline, e si tenne dopo nei piani più depressi, che rimasero gran tempo palustri. Oltre a ciò i molti fiumi che scaturiscono dalle fonti dell’Alpi e dell’Appennino, non men che i vasti serbatoj rinchiusi tra que’ monti, spandono per tutta la penisola abbondantissima copia d’acque, che ne inondano i luoghi inferiori. Quivi soprattutto i faticosi lavori che han fatto gli uomini per regolare il corso delle acque fluenti, contenere i fiumi, e seccar le lagune poste in sul mare, danno manifestamente a conoscere che le basse contrade furono le ultime abitate. Il suolo stesso che ricopre i larghi piani della Lombardia, della Puglia , e d’altre parti d’Italia, è senz’alcun dubbio un dono delle acque, le quali per natura hanno irresistibil possa in disfare le montagne, trasportandone le spoglie nel fondo delle valli. Or le generazioni dei montanari, allevate in quelle alture, vi si tennero a dimora, infinochè o per crescimento di numero, o per bisogno di alimento, non se ne scesero giù ad occupare nuovo territorio. Dove molto poteva anche la forza; dappoichè popolazioni vaganti, e quasi indomite, s’andavano incalzando secondo fortuna da una in altra parte. L’istoria civile, d’accordo in questo con lo stato fisico del paese, dalle montuose e più alte regioni d’Italia ne mostra in fatti discesi dall’uno e l’altro lato verso i luoghi sottoposti ed il contiguo mare, popoli antichissimi, che han dato esistenza ad altri più moderni1. Così numero di genti nomadi distaccatesi dal ceppo natìo, e posate una volta nell’occupato territorio, quivi si riunirono in altrettanti corpi del medesimo sangue, i cui membri non renunziarono che la minor parte della naturale indipendenza. Tra i quali principalmente dobbiamo numerare le copiose tribù degli Aurunci ed Osci, abitatori dell’alto Appennino, e tronco primario delle razze indigene e paesane. Ma i frequenti casi di guerra, ed altre venture, congiungevano una con un’altra; o cangiavano spesso l’essere di coteste volontarie unioni, finchè rafforzate con legami più civili ebbe ogni popolo sede meno incerta, e si resse ciascuno da per se a stato franco. Da questa accidentale struttura politica che prese Italia fino da remotissimi tempi, coperti agli occhi nostri dal velo mitico dell’antichità primitiva, ha di fatto principio unicamente la vita civile delle genti, ed ogni qualunque memoria dei casi loro. Onde già nella prima luce delle nostre istorie, l’universalità degl’Italiani si ritrova repartita in molte separate nazioni ineguali di nome, di territorio, di numero e di forza; nelle voglie divisi, e spesso concitati l’un contro l’altro da brama di privata ambizione, anzichè di comune vantaggio.
Basta dare uno sguardo alla carta della Italia per convincersi appieno, che non v’ha forse nel globo un paese maggiormente diviso e rotto da tanto numero di fiumi, laghi e montagne. Tutte queste diversità naturali di situazione, di positura e di clima, separando localmente le genti, e fissando ivi le loro stanze con determinati confini, diedero indubitatamente cagione alle prime divisioni e suddivisioni di tutto il popolo, benché in origine derivato da uno stipite comune. Simili cause produssero somiglianti effetti anche nella Grecia, dove, per la disposizione dei luoghi, grandi inegualità del territorio avean occasionata e mantenuta la divisione del corpo politico in un ragguardevol numero di stati indipendenti l’uno dall’altro, e quasi sempre rivali. Assai facilmente gli uomini sono incitati dal forte amore della patria ad ammettere questo ideale de’ limiti e de’ fini. Ma in Italia massimamente per tanti e sì diversi aspetti di paese dalle Alpi al mare, con rapidi fiumi, ampie pianure, alti monti e folte boscaglie, moltiplicandosi quivi le frontiere quasi ad ogni termine naturale, certo è che il popolo vi nutriva con incessanti e gelosi stimoli quel malvagio inganno che rendea come uguale il nome di vicino e di nemico: errore insano, che porta seco di sua natura i semi delle discordie e delle contese, vie più alimentando la folle ambizione dei popoli. Adunque la fisica costituzione delle nostre provincie, e singolarmente le spesse ineguali diramazioni de’ monti, e la tortuosa giacitura delle valli, posero di fatto tra le popolazioni primitive qua e là posate disugualità grande di stato: né mai in alcun tempo elleno poterono accostarsi l’una all’ altra sì fattamente, che al bisogno si ritrovassero di concordia civilmente e gagliardamente unite in un sol corpo di nazione. Anzi, in contrario, perché ognuno difendeva da per se la sua domestica valle, i suoi propri gioghi, ed i suoi colli, tanto insuperabile crebbe negli animi l’affetto morale del luogo natio, che la stirpe degli Equi ed i Sabini, chiusi nelle paterne montagne, avean quasi per istranieri i Volsci ed i Marsi confinanti. Tal si fu sino dall’età prisca il fatal destino di queste contrade. Però, se da un lato immoderate disunioni di popolo han dato alla Italia intera perpetuamente cagione di gravissimi danni, dall’altro le furono anche di laude: poichè per sole nazionali brighe la virtù di emulazione generatasi in molte città e nazioni l’una a l’altra sì vicine, formò ivi stesso tante sedi di gloria, dove i posteri, non sottoposti ad altro imperio che de’ suoi medesimi, trovarono mezzi di ben servire alla patria con altrettanto valor di petto, che gagliardia d’ingegno. Brama generosa, che ha sì largamente rimeritato i figli di quest’antica terra con la sempre durevol vita della fama, in che l’istoria li mentiene.
Or ritornando a traversare un campo quasi deserto, e pieno di difficoltà, donde poter giungere con ragionevoli fondamenti a por meno dubbiamente il piede sopra terreno fermo, dobbiamo intanto riconoscere, che sarebbe affatto impossibile all’istorico indagar la causa della successiva fondazione di nuovi popoli ne’ soli confini dell’Italia, e del fatto singolare per cui cambiavasi sì facilmente il nome, e non la gente che li formava, qualora non si fosse serbata la memoria d’un antichissimo costume originato dalle fiere superstizioni degl’Itali primi, e traccia certissima del già radicato governo teocratico. Vivevano ancora que’ popoli vita nomade: nel quale stato grandissima parte del terreno servendo al pascolare, poca quantità di suolo avanzava loro per attendere all’agricoltura nascente. I mezzi di vivere essendo per tal forma ristretti a pochi scarsi frutti, ed i giudizi del popolo dettati dal solo grande pensiero dell’alimento, qualunque disastro fisico facesse mancare con general sinistro od il bestiame, o la sperata raccolta, era riputato dall’universale massima calamità, dovuta loro giustamente dallo sdegno de’ numi, autori e donatori della messe. Per la necessità di rimuovere siffatti infortunj di carestia e di pestilenza, non men che alle volte i frangenti di rovinose guerre, non valendo all’uopo né preci, né lustrazioni, né sacrifizj solenni, l’atto più meritorio di espiazione consisteva nel dedicare con la volontà di tutta la gente al Dio, cui s’apparteneva per incontrastabil diritto il sommo imperio, tutte quante le cose che nel corso d’una primavera nascessero, non eccettuato né pure i figliuoli allor usciti al mondo2. Invulnerabile e sacro aveasi quest’uso de’ padri soggiogati da religioso terrore; ma fattasi appresso per migliorate sorti men dura la vita, anche l’atroce comandamento venne a purgarsi dell’insanguinata barbarie. Perché, cessato affatto con religioni più temperate e leggi più civili l’abominevol rito delle vittime umane, fu sostituito in quel cambio pubblico voto di mandare cotali fanciulli nell’adolescenza a cercarsi altrove nuova stanza, con la protezione del nume stesso cui erano consacrati. Nel qual modo, sott’ombra di decreto divino, la gioventù ridondante, da chi ne aveva l’autorità, menavasi secondo il bisogno fuori del nido natio, a generazione di popoli futuri. Da un tal costume, che vestì sì fattamente l’indole di secoli rozzi, superstiziosi e guerrieri, ebbe sicuramente principio tra noi la diramazione di frequenti colonie d’uomini paesani, che ora con l’armi, ora coi patti, posero nel mezzo di tribù diverse, ma non mai estranee al loro sangue, i fondamenti di nuove comunità, con gli augurj e la scorta d’alcuno dei membri principalissimi dell’ordine sacerdotale3. Dovunque edificavasi un tempio con novelli altari ed ufficj divini, là intorno si ristringevano le genti; là s’alzavano rustici abituri; s’apriva un mercato; e colà sorgeva o un popol nuovo od una nuova terra. Così per la qualità di tempi, retti universalmente dal sacerdozio, si teneva sacro da tutti il cominciamento di queste colonie4, che propagavano da un lato all’altro le forme, gli ordini, e la tutela d’una medesima istituzione teocratica. Ché tutti a un modo, o più frenati o più giustamente corretti da quella, reputavano ventura l’aggregarsi alle sorti di un popolo bene augurato e caro agli Dei. Per la qual cosa s’intende pure chiaramente, come uno scarso numero d’uomini eletti, impugnate l’armi insuperabili del suo Dio, abbia potuto incorporarsi con altri popoli sciolti che in Italia vivevano; comunicar loro leggi e nome; e col tempo ordire società potenti. Iniziati ne’ misteri religiosi e insieme civili, i conduttori di queste colonie sacrate non potevano di certo dare al nuovo popolo altri istituti, se non quelli, di cui erano essi stessi custodi, regolatori e maestri. Abbiamo da Plinio5 che i Piceni discendevano dai Sabini per voto di una sacra primavera: e per consimil costume dai Sabini provenivano insieme i Sanniti, e da costoro i Lucani6. Tutte nazioni numerosissime e forti costituite con una sola legge, conformi in religione, ed ugualmente governate fin dall’origine per comandamenti e decreti sacerdotali.
Non può quindi dubitarsi che i popoli principali, pertinenti alla gran famiglia degli Italiani, non fossero di buon’ora bastantemente disciplinati, quanto almeno comportava la durezza dell’età; poiché, come prima eglino fan mostra di se nella storia, e in moto di guerra contro gli stranieri, si ritrovano di già ordinati e collegati in numerose compagnie, le quali non avrebbero potuto sussistere senza una certa stabilità di leggi positive, e di vincoli scambievoli, sotto condizioni di giustizia universale e di pubblico vantaggio. Il consenso libero delle tribù congregate dettava le prime norme di quelle civili unioni, sì che ogni uomo vigile e desto alla sua salvezza s’adoperava a ogni bisogno per la conservazione e difesa d’una indipendenza, che stimava il maggior de’ suoi beni. In allora tutti gl’Italiani furono guerrieri. E l’indole loro bellicosa trovava principalmente sua ragione nella vita pastorale ed agricola, la quale forma una maravigliosa preparazione alla guerra. Da per tutto egualmente, secondo consuetudine antica, abitavano le genti alla foggia rustica in villaggi o in casali7: costume buono e convenevolissimo al vivere d’una nazione di lavoratori e di pastori, come si vede a’ nostri tempi in alcuni cantoni degli Svizzeri. Moltissimi di que’ villaggi, per qualità di sito più comodi alla frequentazione dei paesani, crebbero assai naturalmente a stato di terre grosse, che dipoi divennero secondo fortuna castella e vere città, in numero piuttosto incredibile, che maraviglioso: tanto che una volta, dice Eliano, le memorie antiche noveravano tra l’Alpi e il mare fino a mille cento novantasette città8: appellativo usato bensì da quel retore nel senso il più largo. Or tanti luoghi opportunissimi di radunanza e di mercato, l’uno all’altro o per prossimità, o per parentele congiunto, rendevano ogni dì più agevoli le comunicazioni tra popolo e popolo, e più solleciti i progressi della vita civile; ma questo benavventurato incremento profittava maggiormente ai paesi situati o presso a’ fiumi navigabili, o alla riva marittima. Perché, dice ottimamente un economista profondo9, la facilità del trasporto ampliando quivi con moto più spedito la circolazione delle cose è causa potentissima a propagarvi l’industria e la coltura, più che nell’interno paese.
Secondo le memorie meno incerte, le nazioni che conseguirono più prestamente i vantaggi della civiltà, poteano quasi dirsi collocate in un circuito del Mediterraneo. Questo mare, il più vasto dei mari interni, le cui acque di sensibil flusso e riflusso non sono agitate che da temporanei venti, favorì la fanciullezza della nautica con la sua superficie placida, la moltitudine delle sue isole, e la vicinanza delle spiagge opposte, allorché l’uomo senza mezzi da correre a mare aperto andava terra terra, tenendosi con una mano appoggiato al lido. Di tutti i paesi posti alle rive del Mediterraneo l’Egitto, la Fenicia, e le coste dell’Asia minore, sono i principali, di cui possa l’istoria dimostrare con certezza gli avanzamenti nella vita politica. Ma l’Italia mirabilmente collocata quasi nel mezzo di quel mare, bella facilita porgeva a’ suoi di comunicare con ogni parte del mondo antico; di recar seco nella patria quanto ritrovavano di utile o di buono appresso le nazioni più incivilite; e di fare anche uguali prove nell’arte marinaresca. Tale appunto si fu il talento di tutti i popoli che abitavano le contrade littorali. E come vedremo al suo luogo più distintamente, gl’intrepidi navigatori italiani furono ancora tra i primi a correre con le loro navi il Mediterraneo orientale al pari de’ Carj abitanti le Cicladi, e dei Fenici. Mediante questi continuati esercizi navali buona parte delle nostre genti praticando di fuori, sì per le parti dell’oriente, come dell’occidente, e quasi chiamando a se uomini d’ogni paese, poterono di certo accelerare la propria civiltà, introducendo nelle loro patrie salutari istituzioni, dottrine ed arti forestiere: né quindi dovremo più maravigliare nel proseguimento di queste istorie, che la condizione politica e morale delle italiche nazioni più celebrate, di tanto s’accosti a quella d’altri popoli lontani e civili, che quasi quasi direbbonsi ammaestrati insieme ad una medesima scuola.
Noi dobbiamo qui fermarci con queste considerazioni generali, per toccare più da presso la nostra vera meta. Arduo cimento in vero, ma fortemente sostenuto con la seducente lusinga di poter restituire in qualche parte la fama de’ nostri popoli maggiori, ai quali non mancò forse che la penna d’un Tucidide o d’un Livio, per comparire gloriosi nella memoria dei posteri. Se il magistral pennello di Tacito, in cambio di Claudio Augusto, avesse con generoso disegno tolto a vendicare dall’oblivione le azioni degli avi, noi oggi ammireremmo le virtù loro, quanto almeno vantiamo le semplici e virili istituzioni dei Germani. Laddove al contrario l’antica storia italica, già sfigurata dai Greci, e poco o nulla curata dai Romani, non ci pone oggimai sotto gli occhi se non che avanzi mutilati e rovine. Tenteremo con istudio di ritirar la Italia fuori del buio, delle favole, e delle falsità in cui fu immersa; ma prima di raccorre le disperse tavole del naufragio ci convien mostrare ai lettori, come stranamente venissero travisate le nostre istorie naturali, già fin da quel tempo in cui nelle narrazioni greche e romane tutto è ancor favola e poesia. Avremo così una face per condurci, e per distinguere vie meglio ciò, che realmente appartiene alle memorie patrie, da quelle esuberanti finzioni ch’introdussero di mano in mano le boriose leggende degli stranieri, e le inconsiderate vanità dei paesani.
Note
- ↑ Vedi appresso capitolo VIII
- ↑ Ver sacrum
- ↑ Sisenna apud Nonium XII, 18: Dionys. I. 16.; Strabo v. p. 172; Festus, Ver. Sacr. et Mamertin. ex Alfio. Cf. Liv. XXII. 10.
- ↑ Sacranas acies. Festus v. Sacrani.; Sisenna l.c.; Serv. VII. 796. Ardearum volunt, qui aliquando cum pestilentia laborarent, ver sacrum voverunt. - Non diversamente fecero i Vejenti, come darebbe ad intendere una notizia assai sfigurata di Catone ap. Serv. l.c., Hos dicit Cato Vejentum (l. ex. rec. Niebuhr) iuventutem fuisse, oppidumque condidisse auxilio regi Propertii, qui eos Capenam, cum adolevissent, miserat.
- ↑ Hist. Natural. III. 5.
- ↑ Strab. V. p.158, ed. Casaub. 1587
- ↑ Livio, Dionisio e Strabone fanno spesse volte menzione del costume antico di abitare Κωμεδὸν, vicatim.
- ↑ Var. Hist. IX, 16.
- ↑ Smith, Inquiry ec T. I. 3.