Storia degli antichi popoli italiani/Capitolo XV
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CAPO XV.
Lucani e Bruzzi.
Tutto il lato occidentale dell’Italia, cominciando dal fiume Sele insino all’estrema punta della Calabria meridionale, è di sua natura una regione interamente alpestre infra il mare Tirreno e l’Ionio. Oltre l’istmo sopra il golfo di Squillace e quello di Santa Eufemia, sta ivi compresa in forma di penisola l’ultima lingua di terra che termina il continente, divisa per lungo dai monti Appennini, che si perdono al Capo dell’Armi. E questa penisola stessa, le cui piaggie guardano inverso alla Sicilia e al golfo di Taranto, è appunto quello spazio in cui l’antichità poneva l’Enotria, e di poi la primitiva Italia1. Il fiume Lao faceva i suoi termini verso il mar Tirreno: dall’altro lato s’estendeva sino a Metaponto: benchè questi limiti, affatto ideali, cangiassero in diversi tempi, e si trovino ora più, ora meno distesi, a talento degli scrittori. Antioco siracusano, che meglio d’ogni altro aveva studiato nelle cose italiche, e che per la vicinanza conosceva bene questa regione tanto prossima alla Sicilia, dice che abitarono antichissimamente il paese Coni ed Enotri: e Strabone il qual passo passo seguiva in questa parte della sua geografia il figlio di Senofane, ne spiega anche il total concetto, come a noi pare, con queste parole: — prima che i Greci venissero in Italia non v’erano i Lucani; Coni ed Enotri possedevano questi luoghi: ma, da poi che i Sanniti2 n’ebbero cacciato i Coni e gli Enotri condussero in quella regione i Lucani; i Greci tennero l’uno e l’altro lido sino allo stretto3. — Or, chi furono questi primi abitatori Coni ed Enotri, li più antichi di quanti s’avesse notizia? Non certamente Arcadi, come narrava favolosamente Ferecide4: nè Antioco, nè Strabone danno nè pure un cenno di pelasga derivazione: e se Dionisio congetturava a suo senno che dagli Arcadi-Enotri originassero i nostri Aborigeni, in questo ei non fa autorità, nè merita credenza alcuna5. All’opposto per tutte le tradizioni della più alta antichità, si ritrova, che questa regione medesima detta degli Enotri o Itali, veniva chiamata ugualmente Ausonia, e più istoricamenle Opicia, o sia terra degli Osci6. E fuor che Erodoto, il qual differenziando nel solo linguaggio pone l’edificazione d’Elea o Velia nell’Enotria7, abbiamo veduto di sopra che le maggiori e le più antiche colonie greche di questi lidi si riconoscevano fondate in paese ausonio8: nè giova più ripetere, che tanto valeva dire Ausoni, quanto Opici ed Osci. Il nome stesso d’Enotri non era di tema italico come quello d’Itali, Osci, Sabini, Sanniti, Campani, Lucani e Bruzzi: l’usarono i Greci: e per uso di lingua l’adopravano alle volte gli scrittori eruditi, ancor dopo che non v’erano più Enotri, siccome fece Erodoto. Per guisa che, senza punto presumere di sciorre i nodi inestrigabili della controversia, noi portiamo opinione, che sotto il nome di Coni e Enotri sieno da ravvisarsi due tribù di razza osca, attenenti per origine agli altri popolatori indigeni di queste contrade. Tale sembra che fosse anche la sentenza di Varrone9, dov’ei chiama Enotro non già pelasgo, ma re dei Sabini o piuttosto Sabelli, insieme della grande famiglia degli Osci. Li quali, ancorchè spinti tutt’intorno dai Greci venuti di fuori, si raccolsero insieme, e si mantennero vie più fermi nelle loro aspre montagne tanto più difficili a conquistarsi quanto più inospite, e per la salvatichezza dei luogi inaccessibili allo straniere. Per il che sia ne’ tempi favolosi, sia negli storici, furono sempre distinte in queste parti le razze barbare o paesane dalla gente avventizia: nè altri erano i barbari fuor che il popolo originario e nativo delle montagne.
In questa regione meridionale capitarono i Siculi innanzi l’epoca troiana, incalzati di luogo in luogo dall’Italia centrale, e vi dimorarono, fino a tanto che non furono essi stessi scacciati nell’isola insieme coi Morgeti10. Così dunque Coni, Enotri, Siculi, Morgeti e Itali, furono a un modo abitatori dell’Enotria, come scriveva Antioco in forma compendiosa11. Scimno Chio, il quale seguiva principalmente i racconti d’Eforo, chiama gli Enotri un miscuglio di barbari12. E se vuolsi avere per vero che gl’Italioti, o sia li greci d’Italia, appellavano i loro schiavi pelasghi, non ne conseguita che eglino fossero le generazioni stesse degli Enotri ridotti in istato servile13, ma tutt’al più cotesto soprannome di pelasghi poteva essere uno speciale distintivo usato dagl’Italioti medesimi, gente boriosa14, per nota de’ suoi propri servi; in quella guisa che i Lacedemoni chiamavano i loro schiavi iloti, i Macedoni penesti, gli Argivi ginnesii, i Sicioni corinefori, i Chii teraponti, ed altri altramente, secondo che riferisce l’abbreviatore di Stefano15. La particolare nominazione di Conia era propria d’un distretto sopra la baia di Taranto, presso al luogo dove fu edificata Sibari16: di qui s’avanzava oltre in terra ferma, e se la città del nome stesso di Conia sedeva veramente vicino a Crotone17, il suo territorio si sarebbe disteso non poco anche più sotto. Non diamo peso alla notizia raccolta dall’autore dell’Etimologico circa la derivazione egizia del nome dei Coni, ma ella è tanto singolare che merita, non che altro, d’essere notata18. D’assai maggiore importanza si è il racconto d’Antioco intorno agl’Itali19, che ripete Aristotile20. Perciocchè per la sola narrativa del fatto ben si comprende, di qual maniera i rozzi costumi della gente fossero a poco a poco ripuliti mediante il natural progresso della vita pastorale ed agricola, che diede alla loro discendenza uno stato civile. Italo potente re dell’Enotria, e ivi stesso nato, ebbe il merito d’aver operata questa salutare mutazione ne’ suoi popoli colla virtù delle leggi imposte loro, e principalmente l’ordine dei sodalizj, o del cibarsi in comune21: instituzione di cui ha tutto vanto Italia per proprietà di tempo, benchè dipoi si ritrovi ammessa anche nel costume di Creta e di Sparta, quasi come scuola di temperanza, d’amistà e cordiale benevolenza. Nel nome d’Italia, che per Italo prese l’ultimo tratto della penisola, si sarebbe perpetuata la memoria del datore della legge: ma siffatte etimologie, ricevute dagli antichi con soverchia credulità, e per loro stessi anche controverse, non sono da riceversi gran fatto come prove istoriche. È più tosto credibile, che Italo fosse un personaggio mitologico: ancorchè non sia da muovere dubbio che gl’incoli s’avanzassero in vita migliore per la saviezza d’alcun prudente del paese. Ed ecco il perchè le genti in taluni cantoni, ivi ritenevano ancora al tempo d’Aristotile antichissime leggi, e l’ordine stesso del ritrovarsi a mangiare insieme22.
Erano i Lucani un popolo di razza sabella, che ad esempio de’ padri suoi s’inoltrò in queste parti meridionali dalle sedi che avean tolte per se gl’Irpini. Notabile contrassegno della natura loro agreste e del costume, si è di più questo fatto, che quantunque approssimatisi di tanto al mare eglino si tennero soltanto per le più alte montagne e vallate, non facendo conto, come uomini montanari, delle sottoposte marine. Colà dunque fermatasi la colonia sabella, e raccolte intorno a se altre genti paesane, Coni o Enotri che si fossero, vi diedero vera origine alla nazione dei Lucani: così nominati, come dicevasi, da un Lucio loro conduttore23; benchè ciò esser possa un trovato di secoli posteriori. In ogni modo però è cosa certa, che i Lucani pervennero a grande stato, dappoichè di luogo in luogo occuparono l’interno paese fino all’ultimo confine d’Italia. Ed una mirabile qualità delle colonie sacre italiche o sabelle, per cui elle s’andavano di tal modo propagando lontanamente, e di per tutto crescendo ugualmente prosperavano, si era pur questa, che il popolo alieno veniva fatto compagno e non servo, sotto custodia del nume protettore. Quindi non si legge mai che accadessero nè tra i Sabini, nè i Volsci, nè i Sanniti rivoluzioni interne di moltitudine sollevatasi, come avvenne frequentemente in Grecia degl’Iloti e dei Penesti: e se i Bruzzi soltanto si distaccarono dai Lucani, nel modo che ora diremo, vi furono incitati dalla perfidia greca. Lo stabilimento dei Lucani in queste parti estreme successe a quello dei loro confratelli nel Sannio, e debba aversi per molto antico: nè ad abbassare l’epoca della venuta loro al terzo secolo può farsi fondamento nella circostanza che fiorendo Sibari, o quando Micito edificò Pisso nell’anno 280 non potevano esistere in que’ luoghi Lucani24: perciocchè i Sibariti, al pari di tutti gli altri Italioti, non avean dominio per le montagne; e la piaggia dove Micito condusse in suolo lucano la sua colonia reggiana, o era inabitata allora per l’insalubrità del sito, o lasciatavi senza cultura dai paesani25. Non tennero i Lucani possessioni stabili per le marine prima che conquistassero Posidonia sopra i Greci, con altre città loro al mare. Però questi acquisti renderono più noto al mondo il nome di quel popolo: tanto che l’autore del periplo, che va sotto nome di Scilace, pone le citta greche marittime da Posidonia sino a Turio nella spiaggia lucana26.
I Lucani si mostrarono in ogni tempo infestissimi ai Greci: sostennero contro di loro guerre ostinatissime, e in una di queste, oppugnando Turio, posero in campo trentamila fanti e quattromila cavalli27. Vinse la forza dell’animo il valor greco e l’arte; sicchè recuperando il perduto, e soggettando di mano in mano gli stranieri, vendicarono in costoro i Lucani le antiche offese. Ma non acerbità sola di vendetta dava incitamento alle spade lucane: le ambiziose mire de’ tiranni di Siracusa, e massimamente di Dionisio il vecchio, teneano svegliate le passioni dei nostrali; e, come insegna acutamente la scuola del dominare, non eravi mezzo indegno ch’ei non adoperasse per buono, tutte volte che potea venirne alcun pro alla tirannide. Di tal modo s’introdussero più che mai nel comune intero dei Lucani, provocati da Dionisio, umori guerrieri, discordie, e domestiche contenzioni, per le quali finalmente ebbe luogo circa l’anno 398 la grande sollevazione dei Bruzzi. Erano dessi la porzione più alpestre dei Lucani, che abitavano per li scoscesi monti della Calabria citeriore: cioè quel gruppo di montagne che anche oggidì chiamasi la Sila: alto piano di forse a 60 miglia di lunghezza da Cosenza fin presso a Catanzaro: boschivo molto, copioso di buone pasture, d’aere freddo e gelato, ma tuttavia popolatissimo28. Or di quivi uscirono i Bruzzi già numerosi e gagliardi. Strabone li chiama pastori29: ed i Lucani stessi posero loro questo nome di Bruzzi, che sonava nell’idioma quanto disertori o ribelli30: non però schiavi. E quantunque in realtà sì fatto appellativo fosse una nota di spregio, pure i baldanzosi ribelli l’accettarono per proprio cognome, e così divenne durabilmente quello della nazione31. Non altrimenti il nome degli Svizzeri, udito la prima volta nella più antica guerra mossa dai confederati contro Zurigo, si vuol che fosse dato a vilipendio dei guerreggianti, o de’ principali di Svitto, benchè poscia quel nome restasse comune a tutti i membri della lega. Secondò al pari fortuna l’impresa dei pastori Bruzzi, e quindi sortì loro di conseguire libertà, indipendenza, e proprio stato politico: in guisa che la Lucania antica d’allora innanzi si trovò civilmente e geograficamente divisa in due separate nazioni, Lucani e Bruzzi, laddove prima ne formavano una sola. Ma i Bruzzi non furono da per se nulla meno nimici a’ Greci de’ Lucani stessi: anzi, più di loro feroci, posero le principali repubbliche, e Taranto maggiore di tutte, in tali urgentissimi pericoli, che a sua salvezza furono chiamati in Italia da quella l’un dopo l’altro tre monarchi greci colla stessa mala ventura; Archidamo, Alessandro il Molosso, e Cleonimo.
La discendenza dei Lucani e Bruzzi dai popoli italici delle montagne vien confermata coll’uso della lingua osca materna: e se i Bruzzi sono chiamati bilingui perchè usavano anche favella greca, ciò successe soltanto per l’opportunità di conversare e praticare cogli Elleni, dopo specialmente che s’erano fatti signori d’Ipponio, Terina, Temesa ed altre citta di ragione dei Greci. Nè fa specie se le medaglie stesse dei Bruzzi, coniate in questi tempi, mostrano arte e leggenda greca: perchè d’uomini greci si valevano a suo pro i padroni: laddove i miseri Elleni andavano perdendo di giorno in giorno ogni bella usanza natìa, in quella forma che Aristosseno deplora la sorte dei Posidoniati32. Nulla di meno, anche in mezzo a un popolo sì gentile, Lucani e Bruzzi conservarono senza alterazione gli abiti ed il costume de’ forti. Lo sperimentarono i Romani per lunghe e ripetute guerre: a tanto le patrie istituzioni e leggi, corroborate da massime fisicamente e politicamente stabilite, aveano impresso nelle generazioni di que’ prodi un alto e virile carattere, che ben può addur maraviglia alla delicatezza del nostro secolo. La gagliardia ed il valore della persona, reputati anticamente vera forza e decoro degli stati, erano per coloro lo scopo fondamentale degli ordini legislativi, mediante quell’arte, a noi sconosciuta, di formare i corpi robusti al pari degli animi. Esagerava tuttavia Trogo, o Giustino con la sua snervata rettorica guasta il racconto, dando a credere che i figliuoli de’ Lucani, messi fuori delle case paterne, s’allevavano in tra le selve a cacciare e saettare, con tutti gli stenti e disagi di durissima vita silvestre33. Pure l’affetto della patria, passione sempre bella benchè rade volto moderata, aveva prodotto una razza d’uomini che parve superasse le forze istesse della natura: e sì l’educazione, come le leggi, fortificavano que’ coraggiosi sentimenti ponendo l’ozio vile e la mollezza tra i capitali delitti34. La natura stessa delle dimore alpine poteva grandemente nel loro carattere morale. Le montagne delle Calabrie son oggidì, come in allora, l’albergo degli orsi35 e delle fiere: e qui sotto il grosso vestiario, le inculte maniere e gli aspri suoni dei pastori calabresi, tu trovi insieme a gagliardia rozza onestà, e quelle maniere ospitali, che rendean benevoli i Calabri antichi ed i Lucani: ma, sono ancora in bocca loro tremende e sublimi, a chi l’udì, le frasi della minaccia o dell’impeto nella vendetta; come assai più che in colta favella sono possenti le sclamazioni della donna calabrese facente il tribolo, in quel modo che le loro avole cantavano le nenie. Nè i moderni Calabresi, forti d’imaginativa quanto i padri loro, son meno seguaci a chi più accesamente gl’instiga. Tanta asprezza di vita, quale traevano i Lucani ed i Bruzzi, non toglieva però dai loro animi le affezioni più generose e umane che reggono la volontà nelle azioni morali: sì veramente, che per qualità naturate ne acquistaron nominanza di giusti e liberali36. Chè, se schietta virtù è di tal forma in apparenza scabra o poco amena, grande poi è l’utilità che ne deriva dal duro e amaro suo seme.
Quando scriveva Strabone queste regioni meridionali, da lui stesso visitate, erano talmente guaste e disfatte per ripetute calamità di guerra, che non era più possibile distinguere i luoghi, nè le dimore dei popoli vetusti: poichè nessuna di quelle genti, che altre volle faceva un corpo, ed avea il governo di se stessa, non conservava più nè l’uso della lingua, nè i vestimenti, nè l’armature, nè alcun altro suo proprio costume: ed oggidì, soggiunge il geografo, le abitazioni loro son fatte oscure ed ignobili37. In Lucania si trovano bensì nominate come piccole città dell’interno Potenza, Nerulo, Aprusto, Grumento e Calasarna, il cui sito e nome si rinviene in quello di monte Calaserna: altri comuni men noti come Atino, Vulci38, e Abella cognominata de’ Marsi39, mostrano nel loro nome osco grande appartenenza allo stipite paterno, se pure essi non erano rami di più antiche genti, qua respinte oltre per la violenza dei grandi commovimenti di guerra, che già posero in moto quasi ogni popolazione prisca dal centro al mezzodì dell’Italia40. Banzia41, Sanzia42 ed alcune altre terre lucane dell’interno43, sono in oltre mentovate nella tavola trovata in Oppido, la quale stabiliva certe multe, e le contribuzioni annuali che le anzidette comunità dovean dare d’obbligo ciascuna per adoperarle nel convito pubblico, o in altre sagre municipali44. Ne’ Bruzzi s’avea per città principale Cosenza sopra la gran selva Sila, chiamata anche oggigiorno Selva della pece: indi Ursento, Numistrone e poche altre. Più importanza ebbe Mamerto, sede dei Mamertini: popolo armigero del sangue osco, che avea tolto il suo nome da quel di Mamers o Marte45; che vuol dire dalla forza.
Si reggevano i Lucani, non meno che i Bruzzi, a stato libero: in guerra eleggevansi un capo46, che al comando militare univa il governo civile. Ciascuna città aveva in oltre sue proprie leggi e propri rettori chiamati Meddix e Praefucus, secondo che portava il loro ufizio: titoli di maggiore e minore dignità, che i magistrati conservarono ancor sotto il dominio romano, come mostra la mentovata tavola di Banzia dettata in un dialetto particolare di Lucania, benchè scritta in caratteri latini47. Monumento raro che di più ne dà a conoscere in qual modo, circa l’anno 600, la materna lingua osca avesse già preso in queste parti tale sintassi, che partecipa ugualmente del greco, del latino e dell’osco. Se tuttavolta la cultura greca s’introdusse quivi in qualche parte, e se talun uomo lucano intese veramente ad erudirsi, come si dice, nella filosofia pitagorica, il corpo della nazione rimase però sempre, simile a’ progenitori suoi, un popolo di pastori e d’addurati guerrieri. Poichè tutta Lucania e Bruzzia regione lautissima per la pastura48 abbondava d’ogni qualità bestiame e di nobili lane49: dovizie eterne, che natura non cessa di concedere liberalmente a queste fortunate contrade.
Note
- ↑ Vedi p. 60.
- ↑ Cioè a dire i Sabelli. Vedi sopra p. 257.
- ↑ Strabo vi. p. 175.
- ↑ Ap. Dionys. i. 13. Vedi p. 84
- ↑ Dionys. 1. 13.
- ↑ Vedi p. 62.
- ↑ Herodot. i. 167.
- ↑ Vedi p. 164. Ugualmente Plinio parlando con specialità della Magna Grecia dice: Ausones tenuere primi, iii. 10.
- ↑ Ap. Serv. i. 532.
- ↑ Vedi p. 70.
- ↑ Ap. Strab. vi. 176. et Dionys. i. 12.
- ↑ Scymn. v. 199.
- ↑ Niebhur, T. i. p. 28.
- ↑ Hesych. et Suid. v. Ἰταλιῶτες.
- ↑ Steph. Byz. v. Χίος.; Eusthat. ad Perieg. 535.
- ↑ Strabo xiv. p. 450.
- ↑ Strabo vi. p. 175.
- ↑ Etym. magn. v. Χῶνες: gentem Italicam a Χονε; idest ab Hercule, quam Aegypti sua lingua sic vocantur.
- ↑ Ap. Dionys. i. 35.
- ↑ De rep. vii. 10.
- ↑ Συσσίτια: dai Cretesi chiamati Ἀνδρεῖα.
- ↑ Aristot. l. c.
- ↑ Plin. iii. 5.; Fest. v. Mamertini.
- ↑ Niebhur, T. i. p. 94
- ↑ Vedi p. 167.
- ↑ Scylax p. 10.
- ↑ Diodor. xiv. 100.
- ↑ Brocchi, Osserv. naturali fatte sulla montagna della Sila ec.
- ↑ vi. p. 176.
- ↑ Fuggiaschi (δραπέται), e secondo Strabone ribelli (ἀποστάται). Diodor. xvi. 15.; Strabo l. c.
- ↑ Brutales dice Ennio ap. Festo v. Bilingues. I romanzieri greci davano loro per fondatore un tal Brezio, figliuolo d’Ercole: allegoria manifesta della forza. Steph. v. Βρέττος.; Eusthat. ad Perieg. 362.
- ↑ Aristoxen. ap. Athen. xiv. 7. p. 632.
- ↑ Justin. xxiii. 1.
- ↑ Nic. Damasc. ap. Stob. serm. 42. p. 291.
- ↑ Lucanus ursus. Martial. de spectac. ep. 8. et Ovid. in Halieut. V. 57.
- ↑ Λευκανὸι φιλόξενοι καὶ δίκαιοι. Heracl. Pont. de Polit. p. 213.; Aelian. Var. hist. iv. 1.
- ↑ Strabo vi. p. 175.
- ↑ Volscentes. Liv. xxvii. 15.; Volcentani. Plin. iii. ii. vvlcetanae civitatis. Gruter. pag. 209. 2.
- ↑ Plin. iii. 11.
- ↑ Vedi p. 69. e sqq.
- ↑ bansae.
- ↑ sansae.
- ↑ valaemos tovticos; una di quelle.
- ↑ V. Rosini, Dissert. isagog.; Guarini, Comment. v. de tabula Oppidensis Lucanorum. p. 113
- ↑ Fest. v. Mamers.
- ↑ Strabo. vi. p. 175.
- ↑ meddis: med, dixud: meddixud: più volte; e praefucus: Praefectus. Guarini. l. c. in tabul. Oppid. Lexic.
- ↑ Lucana pascua. Horat. Epod. i. 28. et Calpurn. Eclog. ult. v. 17. omnia Lucanae donet pecuaria silvae.
- ↑ Nobiles pecuariae in Brutiis habentur. Varro r. r. ii. 1.