Storia degli antichi popoli italiani/Capitolo XXIII

Capitolo XXIII.
Filosofia politica, divina e naturale degli Etruschi

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Capitolo XXIII.
Filosofia politica, divina e naturale degli Etruschi
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CAPO XXIII.


Filosofia politica, divina e naturale
degli Etruschi.


Abbiam mostrato innanzi per quali mezzi uomini di potente ingegno diedero opera a migliorare la vita civile comunicando al popolo idee, ordini e arti usuali, di cui egli potesse più evidentemente sentire l’utilità vera, pronta, grande ed efficace. I beni dell’agricoltura crescente; leggi più umane; religioni più mansuete e immuni da sangue, tolsero via le rozze o prave consuetudini d’una vita inculta, introducendo nella società dritti stabili e vicendevoli doveri. L’educazione religiosa e morale delle genti si ritrovava di tal modo convenevolmente accordata col costume. Ma educate soltanto a udire comandamenti prudenti, ed a venerare tutta la legge, l’istituzione politica dell’età consentiva loro poco più che uno stato ingenuo, ed una vita sicura e protetta. In tutto il resto soggette all’ordine dominante sacerdotale, teneasi questi in mano il total governo delle umane cose e divine. Regolatori dell’importantissimo ufficio d’ammaestrare l’umanità, i soli membri di quell’ordine dettavano alle genti maravigliate gli oracoli dell’esperienza, e di grande accortezza di senno. Essi governavano le nazioni quasi come l’anima governa il corpo: nè v’ha dubbio alcuno che per la sapienza loro non progredisse il po[p. 169 modifica]polo a sana civiltà, molto tempo innanzi che i maestri non s’abusassero, sott’ombra di religione, del loro sacro ministerio. Questo gran corpo di primati, custodi dapprima d’ogni dottrina, si rinviene ugualmente, come dicemmo1, per conformità d’istituzione tra Indiani, Caldei, Egizj, ed altri popoli numerosi, qual unico e fermo fondamento di civiltà nel mondo antico. Per comunicazione d’idee morali, e per cure di sapienti, certissimo è che questo medesimo instituto penetrò del pari in Italia, e massimamente in Etruria, fino dalla sua prima costituzione politica: vi si mantenne lungo tempo pieno di vigore qual ordine vitale dello stato: nè vi cessava alla fine se non per intera mutazione di cose e di governo. Il qual fatto, sì fecondo di conseguenze istoriche, vuolsi ora da me tanto più fermamente sostenere, quanto più dubbiamente, benchè in un punto di felice ispirazione, io posi avanti la prima volta questa medesima opinione dell’esistenza permanente d’un ordine sacerdotale etrusco, molto conforme al sistema stabilito in Oriente ed in Egitto2: opinione oramai consentita, e maturamente abbracciata dai maestri odierni della critica istorica. Nè sieno di poco sussidio a questo vero anco i monumenti nazionali, che di nuovo porgo in mostra al lettore, quale argomento e testimonio certo dei costumi3. [p. 170 modifica]

Il grande scopo d’ogni civile o religiosa corporazione è il potere: ed un potere stabilmente fondato in sulla umana credulità trae seco ogni altra sorte di dominio. Insegnatori del popolo i membri dell’ordine primario ebbero costantemente in mira due importantissimi oggetti: l’uno d’ampliare e conservare in pro loro le cognizioni scientifiche dell’età: l’altro di usar destramente la scienza per reggere, giusta un prescritto fine, l’universal società. Depositarj insieme della legge, della religione e del sapere, adoperavano essi cautamente l’antico linguaggio allegorico, proprietà d’ogni popolare insegnamento: avevano per se una dottrina segreta: e quali interpetri nati del voler divino potean soli svolgere e dichiarare i testi sacri, in cui stavansi riposte tutte le promesse celesti rivelate dagli stessi dei. I preti si tenea che comprendessero ciò, ch’era inintelligibile al popolo: le loro parole sacre erano incomprensibili a un intelletto volgare: e in quella guisa che il sacerdozio discendeva di padre in figlio, e stava affisso ad un casato, così pure le teorie scientifiche, e l’esercizio di talune arti, passavano per dritto ereditario d’una in altra generazione, senza che mai la profana gente fosse abile a penetrarne il celato artifizio. Così fermamente in Etruria certe salutevoli arti per l’umana specie, e certi arcani, s’appartenevano ad alcune distinte prosapie4: così la medicina tra i Marsi era uno special ministe[p. 171 modifica]rio de’ sacerdoti5. E non dubbiamente per tutt’altrove ogni qualunque segreto di scienze od arti profane trovavasi ugualmente conceduto a benefizio d’altre schiatte, i cui antenati si diceva aver avuto una qualche ascosa comunicazione od attenenza colle nature divine. In allora i preti furono anche i primi filosofi, perchè la conoscenza della natura e della divinità stavano tra se indivise: opinando que’ savi, ed insegnando alle genti, trovarsi la ragione immediata d’ogni fenomeno fisico o morale nella sola divinità. Argomento potentissimo della mente per vigor del quale, non distinguendosi più i confini tra le cose divine e le umane, tutto lo scibile per linea ascendente divenne teologia, poichè sopra fondamenti divini parve onninamente appoggiarsi.

L’umana generazione, vaga di sapere, prova molto naturalmente il bisogno d’investigare gli arcani della sua propria origine, della creazione del mondo, dell’ordine cosmico, de’ poteri di natura; in somma, ella vorrebbe conoscere la scienza intera dell’universo. E questa universale ansietà di penetrare sì ardui problemi si mostra evidente per le teorie cosmogoniche che stanno in fronte ad ogni più vetusta mitologia: perciocchè in prima tutta l’antichità rivestiva a un modo la scienza sotto figura di favole. È cosa indubitabile che in Etruria cotali teorie si conformavano assai coll’orientale, ma più specialmente [p. 172 modifica]coll’egizia teosofia. Nè ciò poteva non manifestarsi altrimenti: dacchè i sacerdoti etruschi con pari sagacità avevano ristretto in un solo sistema filosofico tutto quel che appresero di tempo in tempo ne’ santuari, e nelle scuole straniere, dove frequentavano i savi. Or dunque i loro maestri in divinità ponevano qual prima causa un sommo ente innominabile d’infinita potenza, principe e massimo iddio, sovrano creatore, custode e rettore dell’universo6. Erasi questa per esso loro la suprema intelligenza demiurgica, il principio attivo, da cui emanava la materia primordiale, o il principio passivo: entrambi anima universale del mondo. Quindi è che i sacerdoti dicean convenirsi ugualmente a questa prima causa l’essere di fato, di provvidenza, di natura e di mondo: concetto filosoficamente compendiato in quella loro sentenza, che tutto ciò si vede fosse iddio, disseminato intero nelle sue parti, a se medesimo sufficiente, e alto a sostenersi per la sua propria forza7. Questo primo domma d’una sola e unica sostanza infinitamente modificata nell’universo; o altrimenti, che il mondo era dio; si trova alla volta non pure insegnato per le dottrine degli Indiani8, ma sì ancora nelle altre scuole orientali ed egizie. Quivi, dov’ebbe origine, presso che univer[p. 173 modifica]salmente soprastava ad ogni altro il famoso sistema emanativo; vero panteismo per cui tanto il mondo sensibile o materiale, quanto il mondo degli spiriti, han l’essere da uno stesso principio divino. Uguali argomenti della metafisica speculativa furono comuni a moltissime sette di filosofanti: trasportati in Occidente, per comunicazione di scienza tra i sapienti, posero radice anche in Etruria, e v’ebbero comune il seggio, nè fa maraviglia di certo se la dottrina etrusca, come dicono gli storici della filosofia, s’addice in alcuni particolari colla pitagorica, mentre veggiamo la dottrina stessa dei Bramini conformarsi moltissimo con quella degli stoici9. Il principio emanativo conduceva, qual naturalissima conseguenza, alla dottrina del dualismo, tendente a spiegare l’introduzione del male fisico e del male morale nel mondo: la cui espressione simbolica, toccata di sopra, formava un punto di gran rilievo nella religione degli Etruschi, molto acconciamente appropriato dai preti alla mitologia; e quindi all’interpretazione del modo col quale gli dei, mediante il ministerio de’ buoni e mali genj, reggevano il mondo10. Così pure l’esposizione simbolica d’una cosmogonia religiosa rendeva ragione della genesi del mondo, della sua durata, e della sua fine. Un etrusco scrittore anonimo, citato da Suida11, [p. 174 modifica]divolgava avere il Demiurgo, od il sovrano fattore, impiegato sei mila anni nella creazione di tutte le cose mondiali: nel primo millenario il cielo e la terra: nel secondo il firmamento: e nel terzo il mare e l’acque: nel quinto gli animali volatili, terrestri ed acquatici: nel sesto l’uomo: le quali cose avea il creatore ordinate in altrettanti spazi chiamati case12. Altri sei mila anni dovea comprendere l’età destinata alla durata del genere umano: in guisa tale che dodici millenari interi occupavano il corso prefisso alle create cose. Questa cosmogonia degli Etruschi, sì evidentemente formata sopra pure tradizioni orientali, si ritrova a un di presso anche nella credenza degl’Indiani e degli antichi Persiani: il cui Boundhesch, compendio di cosmogonia tratto da scritture più antiche, porta in fatti, che il mondo debbe finire dopo dodici mila anni trascorsi13. Però, non una sola volta dovean generarsi dal supremo ente, unico creatore, le cose universali e l’uomo, ma rinnovarsi più volte in certi determinati periodi. Niuna opinione ebbe forse maggior grido nell’antichità, quanto il concetto della totale sovversione e del risorgimento della razza umana. Le scuole dell’Asia, dell’Egitto e della Grecia stessa ripetevano in mille guise la dottrina maravigliosa delle periodiche rinnovellazioni del [p. 175 modifica]mondo. Lo stesso domma, che qui abbreviamo, passò del pari in Etruria, e vi divenne uno de’ più gravi argomenti della scienza teologica divinatrice. Poichè dicevano gli aruspici doversi rinnovare otto generazioni d’uomini di vita e di costumi diversi: che ciascuna mutazione era stata decretata da dio in uno spazio di tempo definito secondo il circolo dell’anno magno: in fine che il passaggio d’una in altra età novella si manifestava all’universale con segni, presagi, e miracoli grandissimi, nunzianti total rivoluzione di stato e di costumi14. Qual si fosse il ciclo dell’anno magno toscano è stato più volte investigato dagli eruditi con più di zelo e dottrina, che buon frutto15. Forse i sacerdoti contemplavano il periodo astronomico del ritorno di tutti i pianeti al medesimo punto del zodiaco16: o piuttosto essi stessi non s’allontanavano molto dall’ipotesi del ciclo canicolare egizio, detto pure anno magno, o anno divino, e [p. 176 modifica]riputato ugualmente un’epoca di lieta ristaurazione e d’abbondanza. In ogni modo però la scienza positiva veramente si conciliava anche in qnesto colle mistiche speculazioni dei teologanti17.

Il più forte vincolo che possano avere insieme religione e morale, si è per certo l’idea d’uno stato futuro di premio o di pena. A questo domma fondamentale si riferivano le dottrine etrusche contemplate ne’ libri acherontici18: sacro testo il quale conteneva non tanto la liturgia funebre, quanto i fati dell’anima, il suo mistico viaggio per le dimore tenebrose, e ogni altro conforto alla vita e allo stato di quella dopo morte. Questi giudizi degl’inferni, necessariamente collegati con la credenza universale della immortalità dell’anima, erano talmente presenti al pensiero, che per tutto il corso di questa vita terrena non cessavano d’occupare la mente de’ mortali. Ed in qual modo i savi accordassero la filosofia teologica e psicologica colla favola circa uno stato futuro, si conosce apertamente per moltissimi monumenti sepolcrali etruschi di tutte l’età, e sempre allusivi a questa credenza stessa di premi e di castighi eterni. In [p. 177 modifica]questi monumenti si veggono molto variamente figurate le anime degli estinti, ora sotto la forma di certi uccelli, come tra gli Egizj19, ora sotto fattezze umane, guidate nella regione inferiore dal genio buono e dal malo20: se pure dessi non assistevano anche all’estremo giudizio che là giù si faceva dinanzi al trono de’ giudici infernali: sì che per giusta ponderazione delle azioni dovessero le anime trascorrere lo stabilito corso di loro purgazione, secondochè insegnava la dottrina egizia dell’Amenti, seguita in grandissima parte dai sacerdoti d’Etruria. E se quei genj stessi, conduttori delle anime, appaiono effigiati ne’ monumenti etruschi ora di sesso maschile, ora femineo, ciò si vede ugualmente negli egizj21: simbolica espressione in tutti del comune dualismo22. L’evocazione dell’ombre, ovvero immagini delle anime, faceva parte della mistica psicologia etrusca23: però gli scaltri sacerdoti, maestri in negromanzia, che dimoravano colà presso l’Averno nella Campania, era[p. 178 modifica]no, a quel che pare, una stirpe greca, anzichè tirrenica24.

La più studiata parte bensì delle filosofie sacerdotali stavasi riposta nella dottrina occulta, e ne’ misteri: elleno non erano accessibili fuorichè agli iniziati: ma di queste arcane dottrine più vetuste i preti stessi perderono indi appresso la chiave, o le cangiarono e sfigurarono più tosto con nuove ed arbitrarie interpretazioni. Non tutti i ministri del sacerdozio, erano istruiti ugualmente dei dommi segreti. I più degni per la stirpe, o per la loro intelligenza, custodivano in se la scienza più misteriosa. Al contrario i preti di grado minore non ne conoscevano che la sola superficie, o poco più che la parte simbolica e mitologica per riguardo alla religione popolare. Tal era l’ordine egizio25: tale l’istituto de’ Pitagorici, grandi imitatori di qualunque usanze misteriose della sapienza antica; e non diverso si può ragionevolmente presumere anche il costume etrusco. Non altro che collegi di sacerdoti dovean essere le scuole di Faleria e di Cere, mentovate da Livio26, a comodo di patrizia educazione: e simili scuole, dove andava primieramente ad erudirsi l’ingenua gioventù romana, tenevano l’altre più principali citta dell’Etruria per [p. 179 modifica]conformità d’istituti. Ma, sì per le dure sorti della nazione, sì per il cangiato costume, la dottrina etrusca primitiva non era più la stessa già nel quinto o sesto secolo; anzi, atteso massimamente la decadenza del sacerdozio, di mano in mano ella s’andava alterando, quanto almeno per le medesime cagioni si trasformava o cangiava, come vedemmo di sopra, la mitologia. Rara in prima era la scrittura: il sapere di pochi: quindi è che per mostrare al popolo imperito il compiuto corso dell’anno civile, soleva il magistrato configgere il chiodo annale nelle pareti del tempio della dea Norzia in Volsinio27; o sia la Fortuna arbitra ella stessa del tempo. Il qual uso volgare d’adoperare i chiodi per segni numerali serbavasi di consuetudine fra la gente di contado nei primi secoli di Roma28.

Or, quantunque non possa studiarsi la prima filosofia degli Etruschi che in pochi o alterati documenti, pure ottimamente si conosce, che in tutto la scienza loro speculativa ebbe un senso grave, morale, filosofico, divinatorio e simbolico29. Nè con manco [p. 180 modifica]forza gli studi insieme della natura fisica davano buon fondamento alla loro venerata sapienza30. Siccome gli Egizj tenean tutto il corpo della loro filosofia, e delle sacre dottrine, nei quarantadue libri d’Ermete, o del loro Thoth31, così gli Etruschi le comprendevano tutte negli insegnamenti dettati da Tagete. Maraviglioso fanciullo, dotato di sapienza senile, ei reca seco dalle viscere della terra, unitamente col dono della divinazione, tutto quanto, a dir breve, rivelavano di divino e d’umano le scuole sacerdotali dell’Etruria32. Era desso l’intelligenza personificata: ed i suoi orali precetti, indi trasportati nella scrittura, mai non cessarono d’avere in qualunque tempo per la nazione intera la divina autorità delle sacre carte33. Quanta fosse in fatti l’utilità loro al buon governo, e quanta la prudenza de’ savi, si palesa manifestamente a vedere in nome del sovrano maestro Tagete profondamente inculcati, per decreto immutabile del Fato, i più sani precetti della morale col retto adempimento de’ doveri umani34. Non altrimenti [p. 181 modifica]l’aruspicina era per accortissimo magistero regolatrice di tutte le oneste opinioni35: poichè, secondo i principi religiosi dell’etica, qualunque grande avversità annunziava una colpa, e portava seco la necessita dell’espiazione. La dottrina fulgurale sopra tutto non sol conteneva sotto gli arcani della divinazione la scienza fisica dell’età, ma più apertamente tendeva nella pratica alla salute pubblica. Siffatta dottrina era cosa tutta italiana: più specialmente propria degli insegnatori etruschi rivelata loro da Tagete36. Notarono già gli antichi quanto la costituzione fisica dell’Italia, posta fra due mari, la renda convenevolissima alla generazione de’ fulmini, e quanto di fatto vi sieno più che altrove frequenti37. Il portentoso ripetuto balenare delle folgori, meglio che altro fenomeno alcuno, dovette porgere all’uomo l’idea d’una potenza superiore, occupante la vasta estensione dei cieli, e la cui voce era il tuono. Ma gli Etruschi più sagacemente, riducendo questa teorica divina in un’arte [p. 182 modifica]pratica, crearono per lungo studio la scienza fulgurale, avente tutt’insieme scopo religioso, politico e morale. Tanto direttamente per vigor di quella eglino miravano a tener viva l’idea d’un ente supremo giusto e imparziale discernitore degli atti umani, pronto a sostenere l’innocenza ed a reprimere la colpa mediante un celeste gastigo, da cui i più potenti non avessero mai facoltà di sottrarsi, nè di reclamare38. Quindi la sapienza divinatrice discerneva i pronostici tratti dai fulmini in pubblici e in privati: distingueva e separava in moltissime specie tutte le saette: dava loro nomi tecnici di senso per lo più simbolico, come fulmini regali, consiglieri, d’autorità, di stato: e in ogni cosa l’arte, ora sotto faccia teologica, ora scientifica o fisica, si mostrava mai sempre concorde col costume39. Investigazione delle folgori; interpetrazione; espiazione; formavano tutta la scienza. La prima parte concerneva alla forma; cioè alla natura stessa del fulmine, e allo stadio degli effetti che potean condurre alla fisica e vera cognizione di quello: riguardava la seconda alla divinazione: la terza alla propiziazione, o al pacificamento degli dei. Nè abbisogna d’altro a ben comprederne quale immensa latitudine e qual possanza civile avesse l’arte nelle mani de’ suoi propri maestri, d’ogni tempo moderatori del po[p. 183 modifica]polo. E dove, al dir di loro, certi fulmini, chiamati d’autorità, minacciavano il vivere libero, altri presagi favorevoli lo difendevano40: nè mai Giove stesso vibrava di colassù fulmini distruttori se non col parere degli altri grandi iddii. Sublime concetto, il qual tendeva ad insegnare ai regi moderare la suprema autorità; a implorare il consiglio de’ savi; ed a ben imprimere e scolpire nell’animo, che lo stesso nume sovrano non ha da per se intendimento bastante onde percuotere mortalmente41. Altre qualità di fulmini secondochè saettavano luogo consacrato o pubblico, le mura, le statue divine, o pur quelle di benemeriti cittadini, annunziavano alla repubblica civili procelle, rie ambizioni, soprastanti pericoli42; mali tutti che i libri Fatali insegnavano potersi all’uopo rimuovere dalla città, o dalle case de’ privati, in un certo spazio di tempo definito dal destino43. Un diario del tuono, compilato dai sacerdoti sotto il nome di Tagete, in cui erano antiveduti presso che universalmente i casi [p. 184 modifica]naturali, civili, domestici, famigliari, che potevano di fatto fisicamente o fortuitamente accadere nel corso dell’anno, dava tutti i possibili pronostici di beni e di mali44: mentre che ad accrescere e vie più confermare l’autorità di sì tanti presagi, gravemente riferiva la storia alcuni grandi avvenimenti che sonosi trovati conformi alle predizioni degli aruspici45. Così nell’animo de’ timorosi più maggiormente si fortificava il domma non poter derivare all’uomo bene veruno, nè lume di sapienza, fuorchè dall’investigabil profondo della sola divinità46. In secoli ancora pieni di religione questo gran domma etrusco era la voce dei savi; ma di troppo ne abusava la classe insegnatrice e dominante: perciocchè in volgendo a suo senno i timori della moltitudine, quasi rinascenti capi dell’idra, ella tirava pur sempre a reprimere, anche per distorte vie, la libertà dello spirito, sorgente d’ogni ragionevole e generoso sentimento.

I preti etruschi, come i pontefici romani, simili in [p. 185 modifica]questo ai preti egizj47, e ad ogni altro collegio sacerdotale dell’antica età, davano grande attenzione ai fenomeni più notabili che apparivano ne’ cieli o in terra, ed erano anche obbligati per proprio ufficio tenerne registro ne’ loro annali, e trasmetterne la memoria. Qnest’uso, qualunque ne fosse la prima intenzione, doveva all’ultimo formare un corpo assai copioso di notizie positive. Nè potevasi di certo fare alla lunga una tal serie d’osservazioni fisiche senza paragonarle in tra loro, nè senza avvertire tampoco quale fenomeno si fosse più meno frequente e corrispondente ad un altro: mezzi per cui, anche a difetto di teoriche, s’otteneva all’uopo una considerata e vera conoscenza del corso della natura. Di tal maniera i libri etruschi, siccome narra Cicerone, venivano ampliati e accresciuti di continuo per giornaliere osservazioni riguardanti alla fisica generale e particolare48. Nel considerare alle meteore, ed agli effetti de’ fenomeni atmosferici per rispetto all’economia vivente della natura, badavano diligentemente i maestri tanto al corso del sole, che alle lunazioni49. Abbiamo una [p. 186 modifica]efemeride annuale compilata da Claudio Tosco secondo i libri sacri degli Etruschi50, in cui si veggono notate la levata e il tramonto delle stelle, con opportune indicazioni di metereologia per tutto l’anno: sorta di diario locale che i preti con mescolanza di scienza e d’indovinamento distendevano ad uso del popolo; se piuttosto que’ diarj stessi non s’esponevano in vista per maggiore pubblicità nei tempj. Così nel por mente agli effetti della elettricità atmosferica conobbero bene gli scienziati qual differenza passi tra i fenomeni della elettricità ascendente e discendente, poichè dalle loro investigazioni venne la giusta sentenza, che i fulmini si generassero non tanto nelle nubi, quanto in terra, e quindi si sospingessero di basso in alto51. Il cangiamento dei colori prodotto dal fulmine ne’ corpi per esso colpiti52, dimostra pure quanto fossero attenti in considerare le proprietà del fluido elettrico: sì che non fa maraviglia, che i divi[p. 187 modifica]natori s’attribuissero anche la facoltà di poter far discendere a voglia loro le folgori dal cielo. Negli annali etruschi, dettati è vero dai sacerdoti, si narrava, benchè con mistura di favola, essersi ciò praticato felicemente, e per ben pubblico, dai Volsiniesi53. Ma questo vanto tendeva evidentemente a superstizione, anzichè a scienza fisica. E la leggenda stessa, che Numa avesse imparato da Fauno, o da Pico, le congiurazioni necessarie onde costringere Giove a manifestare il modo di tirare in terra le folgori, ha dovuto essere una favola d’origine etrusca54. Non ostante ciò vuolsi tenere qualche conto d’una opinione sì universalmente radicata nell’antichità, e mantenutasi viva per tanti secoli fino ai bassi tempi de’ Goti: essendo vero che durante il primo assedio di Roma55, Pompejano, prefetto della città, presupponeva egli stesso che i divinatori etruschi avrebbono potuto trar per forza le saette dalle nuvole, e vibrare contro il campo de’ barbari quelle celesti fiamme56.

La medicina considerata qual cosa sacra data all’uomo per rivelazione, e affidata nella pratica ai soli preti, era parimente uno dei grandi arcani del sacerdozio. Anzi un potentissimo sussidio del governo teo[p. 188 modifica]cratico. Perciocchè tutta l’arte apparentemente stava ne’ mezzi di placare gl’iddii col ministerio de’ suoi prediletti. Usavano gli Etruschi ne’ casi più gravi di fieri malori una sorte di ludi scenici57, singolarmente accetti alle loro deità salutari: le quali, per precetto, volean guadagnarsi con servigj graditi58. I sacerdoti Marsi si valevano di carmi e parole magiche, parte essenzialissima della medicina curativa: sanavano le ferite con canti sonniferi ed erbe de’ loro monti59; nè diversamente, mischiando la teurgia coll’empirismo, solean tutti i medicanti curare le malattie volgari60. Però non senza circospetta osservazione de’ fatti cercavano i più sagaci sacerdoti il miglioramento progressivo dell’arte salutare. Per istudio della natura nella vita vegetabile seppero gli Etruschi attamente conoscere la virtù curativa di molte piante del loro suolo, e manipolarne que’ farmachi eletti, per la cui efficacia essi furono tanto celebrati al mondo61. Abbonda la Toscana d’acque virtuose: nè di queste conobbero meno i nostri antichi le proprietà medicinali, presidio di sanità. E buon ar[p. 189 modifica]gomento della molta cura ch’ei si davano per la scoperta e l’uso delle fonti, si è l’ufficio sacro dell’aquilege toscano, che le raccoglieva per utilità del pubblico62. Massimamente poi mediante il frequente tagliare degli animali, e le perpetue osservazioni che faceano gli aruspici delle interiora, dovevano puranco volgersi allo studio dell’anatomia. E che di fatto gli Etruschi fossero in quella molto bene ammaestrati si vede manifesto pe’ lavori toscanici dell’arte del disegno, dove apparisce sì grande sfarzo di parti anatomiche; massime nelle figure d’ogni qualità animali63. Dice Plinio in oltre che ne’ libri dell’etrusca disciplina vedevansi dipinte certe specie d’uccelli pur allora incognite a tutt’altri64: fors’era questa una ornitologia sacra: animali simbolici, più che naturali.

L’astronomia de’ Caldei e degli Egizj era ben lungi dalle teoriche d’una scienza perfezionata, come si è creduto, specialmente per le ipotesi di romanzo d’alcuni moderni scrittori. Ella mostravasi piuttosto, dice il migliore istorico, una scienza in culla65. La levata [p. 190 modifica]o il tramontare degli astri; poche altre disgiunte osservazioni dei corsi stellari; e la conoscenza di que’ soli periodi che dovunque è il frutto di lunghe e ordinarie inspezioni del cielo, componevano tutta l’astronomia de’ primi tempi. I Greci stessi, al tempo d’Omero, pochissimo conoscevano l’astronomia: i nomi di alquante stelle ch’essi sapevano unicamente non denotano scienza. Esiodo non sa nulla del zodiaco. Il che solo basterebbe a dimostrare quanto vanamente si ricerchi per taluni la ragione della loro prima mitologia simbolica in un sistema teorico d’astronomia. L’anno accomodato al corso lunare era generalmente noto agl’Itali più antichi: l’usarono gli Ernici, gli Equi, i Latini prischi66: ed i primi Romani l’adottarono coll’ordine medesimo delle stagioni, e co’ nomi stessi de’ mesi per avanti usati nel Lazio67. Tuttavia gli Etruschi, in comunicazione diretta con popoli più civili, ebbero di buon’ora l’anno solare: e vorremmo quasi affermare per cosa certa, che il bell’ordine dell’anno solare colle sue intercalazioni attribuito a Numa, insegnatore sacerdotale, sia stato l’ordine stesso usitato in Etruria. Secondo quel sistema dell’anno, e delle sue proprie divisioni, ciascun mese portava un nome distinto68: idi chiamavano essi, con [p. 191 modifica]vocabolo tosco, il giorno che parte in due ciascun mese69: ogni dì seguente il periodo settimanale chiamavasi le none70: e il giorno civile v’incominciava dall’ora sesta, cioè a dire dal mezzodì, dove che i Romani lo principiavano a mezzanotte71: uso propriamente etrusco, che passò tal quale agli Umbri72. L’anno magno toscano, comechè non possa dirsi qual fosse il suo periodo numerico, fa bensì conoscere, che l’astronomia degli Etruschi s’uniformava molto alle ipotesi degli Egizj. All’opposto i preti Marsi davano alle costellazioni ordine e nomi diversi a quelli della sfera egizia73. I numeri erano per gli Etruschi cosa di gran rilievo sì nell’ordine religioso, sì nel civile: il numero settenario s’applicava per esso loro alla durata della vita umana74: dodici pare che fosse [p. 192 modifica]il numero mistico dell’Etruria75: dieci numero perfetto, il fatale76: quello stesso dei secoli promessi alla durata del popolo. Tal è parimente la progressione numerica delle loro cifre, che veggonsi scolpite ne’ monumenti nazionali, massimamente per segnare gli anni della vita77. E noi stessi, senza saperlo, adoperiamo tuttodì le medesime cifre etrusche sotto il nome volgare di numeri romani.

I gravi studi erano temperati dalle facoltà dell’imaginativa, e dalla cultura d’arti più dilettevoli e più liete. Il gusto dell’armonia, sì naturale all’uomo, produsse fra tutti i popoli l’espressivo linguaggio della poesia. Versi sacri, eroici, pastorali, furono i primi tentativi della fantasia, la quale provava le sue forze per mezzo di vivaci e liberi improvvisi. Tali a quel che sembra, possono dirsi tra noi gli antichissimi carmi de’ Fauni e de’ Vati; le cantilene osche; e l’aspro o [p. 193 modifica]incolto saturnio, specie d’iambico irregolare, senz’altro legge che un certo numero sonoro adattato al canto78. Questa prima maniera di verseggiare, o ritmica poesia, inspirata dall’entusiasmo della passione, e invigorita da forti e ardite figure, si conservava lungo tempo ne’ carrai divoti, e ne’ rustici e guerrieri79; se bene l’arte, ordinando quei vaganti numeri con armonico metro, desse norma a più maestrevole poesia. Il canto alterno fescennino, così detto da Fescennia etrusca città80, avea modi e concetti festevoli, quanto liberi81. Propizie deità agl’itali vati erano le ninfe Camene82, molto prima che la moda del grecismo l’avesse trasformate nelle muse, figlie di Giove e di Mnemosine. Esse soltanto inspiravano nella prisca età quelle laudi o canzoni colle quali s’esaltava la bontà degli dei, s’eccitava il coraggio de’ valenti colla menzione de’ prodi, e si perpetuavano i gloriosi fatti della patria. Catone nelle Origini, rapportando il costume antico fattosi romano, dava contezza di quei carmi, [p. 194 modifica]che a celebrare la fama dei benemeriti cittadini si cantavano stando a mensa ne’ solenni conviti83. Varrone fa menzione di tragedie tosche d’un tale Volunnio84: elle han dovuto essere composizioni dell’età in cui s’era di già introdotto il costume greco nel romano teatro; e lo persuade ancora la qualità di certe figurine sceniche trovate in Etruria, del tutto simili all’uso latino85. Per lo contrario le favole atellane danno una più giusta idea delle prime composizioni teatrali degli Osci usate nella Campania86. Questo genere di farse burlesche, dove i costumi e gli affetti veggonsi esposti con quella caricatura e naturalezza che son presso al popolo, abbondava per certo di scherzi, equivoci, e motti arguti, in cui lo spirito ha pur sempre il piacere di indovinare87: usava modi e personaggi propriamente oschi: cioè il [p. 195 modifica]faceto Macco e Bacco: e sì per festevole intreccio, sì per concetti satirici, e sì anche per acute o liberali parole, d’ogni tempo le scene atellane serbarono il nativo sapore. Tanto che non fa specie se, gustate e gradite molto dal popolo, furono accettissime in Roma ancor dopo l’introduzione di migliori drammi88: prima recitate in favella osca; indi scritte alla latina89.

La musica, di cui l’efficacia fa sì grande nella prima civile istituzione delle genti, tenne parimente in Etruria forza grandissima sul cuore e sulla ragione. Come arte ausiliaria della religione interveniva in tutte le feste, ne’ giuochi, e negli spettacoli a onor degl’iddii celesti: qual moderatrice de’ costumi s’usava nelle case de’ privati: e in guerra si animavano per essa i valorosi al conflitto. Diverse qualità istrumenti da fiato diconsi vera invenzione degli Etruschi: nominatamente il corno ritorto, e le tibie o trombe dette con proprietà tirrene90. Queste in fatti si ritrovano [p. 196 modifica]sculte in moltitudine di monumenti nazionali: variatissime di numero, di specie e di forma, elle erano fatte di metallo91, di bosso92, d’avorio93: i trombettieri si chiamavano Subuli con voce tosca94: e la perizia loro nella musica sacra o liturgica95 era sì grande, che gli stessi Romani si valevano ognora di quelli. S’udiva il flauto nei tempj, ne’ giuochi, ne’ conviti96, e ne’ suffragj a’ defunti97, acciocchè si tenesse ciascuno con raccoglimento nei termini della pietà o della moderazione: però non soltanto i dolci suoni de’ flauti generavano o meste o soavi armonie; le cetre, le lire, si veggono pure spesse volte figurate ne’ monumenti dell’arte98, ed in certe pitture di Tarquinia si ritrova altresì effigiato un istrumento musicale a due corde, molto simile al colascione99: figura [p. 197 modifica]frequentissimamente ripetuta, qual ordinario segno geroglifico, in ogni maniera di monumenti egizj100.

Abbiamo per l’innanzi ricordate più volte le storie etrusche, che si leggevano ancora al tempo di Varrone, dettate nell’ottavo secolo dell’era toscana101. Questi secoli, co’ quali segnavansi l’epoche maggiori, non erano già secoli civili, ma naturali, secondochè prescrivevano i libri sacri102: cioè a dire, che si misuravano con la vita del cittadino che più viveva. Da ciò si comprende che i sacerdoti tenevano ne’ loro tempj un esatto registro di tutti i nuovi nati: tutti i morti s’iscrivevano in quello di Libitina, o d’alcun’altra deità sacra agli estinti. I libri sacerdotali più antichi erano scritti in tela di lino103: volumi guardati con gran cura in ogni tempo quali documenti di religione, non solo in Etruria, in Sannio e negli Ernici104, ma dovunque. Non possiamo dire di qual sorta fossero i libri che Pompeo, padre del grande, aveva tolto per se nelle spoglie d’Ascoli al tempo della guerra sociale, di che venne accusato in giudizio105. [p. 198 modifica] Pure libri siffatti o religiosi, o storici che si fossero, dovean ritrovarsi a un modo per tutt’altre città italiane; nè di certo Catone può avere tratto i materiali delle sue celebrate Origini106 fuorchè da scritture nazionali: massime in quel tempo che l’antiche lingue erano vive, ed i popoli, ancorachè sommessi, erano pur sempre di costume Etruschi, Volsci e Sanniti.

L’Etruria ebbe così certamente una letteratura sua propria anteriore a quella di Roma. O piuttosto, come ripete Cicerone, l’Italia aveva uso inveterato di lettere e discipline innanzi che fosse Romolo107. Filosofia, nel senso greco della parola, o sia libera speculazione intorno l’uomo, la natura e la provvidenza, era sconosciuta affatto in Etruria. Dove, al contrario, lo spirito inceppato dal domma sacerdotale non poteva franco avanzarsi alla pienezza dell’umana ragione. Ma tal era, e non altra, la condizione universale della umanità nel vecchio mondo. Gl’Italiani da se non facevano che una parte della grande famiglia civile, camminavano insieme cogli altri verso uno stesso fine. Egli era per propagare e conservare agli uomini certi beni sociali, certi imprescrittibili diritti, certe li[p. 199 modifica]bertà acquistate, certe altre sicurezze, certe virtù, che quest’ordine medesimo di cose ci fu proprio e domestico. Anzi la patria nostra contribuì non poco ella stessa ad aggiungere qualcosa di suo fondo108 alla massa comune del tesoro umano. Sicuramente l’Etruria fu la sorgente delle migliori istituzioni politiche e religiose di Roma. Tutt’ora, nel quinto secolo, la nobile gioventù romana s’ammaestrava unicamente nelle lettere etrusche, come di poi costumava erudirsi nelle greche109. E quando alla fine tutta la letteratura latina prese faccia ellenica, nè pure cessarono le discipline etrusche d’essere coltivate e prezzate dai savi. Col nome di etruschi filosofi troviamo rammentati Tutilio, Aquila, Musonio, Umbricio, Cecina, Cornelio Tosco l’istorico, ed altri moltissimi110: i quali serbarono e mantennero lungo tempo in onore l’antica, benchè poco più curata sapienza. Così ancora Seneca, a malgrado del secolo sì guasto, rende egli stesso grato encomio ad Attalo, suo maestro, perch’ei sapeva mischiare col ragionamento sottile dei Greci la solida scienza degli Etruschi111.


Note

  1. Vedi sopra p. 61. 62.
  2. V. L’Italia avanti il dom. dei Romani. T. ii. c. 28. p. 183 sqq. ed. 1810.
  3. Vedi tav. xiv. sqq.
  4. Vedi sopra p. 76. n. 45.
  5. Vedi Tom. i. p. 251.
  6. V. sopra p. 101.
  7. Ipse enim est, quod vides, totus suis partibus inditus, et se sustinens vi sua. Senec. Quæst. nat. ii. 45.
  8. V. Bhagavata Gita, id est, Θεσπέσιον Μέλος. cap. ix. xi, ed. Schlegel.
  9. Robertson, Disquis. on ancient India. append. p. 336.; Tiedemann, System der stoisch philosoph. part. ii. p. 28-87.
  10. Vedi sopra p. 115.
  11. v. Τυῤῥηνία.
  12. Per la dottrina degl’Indiani Crichna, il supremo ente, creò il mondo in tante Kalpa, cioè formazioni delle cose. Bhagavata Gita. cap. ix.
  13. Anquetil, Zendavesta. T. ii. p. 354.
  14. Espone Plutarco, per occasione d’un prodigio successo al tempo di Silla, questa dottrina degli Etruschi, secondo ciò, che ne dicevano gli aruspici stessi dell’Etruria. E similmente Dione Cassio (in excerpt. Vat. T. ii. pag. 548), copiato da Suida v. Σύλλας. I rituali etruschi facevano pure menzione di miracoli indicanti nuove età. Censorin. 17.
  15. Bruckero, Freret, Canovai, Lampredi, Orioli, e non pochi altri.
  16. Cicerone nell’Ortensio esponeva forse la dottrina etrusca, dicendovi ritornare l’anno magno colla medesima positura del cielo e delle stelle ogni 12954 anni. Auct. de caussis corr. eloq. 16.; Serv. i. 269.; Cicer. in Somn. Scip. 15.
  17. Mabsham, Can. chron. Ægypt. p. 309.; Larcher, Mem. sur le Phoenix ec. Hist. et Mém. de l’Institut. T. i. p. 270-287: e più diffusamente nella seconda parte. Ma dice bene quest’ultimo: l’anno magno come l’intendevano i teologi egizj, etruschi ec. non ha mai avuto luogo, nè l’avrà se non forse alla consumazione dei secoli.
  18. Sacra Acherontia. Serv. viii. 398.; Arnob. ii. p. 87.
  19. Vedi tav. lvii. 1.
  20. Vedi tav. lxv. civ.
  21. De Hammer. Mines de l’Orient. Tom. iv.; Belzoni, tav. 3. e p. 240. 245. 386. 388. 394. traduz. francese.
  22. Vedi sopra p. 117. Così nella mitologia degl’Indiani si hanno diverse generazioni di Dévata: demoni masculini e feminei. Ward, Account of the Indoos.; Wilson, Sanscrit dictionary.
  23. Καὶ Τυῤῥηνῶν νεκυομαντεῖαι σκότῳ παραδιδὸθων. Clem. Alex. Cohort. ad gent. T. ii. p. 11.
  24. Cicer. Tuscul. 16.; Diodor. iv. 22.; Maxim. Tyr. diss. 16, conf. Plutarch. De his qui sero a num. pun. T. ii. p. 560.
  25. Clem. Alex. Stromat. v. p. 670.; Diodor. i. 88.
  26. Liv. v. 27. ix., 36. Altrove sono ricordate altre scuole in Tuscolo. vi. 25.
  27. Cincius Alim. ap. Liv. vii. 3. Clavum, quia rarae per ea tempora literae erant, notam numeri annorum fuisse ferunt.Festus, v. Clavus annalis.
  28. Petron. Satyr. 135.
  29. Idque allegoriis lege sacrorum velatum fuit: ncque enim dilucide rerum divinarum disciplina propter profanos, sed modo fabulis, modo parabolis, involuta traditur, J. Lydus de Ostentis. p. 13.
  30. Γρὰμματὰ τε καὶ φυσιολογίαν καὶ θεολογίαν ἐξεπόνησαν ἐπὶ πλεῖον, καὶ τὰ περὶ τὴν κεραυνοσκοπίαν μάλιστα πάντων ἀνθρώπων ἐξειργάσαντο. Diodor. v. 40
  31. Clem. Alex. Stromat. vi. p. 633.
  32. Vedi sopra p. 137. 138.
  33. Tagaetica praecepta sono venerati quanto gli orfici ed i trismegistici. Conf. Placid. Lutat. ad Stat. Theb. iv. 516.; Arnob. ii. p. 92.
  34. Est enim in libro qui inscribitur Terrae ruris Etruriae scriptum vocibus Tagae: eum, qui genus a perjuriis duceret, fato extorrem et profugum esse debere. Serv. i. 2.
  35. Eccone un esempio: habent Etrusci libri certa nomina: Deteriores, Repulsos hos appellant, quorum et mentes, et res sunt perditae, longeque a communi salute disjunctae. Cicer. de Harusp. resp. 25.
  36. Arnob. ii. p. 92.
  37. In Italia quam creberrima. De Fulgurali disciplina vet. comm. ap. Lyd. de Ostentis. p. 168. In Toscana, per tacere d’altri esempi, oltre a un gran numero di fulmini caduti nel 1823-1824 sopra edifizj, s’ebbe notizia che in poco più d’un mese perderono la vita colpiti da saette dieci individui della specie umana, e molti animali bruti. V. Antologia, T. xv. p. 249.
  38. Senec. Quaest. nat. ii. 42.
  39. Senec. ibid. 33-50: dove coll’autorità di Cecina, scrittore tosco, espone per intero la teologia fulgurale. Conf. Plin. ii. 52.
  40. Tarquitius, ex ostent. Tusco, ap. Macrob. Sat. iii. 7.
  41. Discant hoc ij, quicumque magnam potentiam inter homines adepti sunt, sine consilio nec fulmen quidem mitti: advocent, considerent multorum sententias, piacita temperent, et hoc sibi proponant, ubi aliquid percuti debet, ne Jovi quidem suum satis esse consilium. Senec. ibid. 43.; Festus. v. Manubiae.; Gracchus ap. eumd. v. Peremptalia.
  42. J. Lyd. de Ostentis. p. 176-186.
  43. Prorogativa fulmina davano il presagio: quelli concernenti al pubblico non estendevano il loro effetto oltre a trent’anni: gli altri; concernenti agl’individui, dieci anni. Vedi sopra p. 141.
  44. Diarium Tonitruale (particolare di Roma) juxta lunam, secundum P. Nigidium Figulum, ex scriptis Tagetis. ap. Lyd. p. 100-154. Tonitruale, ex scriptis Fonteii. Fragm. idem p. 156 sqq. Altri pronostici davano i terremoti, idem pag. 186-200 ex Vicellio e Tagae carminibus.
  45. Liv. xxv. 26.; Sallust. Iug. 63.; Tacit. Hist. i. 27.; Svet. Caes. 81, Galb. 19.; Dio. xliv. 18.
  46. Nam cum omnia ad Deum referant, in ea sunt opinione tamquam non quia facta sunt significent, sed quia significatura sunt, fiant. Senec. Quaest. nat. ii. 45.
  47. Plat. in Tim. p. 1043.; Strab. xvii. p. 543.
  48. Etruria autem de caelo tacta scientissime animadvertit.... quodque propter aeris crassitudinem de caelo apud eos multa fiebant, et quod ob eandem causam multa inusitata; partim e caelo, alia ex terra oriebantur, quaedam etiam ex hominum pecudumve conceptu et satu, ostentorum exercitatissimi interpretes extiterunt. De Divin. i. 41. 42. Di libri toscani pertinenti a cose naturali fa menzione Plinio. ii. 83.
  49. J. Lyd. de Ostentis. p. 90. 164. 174. 176
  50. Diarium totius anni, sive notatio ortus atque occasum siderum coelestium, e scriptis Claudii Tusci: e sacris Etruscorum. ap. Lyd. ibid. p. 202-256. Il qual Diario si riconosce compilato di diversi calendarj: come quello che abbiamo in Columella lib. xi; se pure non tengono ambedue dalla medesima fonte.
  51. Caecinna ap. Senec. Quaest. nat. ii. 49.; Plin. 52.
  52. Caecinna ibid. 41. Una saetta fece cangiar colore alle vesti d’un ritratto di Probo imperatore: consultali da’ suoi discendenti gli aruspici annunziarono che ciò era presagio di futuri onori: non senza buona mercede agli indovini, com’è di ragione. Vopisc. Prob. p. 242.
  53. Plin. ii. 53: tradit L. Piso gravis aucthor.
  54. Plutarch. Numa.; Varro l. l. v.; Ovid. Fast. iii. 327 sqq.; Plin. ii. 53.
  55. An. 408 dell’era volgare.
  56. Zosim. v. p. 355. Γερατικοὺς: chiama quel pagano i libri etruschi fulgurali.
  57. Liv. vii. 2.
  58. Vedi sopra p. 148.
  59. Vedi Tom. i. p. 251.
  60. Cato r. r. 160.; Plin. xxviii. 2.
  61. Theoprast. Hist. plant. ix. 15: dove egli cita il seguente verso d’un poema elegiaco d’Eschilo.

    Τυῤῥηνῶν γενεὰν φαρμακόποιον ἔθνος.

    Martian. Capell. vi. Etruria regio... remediorum origine celebrata.

  62. Aquilex Tuscus: Labeo, in libris de etrusca disciplina, ap. Fulg. Planc. 4.; Varro ap. Nonium. ii. 8.; Fest. v. Aquaelicium et Manalis. L’ufficio primitivo degli aquilices (qui aquam eliciunt) degenerò di poi in una vera ciurmeria: continuatasi fino a’ nostri giorni col magico nome di bacchetta divinatoria; o più eruditamente elettricità minerale.
  63. Vedi tav. xlii.
  64. Sunt praeterea complura genera depicta in Etrusca disciplina, sed ulli non visa. x. 15.
  65. Delambre. Hist. de l’Astronom. ancienne. T. i. p. 13.
  66. Censorin. 20. 22. conf. Fasti Praenestini, cum comm. Foggini.
  67. Varro ap. Censorin. 22.
  68. Nel vocabolario di Papia, grammatico dell’xi secolo; si hanno i nomi di parecchi mesi etruschi, benchè travestiti con tutt’altra ortografia: Amphiles (maggio), Aclus (giugno), Traneus (luglio), Ermius (agosto), Caelius (settembre), Xofer (ottobre), Velitanus (marzo): quest’ultima voce è la sola che serbi sua radice propriamente etrusca. Vedi Tom. i. p. 149. n. 167.
  69. Varro l. l. v. 4.; Macrob. Sat. i. 15. Uso anche dei Sabini.
  70. Macrob. l. c.
  71. Varro ap. Macrob. i. 3. et Gell. iii. 2.; Plin. ii. 77.; Censorin. 23.
  72. Serv. vi. 535.
  73. Ophiuchus: decimae tertiae partis Capricorni facit Marsos. Jul. Firmic. in Sphaera Barbaric. viii. 15. Il Dragone non era cognito, né mentovato nell’astronomia degli Egizj. Achil. Tatius ad Phaenom. Arati P. ult.
  74. Varro ex libris Fatalibus ap. Censorin. 14. — Qui numerus rerum omnium fere nodus est. Cicer. in Somn. Scip. ap. Macrob. 6.
  75. Dodici città: dodici dei: dodici millenarj ec. Vedi sopra p. 102. 174.
  76. Dieci: trent’anni. Vedi sopra p. 141. Dicean i teologi che il numero dieci, duplicato del cinque numero ordinativo, era l’immagine della causa eterna che regge l’universo. Plutarch. de inscript. ei. T. ii. p. 389.
  77. i. ii. iii. iiii. λ. x. ↓. c. Vedi tav. cv. Il numero x: desen.tesen: come dicono le tavole di Gubbio latine, era comune per tutta Italia: lo abbiamo replicato nelle medaglie etrusche, nelle umbre, nelle sannitiche, ed in moltissimi altri monumenti.
  78. Hermann, Elem. doctr. metr. p. 395.
  79. Versi saturnj erano quelli de’ carmi Arvalici e de’ Salj; le iscrizioni de’ monumenti trionfali; degli epitaffi ec. Ascon. comm. ined. in orat. pro Ardua p. 62. ed. Maio. cf. Marini, Frat. Arvali, p. 37.
  80. Serv. vii. 695.
  81. Horat. ii. ep. i. 139 sqq. et vet. interp. ad h. l.; Liv. vii. 2.
  82. Olim Casmenae: musae, quod canunt antiquorum laudes. Fest. s. v.
  83. Carmina, quae multis saeculis ante suam aetatem in epulis esse cantitata a singulis conviviis de clarorum virorum laudibus in Originibus scriptum reliquit Cato. Cicer. Brut. 19.; Tuscul. iv. 2.; Nonius ii. 70. Assa voce.
  84. Volumnius qui tragoedias tuscas scripsit. Varro l. l. vi. 9. La Volunnia è famiglia istorica frequentemente nominata in lapidi perugine: perciò non quadra la correzione in Volnio, che adduce Niebuhr. T. i. not. 415.
  85. Vedi tav. cxix. 2.
  86. Fabularum Latinarum, quae a civitate Oscorum Atella, in qua primum coepta, Atellanae dictae sunt: argumentis dictisque jocularibus similes satyricis fabulis Graecis. Diomed. gram. inst. iii.
  87. Oscura, quae Atellanae more captent. Quintil. vi. 3.
  88. Cicer. Fam. vii. 1.; Strabo v. p. 161.; Tacit. iv. 14.; Svet. Tib. 45., Cal. 27., Galb. 13.; Spartian. Adr. 13. ec. Il dispotismo solo potette frenare ed estinguere la libertà delle atellane. Caligola, per non so quale allusione, fece bruciare vivo uno degli attori.
  89. Quindi i titoli burleschi: Macci gemini: Maccus sequestris: Bucconem adoptatum: Maccus miles etc. Quest’ultimo soggetto pare acconciamente rappresentato in una pittura scenica trovata a Pompeja, in cui singolarissimo è il vestiario del protagonista Macco. Vedi tav. cxix. 1.
  90. Τυῤῥηνῶν δ´ ἔστιν εὕρημα κέρατά τε Καὶ σάλπιγγες. Athen. iv. 25. p. 184.; Polluc. iv. 70-85.
  91. Vedi tav. cxiii. 7. 8.
  92. Plin. xvi. 36.
  93. Virgil. Georg. ii. 193.
  94. Varro l. l. vi. 3.; Fest. v. Subulo. V. i monum. tav. xxxviii. 12.
  95. Μουσική, ὄση δημοσίᾳ. Strabo. v. p. 152.
  96. (Aderunt) in conviviis pueri modesti, ut cantarent carmina antiqua, in quibus laudes erant majorum, assa voce, et cum tibicine. Nonius. ii. 70.
  97. Cantabat fanis, cantabat tibia ludis:
    Cantabat moestis tibia funeribus.

    Ovid. Fast. vi. 659.

    Vedi i monum. tav. liv. 2., lvi. i., lviii. 2., xcvi. 1.

  98. Vedi i monum. tav. lv. 3., cvii: di più i monum. dell’Italia ec. tav. 18. 19. 34. 35.
  99. Idem tav. lxi. 11. ediz. seconda 1821.
  100. Massime nel grande obelisco Campensis, o di Campo Marzio, che porta il nome del Faraone Psaméték (Psammetico); come spiega Champollion. Précis du syst. hiérogl. p. 194. e tav. 7,
  101. Vedi Tom. i. p. 39. 108.
  102. Censorin. ex Ritualibus Etruscorum libris. 17.
  103. Lintei libri. Varro ap. Plin. xii. 11.; Liv. x. 38.
  104. Liv. l. c.; Fronton., Op. p. 100.
  105. Plutarch. Pomp.
  106. Unde quaeque civitas orta sit Italica. Corn. Nep. Cato. 3.; Cicer. de Senect. ii.
  107. Romuli autem aetatem, jam inveteratis litteris atque doctrinis... fuisse cernimus. Cicer. de Rep. ii. 10.; Idem ap. August. de civ. Dei. xviii. 24. non rudibus et indoctis temporibus, sed jam eruditis et expolitis.
  108. Gens ac terra domestico nativoque sensu, dice Cicerone. De Harusp. respons. 9.
  109. Habeo auctores, vulgo tum romanos pueros, sicut nunc graecis, ita etruscis litteris erudiri solitos. Liv. ix. 36.
  110. Vedi l’elenco degli scrittori dato da Plinio nel L. i.
  111. Attalus noster egregius vir, qui Etruscorum disciplinam Graeca subtilitate miscuerat. Senec. Quest. nat. ii. 50.