Storia degli antichi popoli italiani/Capitolo IX
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CAPO IX.
Sabini, Piceni e Pretuzj.
Per le vicende fortunose de’ popoli italici di sopra narrate, abbiamo veduto gli Etruschi, tribù di paesani, da piccoli principj sorgere in grande stato, e per loro virtù e valore, domati gli Umbri, non solo estendere il dominio oltre l’Appennino nell’Italia superiore sino a Ticino ed alle Alpi, ma volgersi ancora a mezzodì lungo la spiaggia occidentale infino alla fertile Campania. E, ciò che più importa delle conquiste, giovarsi acconciamente del talento, e delle loro sorti, onde attendere con riposato animo a darsi uno stato civile, massimamente adoperandosi negli esercizj navali, e raccogliendo di fuori tutto quanto poteva più cautamente applicarsi alla cultura degli animi e dei corpi. All’opposto la numerosissima nazione degli Osci, cresciuti nelle parti più salvatiche e dirupate del meridionale Appennino, e fortissimamente incalzati tutto intorno alle spiagge del mare superiore ed inferiore dalle feroci nazioni venute dall’Illirico e dall’Epiro, non che da copiose e successive turme di Greci d’ogni nome, si ritrovarono fino da secoli antichissimi, benchè non bene definiti nell’ordine dei tempi, costretti di riserrarsi vie maggiormente nelle montagne, dove continuarono a vivere invitti e liberi, ma sempre mai nella villesca condizione di popoli rustici e pastorali.
Così per tutto lo spazio degli Appennini, dalle fonti del Velino fin all’ultima punta delle Calabrie, dimoravano quelle genti gagliarde, delle quali ora imprendiamo a narrare le venture, quanto almeno il permette la scarsità e l’insufficienza delle storie descritte. Allontanate dal mare, e per lo più vessate dagli stranieri occupatori, che stavano loro allato, desse non ebbero che pochi e rari mezzi di frequentazione al di fuori: e tenaci de’ loro costumi, non bastò tampoco la vicinanza de’ coloni greci, che sempre odiarono, a far cangiare nè gli abiti, nè la dura e indipendente vita de’ padri. Per conseguenza mantenutisi sempre montanari indomabili e fieri, la loro istoria, quasi che locale, si rinviene unicamente per entro alle loro natali montagne. Dove, proseguendo più avanti, non sol tanto li vedremo contrastare in tra loro, ma ferocissimamente guerreggiare contro ai Greci suoi vicini, e combattere di secolo in secolo ancor più ostinatamente per la libertà, contro alla prepotente forza di Roma.
In fronte a questa robusta razza degli Osci si vuol nominare i Sabini. E divisando in qual guisa tanto essi, quanto i loro discendenti, ed attenenti, si ordinassero in varie nazioni, aventi proprio dominio e titolo nelle imprese, convien riportarci a quell’oscuro, ma certo periodo di storia, in cui successero que’ generali scorrimenti e mutamenti di popoli, che abbiamo poco innanzi narrato. Diceva Catone, che lo stipite dei Sabini originava di Testrina, rustico villaggio ne’ contorni di Amiterno: che di là se ne vennero nel paese di Rieti addosso agli Aborigeni; e tolti loro i luoghi principali, da diverse colonie che staccaron da quelli edificarono parecchie città, e nominatamente Cure1. Ora in questo racconto, comechè abbreviato da Dionisio, si riconosce tutto il fatto dell’origine dei Sabini, non men che l’occasione e il modo pel quale dal loro corpo derivarono l’un dopo l’altro i Sabelli. E vogliam dire la fondazione del popolo sabino per mezzo di voto, o di sacra primavera, costume religioso, politico, e fondamentale de’ nostri primi padri2. Nè diversamente si potrebbe mai comprendere in qual forma da un villaggio fosse uscita una grande e potente nazione. Ma ben s’intende come l’animosa gioventù consacrata, mandata fuori per calamitosi frangenti dal contado di Testrina a cercarsi nuove dimore, siasi affrontata con le tribù degli Aborigeni, che abitavano su alto presso a Rieti, e poscia mischiatasi con quelli abbia dato principio alla gente intitolatasi del nome di Sabini, che i loro propri miti traevano da quel di Sabo, nume primario del popolo3. Quest’origine religiosa, e tutta patria della gente, mantenne in loro perpetuamente quell’inconcussa pietà e intemerata fede, che giustamente qualificava i Sabini divoti, severi, e costumati, meglio che altri italici alcuni4. Nè qui faremmo nè pure ricordo della stravagante opinione prodotta nelle scritture de’ Greci, che i Sabini discendessero da una mano di Lacedemoni, qua venuti al tempo di Licurgo5, se questa folle credenza, sprezzata dal senno di Virgilio, non avesse trovato assai ripetitori e seguaci; e non fosse per se validissimo argomento a comprovare con quale insania già nel tempo antico si fosse sfigurata l’italica storia, per mera vaghezza e vanità di origini elleniche.
Così dunque la prima sede dei Sabini si rinviene istoricamente negli alti monti dell’Abruzzo superiore, dove han sorgente il Velino, il Tronto, ed il Pescara. E qui ancor per geologica dimostrazione si conosce, che questa parte più sublime della Sabina ha dovuto essere la prima abitata. Per queste sommità dimoravano in fatti le tribù nominate in genere degli Aborigeni; ed allora quando per la mossa degli Umbri eglino si portarono addosso a quelle ne successe, che una parte dei montanari osci, dipoi detti Sabini, sforzati nel nido natio, si racchiusero ne’ fortificati ricetti dell’alto paese tra Aquila e Lionessa; gli altri preso il cammino dal territorio di Rieti, se ne vennero giù per la lunga vallata del Turano fino alle ripe dell’Arno e del Tevere6. È facile comprendere quanto cotesti eventi fossero pieni di urgentissimi pericoli e di travagli per uomini a’ combattimenti temerari, e precipitosi alla volta: nè in così grandi strettezze non si confidava il popolo, secondo costume, di altro rimedio salutare, se non che di votarsi in comune al nume protettore. Da ciò dunque quelli di Testrina, o delle vicinanze di Amiterno, usciti fuori sotto la tutela del suo Dio, diedero principio alla nazione cognominata dei Sabini aggregandosi di luogo in luogo ad altre genti di loro natura, ed ugualmente di razza e lingua osca7. Lista, Cutilia, Tiora, Palazio, Trebula-Suffena e la Mutusca, con altri luoghi non pochi del territorio di Rieti, erano stati, secondo Varrone, degli Aborigeni, prima che dei Sabini, i quali verisimilmente per questi successi consecrarono con vetuste religioni alla gran dea Vacuna, o sia alla Vittoria, il lago Cutilio, nell’umbilico a Italia8. Ma Dionisio, che per dar forza al suo sistema voleva Arcadi o Enotri gli Aborigeni, confonde tutto con la sua rettorica, nè può seguirsi in questa parte delle sue storie senza acuto discernimento, e senza cautela. Pure i luoghi da lui stesso veduti, e che per l’avanti tenean gli Aborigeni, dallo stato di poveri abituri o di capanne s’erano alzati al grado di vere città fortificate di muraglie: ed anche oggigiorno per quelle cime de’ monti si veggono notabilissimi avanzi delle loro saldissime mura: tra le quali meritano più particolar menzione quelle di Trebula-Suffena, che siede distante cinque miglia o circa da Rieti nel luogo detto Belmonte, il qual si specchia nel Turano, e son fabbricate come tutte l’altre quivi intorno con grandi pietre tagliate a poligoni irregolari. Benchè mal s’avviserebbe chi credesse coteste mura costruzione dei lontanissimi tempi degli Aborigeni, sol perchè o Varrone, o Dionisio, così fattamente le appella9. Opera di un’altra civiltà fu l’arte di munire le terre, e quella forma faticosa di edificazione: nè certamente le mura di cui ragioniamo, a chiunque le vede, son tali da farle presumere lavori di giganti storici; cioè d’una razza d’uomini più antichi e più potenti; poichè a malgrado della loro stabilità non hanno niente nella costruzione loro che sopravanzi la più usuale meccanica, ne l’ordinarie forze di gagliardi e pazienti montanari, quali erano i Sabini stessi, gli Ernici, gli Equi, i Volsci ed i Sanniti, che senza disagevolezza nessuna prendevano il materiale nei monti loro sassosi, dove quasi unicamente si vede usata tra noi questa, così detta alla moda d’oggidì, maniera ciclopica di fabbricare.
Ma la moda è sovente il contrario del ragionevole. E già nella mia prima opera10 addussi forti motivi a dubitare della remotissima antichità, che vuol darsi, per vaghezza di sistema, a sì fatta costruzione di mura, la qual non è altro che l’unione di massi irregolari di varia mole, e di dura pietra, quali si traevano dalle prossime montagne, accostati e sovrapposti gli uni agli altti con più o meno d’artificio, secondo che portava o la forma naturale dei macigni, o la qualità del lavoro, o la maestria degli edificatori. Ebbi della mia opinione valenti sostenitori e seguaci11. Tanto che ritornando per la presente opportunità, non mai per contrariare altrui, sopra questo argomento, debbo pure soggiungere il fatto incontrastabile, che in sì molto numero d’italiche costruzioni di muraglie s’osservano variatissime strutture, e quei metodi stessi di edificare, che meglio s’addicevano o all’età rozza, od al miglioramento progressivo dell’arte. Fatica enorme di robuste popolazioni e di secoli son per certo tutti cotesti monumenti12, che sì lievemente vorrebbonsi attribuire a una sola ed unica generazione straniera, come la pelasga, e ad una sola età. Laddove in contrario può con tutta sicurezza dimostrarsi, che questo sistema medesimo di fabbricazione a poligoni fu adoprato e continovato in Italia dai primi tempi storici, sino agli ultimi della repubblica romana, siccome usuale e stabil foggia di monumenti atti a difesa e riparo. Ed assai giustamente chi dava opra a tali costruzioni col fine principale di fortificare e munire le cime dei monti, dove stavano le città e le rocche, attendeva all’utile, più che al regolare collocamento delle pietre in file, od alla bellezza esteriore dell’edifizio. Di qui è che le mura di talune città, come Alfidena nel Sannio, sono fabbricate con grandi e naturali massi di figura poligona disposti perpendicolarmente, e rincalzati con minori pietre: rozzissimo artificio d’un’arte nascente e materiale. Altrove, con più studiata maniera, i sassi poligoni, benchè di forme irregolari, son accostati fra loro maestrevolmente con tendenza alla linea orizzontale, e con le loro facce ora polite all’esterno, ora lasciate con grezza e naturale superficie. Ma la più notabile foggia di costruzione, che dà in oltre a conoscere negli operatori maggiore intelligenza e pratica d’arte, si è non dubbiamente quella stessa dove i muri si trovano fabbricati di grandi poligoni disposti in linee inclinate o curve, quasi a forma d’arco, come si veggono, per tacer d’altri luoghi, nelle mura di Norba, di Segni e di Boviano. Benchè alle volte coteste differenti strutture s’osservino pure mischiate, e adoperate insieme senza molta cura, a talento del fabbricatore. Non temo d’asserire, che quest’ultima maniera d’edificare, la qual si vede anche a Cossa ed a Saturnia, le sole città che in Etruria, anzi alla destra del Tevere, han costruzione poligona, sia la meno vetusta, se forse non ancora dei tempi della dominazione romana13. Del quinto secolo sono certamente i grandi muramenti di sassi poligoni fatti per sostegni della via Valeria e della Salaria14, che appunto pel paese montuoso dei Sabini, Equi e Marsi, portava ai Peligni e Pretuzj15. Sa ognuno che le strade antiche romane si trovano lastricate con dure selci poligoni di più lati: e tutto dì può veder ciascuno in Firenze, dove le strade son di tal modo selciate, con quale e quanta facilità i lastraiuoli adoperando soltanto squadra zoppa e scarpello pongano in opera le pietre di lati infiniti, come son cavate dai prossimi monti fiesolani. Non sostenibile per fermo si è l’opinione della incredibile antichità d’ogni fabbricazione a poligoni, e meno ancora l’ipotesi strana, la qual tenderebbe a far credere, che i nostri propri monumenti di tal genere sieno edifizj lasciativi dai Pelasghi; a causa massimamente, si va dicendo, dell’apparente somiglianza che le costruzioni italiche han colle mura di parecchie città della Grecia antica, per fantasia di poeti chiamate ciclopie; e se vuolsi ancora con quelle di Tirinte e di Micene: quasi come se una sì rozza maniera d’edificare, che volentieri diremmo mostrata da natura, non fosse stata comune a molti anche fuor d’Italia e di Grecia16, od avesse per suo solo magistero alcun che di mirabile. Non però di meno sia che le motivate ragioni appaghino o no il lettore, sarà sempre vera cosa, che il fabbricare a pezzi poligoni in Italia spetta ad un sistema di costruzione locale generalmente adoperato ab antico dalle nostre popolazioni, così nel murare le città, come in altri edifizj molto durevoli ad uso o militare o civile: sistema medesimamente praticato lungo tratto per arte consueta nei secoli romani. Anzi credibilissimo è, che da quella forma stessa di edificare con pietre minori indi derivasse l’antica fabbrica romana comunemente chiamata incerta17.
Il corpo de’ primi Sabini fortificato dagli Aborigeni andava intanto aumentandosi di numero e di vigore, per la loro mescolanza e unione con altre popolazioni delle montagne: finchè venuti avanti più lungo tratto per il monte Lucretile e la valle dell’Aniene pervennero sino al Tevere, e vi posarono intorno suoi confini. Mal vorrebbonsi determinare i limiti certi della Sabina in tempi di tanto anteriori alle osservazioni dei geografi18. Ma tutta unita nel cuor degli Appennini per lo spazio di cento miglia in circa, i suoi termini meno disputabili furono da ponente e settentrione l’Umbria mediante il corso della Nera; da settentrione a levante la giogaia de’ monti allato al Piceno; a levante il paese dei Vestini; a mezzodì il Lazio lungo l’Aniene, fino al suo confluente col Tevere, ed a ponente, seguitando il corso del Tevere, il contado dei Vejentani e de’ Falisci confine fermo dell’Etruria. Nulladimeno, al tempo de’ principj di Roma, il dominio dei Sabini si trova esteso anche alla sinistra dell’Aniene in qualche luogo del vecchio Lazio, come ad Antemna19, ed a Regillo e Collazia col suo territorio20; sia che quivi avessero mandato innanzi colonie; sia che vi ponessero altramente il piede con la forza dell’arme.
Bene per tanto Strabone chiamava i Sabini gente antichissima, e originaria del paese21. E qui nel centro del bel clima d’Italia tra monti e valli, dove natura gareggia con l’alpestre Elvezia, viveva l’intera nazione sabina copiosa di numero, e sparsa per villaggi folti d’abitatori22. Cure, o sia il popolo degli astati, cioè de’ bravi, degli esperti nel trattare l’arme in asta23; piccola e povera terra secondo il poeta24; era non ostante ciò il luogo dove s’adunavano i consigli nazionali25: nè maggiori al certo compariscono gli altri comuni della Sabina, o cittadelle piuttosto26, che sino al tempo di Strabone, eccetto Amiterno e Rieti, potean dirsi anzi villaggi, che città o castella. Ma giustamente osserva il geografo, che la loro attuale decadenza, e il disfacimento di moltissime terre, doveasi accagionare alle ripetute calamità di guerra; tanto che, se bene stretta di luogo, fu la Sabina nel suo fiorire sì larga di popolo, che ancora oggidì fa maraviglia il ritrovare da per tutto segni visibili di coltura, avanzi di fabbriche, e vestigie molte di luoghi abitati, finanche in sulle cime di sassosi e asprissimi monti. In queste loro dimore alpestri costantemente attesero a render gagliardi i corpi ed invitti alla fatica. E bello è il vedere i Sabini indefessi nel conservare fra tanti moti di guerra una preziosa indipendenza, contro le incessanti prove di valorosi vicini. Furono essi, come gli altri montanari di razza osca, pastori fin dall’origine, coltivatori, e guerrieri di duri, ma schietti e liberissimi costumi: e tutto in loro serbava l’impronta indigena. Nel loro grado di rusticità ben conobbero i Sabini i sublimi piaceri derivanti dalla natura, che invariabilmente congiungono la pace col lavoro, e la salute col valore. Nazione fortunata, contenta a riconoscere la sua abbondanza dall’utile fatica, e da questa tutti i vantaggi della prosperità civile. Da ciò gli abiti della temperanza; la carità verso la patria; l’integrità de’ costumi; la religione incorrotta; e quel regolato vivere antico, che meritarono in ogni secolo tante lodi alla progenie sabina: da che soli, per la forza dell’educazione, mostravano sempre all’Italia degenerata una immagine della prisca virtù, mercè di faticosi sudori. E non senza dolce compiacenza tu trovi durare negli abitanti dell'alta Sabina, ugualmente coltivatori e pastori, cordiale ospitalità; temperanza, e rozza onestà, quanto almeno giocondamente ne fruivano i lor progenitori. In allora, come oggidì, la pastorizia arte di grande profitto; anzi nel tempo antico rappresentazione e misura del pregio di tutte cose; bastava ai laboriosi Sabini onde trar da un paese montuoso non pure abbondanza di ciò, che fa mestiero al vivere, ma superfluità di beni a tal segno, che s’introdusse nel popolo un certo studio di pompa, e massimamente per uso di anelli, di collane, di armille, e d’altri aurei ornamenti militari o fregi del valore, di che furono amantissimi, all’esempio dogli Etruschi27, che ciascuno dei vicini tendeva ad imitare in civiltà. Ond’è che i Romani antichi, al dire del loro primo istorico28, allora soltanto conobbero la dovizia e il lusso, quando incominciarono a sottomettere i prossimi Sabini.
Questa prima semplicità campestre porge senza dubbio valevol fondamento della forza, della costumatezza, e del valore antico29. Nè tanto i Sabini ebbero giusto vanto di virtuosi, quanto di marziali e di prodi30. A tal che tennero di fatto, tra le nazioni italiche, il primo posto d’onore appresso gli Etruschi, per potenza d’uomini e d’arme31. Ma più che altro la rigida severità delle loro religiose e civili discipline32, trovava sua ragione nella tenace natura della prima legge essenzialmente teocratica. Non solo religioso, come abbiamo veduto, fu il cominciamento della nazione, ma quel Sanco divino autore della razza sabellica detto altrimenti Fidio e Semone33, ammirato prima sotto spoglie mortali34, e poscia adorato qual nume sovrano, dimostra evidentemente che l’instituzione del popolo trovavasi fondata nel solo principio di prudenza civile, che pure allora, per amplissima via di sociale progresso, reggeva e regolava il mondo. Nè crediamo allontanarci punto dal vero riferendo a questo Sanco, tramutato in Ercole35, ciò che una leggenda attribuiva al figlio d’Alcmena; aver desso abolito tra’ nostrali i barbarici sacrifizj umani, sostituendovi altri riti puri di sangue36. I nove dei maggiori della religione sabina, erano stati quindi costituiti in Trebula sotto mistero da chi ne aveva l’autorità37. Religioni cautamente e saviamente ordinate, che succedettero a un primo culto materiale d’instinto, allora quando un’asta fitta in terra rappresentava pe’ Sabini lo stesso Marte, nume dei forti38. E ciò ne persuade più maggiormente di quanto antichi han dovuto essere in Italia i semi del governo sacerdotale; poichè null’altro che comandamenti, decreti del cielo, e leggi sacre si ritrovano statuite da per tutto, e insieme con esse le scaltrite arti come principale istrumento d’ordine, d’ubbidienza, e di sicurezza nella vita civile.
Così per consiglio di religione, e per forza di costume, si distaccò a tempo e luogo dal corpo della nazione sabina quel superfluo, che per qualunque infelicità l’aggravava. Di tal modo ella divenne madre di quasi tutte le guerriere nazioni della bassa Italia, dove si volsero principalmente le sue colonie sacre39. Raccolse Strabone la notizia, che incentivo a queste migrazioni di popolo fossero state le diuturne guerre degli Umbri40. Ma innanzi di dare origine alla stirpe sannite, da cui derivarono altre genti del medesimo sangue, una banda de’ suoi si mosse su alto dall’Appennino per voto d’una sacra primavera, dirigendosi con auspicj divini attraverso quei sommi gioghi inverso il mare superiore. Un picchio, volatile sacro a Mamers o Marte, era lor guida; ma l’avvedutezza del vero conduttore s’aprì il passo a terre più liete; e quivi la gioventù sabina tirando a se gran moltitudine di persone col favor della sua consecrazione, e incorporandosi in quelle, pervenne da piccoli principj a costituire una nuova e ragguardevole gente, sotto il nome di Piceni41. Si può aver per certo, che questi nuovi coloni si travagliassero gagliardamente dal canto loro a spazzare la campagna e le piagge intorno, ovunque trovarono Illirici o Liburni: ma come gente alpigiana e grossa, nè si curarono della utilità ch’è nelle marine, nè mai, in alcun tempo appresso, diedero opra alle arti navali. Laddove al contrario per le comodità di un lido di tanto acconcio ai naviganti per buone stazioni, e foci di fiumi, fu la costa del Piceno poco men che un albergo di nazioni. Qui, in oltre agl’Illirici, vi si posero gli Umbri: indi v’ebber dominio gli Etruschi con floride colonie42: e finalmente, al tempo di Dionisio il vecchio, i fuggiaschi Siracusani v’edificarono Ancona43. Niun paese è più vagamente variato da natura di colli ameni, di valli, e di bassi campi quanto il Piceno, regione abbondantissima, la quale stavasi compresa nel suo intero tra i monti e il mare Adriatico, per tutto lo spazio che dal fiume Esi corre lungo marina sino al Tronto; e di là, seguitando il lido, pel territorio inchiuso tra quel fiume ed il Matrino, dove stavano i Pretuzj. Ascoli, posta dentro terra al confluente del Tronto e del Castellano, ed ugualmente munita da natura ed arte, era capo della nazione picena, fra le cui principali città si vuol contare nominatamente Fermo, che avea suo navale, detto Castello, alla marina44. E sì per la fertilità, come per la comodità de’ luoghi, divenne all’ultimo il Piceno talmente pieno di popolo, che quantunque soggettato a Roma dopo grandi guasti nel 485, si mantenne pur sempre la contrada più numerosa dell’Italia media45.
Benchè il territorio dei Pretuzj si trovi geograficamente descritto nel Piceno, col quale confinava a mezzogiorno per mezzo del Tronto, tuttavia formavano essi da per se una società separata, libera e indipendente. Plinio distingue in questa regione tre distretti Pretuziano, Palmense, e Adriano, con Interamna, oggi Teramo, città principale posta nelle montagne46. La qualità del paese tutto alpestre, rotto da numero di impetuosi fiumi e di torrenti, e forse per natura il più aspro dell’Abruzzo superiore, poneva i Pretuzj in condizione assai meno propizia dei Piceni. Non ostante ciò per l’opportunità delle spiagge a mare; vedemmo che qui s’allogarono in diversi tempi Illirici, Umbri e Toschi, disputandosi l’un l’altro i vantaggi, che davano loro quelle stazioni e terre marine. Ma gli Etruschi principalmente dell’Adria veneta fondandovi, come puossi presumere, la nuova Adria47, vi tennero più fermo stato, atteso la comodità grande di poter quivi navigare sicuramente e speditamente per l’altra spiaggia del golfo, trafficandovi o de’ rinomati vini pretuziani48 o di più sorta derrate. Rare volte i paesani Pretuzj, poveri e laboriosi montanari, si trovan nominati dagli scrittori antichi, o solo per causa di partecipazione di sinistre sorti con i suoi vicini; pure, a quel che suona la voce, probabilissimamente può essere, che il nome stesso d’Abruzzi49 che porla modernamente il paese, derivi da quello stesso de’ suoi abitatori vetusti. Così perchè i Sabini usavano molto per questi luoghi, dove intorno nacquero, e dalle foci dell’Aterno per una via, detta latinamente Salaria50, trasportavano il sale nelle montagne dell’interno, non è meno credibile, che vi tenessero sempre la medesima strada calcata dai loro antichi.
Piceni e Pretuzj, spesso involti negli stessi fluttuosi movimenti della fortuna serbarono in ogni età il natal vigore, ed i costumi guerrieri. Si mischiarono spesso nelle inevitabili contese con i vicini: non si tennero fermi durante la guerra di Pirro: e soltanto alla fine di quella poterono esser vinti, e assoggettali alla dominazione romana. Non però sì quietamente, che per amor di libertà non fossero tra i primi a riprendere l’armi nella guerra marsica. E questa loro nazionale unione con gli altri popoli sabelli è di più un contrassegno non dubbioso, che durava ancora inalterata per essi l’affinità di stirpe e di favella, comune retaggio dei progenitori Osci.
Note
- ↑ Dionys. ii. 49
- ↑ Vedi p. 31, 35.
- ↑ Cato ap. Dionys.. ii. 49.; Serv. viii. 638.; Sil. viii. 423.
- ↑ Sabini, ut quidam existimavere a religione et Deorum cultu, Sevini appellati. Plin. iii. 12. Sentenza di Varrone fondata in una etimologia greca puerile: ἀπὸ τοῦ σέβεσθαι θεοὺς. Varro ap. Fest. v. Sabini.
- ↑ Dionys. ii. 49; Plutarch. Numa. Dionisio bensì, riguardo a Catone, testimonia contro Servio disavveduto. Ma Gneo Gellio e Giulio Igino ripeterono fra i Latini cotesta novella, ampliandola di loro capo: Sabini a Lacedemoniis ducunt a Sabo, qui de Persides Lacedaemoniis transiens, ad Italiam venit, et expulsis Siculis, tenuit loca, quae Sabini habent. Nam et partem Persarum nomine Caspiros appellare coepisse, qui post corrupte Casperuli dicti sunt. Serv. viii. 638. — Tal è quasi sempre la logica dei fautori di coteste origini greco-italiche.
- ↑ V. p. 174, 175, 75.
- ↑ Il nome osco dei Sabini, che fu anche generico dei popoli Sabelli derivati da quelli, era propriamente Sabinim, : come si legge ne’ denari del Sannio battuti al tempo della guerra marsica. Vedi i monumenti dell’Italia avanti il dominio dei Romani, tav. lviii, 7. — Quanto il 8 osco nella pronunzia fosse simile al B latino si conosce per parecchie iscrizioni. Vedi la lapide pompejana tav. cxx 3. lin. 5: 4. lin. 7 ed il noto sasso di Abella.
- ↑ Varro ap. Plin. iii. 12.; Dionys. i. 14. 15.
- ↑ Dionys. i. 14.
- ↑ L’Italia avanti il dominio dei Romani. T. i. p. 181. T. ii. p. 152. e le spiegazioni annesse ai monumenti, ed. 1810.
- ↑ Nominatamente Sickler, Malte-Brun, F. Muller, Schneider, ed altri non pochi.
- ↑ Il grosso buon senso dei paesani chiama sul posto queste fabbricazioni, mura o murate del diavolo: la più notabile disposta in molte file si vede oltre S. Vittorino; là dov’era Amiterno.
- ↑ Vedi p. 144. n. 148.
- ↑ Un muramento romano di tal genere, che ha oltre 300 passi, trovasi sotto Roviano, a sostegno della Valeria: ed un altro simile, d’assai maggiore, sull’ardua cima delle montagne di Colli. Uguali costruzioni s’osservano ancora in parecchi luoghi per fondamento della via Salaria: nominatamente presso a Paterno, non lungi dal lago Cutilio, e infra Antrodoco e Civita Ducale.
- ↑ Strabo v. p, 164.
- ↑ Basti per qualunque altro esempio il fatto che trovo allegato: cioè il ponte d’uguale costruzione in Loochoo, grande isola del mare del Giappone in sulla costa occidentale della Corea.
- ↑ Antiquum, quod Incertum dicitur. Vitruv. ii. 8.
- ↑ Strabone e Plinio descrivono i confini della Sabina quale l’aveano sott’occhio; ma accortamente Virgilio, alludendo ai tempi della sua epopea, distende la regione in più ampio spazio. vii. 706-717.
- ↑ Antemna veterior est quam Roma. Cato In Orig. i. apud Priscian. vi. Detta da Virgilio turrigerae: dove chiosa Servio: bene muratae. vii. 631.
- ↑ Liv. i. 37. ii. 16.
- ↑ Ἔστι δὲ καὶ παλαιότατον γένος, οἱ Σαβίνοι καὶ αὐτόχθονες. Strab. v. p. 158.
- ↑ Non villarum modo, sed edam vicorum, quibus frequenter habitabatur. Liv. ii. 62.; Strabo v. p. 158.
- ↑ Curis est Sabine hasta. Fest. et. al.
- ↑ Curibus parvis et paupere terra. Virg. vi. 812. Cure stava posta alla sinistra del fiume Correse, nel luogo oggi detto Monte Maggiore.
- ↑ Dionys. ii. 36.; Strabo v. p. 158.
- ↑ Πολιχνία. Strab.
- ↑ Dionys. ii. 38.
- ↑ Fabius. ap. Strab. p. 158.
- ↑ Hanc olim veteres vitam coluere Sabini. Virg. Georg. ii. 532.; Columell. R. R. in praef. Nursina duritia, paupertate, etc. in Frontone (op. p. 351.) mostrano i costumi d’ogni secolo.
- ↑ Fortissimos viros Sabinos, flores Italiae, ac robur reipublicae. Cicer. pro Ligario ii. Ἄνδρας μαχητὰς. Dionys. iii. 63.
- ↑ Sabini... genti ea tempestate secundum Etruscos opulentissimae viris, armisque. Liv. i. 30.
- ↑ Disciplina tetrica, ac tristi veterum Sabinorum, quo genere nullum quendam incorruptius fuit. Liv. i. 18.
- ↑
Nomina trina fero: sic voluere Cures.
- Ovid. Fast. vi. 213-217.
- ↑ Sabini etiam regem suum primum Sancum, retulerunt in deos. August. De Civ. dei. xviii. 9.
- ↑ Sanctum ab Sabina lingua, et Herculem ab Graeca. Varro l. l. iv. 10.; Herculi, aut Sanco. Festus v. Propter.
- ↑ Dionys. i. 38.
- ↑ Arnob. iii. p. 122.
- ↑ Plutarch. Rom.; Clem. Alex. Protrept. p. 44.
- ↑ Strabo v. p. 158.; Sisenna ap. Nonium xii. 18. E Varrone, dove tratta degli sciami delle api: ut olim crebro Sabini facticaverunt, propter multitudinem liberorum. De R. R. iii. 16.
- ↑ Διότι πολεμοῦντες Σαβῖνοι πολὺν χρόνον πρὸς τοὺς Ὀμβρίκους. Strab. v. p. 172.
- ↑ Orti sunt a Sabinis voto vere sacro. Plin. iii. 13.; Strabo v. p. 158, Fest. v. Picena regio.; Sil. viii. 441-442. Ma il poeta imitatore coll’usato suo arbitrio guasta tutto, mescolando col mito domestico sabino altri miti del Lazio.
- ↑ Vedi p. 123. p. 123.
- ↑ Strabo v. p. 166.
- ↑ Strabo v. p. 166.; Plin. iii. 13.
- ↑ Plin. iii. 13.
- ↑ Plin. iii. 13.
- ↑ Vedi p. 122.
- ↑ Dioscorid. V. 7.
- ↑ I paesani pronunziano Apruzzo, Apruzzi.
- ↑ Plin. xxxi. 7.; Fest. v. Salaria via.