Scola della Patienza/Parte prima/Capitolo V

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CAP. V.

Si dichiarano ad una ad una l’altre cinque sorti di Pene.


R
acconta Suida una bella favola, e dice, che vi fù una volta un’Abete, che contrastava con un Rubo, e rinfacciandosi l’un l’altro molte cose, arrivarono à dirsi molte, e gravi ingiurie, e villanie. Alla fine disse l’Abete al Rubo: Che occorre à dire più parole? Poiche tù alla fine vai a parare in un forno, ò in fornace, e non sei buono per altro, che per essere messo al fuoco. Questo è il fine, che t’aspetta; questo è il luogo, che ti si deve; hai da essere alla fine divorato dal fuoco. Mà io, è vero, e non tel nego, che son più aspramente trattato: Son primieramente dal ferro tagliato, poi son portato ad esser segato, e con denti di ferro son’in diverse parti [p. 183 modifica]diviso: di poi son dato in mano à falegnami, che levandomi la pelle mi scorticano, e mi dolano, mà il tutto mi riesce à grand’honore poiche di me si fanno sedie, banchi, tavole, si sostengono i palchi delle case, si fanno barche, e navigli, se ne fabricano i Tempij, e in somma son buono, e servo ad ogni cosa.

Questa favola si verifica per così dire, hoggidì nel mondo. E questa differenza fra i buoni, e i cattivi. Che questi come tanti rubi, e tante spine saranno finalmente gettati al fuoco, e quelli come tanti Abeti crescono in alto per il cielo. E’ vero, che sono in varij modi afflitti, son tagliati dal ferro, gettati a terra, segati per mezo, sono spogliati della robba, come della propria pelle, mà non importa, perche à questo modo si accommodano per l’edificio del cielo, restando i rubi per il fuoco. Li Abeti, mentre [p. 184 modifica]dal ferro son feriti si poliscono, e si mettono in ordine accioche meglio possano servire, come habbiam già detto. E fin’hora habbiamo dichiarato cinque instrumenti di questa politura, cioè le Verghe, le Saette, le Facelle, La Corona di strame, e le Bacchette. Adesso dichiariamo gli altri cinque, che sono: I ceppi, e le catene, i nodosi bastoni, il mantello, le sferze, e ’l sacco. Suppellettile assai ben’usata nella Scuola della Patienza di cui andaremo esponendo le parti ad una ad una.


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§1. De i Ceppi, e le Catene.


D
A questi vengono significate l’afflittioni proprie di ciascuno stato. Ogni modo di vivere hà li suoi ceppi, e le sue catene. Da per tutto vi sono legami ò più stretti, ò d’oro siano, ò di ferro, ò di diamante ancora. Lo stato de’ Religiosi è legato con trè catene; Quello de’ maritati, con [p. 185 modifica]una, mà strettissimamente.

Quì s’ha da lasciare affatto un’errore, nel quale molti si trovano miseramante involti. Et è, che portando tutti la sua croce, ogn’uno si pensa, che la più grave, e pesante sia la sua. Chi hà male à gl’occhi si pensa, che ’l suo dolore sia il maggior di tutti. Chi hà una viva miniera di pietre in corpo, e patisce di questo male, si pensa, che non vi sia altr’huomo al mondo, che patisca più dolor di lui. Chi hà dolor de’ denti, tiene tutti gli altri dolori per una baia. Chi hà mal di stomaco, e patisce dolori colici, et è da’ flati combattuto, s’imagina, che ch’egli solo è il più tormentato corpo del mondo. Così ancora, chi patisce fastidij d’animo, e stà sempre circondato d’angosciosi, e tristi pensieri; vorrebbe più tosto patir ogn’altra cosa, che queste angoscie. Chi gli rimorde la conscienza, già si crede egli solo esser [p. 186 modifica]gettato all’Inferno. Chi per sua mala sorte hà pigliato una moglie superba, e fastidiosa, pensa d’esser il più infelice huomo del mondo, e và sempre dicendo, che non si trova il più noioso, e crudel centimolo, che ’l maritarsi. Il soldato, che si vede infermo, e morto di fame, condanna sempre la sua sorte, come di tutte la più iniqua. Chi è forzato à lavorar in casa, e stare sempre come un schiavo di Galera legato ad un banco, sempre si lamenta, e dice, che la sua è la peggior conditione d’huomo, che trovar si possa. I servi, e quei, che stan soggetti, non fanno altro, che lamentarsi, e predicar per beati tutti quanti gl’altri. I Magistrati, i Presidenti, e tutti quei, che governano, tengono sempre, che lo stato loro sia il più laborioso, e fastidioso. Il mercante finalmente travagliato dal mare, e dai viaggi, non fa altro, che lodare il riposo, e [p. 187 modifica]la quiete de gl’altri cittadini, e biasimare la mercantia, come una vita sempre torbulenta, e inquieta.

S.Gio. Chrisostomo eloquentemente al suo solito essendovi questo lamento fin’al suo tempo, dice il medesimo con queste parole: Oculum habens vitiatum nullam aegritudinem aliam talem esse censet, qualem suam: Rursum, qui stomacho laborat, hoc omnium esse difficillimum asserit: Itidem et in tristitia, qua quis detinetur, hanc asserit esse difficillimam, cum propria enim experientia hoc iudicat. Sicut qui filios non habet, nil ita grave putat, sicut filijs carere, qui multos habet cum paupertate, nil tam accusat, quam multitudinem filiorum. Privatus, nihil huiusmodi vita dicit inutilius esse, nihil abiectius. Miles nihil militia laboriosius, nihil periculosius asserit: satius enim pane solo cum aqua vesci, quam tot ferre molestias, et c. [p. 188 modifica]Quot senectam admirantur? quot beatam vocant iuventutem? Quare non fuimus senes? dicimus; Cum verò vertx albescit, rursum dicimus ubi iuventa? Et omnino multas tristitiae causas habemus. Una tamen est ab hac inaequalitate libera via, quae secundum virtutem est. 1 Essemdo dunque che noi sentiamo più i nostri mali, che quei d’altri, crediamo, che pesino più i nostri, che gl’altrui. Hor quì io voglio far’una dimanda in compagnia d’Horatio.

Qui fit Maecenas, ut nemo quam sibi sortem
Seu ratio dederit, seu sors obiecerit illa
Contentus vivat?2

Che vuol dire, è Mecenate, che niuno si trova, che della propria sorte viva contento? A ciascuno pare, che la sua sorte sia la peggiore di tutte; e ogn’uno stima, che la sua croce sia la più grave. E perciò si deve ad ogni modo correggere [p. 189 modifica]questo errore così frequente, nella Scuola della Patienza. Et ogn’uno si deve persuadere, che ogni modo, e ogni stato di vita è ritenuto ne i proprij ceppi ed è legato dalle sue proprie catene. Haiti tù eletto qualche sorte, ò stato di vita? non ti dubitare, che haverai ancora i suoi ceppi, e le sue catene. Chi tira le rendite pensi alle spese. E chi vien fatto herede bisogna ancor, che paghi i debiti. Hai pigliato à far vita religiosa? Imaginati pur delle tribulationi, e delle croci, e questa perpetuamente perche quì non ci può vivere chi non è crocifisso. Abbracciasti la militia? Aspettane pure un’estrema povertà, aspettane ferite, aspettane la morte. Ti desti alla mercantia? Comincia pure à pensare non solamente à i mali, e alle tempeste, mà ancora ai naufragi, a fallimenti, e alla perdita di tutta la robba. Ti sei dato allo studio? Ricordati, [p. 190 modifica]che haverai da inghiottire buone pillole di stenti, e di fatiche ò pur abbandonare gli studij. Ti sei posto a padrone? Pensa pur bene, che chi serve ad altri hà da patire qualsivoglia durissima cosa. La sorte, ò la natura ti hà fatto forsi Signore, e padrone? Apparecchiati pure à sostenere squadroni intieri di sollecitudini, e di angosciosi pensieri. Pigliasti moglie? Alla buon’hora. Haverai travagli assai. Queste feste non si fanno altrimente. Da te stesso ti mettesti in tali catene, e in ceppi tali, che ci vuol solamente la morte per disciorti. E perciò immaginati pure di havere una guerra di gran spesa, continue procelle, e tempeste della famiglia, un supplicio quotidiano, ogni cosa più trista, e dispiacevole. Perche come dice l’Apostolo: Tribulationem carnis habebunt huiusmodi. 3 Questi tali, che si maritano passeranno gran tribulationi, e af[p. 191 modifica]fanni. Hor perche resistiamo in darno? Ogni modo di vivere, e ogni stato hà le sue amarezze, e da per tutto vi è, che rodere.

Fù stabilito per la legge da Dio, che qualsivoglia offerta, che fusse fatta al Signore, si facesse senza fermento. E che ne i sacrifici non s’adoperasse niente, che sapesse di mele ò fermento, e che tutto quello, che s’offerisce fusse condito, e asperso di sale. Omnis oblatio quae offertur Domino, absque fermento fiet, nec quicquam fermenti, ac mellis adolebitur in sacrificio Domini. Quicquid obtuleris sacrificij, sale condies. 4 Il mele, e il fermento sono esclusi da i divini sacrificij. Nè si deve l’huomo astenere tanto da i peccati, quanto da i piaceri, che ci conducono à far i peccati. L’un, e l’altro da Dio vien rifiutato, e il mele del piacere, e il fermento del peccato. S’hà [p. 192 modifica]da condire con sale tutto ciò, che desideriamo offerire à Dio. Perche come dice S. Girolamo, niente piace à Dio, che non habbia in se qualche poco d’amarezza, e di mordacità. E l’istesso Dio, asperge quasi ogni cosa d’amarezza, e la frega con molto sale.

Presentendo ciò il Rè David disse: Posuisti tribulationem in dorso nostro. 5 Signore Voi ci havete caricati di tribulationi. E chi è quello, che non senta questa acrimonia! Aggiunge poi: Induxisti nos in laqueum. ci havete posto in ceppi; Questi lega con maniglie, altri con collane, alcuni con catene, altri con corde, alcuni lega con ferro, altri con cinte di cuoio, e altri finalmente con oro. Non è però men legato chi è legato con oro, che chi è legato con ferro. Siamo in ceppi, e in catene [p. 193 modifica]in qualunque sorte di vita ci troviamo. E quello si giudica, che sia più di ogni altro prattico, e destro nella Scuola della Patienza, che, meglio di ogni altro sà sopportare i suoi ceppi, e le sue catene, e con christiana patienza abbraccia meglio i ceppi, e le catene del suo stato. Et è cosa certa, che questi legami s’han da portare, e non da rompere. Et à molti giova grandemente l’esser così legati, accioche ne i piedi, ne le mani si discostino licentiosamente dall’honesto.

Condenniamo dunque affatto quell’errore, che a tutti dà ad intendere, che la sua croce sia la più grave di tutte quante l’altre. Anzi ogn’uno tenga certo, e si persuada che non haverà mai patito, ne patirà mai tanto, che non si sappia ch’altri hanno patito più gran cose di lui.

Ma da quel primo errore ne suol nascere un altro, quando non sola[p. 194 modifica]mente ci pensiamo, che le nostre afflittioni siano maggiori di quelle d’altri, mà cerchiamo ancora di fuggirle se bene in darno. Quindi è, che ’l villano odia la zappa, e l’aratro, il muratore la sua cazzuola, il ferraro la lima, lo scrivano la penna, lo scuolare la disciplina: il marito odia la moglie, il servo il Padrone, lo scolarello il maestro; à tutti dispiace il proprio officio, e quel modo di vita, che si trova d’haver incominciato. E questo non avviene per altro, se non perche siam’ pigri e freddi, e non vogliamo durar fatica. Propter frigus piger arare non vult. 6

Qui S.Paolo dice à tutti ad alta voce; Unusquisque in qua vocatione vocatus est, in ea permaneat. 7 Ciascuno stia saldo nella sua propria vocatione. Ma in, che modo? Facendo, e patendo molte cose con fortezza. E per questa causa S. Paolo venendo anco alle pre[p. 195 modifica]ghiere dice: Obsecro itaque vos ego vinctus in Domino, ut digne ambuletis vocatione, qua vocati estis, cum omni humiliate, et mansuetudine, cum patientia, h E però io,, che mi trovo circondato di catene per il mio Signore, vi prego, vi supplico, e scongiuro, che cerchiate di camminare bene, e andare sempre inanzi nella vostra vocatione, con ogni humiltà, e mansuetudine, e con ogni sorte di patienza. Perche dunque noi altri miserabili facciamo resistenza? perche cerchiamo in vano di rompere questi legami? E’ certo, che facendo questo ogni volta più c’intrighiamo.

Sopportiamo adunque allegramente i ceppi, e le catene in, che ci siamo posti finchè dal Cielo ci venga il premio, e la corona. Forse ch’è vicino quel giorno in cui canteremo al nostro liberatore quella bella canzone: Dirupisti [p. 196 modifica]vincula mea, tibi sacrificabo hostiam laudis.8 Mi rompeste, Signore, i ceppi, e le catene; E però io vi farò un sacrificio di lode ringraziandovi per sempre, e lodando sempre il vostro Santo Nome.

Note

  1. [p. 218 modifica]S. Chrysost. tom. 5 hom. 67. prop. fin.
  2. [p. 218 modifica]Horat. lib. 1. sat. init.
  3. [p. 218 modifica]1. Cor. cap. 7. 28.
  4. [p. 218 modifica]Levit. cap. 2. 11. & 13.
  5. [p. 218 modifica]Ps. 65. 21.
  6. [p. 218 modifica]Prov. cap. 20. 4.
  7. [p. 218 modifica]1. Cor. 7. 20.
  8. Ps. 115.16.

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§. 2 De i nodosi Bastoni.


V
Engono da i nodosi Bastoni significate quelle calamità, che sono comuni à molti, come la Tirannide, l’Heresia, la guerra, la peste, la sterilità, la fame, le oppressioni, le uccisioni, l’inondationi, le infermità, i naufragij, le ruine, gl’incendi, i terremoti, le grandi, e profonde aperture della Terra, e le altre publiche calamità, e miserie. E questi [p. 197 modifica]publici mali, che noi patiamo sono di molto profitto; perche la loro origine vien da Dio, ch’è l’autore, capo, e fonte d’ogni bene, il quale ci manda queste cose aspre, come tanti medicamenti dispiacevoli al senso mà in fatti molto salutevoli per la riuscita.

Il fine di queste calamità è di trè sorti: perche Dio con quelle ò tiene in essercitio i buoni, ò castiga i colpevoli; ò punisce i tristi, e tutto ciò per nostro bene. Vediamo ogni giorno, che tutti gl’huomini da bene, ò separatamente ò insieme co’ i tristi, sono travagliati da queste calamità, e da questi mali. Lo vediamo, e ce ne maravigliamo, perche ne capiamo bene la cagione, ne attendiamo al fine. La causa di questi mali è l’amor, che Dio ci porta, il fine non è il danno nostro, mà il profitto. Perche questo esercitio ci è d’utile, e giovamento in molti modi. Se tu [p. 198 modifica]vuoi essere buon marinaro hai da imparare questa arte nelle tempeste; se sei soldato ne i pericoli; e se veramente vuoi diventare un’huomo, nel patire, e sopportare con patienza le afflittioni. Doctrina enim viri per patientiam noscitur. 1 Quello, che hà imparato un’huomo si conosce per la patienza. E così questo è il fine dell’essercitio, l’altro del castigo.

Le calamità con le quali siamo castigati, ò ci servono per flagelli, quando habbiamo peccato; ò di freno, per non peccare. E’ mano di Padre quella, che spesso percuote i delinquenti; mà quella, che tardi, e una sola volta castiga, è di carnefice. Il castigar di Dio, è vero, che riguarda i tristi, mà non però è malo, ò tristo, perche non è altro, che un certo reprimere, e raffrenar’altrui dal male. Et à questo modo ogni pena è buona rispetto alla giustitia, si come al contra[p. 199 modifica]rio l’impunità è mala, perche fà, che i tristi, e scelerati durino più à far del male.

Hora le publiche calamità, come sono le guerre, la carestia, la peste, e l’altre, sono giustissimamente da Dio mandate. Ne accade, che noi le teniamo per peggiori delle antiche, ne per cose nuove, poiche ne’ tempi andati, e vi furono di queste cose, e molto peggiori, e più gravi. Et in questo nostro secolo dall’anno 1618 fino al presente, che queste cose scriviamo, che pur vi son trascorsi dodeci anni, è andata quasi tutta l’Europa in guerra; ne si deve punto dubitare, che non vi siano morti alcune centinaia de migliaia d’huomini, parte da malattie, e parte dalla fame, e dalla spada uccisi. Mà questo non è cosa nuova. In una sola città di Gerusalemme per tutto quel tempo, che già durò l’assedio, vi morirono, e vi furono uc[p. 200 modifica]cisi un millione di persone, e ne fur presi novanta sette mila. Nel qual tempo ancora in diversi luoghi della Giudea furono uccisi un millione, e duecento quaranta mila Giudei, oltre innumerabili altri, che morirono di fame, sbanditi, e con mille miserie. Et eccoti una calamità d’una sola natione; mà quanta pensi tù, che sia quella minima parte d’huomini, e di paesi rispetto alla nostra Europa?

Hor che sarà stato in altri paesi? Una sol guerra, che fù la seconda Cartaginese solamente nell’Italia, nella Spagna, e nella Sicilia consumò in manco di diciassette anni più di un milione, e mezo d’huomini. La Guerra civile di Cesare, e Pompeio si inghiottì da trecento mila huomini. I Bruti poi, i Cassij, e i Sesti Pompeij molto più sangue sparsero. Un solo Caio Cesare (ò peste, ò rovina grande del ge[p. 201 modifica]nere humano) confessa egli stesso, e se ne gloria, d’haver ucciso nelle guerre ch’egli fece un millione, e cento novanta due mila huomini. Pompeio Magno lasciò un’iscrittione nel Tempio di Minerva, nella quale diceva, che tra quei che da lui furono sbaragliati, messi in fuga, uccisi, e quei, che se gli resero arrivarono al numero di due millioni, e ottanta tre mila huomini. Ai quali aggiungo, come per ordine Q. Fabio, il quale uccise cento, e dieci mila Francesi. Caio Mario, che uccise ducento mila Cimbri; e nel secolo appresso, Aetio, che in quella memorabile battaglia di Catalogna uccise cento sessanta due mila Hunni. A questi aggiungo ancora il Rè Mitridate il quale con una lettera, che egli scrisse, fece ammazzare ottanta mila Cittadini Romani, che stavano negoziando per tutta l’Asia. [p. 202 modifica]

Nè solamente vi furono stragi d’huomini nelle guerre, mà anco di Città, e di Castelli. Catone Censorio si gloriava di haver pigliato più terre nella Spagna, che non erano i giorni, che v’era stato. E queste furono quattro cento se vogliamo credere à Plutarco. E Sempronio Gracco, come racconta Polibio, nella medesima Spagna, ne distrusse trecento.

Mà che dirò adesso di tante infermità, e pesti, che successero? In Giudea una sola peste, al tempo del Rè David, in manco d’un giorno uccise settanta mila huomini. Al tempo di Gallo, e Volusiano Imperatori venne una peste così crudele dalle parti d’Etiopia, che occupò tutte le Provincie dell’imperio Romano, e per quindeci anni continui incredibilmente le consumò, e uccise un numero innumerabile d’huomini. A pena credo ve ne sia mai stata [p. 203 modifica]un’altra maggiore sì per il tempo che durò, come per il grande spatio di Paesi, che scorse. Mà assai più crudele fù quella, che à tempo di Giustiniano Imperatore fù in Constantinopoli, e ne i luoghi circonvicini, la quale fù sì grande, ch’ogni giorno ne morivano cinque mila, e talvolta ancora dieci mila. Ne fù minore la Peste, che fù in Affrica dopo la distruttione di Cartagine; poiche nella sola Numidia ammazzò ottanta mila huomini; nelle marine d’Africa duecento mila; e vicino ad Utica, trenta mila soldati.2 In Grecia sotto l’Imperio di Michaele Duca, vi fù una peste sì crudele, che i vivi non bastavano per sepelir i morti.3 Finalmente al tempo del Petrarca, vi fù sì gran peste in Italia, che d’ogni mille huomini à pena dieci ne rimanevano vivi.4

Ma della fame, e delle Carestie, certo, che noi, ne verun’altro [p. 204 modifica]dell’età nostra hà veduto niente, se compariamo le nostre con l’antiche. Al tempo dell’Imperatore Honorio fù tanto grande la Carestia in Roma, che già gl’huomini stavano per mangiarsi l’un l’altro; e nel Cerchio Massimo fù da tutti sentita una voce, che gridava: Pone pretium humanae carni; Metti il prezzo alla carne humana. E per tutta l’Italia, quando i Gothi al tempo di Giustiniano le davano il guasto ve ne fu tanta di nuovo, che nella sola Marca d’Ancona morirono di fame cinquanta mila huomini; et arrivò a segno tale, che bene spesso non solo si mangiavano le carni humane, ma ancora i proprij escrementi dell’huomo.

Nel tempo di Habide Rè delle Spagne, fù tanta, e così grande per lo spatio di ventisei anni la siccità della Terra, e dell’Aria, che seccatisi affatto tutti i fiumi, e tutte le [p. 205 modifica]fontane, fuor che i fiumi Ibero, e Beti, che hor si chiamano Ebro, e Guadalquevir; e seccatosi affatto quell’humore, che tiene insieme unite le parti della Terra, i campi s’aprirono in profondissime voragini, e fù levato il poter’andare ad altri paesi à molti, che sforzati dalla necessità di sostentar la vita, facevano pensiero di fuggirsene. E così la Spagna, particolarmente ne i luoghi mediterranei spogliata de gl’Alberi, e dell’Herbe (benche si dica, che si conservarono alcuni pochi alberi sù la riva del sudetto fiume Beti) essendo morti di fame e gl’huomini, e le bestie, fù ridutta in una miserabile solitudine, e deplorabile rovina. S’estirpò affatto la schiatta Regia, e le nobili progenie mancarono affatto, essendosene fuggiti nelle Provincie vicine, e ne’ luoghi maritimi gli huomini più ordinarij, e i pove[p. 206 modifica]relli, che non haveano da mantenersi. Passati finalmente li ventisei anni, dopò una gran furia de’ Venti, che seguitarono, estirparono fin dalle radici tutti gli alberi, vennero copiosissime, e abondantissime pioggie, con le quali si rimediò a si gran male. Si crede che alcuni poi di quelli antichi paesani, mà però con altre genti forastiere insieme, se ne ritornassero alla patria, e ritornassero non solo la gente, mà il nome ancora delli Spagnoli, che per tal rovina era già quasi del tutto estinto. Così dicono l’historie di Spagna.5 Taccio le cose, che si sanno.

Hor, che starò io à dire, nè à raccontare gl’essempi antichi, de i Tributi, e delle gravezze immense, che prima si pagavano? Tutte quasi le Provincie, ch’erano soggette all’Imperio Romano pagavano ogni anno la Quinta de i frutti, che si cavavano dai campi [p. 207 modifica]destinati al pascolo, e la Decima di quelli, che si aravano. Nè vi mancò un’Antonio, e un Cesare, che riscossero in un sol’anno i tributi, e le gravezze, che in nove, o dieci anni si dovean pagare. Ucciso che fu Giulio Cesare, e per la libertà fur prese l’armi, ogni cittadino era sforzato à pagare la Vigesima quinta di tutti quanti i beni. E di più tutti quelli, ch’erano dell’ordine Senatorio, bisognò che pagassero sei assi per ogni tegola delle Case loro. Tributo immenso, e che à pena par credibile. Ottaviano Cesare riscosse, e hebbe dai Liberti l’Ottava parte di tutti i beni loro. Tralascio ciò, che in simile materia fecero i Triumviri, e gl’altri Tiranni.

Mà le Colonie, che mandavano i Romani (delle quali non si potea imaginare cosa più lugubre, e infelice per i poveri sudditi) superavano di gran longa, e avan[p. 208 modifica]zavano tutte l’altre essattioni, e tutte l’altre rapine. Si conducevano ad ogni poco Legioni intiere, e compagnie di soldati veterani nelle terre, e nelle possessioni, e i miseri Paesani erano in un momento spogliati di tutti i beni, e di tutto il loro havere senza veruna colpa loro: e per sufficiente colpa bastavano le loro ricchezze, e le lor grasse possessioni. E’ cosa miserabile il vedersi torre i denari, ma il vedersi privar de’ suoi poderi, e delle proprie case, che dovea essere? E’ cosa grave l’esser cacciati dalle case; mà che dovea essere, l’esser cacciati dalla patria? Erano bene spesso separati molti migliaia d’huomini, i figliuoli da i Padri, i Padroni da i loro familiari, le mogli da i mariti, e stramandati in varij, e diversi paesi, come la mala sorte di ciascuno voleva; essendo sforzati d’andare altri nell’Africa, altri nella Scithia, [p. 209 modifica]ò nella Bertagna. Ottaviano Imperatore solamente mise nella sola Italia ventiotto Colonie; e nell’altre Provincie, quante gliene parve. E questo fu veramente una voragine di tutte le calamità.

Hor, che dirò delle innondationi, de i Terremoti, degli incendi, e di tant’altre rovine, e disgratie, che ben spesse volte s’assorbirono le Città intiere? Nella Città di Fidena sotto il Prencipe Tiberio, sotto la ruina d’un Theatro, che cadde à terra, morirono più di ventimila huomini.6

Vi sono rovine, e calamità per tutto il mondo, ve ne furon sempre in ogni tempo, e sempre ve ne saranno. E piu tosto ci doveressimo meravigliare, che si trovasse alcuno, che fusse esente da questa legge comune, e che non portasse quel peso, che portano tutti, e non sentisse le gravezze, che tutti sentono. Solone havendo un [p. 210 modifica]suo amico in Athene, che sempre piagneva, il condusse un giorno nella Rocca, ch’era la più alta parte della Città, e mostrandogli tutte le case di quella gran Città, che d’ogn’intorno da quell’alto luogo benissimo si scoprivano, gli disse: Hor pensa un poco quanti pianti, e lamenti siano già stati ne i tempi passati sotto questi tetti; quanti ve ne siano al presente; e quanti ve n’han da esser per l’avvenire: e lascia di lamentarti in vano, e apparecchiati à sopportare forte, e valorosamente tutte queste cose contrarie. L’istesso s’ha da dire à tutti quei, che deplorano questi nostri tempi, come i peggiori di quanti ne siano passati. State pur saldi, e costanti: quello che noi ci pensiamo, che ci sia dannoso, ci serve per rimedio. Iddio con questa picciola ferla di calamità, e miserie ci fà come una purga, e ci netta da i nostri peccati. [p. 211 modifica]Transeundum est per ignem, et aquam, et educet nos in refrigerium. 7 Tu hai da passar per fuoco, e acqua, e poi sarai condotto à riposarti. Havesti il primo? Aspetta il secondo.

Note

  1. [p. 233 modifica]Prov. c. 19. 11.
  2. [p. 233 modifica]Procop. de bell. Perfic. Agathias l. 5. hist.
  3. [p. 233 modifica]Zonar.
  4. [p. 233 modifica]Ann. 1359
  5. [p. 233 modifica]Io. Marian. l. 1. Rer. Hispan. c. 13 in fin.
  6. [p. 233 modifica]Tranquill. de Cesar. Tacit. in Ann. et alij.
  7. Ps. 65. 12

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§. 3. Del Mantello.


I
O chiamo Mantello quell’afflittione, che ciascuno genera à se stesso, e se pur gli viene da altri, egli se l’accresce con le sue vane persuasioni, e imaginationi. Poiche à ciascuno tale appare una cosa, quale egli se l’imagina, e con quella veste è quel mantello, ch’egli scioccamente le mette intorno. E’ cosa incredibile quanto possa in questo caso, ò [p. 212 modifica]l’imaginatione, ò l’opinione. Solamente per la nostra opinione talvolta ci ammaliamo, e talvolta ancora moriamo. Accade qualche volta, che due persone saranno oppresse da una medesima croce, o se pur’è diversa sarà similissima à quell’altra: Uno di questi, che hà più animo, giudica la sua di carta; e quell’altro, che hà l’animo più basso, e più timoroso, si pensa, che la sua gravi à punto, come piombo. Qui come si può vedere non è diversa la cosa, mà l’opinione.

Spessissime volte una croce è tanto grande, e tanto grave, quanto s’imagina quello, che la porta. I nostri mali ò crescono, ò mancano secondo la nostra opinione. E quegli patisce gran cose, e molto gravi, che già si hà dato ad intendere di patir cose tali. E’ assai grande invero l’imperio dell’imaginatione intorno alle infermità, e ai mali, che patiamo. Vi sono [p. 213 modifica]alcuni, che assomigliano quella imaginatione à quella pioggia, che col suo cadere in terra fa subito nascere, e genera una gran moltitudine di ranocchie. Altri l’assomigliano al tuono, che fa sconciar le pecore, e fa, che ’l miele diventi amaro.

Nè saria fuor di proposito l’assomigliare l’imaginatione ad alcuni occhiali, che si fanno in Venetia i quali fanno, che venti ò trenta soldati insieme paiono un intero esercito. Tutto quello, che par grande in questo mondo, subito cala se tu gli levi quella gonfiatura vana dell’imaginatione. I pensieri timidi, le sospicioni, l’emulationi, le gare, e mille altre cose simili, che sì miseramente ci travagliano la vita, sono inganni dell’imaginatione. L’imaginatione non è altro, che un sogno di chi veglia, il quale ti mette innanzi mille oggetti hor ridicoli, hor spaventevoli. E’ detto volgare quel[p. 214 modifica]lo, Imaginatio facit casus. L’imaginarsi una cosa cagiona l’istesso effetto che se fusse vera. E quì non direi cosa, che fusse men vera s’io dicessi: Che l’imaginatione è quella, che ci fabbrica la croce, ò pure, che ce la fa più grave. Si come accade à colui, che passando per un ponte stretto, ò salendo in qualche luogo alto, all’hora comincia subito à cadere, quando si imagina di cadere: Così apunto all’hora uno diventa calamitoso quando si pensa d’essere tale.

Qual’è l’imagine, che noi ci facciamo delle cose, e quale è il mantello, che lor mettiamo attorno; tali ancor ci paiono. Conferma tutto questo S. Giovanni Climaco con la narratione del fatto, che segue; e dice così: Cum in coenobio ad mensam consedissemus, coenobij Praeses in aurem mihi insusurrans: Vis inquit, Pater, ostendam tibi religiosissimam cum [p. 215 modifica]extrema canitie prudentiam? Cumque id summis precibus orarem, nec quicquam me magis velle dicerem, advocavit praeses e proxima mensa sacerdotem senem octogenarium, qui sacrario praeerat, et quadraginta octo annos in Monasterio cum laude posuerat. Vocatus hic senex promptissime venit, et Abbatis genibus advolutus solennem precationem expetijt, eaque data surrexit, et ad mensam, quod Abbas mandaturus esset, stans expectavit, idque sub initium prandij. Abbas suavissime omnia dissimulans, neque senem abire iussit, nec quid ipse vellet imperavit, prandium antem omni studio conta morem protrahi curavit. Duabus fere horis patientissimus senex stetit immoto gradu, et quidem impransus. Climacus haec secum tacite admirtus, erubescebat, cel obliquo oculo in canum illud, et venerandum caput [p. 216 modifica]tangere, itaque perstabat dignissimus caelo senex ad prandij finem, Remotis mensis, cum omni surgerent, iussus est abire, et initium trigesimi Psal. i. Expectans expectavi Dominum, et intendit mihi, Isidoro recitare. Climacus in stuporem datus hoc spectaculo, et religiosa curiositate actus. Senem illum statorem ad colloquium secretum sevocans: Et quaeso te, inquit, mi Pater, quid tanto tempore impransus, et stans ad mensam cogitasti. Cui senex placate imaginem Christi Praesidi meo imposui, ait, neque enim hoc hominis iussum, sed ad aram me stare persuasus, Deo preces adhibui, nec ullam maligniorem cogitationem adversus Praesidem admisi. 1 Essendoci già nel monasterio posti à tavola, accostandomisi l’Abbate all’orecchia; volete. Padre, disse, ch’io vi mostri una religiosissima prudenza con una estrema vecchiezza congiun[p. 217 modifica]ta? E facendogliene io instanza con sommi prieghi, e dicendogli, che non vi era cosa ch’io più desiderassi, chiamossi all’hora l’Abbate da una mensa vicina un sacerdote vecchio d’ottanta anni, ch’era sagrestano, e con somma sua lode havea speso quarant’otto anni in quel monasterio. Chiamato questo vecchio, se ne venne subito con ogni prontezza, e gettatosi a piè dell’Abbate gli dimandò la solita benedittione, e havuta che l’ebbe, si levò in piedi, e accostatosi alla Tavola, se ne stette aspettando così in piedi ciò, che l’Abbate gl’havesse voluto comandare, e ciò dal bel principio del desinare. L’Abbate dissimulando ogni cosa suavissimamente, nè gli comandò, che se n’andasse, nè meno gli disse ciò, che volesse. E procurò à bella posta, che il desinare contra il solito si tirasse più in longo. Se ne stette così in piedi quel [p. 218 modifica]patientissimo vecchio per due hore, senza moversi mai, e senza mangiare. Climaco essendosi fra se stesso di ciò assai maravigliato, si vergognava di voltar l’occhio à vedere nè anche così sott’occhio quel canuto, e venerando capo. E così se ne stette sempre in piedi fino al fine del pranzo quel santo vecchio, assai più degno di stare in cielo, che in terra; Levate che furono le tavole, quando tutti ancora si levano, gli fù ordinato, che se ne andasse, e recitasse à S. Isidoro l’initio del salmo trigesimo nono, che così comincia: Expectans expectavi Dominum et intendit mihi. Rimasto tutto stupito Climaco à questo spettacolo, e spinto da religiosa curiosità, chiamando da parte quel buon vecchio, segretamente così gli disse: ditemi, di grazia Padre mio, che cosa havete voi pensato stando tanto tempo in piedi appresso quel[p. 219 modifica]la mensa senza mangiare? A cui il vecchio con gran quiete così rispose: Io posi adosso al mio Prelato l’imagine di Christo; perche non mi diedi mai à credere, che ciò mi havesse comandato un huomo, ma si bene lo stesso Dio, perciò havendomi io persuaso, non di star appresso d’una tavola, mà appresso d’un altare, hò fatto in questo mentre oratione à Dio, ne hò mai ammesso nel mio cuore alcun’altro più maligno pensiero contra il mio Superiore.

Et eccoti un nobilissimo artificio, che in ogni modo si deve usare nella Scuola della Patienza. Io posi, disse quel buon vecchio, l’imagine di Christo adosso al mio Superiore. Poiche ciascuna cosa tale ci appare qual’è l’imagine ò qual’è il mantello, che noi le mettiamo, cioè quale ce l’haverà finta la nostra imaginatione. Se noi la vestiremo d’un mantello lugubre, [p. 220 modifica]e nero; saremo subito feriti da un sguardo mesto, e malinconico: se le metteremo un mantello leggiero, e di bel colore, l’abbracciaremo subito con ogni quiete, e allegrezza, e senza timore alcuno.

Alle volte però, qualunque tù ti sia, che non ti vuoi pigliar tanto fastidio di queste cose; considera bene l’istesso nudo aspetto della cosa istessa, e vedrai, che ciò, che prima ci minacciava horrore, e morte ti muoverà poi al riso. Di, che vediamo spesso accadere ai fanciulli, e occorse ancora à noi quando eravamo un poco più grandicelli. Quelli hanno paura, e si spaventano quando vedono mascherati coloro ch’essi per altro amano, conversano, e giocano con loro. Non hominibus tantum, sed et rebus persona demenda est, et reddenda facies sua. 2 Non si deve cavare la maschera solamente à gl’huomini mà ancora alle [p. 221 modifica]cose, e mirarle com’elle sono. Mira di gratia attentamente, che cosa sia l’amalarsi, l’esser povero senza sua colpa, l’haver perduto la grazia, e il favor degl’huomini; considera bene, che cosa sia, che uno sia ingiuriato à torto, che un virtuoso sia dispreggiato, e biasimato, e dirai, che queste cose son bene terribilissime, e horribilissime mascare, e apparenzze di mali insopportabili; mà che non sono cose se non da spaventare fanciulli.

L’imaginatione di molti è quella, che guarda l’infirmità, e l’apprende per un male gravissimo: la povertà per un sommo dishonore di questa vita; l’ingiurie, il dispreggio, i vituperij, la perdita de’ favori, la molestia degl’invidiosi, per una cosa pessima, e dannosissima, e da esser à vele, e à remi fuggita. E così delle formiche ci formiamo Elefanti; de i cani, tigri, e pantere; de i lepri, e conigli ci fin[p. 222 modifica]giamo non sò quali esserciti di bestie indomite, e terribilissimi mostri. A questo modo moriamo cento volte prima di star male, à questo modo ci crediamo d’esser più poveri d’Iro, e di Codro, prima di sentire la povertà di questa maniera gridiamo d’haver perduta la Vittoria, e d’esser già tutte le cose disperate prima di veder comparire l’inimico: à mala pena gustiamo un poco d’assenzio, che temiamo d’haverne à divorar le montagne intiere: à mala pena mettiamo il piè sopra una spina, che subito c’insogniamo, che siano tante ferite mortali. Così aggiungiamo mali ai nostri mali, e diamo ad intender à noi stessi bugiardamente una cosa per un’altra. E tutte le cose, che patiamo, son fatte dalla nostra opinione, e maggiori, e più crudeli.

Chi sarà quello, che, che possa à bastanza pesare, e considerare i varij [p. 223 modifica]scherni di questa nostra misera mortalità? Molto più sono le cose che ci spaventano di quelle, che ci premono, e spesse volte siamo più travagliati dall’imaginatione, che dal caso. Vi sono alcune cose, che ci tormentano più di quello, che devono. Ve ne sono altre, che ci tormentano prima che devono. e altre finalmente, che all’hora ci tormentano, quando non devono. Perche ò accresciamo il dolore, e fingiamo: ò pur noi siamo quelli, che ce l’andiamo cercando. Poichè spesse volte habbiamo molti sospetti e quella fama, che suol fare la guerra, che è quella, che ci inganna3. così ci accostiamo all’opinione, nè procuriamo di cacciare quelle cose, che ci fanno temere, nè ce ne sbrighiamo, mà ci spaventiamo, e voltiamo le spalle, come coloro, che mossi dalla polvere, che facevano alcune pecore fuggite, abbandonarono gl’allog[p. 224 modifica]giamenti: ò pure come quei, che per qualche favola sparsa senza sapersene l’autore, furono subito da una gran paura oppressi. Io non so in che modo le cose vane ci conturbino, poiche le cose vere hanno i suoi termini; e tutto ciò, che da incerto autore ci viene, lo consegnamo subito alla congettura, e alla licenza del pauroso animo nostro. Perciò consideriamo ben prima la cosa, e cerchiamo diligentemente qual’ella sia.

Quante cose ci sono venute, che non l’aspettavamo, e quante n’habbiamo aspettate, e non son mai venute. E se bene hà da venire ciò, che tù temi;, che ti giova andare incontro al tuo dolore? Assai presto ti dorrai, quando verrà, fra tanto mettiti a pensar cose migliori, e non voler essere sollecito di ciò, che hà da esser dimane. Perche il giorno di dimane sarà sollecito à bastanza per se stesso: [p. 225 modifica]Sufficit diei malitia sua. 4 Basta ad ogni giorno la malitia sua. Quello di cui noi habbiamo paura, forse sarà, e forse nò: fra tanto, che non è, lasciamo andar questi vani timori.

Qualche volta, non apparendo segno alcuno, che ci annuntij qualche male, l’animo si forma le sue false imaginationi, ò che torce qualche parolina dubia sempre al peggior significato, ò, che si propone l’offesa; che hà ricevuto per molto maggiore di quello ch’è, e và pensando, non quanto quello sia sdegnato, mà quanto possa fare uno sdegnato. Di questa maniera ci spaventiamo delle cose dubbie come se fussero certe; nè consideriamo le cose come sono. Subito ci mette paura un scrupolo. Essamina dunque bene la speranza, e il timore, e lascia di turbarti.

Disse benissimo Epitteto: Homines perturbantur non rebus, sed [p. 226 modifica]ijs, quas de rebus habent, opinionibus: Verbi caussa; mors non est malum (alioqui enim et Socrati ita visum esset) sed opinio de morte, quae malum eam facit. Cum igitur impedimus, aut distrahimur, non alios culpemus, sed nosmetipsos, hoc est nostras opiniones. 5 Gl’huomini si conturbano, non per le cose, mà per le opinioni, che hanno delle cose. Per essempio: la morte non è cosa mala, (perche altrimenti Socrate ancora saria stato di questo parere) mà si bene l’opinione della morte, che la fa parer, che sia male. Quando adunque siamo impediti, o distratti, non ne diamo la colpa ad altri, mà si bene à noi stessi cioè alle nostre opinioni.

Confermando questo Seneca, dice chiarissimamente. Opinio est ergo, quae nos cruciat, et tanti quodque malum est: quanti illud taxavimus. In nostra potestate [p. 227 modifica]remedium habemus. 6 La nostra opinione è quella, che ci tormenta; e ogni cosa hà tanto di male, quanto ce l’habbiamo tassato noi. Il remedio stà in poter nostro. E così nella Scuola della Patienza le croci, e le afflittioni sono tanto pretiose, ò vili: tanto gravi, ò leggiere, quanto è il prezzo, ò il peso, che lor danno, ò mettono i scolari. E tanto ciascuno è misero, e afflitto quanto si crede d’essere.

Note

  1. [p. 249 modifica]Clem. gr. 4. p. 7. ab init. 4. gr.
  2. [p. 249 modifica]Senec. ep. 24. med.
  3. [p. 249 modifica]Liv. l. 27. fama bellum conficit, et parva momenta in spem, metumve impellunt animos.
  4. [p. 249 modifica]Matth. c. 6. 34.
  5. [p. 249 modifica]EpictEt. Enchir. c. 10
  6. Senec. cons. ad Marc. c. 19.

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§. 4. Delle sferze.


F
Ra le più gravi afflittioni, con gran ragione si contano quelle, che ci vengono dalla lingua, come sono le Riprensioni, l’Ingiurie, le Mormorationi, le Villanie, [p. 228 modifica]le Calunnie, i Rinfacciamenti ingiusti, le false accuse, e tutto ciò, che vien di male da questa Lerna de’ mali della Lingua. Quà si riducono le negative, le dimande impertinenti, e i comandamenti di cose difficili, aspre, e dure. E tutte queste sorti di afflittioni, ci mettono dinanzi à gl’occhi le sferze. Di quà ci vengono gravissimi colpi, e acerbissime piaghe, che son bastanti ancora a spezzarci l’ossa, massime se ci son date da chi meno ce l’aspettiamo.

Si lamentava una volta il Rè David à questo modo: Si inimicus meus male dixisset mihi, sustinuissem utique. Et si is, qui oderat me, super me magna locutus fuisset, abscondissem me forsitan ab eo: Tu vero homo unanimis, dux meus, et notus meus, qui simul mescis dulces capiebas cibos.1 Se un mio nemico havesse detto mal di me, e se havesse detto gran [p. 229 modifica]cose del fatto mio un’huomo, che m’havesse voluto male in apparenza, forse, ch’io mi sarei da lui nascosto; mà tu, ch’eri l’anima mia, la mia guida, e quel, ch’io conoscevo quello, che mangiavi meco ad una medesima tavola, hor mi tiri ancor tù de’ calci?. Et tu fili? E tù ancora figlio sei con costoro? diceva Cesare a Bruto, quando nel Senato l’ammazzavano. Qui daremo brevemente alcuni conforti, che sarà come mettere un poco d’unguento nella ferita.

Il primo è, che qui non si perdonarà à nessuno per cautelativissimo che sia, perche ancor questi son feriti, e flagellati dalle lingue. flagellum linguae (disse l’Ecclesiastico) omnibus communicans.2 Il flagello della lingua à tutti è comune. Gieremia Profeta, che fù santo prima, che nascesse, nondimeno si lamenta, e dice: Vae mihi mater mea, quare me genuisti [p. 230 modifica]virum rixae, virum discordiae in universa terra?3 Guai à me, ò madre mia, perche mi faceste voi di questa maniera, un’huomo di risse, e di contrasti, e esposto alle lingue di tutti in questo mondo? Era il santo Profeta esposto alle calunnie, e alle maledittioni di tutti.

Era poco à Giob l’esser tormentato dal Demonio crudelissimamente, se la sua moglie ancora, e li suoi parenti non l’havessero con le lingue loro pessimamente flagellato. Sicome gl’Aromi fanno sentire il loro odore da lontano, se tu li pesti; così la fama della virtù si sparge, se la premi. Vi sono ancora alcuni animali, che percossi mandano un fortissimo odore; Tale a punto fù Giob, il quale quanto più era flagellato, tanto maggiore odore di patienza ci dava. Senti quel ch’ei dice: Beatus homo qui corripitur a Deo: increpationem ergo Domini ne [p. 231 modifica]reprobes. 4 Beato è quell’huomo, che da Dio è castigato: non rifiutare adunque il castigo, che ’l Signore ti manda.

Il secondo conforto è la divina protettione, la quale fà questo effetto, non che tù non senta queste sferzate, ma che non ti facciano tanto male. A flagello linguae absconderis (disse Giob) et non timebis calamitatem cum venerit. 5 Sarai difeso dal flagello della lingua, e non haverai paura della calamità, quando ella ti verrà. Conviene mirabilmente à questa cosa questo nome, poiche il flagello della lingua non dà solamente dolore, mà vi lascia il segno della percossa, e la lividura, cioè intacca la fama, e il buon nome. In oltre si come i flagelli, e le sferzate per il più si danno di dietro, e su la schiena, così le mormorationi, e le maldicenze ti offendono senza che tù le veda, ò senta. Mà [p. 232 modifica]tu, che patisci queste cose, datti animo, e stà allegramente, perche sarai difeso da questa sferza, e Dio sarà quello, che ti difenderà accioche nè la bugia, nè le calunnie non ti facciano danno, ò se pur ti nuoceranno in qualche modo, ti sia poi ciò ricompensato con qualche altro maggior bene.

Il terzo conforto è, Che quelli che sono à questo modo flagellati, se si portano bene, e con patienza, vanno scontando la maggior parte delle pene dovute à i lor peccati. Quando anticamente in Roma si facevano i giuochi Lupercali, andavano attorno alcuni giovani vestiti di pelli di capre, e correndo con alcuni staffili percuotevano la turba, che si faceva loro incontro. Fra l’altre, le donne costumavano d’andare incontro à costoro, e di farsi spontaneamente con quelle sferze battere da lor le palme, credendosi [p. 233 modifica]che da quelle percosse ne riportassero la facilità nel partorire, facevano questo i Romani nel mese di Febraro. 6 Mà appresso di noi ogni giorno si fà questo giuoco; perche vi sono alcuni, che non fanno mai altro, che percuotere hora uno, hora un’altro con questa sferza, nè meno perdonano a gl’Innocenti. Hor qui si da per espediente di non resistere, nè sfuggire queste sferzate; mà alle volte, nè anche potiamo farlo, se ben volessimo. Mà essendo tolerate con patienza queste sferzate, ci apparecchiano una beata morte.

E’ cosa di grandissima importanza, l’haver saputo, che altri habbiano detto mal di noi, e che, l’habbiamo sopportato. E perciò S. Bernardo, trovandosi sempre molto in ordine per sopportare queste sferzate, diceva di se stesso: Ego plagis conscientiae meae nullum iudico accomodatius [p. 234 modifica]medicamentum probris, et contumelijs. Non est proinde, quod commovear, homuncio cum omni opprobrio dignus, et despectione.7 Io non trovo il più accomodato medicamento per le piaghe della mia conscienza dell’ingiurie, e delle villanie. E però non hò di che turbarmi; io sono un’homicciuolo degno d’ogni opprobrio; e ogni dispreggio. Et ogn’uno potrebbe dire ai suoi maldicenti, quello che disse Seneca a i Romani: Gemite (diceva egli) et infelicem linguam honorum exercete convicio. Inflate. commordete; citius multo frangentis dentes, quam imprimetis.8 Gemete pure à vostra posta, e esercitate cotesta vostra lingua infelice con dir male de gl’huomini da bene: su via, mordete pure allegramente, che in cambio di far loro danno più presto vi romperete i denti.

Il quarto conforto è, Che le [p. 235 modifica]maldicenze, e le calunnie de’ tristi, e le querele di qualsisia furfante, quando s’haveranno da essaminare innanzi al Tribunale di Dio, non solamente non fanno danno alcuno, mà sono di molto giovamento. Onde degnissime di S. Girolamo son quelle parole: Apud Christianos non est miser, qui contumelia patitur, sed qui facit.9 Appresso dei cristiani non è misero colui, che patisce qualche ingiuria, ma si bene chi la fà. Christo disse chiarissimamente: Beati estis cum maledixissent vobis homines, et persecuti vos fuerint, et dixerint omne malum adversum vos, mentientes propter me; Gaudete et exultate, quoniam merces vestra copiosa est in caelis.10 Voi siete beati: quando gl’huomini vi malediranno, e vi perseguitaranno, e diranno con menzogna ogni male contra di voi per causa mia. Rallegratevi pure, e [p. 236 modifica]fate festa, perche vi stà preparata nel cielo una copiosa, e abondante mercede.

Seguitando S. Pietro la voce del Signore: si exprobramini (dice) in nomine Chrisi, beati eritis11 Se di voi sarà detto qualche male per causa del Signore; sarete beati. Perche questo fa l’huomo simile a Christo, e fa che l’huomo diventi un’Angelo. Quella saggia donna Theduite volendo dare una grandissima lode al Rè David, gli disse queste parole: Sicut Angelus Dei, sic est Dominus meus Rex, ut nec benedictionem, vel maledictione moveatur.12 Il Rè mio Signore è a punto come un’Angelo di Dio, che non si turba per bene, ò male, che di lui si dica.

Contra queste sferze della lingua ammaestrando molto bene ciascuno S. Gregorio, dice così: Inter verba laudantium, sive vituperantium ad mentem semper [p. 237 modifica]recurrendum est, et si in ea non invenitur bonum, quod de nobis dicitur magna tristitia generari debet. Et rursum si in ea non invenitur malum, quod de nobis homines loquuntur, in magnam debemus laetitiam prosilire. Quid enim si homines laudant, et conscientia accuset? Aut quae debet esse tristitia, si omnes accusent, et sola conscientia nos liberos demonstret? Mentre siamo lodati ò biasimati, dobbiamo sempre ricorrere al nostro interno, e alla nostra conscienza, e se in quella non si trova quel bene,, che di noi si dice ce ne dobbiamo molto attristare. Che se non si trovarà quel male, che dicono gli huomini di noi ce ne dobbiamo molto rallegrare. Poiche che ci giova se gl’huomini ci lodano, e la conscienza ne accusa? O pure perche ci dobbiamo attristare, ancorche tutti ne accusino; se solamente la conscienza [p. 238 modifica]ne difende, e da tutte l’accuse ne libera.

Mà mi dirà uno, L’esser così temerariamente percosso con calunnie, e con bugie, è una cosa, che duole più assai di quello, che si possa credere. Horsù, Dolga, quanto si vuole; E che sarà poi? Il dolersi per amor di Christo, e per il cielo, deve essere un grandissimo conforto per il Christiano. Ti duole, che si dichino di te cose tali? Dolgati più se son vere le cose, che si dicono, e se la tua conscienza te ne accusa. Ecco, che tu ti porti talmente, che vai per le bocche de gl’huomini. Mà chi è difeso dalla coscienza, se essa li attesta, che ciò che si dice da i malevoli è falso, e che le cose, che dicono son baie; questi starà sempre allegro, e non pigliarà tanto a male quelle cose, che altri dicono di lui. Poiche per qual cagione han da dolere, se non fan danno? Che se [p. 239 modifica]anche facessero qualche poco di danno, certo è che Dio ti ricompenserà tutto questo danno (sia stato quanto si voglia) con un premio, che sarà dieci volte tanto. Chi hà fatto male, e chi hà dato la cagione di parlare, questo incolpi se stesso, se si dice mal di lui. Iustus autem, quasi Leo confidens absque terrore erit.13 Ma l’huomo da bene à guisa di Leone, confidandosi della propria conscienza, se ne starà senza paura.

Baldassarre Rè di Babilonia mentre se ne stava à tavola con mille Grandi del suo Regno in quel suo real convito, vide una mano, che scriveva in un muro di questa sala: per la qual cosa tutto di maniera si commosse, che impalliditosi cominciò a tremare da capo a piedi. Qual dunque fu la cagione di così gran timore? Vide una mano. E che mano era questa? La mano di un’huomo. Adunque un Rè sì gran[p. 240 modifica]de haverà tanta paura d’una mano d϶un huomo? Se havesse veduto l’ugne di un Leone, d’un’Orso ò d’un Dragone vi saria stata qualche causa di timore; mà che paura hà di havere un così gran monarca d’una mano d’un’huomo, essendo che ad un suo minimo cenno cento compagnie di cavalli poteano subito aiutarlo? E con che sorte d’armi venne mai quella mano? Non portò altro, se non la penna, con che scrisse. E per una penna da scrivere s’ha da impallidire un’huomo per non dire un Rè? Se si havesse veduto avventare le tre lance di Gioab, ò quella spada infuocata del Cherubino, non haverebbe così senza ragione temuto. Ma fù forse la scrittura la cagione di tanto timore? Egli non intese la scrittura, e perciò fece chiamare gli interpreti. Che paura hà dunque d’una mano, d’una penna, e d’una [p. 241 modifica]scrittura, che non intende?

Hor vedete quanto spesso accadino cose simili. Viene un maldicente, e con la lingua, come in muro scrive nell’orecchie di chi l’ascolta queste parole: Nessuno si fidi di costui, perche non è tale, quale altri lo stimano: commett spesso questi, e questi peccati. Di fuori par buono, ma di dentro è un’altro. E bene spesso habbiamo sì gran paura d’una tal scrittura, che la contiamo fra i più gravi supplicij, che possiamo havere, e ci pare una cosa più acerba della morte, il volere, e il non potersene vendicare.

Ma per qual cagione, ò Christiani, vi danno tanto fastidio le parole de’ maldicenti? Per qual cagione essendo anche leggermente offesi voltate tutta la patienza in furore? Lo Scorpione almeno hà questa natura, che quando non è toccato, nè anche egli tocca [p. 242 modifica]altri con la sua velenosa punta: mà se da alcuno è provocato, subito con la coda ferisce. Si trovano molti, che non essendo offesi, se ne stanno belli, e cheti, ma se per sorte son toccati da alcuno, gettano subito veleno, fiamma, e fuoco.

Quì la miglior cosa, che si possa fare, è fingere di non sentire le parole de’ maldicenti. Ne apportaremo l’esempio d’huomini santissimi. Quell’ottimo Rè David, era molto sparlato da diverse persone, e molti ne dicevano quel maggior male, che potevano. Mà egli così diceva. Ego autem tanquam surdum non audiebam.14 Benchè io sentissi tutto il male, che di me si diceva, facevo però il sordo, e mi fingevo di non sentirlo. E benche talvolta ti s’accostino alcuni chiacchieroni, e ti dichino: Il tale va dicendo publicamente di te questo, e questo. [p. 243 modifica]Tù nondimeno non dar loro orecchio, fà il sordo, e fingi di non sentirli. Il voler ribattere tutte le cose, che si dicono non è altro, che un far con gran fatica danno a se stesso. E per il più queste dicerie tanto più si stendono, e tanto più vanno serpendo, quanto più contentiosamente l’huomo cerca di ribatterle. Onde sapientissimamente ci consiglia Epitteto così dicendo: Si quis nuntiarit quentam tibi malediceret, ne refuta, quae dicta sunt; sed responde eum nescisse caetera tua vitia, nam alioqui non illa sola fuisse dicturum.15 Se alcuno ti dicesse, che un altro dice male di te, non ti mettere à rifiutare le cose, che hà detto; ma rispondigli, che quel tale non ha havuto notitia de gl’altri tuoi vitij, perche altrimenti non hhaverebbe detto quei soli. Chi sà, così parla, mà un’ignorante, che non è prattico sub[p. 244 modifica]bito che s’accorge d’andar per la bocca de gl’huomini, si mette in collera, e comincia subito à gridare: io tratterò questi bugiardissimi furfantoni come si conviene. Come vanno dicendo questo di un par mio? Io li farò pentire di tutto ciò, che malamente han detto; e renderò loro quella fama, che meritano. O là, Christiano? questa cosa certo non s’insegna nella Scuola della Patienza.

La Beata Aldegunda Vergine, di stirpe Reale, molto ben’ammaestrata in ogni sorte di virtù fin dalla sua fanciullezza; havendo sentito dire, che non senza qualche scandalo d’alcuno, si dicea mal di lei da alcune persone oziose, se ne cominciò à pigliare un poco di fastidio, mà le fu mandato subito un’Angelo ad aiutarla, il quale così l’andava dicendo: Perche ti turba, ò Vergine, la loquace invidia de’ malevoli? e [p. 245 modifica]perche stai à dare orecchia alle vanissime parole de gl’huomini? lo sposo, e il giudice tuo stà la sù nel cielo; Che stai tù dunque à guardar la terra? Non sei tù apperecchiata à spargere il sangue per Christo? Hor’impara prima à digerire le parole ingiuriose. La Patienza vince ogni cosa. Per te stà già apparecchiato il premio della celeste gloria, e per quelli il supplicio dell’inferno, se non si emendano, col sopportare tù vincerai. Dall’hora in poi s’apparecchiò Aldegunda ad haver tanta patienza, che pregava il suo sposo, che più aspramente la volesse trattare. Io poi (diceva essa) Giesù mio buono, sò benissimo il vostro costume, sò che travagliate, e flagellate molto bene chiunque voi vi pigliate per figlio; adunque afliggete pure, Signor mio, con più duri flagelli questa vostra povera serva: castigatemi con ingiurie, e con [p. 246 modifica]affanni, e purgatemi con l’infermità; perche mi sarà soave, e dolce il patire, purche di questa maniera io possa scampare dalli eterni tormenti. Nè fur vane queste preghiere, perche il suo sposo le fece subito la gratia, mandandole una cancrena nel petto, che spargendosi poi per tutto il corpo, le diede un’abbondantissima materia di patire fino alla morte.

Perciò impariamo à sopportare questi flagelli della lingua con un’animo Spartano, ò per dir meglio, con un’animo da Christiano. A pena sopportarà per Christo le percosse, chi non ha ancora imparato à sopportar per amor suo le parole. Dica pure ogn’uno à se stesso: Dominus mihi adiutor, non timebo quid faciat mihi homo.16 Il Signore è quello, che mi aiuta, e però non haverò paura di ciò, che mi possa mai fare un’huomo. E S. Agostino, concluden[p. 247 modifica]do tutte queste cose, così dice: Si exceptus es a passione flagellorum, exceptus es a numero filiorum. 17 Se tu sei eccettuato dal patire i flagelli, e le sferzate, sei anche eccettuato dal numero de i figliuoli.

Note

  1. [p. 269 modifica]Ps. 54. 12. 13. 14. 15.
  2. [p. 269 modifica]Eccli. c. 26. 5.
  3. [p. 269 modifica]Ierem. c. 15. 10.
  4. [p. 269 modifica]Iob. c. 1. 5. 17.
  5. [p. 269 modifica]Iob. 16.21.
  6. [p. 269 modifica]Alex. ab Alex. l. 4 a rerum gen. init.
  7. [p. 269 modifica]S. Ber. in ep.
  8. [p. 269 modifica]Sen. de beat. vit. c. 59.
  9. [p. 269 modifica]Hieron.
  10. [p. 269 modifica]Matth. c. 5. 11.
  11. [p. 269 modifica]Pet. c. 4. 14.
  12. [p. 269 modifica]2, Reg. c. 14. 17.
  13. [p. 269 modifica]Prov. c. 28. 1.
  14. [p. 269 modifica]Ps. 37. 14.
  15. [p. 269 modifica]Epict. Enchir. c. 14.
  16. [p. 269 modifica]Ps. 117. 6.
  17. S. Aug. to. 8 in Ps. 70. Vid. in fi. par. 2 infra.

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§ 5. Del Sacco.


I
L Sacco ci significa una moltitudine, e un cumulo di molti mali insieme, dal quale non ci può liberare ò cavar fuori altri, che il tempo ò la stessa Morte. E’ il Sacco appresso ai Giapponesi un’horribilissimo tormento molto [p. 248 modifica]ne da i Christiani conosciuto. Quei, che son condennati à questo tormento sono posti in un sacco fin’al collo, e così rinchiusi son lasciati allo scoperto giorno, e notte a ricevere in se tutte l’ingiurie del cielo. Qui la fame, la sete, il freddo, il caldo, e il continuo vegliare tormentano tutti insieme il povero condannato, finche se ne muoia. E così questa sorte di tormento non contiene in se una semplice afflittione, nè un semplice supplicio, mà molti insieme.1

Il Sacco nella Scuola della Patienza è un supplicio assai frequente, e molto usitato; Poiche si trovano talvolta tante, e sì diverse calamità, e afflittioni, che travagliano il pover’huomo, e d’ogn’intorno talmente lo stringono, che gli pare appunto d’esser legato in un sacco, ò nella botte di un Regulo.

M. Attilio Regulo, quel chiarissimo specchio di fede, e di patien[p. 249 modifica]za, e gloria della prima guerra Cartaginese, si diede spontaneamente in mano de’ suoi nemici, havendo lor prima così promesso di ritornare. Posero quelli il povero Regulo in una botte, tutta piena di acutissimi chiodi, ficcativi tutti con le punte in dentro, havendogli prima tagliate le palpebre: trafiggevano d’ogni intorno quelle fiere punte il corpo di quel nobile Cavaliero, e dovunque s’andava rivoltando s’appoggiava sempre con le precedenti sopra nuove ferite: essendo sforzato ancora à starsene con gl’occhi aperti in perpetua vigilia. Così uccisero questo fortissimo Campione, e con la veglia, e col continuo dolore. 2 Horribile sorte di tormento, che secondo il solito si potrebbe chiamare un breve Inferno.

E ancora noi siamo talvolta come tanti Reguli, perche ci troviamo alle volte così angustiati, che [p. 250 modifica]ci pare di esser rinchiusi nella botte di Regulo, e d’esser da ogni parte da crudelissime punte trafitti: e quel ch’è peggio, d’esser più, d’ogni conforto privi. Undique, et undique omnia pontus. gira pur l’occhio, e mirati attorno quanto vuoi, che non trovarai altro che mestitia, e dolore.

Si racconta di Zoetardo Anacoreta, che fu solito di combattere contro il sonno à questa maniera. Armò molto bene un’arbore scavato, di longhi, e forti chiodi, in modo, che le punte stessero di dentro, e riuscissero da quella parte in particolare, dove era solito appoggiar la schiena, e i fianchi; e s’attaccò sopra il capo un cerchio di ferro, dal quale stavano pendendo alcuni sassi, accioche da qualsivoglia parte, che volesse riposare le stanche membra, o ’l suo debol capo sentisse subito quelli aspri svegliatoi, che lo tenessero desto, [p. 251 modifica]Stretta, e angusta casa, il confesso, mà chiarissimo simbolo di molte miserie insieme. Così à punto qualche volta interviene a noi altri; perche ci vediamo bene spesso talmente attorniati, e cinti di travagli, che voltiamoci pure da che parte noi vogliamo, non troviamo altro, che tormenti, e guai.

Quando Michea stava profetando al Rè Achab alcune cose, che non gli piacevano troppo; ordinò subito l’empio Rè, che fusse posto in prigione, e ivi fusse sostentato col pane della tribulatione, e con acqua d’affanni, e di miserie. Mittite (disse egli) virum istum in carcerem, et sustentate eum pane tribulationis, et aqua angustiae. 3 All’hora Michea fù messo nel sacco. Perche non solamente condannato de falso, mà anche posto in prigione, afflitto con la fame, e molto bene schernito. E questo è l’esser chiuso [p. 252 modifica]in un sacco.

Il Santissimo Re David vestendosi quasi del continuo di questo Sacco, come d’una veste, soleva dire: Ad me ipsum anima mea conturbata est. 4 L’anima mia s’è conturbata con me stesso, e benche io procuri di tenerla allegra, e mi sforzi di ridurla con pensieri più piacevoli alla solita quiete; ritorna però di quando in quando all’essere suo, dandosi in preda, e ricadendo ne’ suoi primi affanni. Abyssus abyssum invocat. 5 Un’abisso chiama l’altro, da tutte le parti mi piove adosso; mi viene un’onda sopra l’altra, e non è ancor passato un male, che l’altro è giunto, una ruina nasce dall’altra. Omnia excelsa tua, et omnes fluctus tui in me transierunt. 6 Tutti i nostri più esquisiti tormenti, e tutte quante l’onde più grosse son venute sopra di me. Tutti quanti i [p. 253 modifica]cieli combattono contro di me, e non trovo alcun riposo: Una guerra cagiona l’altra, da per tutto vi sono nemici, e pericoli, travagli, e danni; e da per tutto io scorgo un grandissimo apparecchio di mali, e d’afflittioni. Et eccoti il Real Profeta rinchiuso in un sacco.

Tutti quanti gl’huomini più santi sono spesse volte rinchiusi in questo sacco. Perche non solamente sentono i mali, mà s’accorgono dei pericoli, sanno stimare i danni dell’anima; conoscono benissimo le insidie del Demonio, intendono, e capiscono, che gran male sia il perdere la divina grazia, e haver Dio per nemico. Quando dunque si vedono abandonati, e si trovano senza le divine consolationi; temono ancora di restar privi de i divini favori. Et à questo modo si trovano in un sacco, pieni di varij af[p. 254 modifica]fanni. E per questa medesima causa ancora il medesimo Re David và dicendo con le lagrime à gl’occhi: Deus repulisti nos, et destruxisti nos. Ostendisti populo tuo dura, potasti nos vino compunctionis. 7 Signore, voi ci havete tutti rovinati, e distrutti. Vi sete mostrato assai duro, et aspro con questo vostro popolo, e ci havete dato à bere vino di compuntione, cioè di amare lagrime, gemiti, e sospiri. O Signore, voi ci date à bere un mero, e puro ascenzo della vostra cantina? O che amara bevanda!

Non è diverso dal sopradetto ciò, che disse Ezechiele: Angustia superveniente requirent pacem et non erit. Conturbatio super conturbationem veniet, et auditus super auditum. 8 Quando saranno più angustiati, et afflitti, cercaranno la pace, e non vi sarà chi li ascolti. Verrà loro una mi[p. 255 modifica]seria sopra l’altra, e una mala nuova non aspettata l’altra: cioè ci verrà un male sopra l’altro, non trovaremo pace in luogo veruno; in una parola, saremo rinchiusi nel sacco. Giob, che al pari di qualsivoglia altro havea esperimentato questo sacco, e questo cumulo di miserie, e di calamità, così dice: Ego ille quondam opulentus, repente contritus sum: tenuit cervicem meam, confregit me, et posuit me sibi quasi in signum. Circumdedit me lanceis suis, convulneravit lumbos meos, non pepercit, et effudit in terra viscera mea. Conscidit me vulnere super vulnus. Io (diceva egli) fui quel gran riccone, che andò subito in rovina. Iddio mi pigliò per il capo, me lo spezzò, e mi fece quasi suo bersaglio. Mi circondò con le lancie dei suoi flagelli, e mi conciò tutto malamente, senza perdonarmi, e mi gettò per terra tut[p. 256 modifica]te le viscere, e con ferite sopra ferite tutto quanto mi lacerò. Questo patientissimo huomo veramente fù nel sacco, mà mostrò bene co’ fatti, quanto profitto egli havesse fatto nella Scuola della Patienza; e certo ch’ei si potea contare fin dall’hora non fra i scolari, mà si bene fra i maestri di così gran virtù.

Chiunque si trova oppresso da questa moltitudine de’ mali, e con suo gran cordoglio si vede rinchiuso in questo sacco, tengasi bene à mente queste due cose.

La prima è, che nella Scuola della Patienza vi è un luogo, che si chiama inferno dove Iddio è solito mandare i suoi, che han da esser posti nel sacco. Nè questa è cosa nuova, mà è un segno del favore, che fa Iddio ed è una cagione di haver d’havere un maggior premio. Mà nè questo Inferno è eterno, nè sempre si hà da [p. 257 modifica]stare in questo sacco; Poiche Dio è quello, che deducit ad inferos, et reducit,9 cioè, che ci manda, e ci cava da questo inferno.

L’altra cosa è, che Dio vuole ad ogni modo, che all’hora più che mai mettiamo in lui la speranza, e confidenza nostra quando le cose ci paiono più disperate. Il titolo del salmo 41. dice così: Intellectus filiis Core, overo, Canticum erudiens. Intelletto per i figliuoli di Core; ò pure Canzone instruttoria; poiche all’hora c’insegna à sperare più che mai, quando non vi è quasi più speranza.

Quindi è, che replica più d’una volta quelle parole: Spera in Deo. Spera in Dio. Perche ti consumi in vani affanni? Perche ti affliggi per la paura delle cose d’avvenire? Perche tremi ad ogni picciol vento? Spera in Dio, huomo di poca fede, e manco speranza, Spera in Dio. Questa speranza non può [p. 258 modifica]ingannare, nè essere ingannata.

Filone Hebreo, essendo accusato con molti della gente sua appresso di Caio Caligula Imperatore da un certo Appione, perche non havesse voluto tener Cesare per Dio: et essendo già stato cacciato di Corte, disse à i suoi Compagni: Bono animo nos esse oportet, tametsi Caius iratus sit nobis: quia necesse est adesse divinum, ubi humanum cessat auxilium. 10 Egli ci fa di mestieri, fratelli miei, che non stiamo allegramente, ancorchè l’Imperatore sia con noi scorucciato; perche è necessario, che dove manca l’aiuto humano ivi sia il divino.

Che se ci paresse ancora, che ’l divino aiuto tardasse troppo à venire, ci sarà molto opportuno, se col Rè Giosafat pregaremo Iddio à questo modo: Cum ignoremus, quid agere debemus, hoc solum habemus residui, ut oculos nostros [p. 259 modifica]dirigamus ad te Deus. 11 Non sapendo noi quel, che ci habbiamo à fare, ci resta solamente, d’indrizzare gl’occhi nostri à voi Dio nostro. Purchè non leviamo mai gli occhi dell’anima nostra da Dio, nel che habbiamo da imitare il cane, il quale stà tanto à piè del padrone, tanto abbaia, tanto gli fa carezze, tanto dimena la coda, e tanto gli stà innanzi con la bocca aperta, e gli dimanda cibo, finchè l’ottiene. Così noi, quando siamo rinchiusi in questo sacco; e ci vediamo oppressi da varie calamità, e miserie, dobbiamo domandare aiuto à Dio, finche l’impetriamo. Ci mancano l’aiuti humani? egli è necessario (come disse Filone), che venghino i divini.

Quando una volta vederemo tutti in un’occhiata i varij ravolgimenti di questa nostra vita; confessaremo quello, che una volta disse Temistocle: Perieramus ò [p. 260 modifica]Pueri; nisi periissemus: Eravamo perduti, figliuoli, se non ci perdevamo. Vi sono molti, che con haver fatto naufragio si sono salvati, che senza fallo si sariano perduti, se prima non fusse preceduto un più mite naufragio. Perciò siamo pur costanti, e stiamo di buon’animo, e stimiamo per cosa dolce, e soave star’ancor nel sacco per amor di Christo. Non passarà troppo, che ciascun di noi si cantarà allegramente quella canzone: Convertisti planctum meum in gaudium mihi: conscidisti saccum meum, et circumdedisti me laetitia.12 Mi havete, Signore, voltato il mio pianto in allegrezza: mi havete stracciato il sacco, e d’ogn’intorno cinto d’allegrezza.

Note

  1. [p. 282 modifica]Vid Nic. Trigaut. triumphos apud Iapon.
  2. [p. 282 modifica]Senec. de Prov. c. 3 Valer. l. 9. c. 2. Paulo alit. Gell. lib. 16 Noct. Attic.
  3. [p. 282 modifica]c. 1 Reg. c. 22. 27.
  4. [p. 282 modifica]Ps. 41. 8. 9.
  5. [p. 282 modifica]Ibid.
  6. [p. 283 modifica]Ibid.
  7. [p. 283 modifica]Ps. 59. 1. 3.
  8. [p. 283 modifica]Ezech. c. 7. 25. et 26.
  9. [p. 283 modifica]Tob. c. 13. 2.
  10. [p. 283 modifica]Euseb. l. 2 hist. Eccl. c. 5
  11. [p. 283 modifica]2. Paral. c. 20. 12.
  12. [p. 283 modifica]Ps. 29. 12.