Scola della Patienza/Parte prima/Capitolo IV

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CAP. IV.

Si vanno dichiarando ad una ad una le cinque sorti di pene, e d’afflittioni.


H
Avea una volta un gran Prencipe comandato, che se gli dipingesse un‘impresa à questo modo. Il corpo era una zucca, che stava sopra l’acqua, e come che intendesse benissimo la sua natura havea scritto di sopra questo motto: Iactor, non mergor. Sono sbattuta si bene: mà non sommersa. Poiche la leggierezza

[p. 106 modifica]del loro spognoso corpo insegna à nuotare alla zucche. Non molto diversa di questa impresa fù quell’altra, che riferisce Claudio Paradino, e fù dell’illustre Ammiraglio Cabothz; il quale levò per impresa un pallone da vento con questo motto: Concussus surgo. Percosso m’inalzo. Poiche questi palloni s’imparano à volare con le percosse.

Vi sono moltissimi huomini, che non imparano a metter cervello, se non con le percosse; e all’hora aspirano al cielo, quando comincia loro a parer vile la terra, e all’hora ergono la mente alle cose eterne quando stanno male fra queste caduche, e fra li Concussi surgunt. Percossi s’inalzano à guisa di palloni pieni di vento, i quali quanto più fortemente sono percossi tanto più in alto volano. E questo è quello, che noi habbiamo mostrato ne i trè primi ca[p. 107 modifica]pitoli precedenti Adesso veniamo al dichiarare le forme, e le specie delle istesse Afflittioni, e calamità, e quali dicemo esser di dieci sorti.


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§. 1 Delle Verghe.


I
L Primo instrumento cruciabile, e afflittivo, che sia nella Scuola della Patienza, col quale si castigano i scolari, sono le Verghe. L’infermità è un’afflittione da tutti conosciuta. E chi è quello, che sia di così buona sanità, che non si senta percuotere qualche volta da queste Verghe? A pena si trovarà un’huomo, che si possa scordare d’essere soggetto alle malatie. Qualunque per forte, e robusto che sia, sente talvolta qualche cosarella. Perche ò dogliono gl’occhi, ò i denti, ò le braccia, ò lo stomaco, ò le gambe. E ci maravigliamo di questo! siamo un seminario di infermità, e ci par cosa nuova l’amalarsi? L’infermità hà il suo luogo in qualsivoglia [p. 108 modifica]sorte di vita. Anzi, subito, che nasciamo, cominciamo ad ammalarci, il che facilmente crederemo à S. Agostino, mentre dice: Quis enim non aegrotat in hac vita, quis non longum languorem trahit= Nasci hic in corpore mortali incipere, aegrotare est. 1 Chi è quello, e che in questa vita non si ammali, e che per molto tempo non languisca? Il nascere in questo corpo mortale, non è altro, che un cominciare ad amalarsi. Adunque che paura habbiamo, quando ci vengono l’infermità?

Questa vita è una perpetua infermità. Haec vita morbus est perpetuus. 2 disse il medesimo Santo. E Seneca dice: Sed est etiam, mihi crede, in morbo vituti locus. 3 mà credimi pure, che ancor nell’infermità hà luogo la virtù. Quindi è, che S.Ambrogio diceva con verità: infirmitas corporis, sobrietas mentis est, infirmitas [p. 109 modifica]virtutm officina est. 4 L’infermità del corpo è sanità dell’anima: ed è un’officina delle virtù. E come dice S. Girolamo: Satius est stomachum dolere, quam mentem. 5 È meglio, che ci doglia lo stomaco, che l’anima.

Vi sono stati alcuni, mà pochi, che con intiera sanità sono arrivati sino alli ottanta anni; alla fine la casa cominciò à cadere, si sfece, e rovinossi affatto. Mà sappiamo almeno questo, che niuno quasi meglio si ammala di colui, ch’essendo sano, ciò spesso impara appresso gl’ammalati. Quì potrà ciascuno dimandare à se stesso: se tu fossi infermo, come questo altro, che faresti? Come ti porteressi, come saressi quieto, e piacevole nel parlare, e come saressi patiente in sopportar questi dolori?

Mà quella sì, ch’è cosa da huomo desperatissimo, e da uno, che malamente ama la vita sua, il cer[p. 110 modifica]car rimedio per la sua infermità, da i maghi, e fattucchiari. Num quid non est Deus in Israel, ut eatis ad consulendum Beelzebu Deum Accaron? 6 Non vi è forse Dio in Israele, che habbiate d’andar à consigliarvi col Demonio? Le infermità ci hanno da tirare à Dio, e non ai nemici di Dio, nè al Demonio.

Li Hebrei quando eran sani, si scordavano di Dio. At ubi multiplicatae sunt infirmitates eorum, postea acceleraverunt. 7 Ma come Dio mandò loro delle infermità s’affrettarono à far la volontà di lui. Si fà talvolta un cauterio al collo, al braccio, ò a una gamba, perche il capo stia meglio: così Dio fa il cauterio al corpo, perche stia bene lo spirito. Infirmitas gravis sobriam facit animam, disse l’Ecclesiastico. Una grave infermità risana l’anima. E’ certo, ch’è molto meglio arder nel fuoco del[p. 111 modifica]le febri, che nelle fiamme de’ Vitij.

Molti, quando sono infermi, all’hora s’infastidiscono di qualche vietato piacere. E però disse bene S.Gregorio: Divina dispensatione agitur, ut prolixiora vitia, aegritudo prolixior exurat. 8 E’ providenza di Dio, che i peccati, che sono più invecchiati, e hanno durato più tempo, siano da una più lunga infermità purgati, e arsi. Spesse volte i nostri mali costumi, che mai habbiamo voluto corregere, hanno bisogno di qualche longo, e continuo flagello; Che se Dio percuote così aspramente, quando perdona, che farà quando incrudelirà per il suo giusto sdegno? E con quanta severità castigarà di là i cattivi ch’Egli odia, se di quà affligge tanto i buoni, ch’egli ama?

Vi fù una volta un Religioso, come riferisce Ruffino, che pregò S. Giovanni Anacoreta, che lo liberasse da una terzana ch’ei pati[p. 112 modifica]va; mà quello così gli rispose: Rem tibi necessariam cupis abjicere: Ut enim sapone panni lavantur, sic mentem morbi eluunt. 9 Tù desideri di privarti d’una cosa, che ti è sommamente necessaria; Perche si come col sapone si lavano le macchie de i panni; così l’infermità lavano le macchie dell’anima. L’infermità del corpo è salute dell’anima, e la Virtù nell’infermità si perfeziona.

Per questa medesima causa un Religiosissimo vecchio (come molti raccontano) disse à un suo Discepolo infermo queste parole: Ne tristeris, fili, ob morbum corporis: Si ferrum es, per hunc ignem rubiginem exues; si aurum es, novum nitorem indues. Non igitur angaris animo: si Deus torquere te velit, et in morbo esse: tu quis es qui divinae resistas voluntati, aut eam moleste feras? Itaque sustine, et roga Deum, ut quod ipse vult [p. 113 modifica]et tu quoque velis.10 Non ti attristare figliuolo per l’infermità del corpo: se tu sei ferro, con questo fuoco ti leverai la ruggine; se sei oro, diventarai più bello. Non ti pigliare dunque fastidio, se Dio ti vuol affliggere, e vuole, che tu stij ammalato; chi sei tu, che possi resistere alla divina volontà, ò haver à male ciò, ch’ella fà? Perciò habbi patienza, e prega Dio, che ti conceda, che ancora tu voglia ciò, che Egli vuole.

E veramente, se vogliamo considerar bene tutto questo trovaremo, che l’infermità è un dono di Dio tanto importante, e sì pretioso, che non si potria pagare con servizij di cent’anni. Percioche nell’Infermità siamo invitati à far la pace con Dio, il quale havevamo forse con empia guerra provocato. S. Gregorio dice: Admonendi sunt aegri, ut considerent, quanti sit muneris molestia [p. 114 modifica]corporalis, quae et admissa peccata diluit, et quae admitti poterant, compescit. 11 Si deve avvisare à gl’infermi, che considerino bene quanto gran dono sia l’infermità del corpo, la quale cancella i peccati commessi, e non lascia fare quei, che si potevano commettere. E così disse sapientissimamente Salomone: Livor vulneris absterget mala. 12 Il sangue, ch’esce dalla ferita, laaerà i peccati. Perche come interpreta S. Gregorio: Flagellorum dolor vel cogitatas, vel perpetratas nequitias diluit. 13 Il dolor, che si sente ne i flagelli, e nelle afflittioni, che Dio ci manda, ci cancella tutti i peccati, ò siano pensati ò fatti.Quapropter admonendisunt aegri, ut eo se filios Dei sentiant, quo illos disciplinae flagella castigant: Nisi enim correctis haereditatem dare disponeret, erudire eos per molestias non curaret. E perciò dice il medesimo Santo si de[p. 115 modifica]ve avvisare gl’infermi, che in tanto si tenghino per figliuoli di Dio, in quanto vengono corretti con diversi flagelli. Perche se Dio non volesse dar loro l’heredità, non si curaria d’ammaestrarli con l’infermità. E però chi è afflitto, e ammalato si consoli pure, e dica: Mi basta d’essere amato; mi basta che sia sicura la speranza: Perisca pur il corpo, che necessariamente hà da perire, purche non perisca l’anima.

E chi sarà quello, che si lamenti, che se gli getti à terra una casuccia vecchia per fargli una bella casa nuova? Così ne anche si deve lamentare qualsivoglia infermo, eziandio che sia vicino à morte. Perche sappiamo, Quoniam si terrestris domus nostra dissolvantur, quòd aedificationem ex Deo habemus; domum non manufactam, aeternam in caelis. 14 Che se questa nostra casa terrena se ne và à ter[p. 116 modifica]ra, habbiamo nel Cielo una stanza preparataci da Dio, una casa non fatta con le mani d’huomo, che non sia duratura, mà una casa eterna fatta apposta per noi dall’istesso Dio.

Ma mi dirai. Ch’è facil cosa à un sano consolar un’infermo; altrimente parliamo, quando altro sentiamo. Chi sarà quell’infermo che creda, che l’infermità s’habbia d’anteporre alla sanità? Hora fratel mio, tu ti mostri in questa cosa (e sia detto con tua pace) troppo appassionato, e per huomo affatto ignorante, e imperito nella Christiana disciplina. Non sai tù forse quello, che dice S. Paolo: cum infirmor, tunc potens sum. Quando io mi ammalo all’hora sto bene. In questo medesimo senso disse S. Gregorio. Adversitas vitae, dum asperitate sua sanctas comprimit, valentiores reddit. 15 L’avversità di questa vita all’hora rende, e fà più [p. 117 modifica]forti i santi con l’asprezza sua, quando li tocca, e stringe. La Carne si nutrisce di cose delicate e molli; l’anima d’aspre, e dure. Quella si pasce di diletti; questa di d’amarezze; Et indi lo spirito perpetuamente muore, onde la carne per poco tempo delicatamente vive.

Ma lasciami, di grazia, quì rispondere alle tue obiettioncelle. Tù dici, che ’l dolore è una dura cosa; mà io con ragione ti rispondo, che anzi tu sei troppo delicato, e molle. Pochi sono quei, che hanno potuto sopportare i dolori. ℞. E noi siamo di quei pochi. Mà la nostra natura è debole, e fiacca. ℞. Non infamare la natura, perche ella ci fece forti. E chi è colui, che non fugga il dolore? ℞. Anzi egli segue chi fugge. Se ’l dolore è poco, sopportiamolo; la patienza ancora è poca; se è grave, sopportiamolo ancora; perche non è po[p. 118 modifica]ca, ne leggiera la grazia. Mà se io fussi sano, più m’affaticarei, e non attenderei più alla Virtù. ℞. Anzi meno, e pensa, che per te sia verissimo quel detto di S. Agostino: Quam multi scelerate sani sunt, qui innocenter aegrotarent? 16 O quanti vi sono, che sono sani, e scelerati, che se fussero ammalati sariano buoni, e innocenti? O com’è ricco, chi è sano! ℞. Hor cominci ad esser grato à Dio. Questo ancora deve contarsi frà i beni dell’infermità, poichè all’hora cominciamo à stimare la sanità, quando la perdiamo. O come hò perduto tutte le mie forze! Hor qui ti risponda S. Bernardo: Melius est frangi laboribus (aggiugni tù, et doloribus) ad salutem,quam remanere incolumis ad damnationem. 17 E’ meglio d’esser afflitto con fatiche, e con dolori per salvarsi; che il rimanersi sani per dannarsi. O come son tutto dato in preda dei dolori! Rivol[p. 119 modifica]gi un poco gl’occhi tuoi da te stesso in Christo crocifisso: e vederai veramente un’huomo di dolori, e che s’intende delle infermità: poiche Egli fù quello, che da dovero portò sopra di sè le nostre infermità, e provò nella sua persona tutti i nostri dolori. Vere languores nostros ipse tulit, et dolori nostros ipse portavit.18 Ahi quando haverà fine questa mia ostinata infermità. ℞ E’ segno d’un’amor freddo, l’haver cominciato à patir qualche cosa per Christo, e subito desiderare, che finisca. Mà s’io fussi sano, già frequentarei più spesso nella Chiesa i Santissimi Sacramenti, e mi purgarei da i miei peccati. E ottima purga de’ peccati, credimi pure, l’haver un poco ancorche di mediocre patienza nell’infermità.

Adunque s’hà da dir à gl’infermi ciò, che ci avverte S. Gregorio; che se credono, che la lor [p. 120 modifica]patria sia il Cielo, necessariamente han da patire quì travagli, e afflittioni, come in terra d’altri. Chiunque si trova d’esser ammalato, raccomandandosi alla bontà divina dica: Virga tua, et baculus tuus ipsa me consolata sunt. 19 Signore la vostra verga, e ’l vostro bastone sono stati quelli, che mi hanno consolato. Sia pure io punto, travagliato, e arso di quà in questa vita purchè non mi danni eternamente di là nell’altra.

Non ti rincresca, di grazia, Lettore, di veder i discorsi, che fà il nostro foriere dell’Eternità, per comporre i costumi de gl’infermi. Poiche noi non potiamo quì esser più longhi.

Note

  1. [p. 142 modifica]Aug. in Psal 102 ante med.
  2. [p. 142 modifica]Id. ser. 74.
  3. [p. 142 modifica]Senec. ep. 76.
  4. [p. 142 modifica]S. Ambros.
  5. [p. 142 modifica]S. Hieron.
  6. [p. 142 modifica]4. Reg' hom. 9 in evang. prop. fin.
  7. [p. 142 modifica]in evang. prop. fin.
  8. [p. 142 modifica]S. Greg. hom. 9 in evang. prop. fin.
  9. [p. 142 modifica]Ruffin. Aquil. c. 1 in vit. Ioan.
  10. [p. 143 modifica]Ruffin. l. 3. 157 Pelag. libell. t. n. 16 Paschas c. 20.
  11. [p. 143 modifica]S. Greg. ubi infr.
  12. [p. 143 modifica]Prov. c. 20 . 30.
  13. [p. 143 modifica]S. Greg. par. 3 past. admonit. 3. med.
  14. [p. 143 modifica]2. Cor. cap. 5. 1.
  15. [p. 143 modifica]S. Greg. lib. 29 mor. c. 15 prope fin.
  16. [p. 143 modifica]S. August. tr. 7. in Ioan.00
  17. [p. 143 modifica]Ber. de Inter. do. cap. 46.
  18. [p. 143 modifica]Isa. cap. 53 3. et 4.
  19. [p. 143 modifica]Psal. 44. 5.

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§. 2. Delle Saette.


L
E malinconie, e le angustie dell’animo sono saette, che penetrano assai più di quasivoglia ben affilata spada. Il Rè David, che sentiva assai queste saette diceva; Sagittae tuae acutae. 1 Signore le vostre saette sono molto acute. Le sollicitudini, i tedij, le mestizie, i timori, e li affanni feriscono l’animo, come saette. La più gran miseria, che quasi trovar si possa, è haver l’anima ferita. Perche si come l’haver l’anima quieta eccede ogn’altro piacere, così ancora l’haver l’anima afflitta, e mesta, [p. 122 modifica]avanza di gran lungha, e supera ogn’altro dolore.

Christo Redentor del mondo non si lamentava nel monte Oliveto, e nel monte Calvario de i crudelissimi colpi de i flagelli, nè delle punture delle spine, nè del tormento che gli davano i chiodi; mà si bene della mestitia dell’anima, e d’esser stato dal Padre abandonato nella Croce, e perciò ad alta voce gridava. L’angoscia, e l’affanno, ch’ebbe Christo, fù inesplicabile onde poi nacquero quelle voci: Tristis est anima mea usque ad mortem. E quell’altre: Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquisti me? L’anima mia è piena d’un affanno, e d’un’angoscia mortale. Dio mio, Dio mio perche m’havete voi abandonato? Le piaghe dell’anima vincono d’acerbità ogni dolore: Di qui è che l’Ecclesiastico disse: Omnis plaga tristitia cordis est. 2 L’affanno, e l’af[p. 123 modifica]flittione del cuore contiene in se ogni sorte di piaga, e di ferita.

Conduce tal volta Iddio li suoi in tali angustie, che ogni cosa da lor fastidio e noia. E quel, che più d’ogn’altra cosa li preme, è che si pensano, e par loro d’haver più ch’altro contrario Iddio, non perdono però la speranza, mà di continuo gridano: Domine Deus in die clamavi, et nocte coram te: Quia repleta est malis anima mea, et vita mea inferno appropinquavit. Pauper sum ego, et in laboribus à iuventute mea. overo com’altri leggono, Afflictus sum ego, et expiranti similis; ab adolescentia tuli terrores tuos, et trepidavi.3 Signore Iddio io hò gridato giorno, e notte inanzi à voi; perche l’anima mia è stata tutta ripiena di mali, intanto che mi parea che la vita s’approssimasse al fine. Io son povero, e assuefatto alle fatiche, e ai travagli fin dalla mia gioventù [p. 124 modifica]ò pure. Io sono afflitto, e simile ad uno, che spira l’anima, e fin dalla mia gioventù hò sopportato questi vostri terrori, e son vissuto sempre tra questi vostri terrori, e queste angoscie.

Delli Hebrei, che si partivano d’Egitto raccontano le divine Scritture: Et venerunt in Mara, nec poterant bibere aquas de Mara, eò quòd erant amarae, Et c. ibi constituit ei praecepta et iudicia, et ibi tentavit eum. 4 E se ne vennero in Mara, nè vi potevano bere l’acque di quel luogho perche erano amare, e lui diede à Moise le leggi, e i precetti, e ivi lo tentò. Mà potrebbe per avventura dimandar quì alcuno à Dio: Ditemi di grazia Signore, non vi era forse altro luogo più à proposito per dar le vostre leggi, di questo? O pure vi parve, che per essere questo il peggiore, fusse anche per questo negotio il più opportuno? [p. 125 modifica]Qui l’istesse acque non cavano, mà esasperano la sete. Mà che vai tù argomentando o ragione humana? lui diede la legge, e i precetti, e lui volle tentarlo. Il più commodo luogo per questo fù il più scommodo. In Paesi migliori, e più grassi spesse volte si disprezza la divina legge; poiche la matregna di tutte le virtù è la felicità. Quei, che son travagliati da cose contrarie, e stanno sempre in affanno per le cose loro, imparano più presto à temere Iddio, che non fanno quelli, che dalla felicità sono invitati alla lascivia. Nè quasi mai ci è più vicino Iddio, come quando siamo afflitti, e posti in qualche stretta. Per questa causa dice Nahum Profeta: Dominus in tempestate, in turbine via eius. 5 Il Signore si trova nelle borasche, e dove sono più gagliardi i venti ivi camina. Tra folgori, tuoni, e saette viene Iddio à [p. 126 modifica]ritrovarci, essendoci tal’hora più vicino, quando più ci travaglia il vento dell’afflittione. Dicendo S. Gregorio: Che i mali, che qua ci premono, ci sforzano d’andare à Dio: Mala, quae nos hic premunt, ad Deum ire compellunt. 6

Quella nobilissima coppia d’amici, Gionata, e David, così convennero fra loro. Io, disse Gionata, tirarò trè saette, e ciò farò come io m’essercitassi à tirar àl segno; vi manderò ancora appresso il mio servitore, e gli dirò: Và portami quelle saette: Si dixero puero ecce sagittae intra te sunt, tolle eas: tu veni ad me, quia pax tibi est, et nihil est mali, vivit Dominus. 7 S’io dirò al servitore ecco che le saette sono dentro di te, pigliale; tù vientene pure allegramente da me, perche le cose van bene per te, e non vi è niente di male per quel Dio, che adoro. Ogni giorno, e ogni momento scarica Iddio [p. 127 modifica]dall’arco le sue saette, e manda à gl’huomini ogni sorte d’affani, e di travagli.

Qualunque tù ti sia, che sarai toccato da qualch’una di queste saette, non ti spaventare subito alla ferita; Ecco che le saette di Dio sono dentro di te, le tue cose van bene, e non vi è niente di male. Queste ferite son segni si sanità. Mà tù mi dirai, che queste saette conciano malamente l’anima, e molte volte danno grandissimi dolori; e che l’esser travagliato, il pentirsi, l’attristarsi, il dolersi, e haver timore, sono horribilissimi tormenti dell’anime. Siano pur vere tutte quante queste cose, nondimeno se tu ricevi con patienza queste saette, che ti sono tirate, non haver paura perche, pax est, et nihil est mali, vivit Dominus. Io ti giuro, che le tue cose van bene, e non vi è niente di male.

Guarda un poco il Rè David, il [p. 128 modifica]quale sentendosi più di una volta ferito disse: sagittae tuae infixa sunt mihi, et confirmasti super me manum tuam. 8 Le vostre saette, Signore, mi sono attaccate al cuore, e di più voi me ce l’havete calcate con la vostra mano. Non solamente si lamenta, che gli siano state tirate le saette, mà che gli stavano ancor attaccate, e ben ficcate nell’anima. Moltissime erano le cose, che davano fastidio, e affligevano questo Rè. Appena nasce il figlio di Bersabea, e subito, se ne muore. La sua figliuola Tamari, ch’era già grande da marito, gli vien stuprata da un’altro suo figliuolo Amnone. L’istesso Amnone poi essendosi ubriacato in un convito, vien ucciso da Absalone suo fratello. Da questo istesso Absalone troppo ingrato, e sconoscente figliuolo viene forzato à fuggire l’ottimo suo Padre, essendo già da lui scacciato dal Regno, e privato della [p. 129 modifica]corona: Et eccoti hora quanto profonde ferite haveano fatte nel cuore di David queste saette; nè glie ne fù tirata una sola, mà molte furono quelle, che gli trafissero l’anima.

E come fù acuta quella, che gli tirò Natan, quando chiarissimamente gli disse: Tu es ille vir, Tù sei quegli, che hà fatto questo errore. Quare contempsisti verbum Domini, ut faceres malum in cospectu meo? Quamobrem non recedet gladius de domo tua in sempiternum, eo quod despexeris me. Ecce ego suscitabo super te malum de domo tua. Tu enim fecisti abscondite: Ego autem faciam verbum istud in conspectu omnis Israel, et in conspectu solis. Perche hai fatto sì poco conto di quello, che t’haveva ordinato il Signore, e sei stato tanto ardito, che hai fatto questo male sù gl’occhi miei? Per il che non si partirà mai la spada [p. 130 modifica]della mia vendetta dalla casa tua in sempiterno, per havermi tù dispreggiato a questo modo. Et ecco, che ti farò venire un buon castigo dalla tua casa istessa. Tu lo facesti in segreto, e di nascosto, e io ti castigarò in publico avanti à tutto il popolo d’Israele, e innanzi alla luce di questo sole. Sono quasi tante saette quante sono le parole. O quanto penetrarono il cuor del povero Rè queste saette tirategli da Dio! Veramente che queste furono saette, che in gran numero gli passarono l’anima. Mà non per questo gli mancò la sua consolatione, nè per questo si perde d’animo il Rè David. Perche se bene le saette di Dio penetrano, s’attaccano, abbrugiano, e fanno grande la ferita, e squarciano l’anima; Nondimeno in breve se ne cadono; almeno la morte come peritissimo Chirurgo tutte le cava fuori. Etenim sagittae tuae transeunt, vox [p. 131 modifica]tonitrui tui in rota. Perche le vostre saette, Signore, passano; mà la voce del vostro tuono è come se fusse in una ruota, che in girando passa, e passando perpetuamente gira.

Quante saette contra di noi scocca Iddio, tutte fra poco ci sono cavate fuori da perita mano; Questo momento, in cui siamo afflitti dura un poco. Mà quella voce di tuono: Ite maledicti in ignem aeternum. Andate maledetti al fuoco eterno, andatevi pure, andate, piangete per sempre, e per sempre arderete. Ahime che la ruota dell’eternità girerà perpetuamente questa miserabil voce. Questo strepitoso, e horribil tuono, che non finirà mai, spaventarà co’ suoi eterni, e strepitosi fracassi tutti li dannati; e come con tante saette non cessarà mai di trapassar il cuore di quei meschini. Mà adesso passano le saette del Signore, [p. 132 modifica]onde perciò con molta ragione puoi dire, che siano d’argento ò d’oro; perche esse vengono da Dio, e presto passano, e pagano con eterno premio ancora una mediocre Patienza.

Del Dittamo herba molto ben conosciuta dai Cervi, e dalle Capre selvagge dicono, che mangiata, li fà cadere le saette, che le fossero state tirate, così dice Virgilio.

Non illa feris incognita Capris
Graina, cum tergo volucres haesere sagittae. 9

dice, che questa herba è molto ben conosciuta dalle Capre selvagge quando si sentono ferite dalle saette. Conosceranno dunque le fiere i loro naturali medicamenti, quando vengono con saette ferite, e mancarà la medicina a nostri affanni? Questo istesso pensiero, se sarà ben ruminato, delle saette del Signore, che passano presto, è per [p. 133 modifica]noi un presentissimo rimedio. Percioche che cosa si trova mai, che mitighi più tutti i dolori, che il pensar da dovero; che, dabit Deus his quoque finem. che Dio darà fine ancora à questi nostri affanni, e che, dopo questo fine hà da seguitare un’eternità, che non finirà mai.

Anneo Filosofo comparando Mecenate, che se ne stava giacendo nelle piume, con un’altro povero meschino, che stava pendendo in croce, dice così: Mecenati somnus per Symphoniarum cantum, ex longinquo lene resonantium quaeritur; sed mero se licet sopiat, et mille voluptatibus mentem anxiam fallat tam vigilabit in pluma, quam ille in cruce (noi diciamo pro Christo) dura tolerare, et ad causam à patientia respicit: hunc voluptatibus marcidum, et felicitate nimia laborantem, magis his, quae patitur, vexat causa patiendi. [p. 134 modifica]10 Si và cercando il sonno per Mecenate, che non può dormire, con varij canti, e suoni, che da lontano suave, e leggiermente si facciano sentire; mà benche s’allopiasse col vino, e con mille piaceri cercasse d’ingannare l’ansia, così vegliarà egli nelle piume, come quello nella croce: Mà quegli si consola di tolerare quei tormenti per Christo, e dalla patienza risguarda la causa del suo patire; E questi essendo tutto putrido, e marcio ne’ piaceri, e per la troppo gran felicità infermo, è più tormentato dalla causa del patire, che dalla cose, che patisce.

L’anima, ch’è travagliata assai non risanarà mai del tutto con piaceri. Ad una mente turbata è un gran conforto il tollerare cose dure, e aspre per Christo, e dopo un presto fine di questo male aspettare gl’eterni piaceri.

Adunque stiamo pur saldi, già è [p. 135 modifica]vicina la beata eternità? Poiche, come insegna S. Agostino: Quaecunque dura, et molesta, quaecunque gravia, et horribilia, quae quisque patitur in hac vita, in comparatione aeterni ignis, non tantum parva, sed nulla sunt. 11 Tutte le cose dure, e moleste, tutte le cose gravi, horribili, che ciascuno patisce in questa vita, in comparatione del fuoco eterno; non solamente son picciole mà non son niente. Già tutte queste cose hanno il suo fine, mà l’eternità non haverà mai fine.

Note

  1. [p. 157 modifica]Ps. 44. 5.
  2. [p. 157 modifica]Eccl c. 35. 17.
  3. [p. 157 modifica]Ps. 85. 13. et 16.
  4. [p. 157 modifica]Exod. c. 15. 23. et 25.
  5. [p. 157 modifica]Nahum. cap. 21. et 22.
  6. [p. 157 modifica]S. Greg.
  7. [p. 157 modifica]1. Reg. cap. 21. et 22.
  8. [p. 157 modifica]Psal. 37. 3.
  9. [p. 157 modifica]Virg. l. Aen.
  10. [p. 157 modifica]Senec.
  11. S. Aug. tom. 10 serm I 90. de temp. ant. med.

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§. 3.


L
E facelle accese sono simbolo della povertà. La povertà [p. 136 modifica]è un’efficace strumento della virtù, purche trovi un’huomo, che se ne possa servire. Variamente si serve Iddio di questo instrumento nella Scuola della Patienza. Vi sono alcuni tanto poveri, che nè anche col pane si possono cavare la fame, mà ne anche trovano da guadagnarsi il vitto con le lor fatiche; degni veramente di compassione. Di questi si deve intendere quel detto di Diogene: Paupertas non parva aegritudo est. Non è picciola infermità la Povertà. Altri sono poveri vergognosi, ne’ quali potendo più la vergogna, che la fame, stentano grandemente nelle proprie case, ne son manco degni di compassione di quello, che siano gli altri. Alcuni altri poi sono talmente poveri, che ancor son sì dapochi, e infingardi, che non saria loro cosa molto difficile il levarsi dalla povertà, se prima volessero sbrigarsi [p. 137 modifica]dalla dapocaggine loro. Fuggono le fatiche, e per questo cadono ne i lacci della mendicità, vogliono più tosto starsene otiosi con le mani alla cintola, che non haver fame. Altri si affaticano bene senza mai riposarsi mà, impediti dalle domestiche sciagure, non possono fuggire la povertà. Vi sono alcuni, che paiono ricchi ma sono tanto indebitati, che à pena hanno l’anima, che sia sua. E di questi tali si può dir benissimo; Che quegli è ricco, che non hà debiti. Sonovi altri, che pare à loro d’esser poveri, non essendo tanto poveri, quanto avari: non manca loro il vitto, ma gli vorrebbono aggiugnere ancor la pompa; ne vorrebbono solamente mangiare, e vestire, mà farlo splendida, e honoratamente; Et a questi tali senti sempre dire: O quante cose mi mancano! Questi non solamente sono poverissimi, mà meschinis[p. 138 modifica]simi ancora, che per non star contenti della sorte loro, non vi è cosa, che lor basti. Vicinissimi à questi sono quei, de quali disse S. Giovanni Chrisostomo: Paupertatis nomen Reges non effugiunt. 1 Ne anche i Regi fuggono il nome della povertà. Nasca finalmente donde si voglia la povertà, ella è un’efficace strumento della virtù, purche di quello non ci serviamo male.

E’ verissimo ciò, che disse Seneca: Paupertas nulli malum est, nisi repugnanti. 2 La Povertà non è cosa mala, se non à chi non la vorrebbe. S. Chrisostomo dice, che la Povertà è madre della Sanità. E S. Agostino, che tanto la loda, osò dire: Omnis Philosophiae magistra nobis inopia est. 3 La Povertà c’è maestra, e ci insegna tutta la filosofia. Detto più, che vero, dichino pure ciò, che lor pare, i nemici della povertà. La Povertà fù in[p. 139 modifica]ventrice delle arti, et nulli hominum probro est, nisi probroso, e non è di vergogna, se non fusse a qualche svergognato, come disse benissimo S. Basilio; Pauprem compellari, non est probrosum. 4 L’esser chiamato povero non è vergogna.

Con questo fuoco della Povertà, e con queste facelle ci abbrugia Iddio, ò per svegliarci, quando siamo addormentati ò per castigarci, e purgarci quando pecchiamo, ò per premiarci quando con patienza, e perseveranza la sopportiamo. Onde avvertendoci di ciò molto prima disse: Et convertam manum meam, et excoquam ad purum scoriam tuam, et auferam omne stamnum tuum; 5 Io stenderò sopra di te la mia mano, e ti purgarò benissimo da ogni bruttura, e levarotti da dosso tutto lo stagno.

Havea molte volte Absalone [p. 140 modifica]mandato a pregar per i suoi servitori Gioab Capitan Generale dell’essercito del Padre, che andasse un poco da lui, che gli volea parlare. Non vi fù mai verso, ch’ei vi andasse. Hor che haverebbe fatto un figlio del Rè? Cumque secundo misisset, et ille noluisset venire ad eum, dixit servis suis; scitis agrum Ioab iuxta agrum meum habentem messem hordei? Ite igitur, et succendite eum igni. 6 Et havendoglielo mandato a dir di nuovo, nè vi essendo voluto andare, disse Absalone a i suoi servitori: Sapete voi la possessione di Gioab, che sta vicina alla mia, e hà già le biade mature? Andate dunque, e abbruggiategli ogni cosa. Non altrimente Iddio sforza moltissimi a far bene, e insegna loro à deporre il fasto con le facelle della povertà, i quali o gli sono disubbedienti, ò prevede, che se non li previene, gli sariano tali. [p. 141 modifica]

Onde questo sopra tutto s’ha da imparare nella Scuola della Patienza; Che la Povertà, che in se non è cosa mala, non sia mala per noi servendocene malamente. L’Ecclesiastico per avvertirci, e farci stare cautelati dice: Propeter inopiam multi deliquerunt. 7 Per la Povertà molti hanno peccato. Per mangiare dicono menzogne, ingannano, rubbano, vendono la pudicitia, e sbarattano la conscienza. Questi tali si servono invero pessimamente della Poverta, che in se è un’ottima cosa.

D’altro modo devono nella Scuola della Patienza portarsi quegli scolari, che sono arsi dalle facelle della Poverta, che ciascuno possa dire: Igne me examinasti, et non est inventa in me iniquitas 8 Signore, m’havete provato col fuoco della Poverta, e non havete trovato, che per ciò io habbia fatto alcun peccato. S’ha più tosto da sop[p. 142 modifica]portar qualsivoglia gran cosa, che offendere Dio; Melius est mendicare quam rapere; 9 Et è meglio andar mendicando, che rubbare.

S.Bernardo, con quel suo caldo affetto, che portava alla povertà, dice così: Bonum mihi Domine, tribulari, dummodo ipse sis mecum, quam regnare sine te, epulari sine te, sine te gloriari. Bonum in tribulatione magis amplecti te, in camino (aggiungi tù paupertatis) habere te mecum quam esse sine te, vel in caelo. 10 E’ meglio per me, Signore, l’essere tribulato, purche voi stiate meco, che regnare, banchettare, e stare allegramente senza voi. E mi torna meglio abbracciarmi con voi nella tribulatione, e havervi per compagno nella fornace della Povertà, che lo stare etiandio nel cielo senza voi. Che paura habbiamo? Perche ci tratteniamo? Perche fuggiamo da questa fornace? E crudel’è il fuoco, no’l [p. 143 modifica]nego, mà Iddio ci fà compagnia in questa tribulatione, e se il Signore è con noi, chi ci sarà contra? Acciò dunque che la povertà non faccia male a veruno, ci dobbiamo sopra tutto persuadere, che ogni povertà ci vien mandata da Dio per nostro bene, perche ci purghiamo, e nettiamo molto bene le macchie de i nostri peccati, Ut excoquatur ad purum scoria nostra. 11

E come quando una madre vede talvolta un suo figliuolino, ch’ella havea vestito di una vestarella rossa, starsene nel cortile della casa giocando, e scherzando, e levarsi contra di lui tutti iracondi, e infuriati una mano di Galli d’India; subito se ne corre a basso, e lo spoglia di quella veste rossa, per la quale quei Galli si mettono in tanta collera, ancorche il suo tenero bambino ne pianga, e mandi le grida fino al cielo, e tutto ciò fà per [p. 144 modifica]suo bene, nè si lascia muovere in modo veruno da quelle sue stolte lagrime; pianga pur’egli, quanto si vuole, purche scampi da quel pericolo. Così Dio molte volte ci spoglia, ci leva le facoltà e la robba, e ci riduce in povertà, mà per nostro bene, poiche con questo modo solo siamo liberati da moltissimi mali, dal Demonio, che ci soprasta, e da infiniti vitij, che ci insidiano. Mà noi à guisa di tanti fanciulli ci mettiamo à gridare, piangemo, e ci lamentiamo, che ci son levate le cose necessarie, e che siamo ridotti ad un’estrema povertà. O bambocci veramente stolidi, e che havete? Che piangete, e di che vi lamentate? Tutte queste cose si fanno per vostro bene. E Dio non vi levarebbe la robba, se non prevedesse, che vi havesse da far qualche gran danno; ne vi farebbe diventar poveri se fin dalla sua eternità non havesse conosciu[p. 145 modifica]to, che voi non fareste altrimente per goder il cielo. Lassate dunque questi pensieri al vostro amantissimo Padre, anzi alla vostra providissima Madre. Mà qualunque tù ti sia, che sì malvolontieri sopporti la Povertà, dammi, di gratia, licenza, ch’io risponda alle tue obbietioni.

E primieramente tu dici, che la Povertà ti pare intolerabile. Rispondo. Che tu sei più intolerabile ad essa, di quello ch’ella sia incomportabile a te. Sono abbandonato, e dispreggiato da tutti. ℞. Patienza, purche tu non sia abbandonato da Dio: poiche oculi eius in pauperem respiciunt; gl’occhi suoi sono sopra il povero. O beati quei, che sono ricchi, e abbondanti! ℞. O misera beatitudine! Poiche, come dice S.Bernardo, Opum collectio plena laboris; possessio plena timoris; amissio plena doloris est: Divitiae, cum amantur, 12 [p. 146 modifica]inquinant; cum agitantur onerant; cum minuuntur, cruciant. 13 la robba si fà con fatica, si possiede con timore, e si perde con dolore: Le ricchezze, quando si amano, imbrattano; Gravano quando si maneggiano; e quando si perdono affliggono. Che cosa è più misera della mendicità? ℞. Non sai forse tù ciò che à tutti è noto? Lazaro mendico nella sua morte vien posto nel seno di Abramo; e quel ricco Epulone nel mezo dell’Inferno. Quello è sepolto dagli Angeli nel Limbo, e questo da i Demonij nel profondo dell’Abisso. Chi hà denari, hà ogni cosa. ℞. Anzi non hà niente se non hà la virtù. Tutto ciò, che ti può fare buono, tù l’hai teco. Dives cum dormuerit nihil secum auferet; aperiet oculos suos, et nihil inveniet. 14 il ricco alla sua morte non porterà niente seco, aprirà gli occhi, e non troverà niente. Potiamo ancor nelle ric[p. 147 modifica]chezze essere poveri. ℞. Ch’è un grand’huomo colui, ch’è povero nelle ricchezze, mà è di gran lunga più sicuro, chi non l’hà. Ohime, come hò la Cassa vuota. ℞. che stai tù à guardar la Cassa? Guarda la tua conscienza; Assai ricco è colui, che hà quieta la conscienza. Mà mi mancano le cose necessarie. ℞. Ti manca forse l’industria per procacciartele? La natura si contenta d’ogni minima cosa; mà l’animo, e gl’occhi sono insatiabili. Poiche alla cupidigia non basta niente, e la natura si contenta ancor di poco. Il Povero da per tutto è dispreggiato: ℞. che un’allegra povertà è cosa honoratissima. E chi stà bene con lei, è ricco. Non è povero colui, che hà poco mà si bene chi più ne desidera. La Povertà così a me, come ad altri fà gran danno. ℞. Che nè a te, nè ad altri faria danno alcuno, se la vostra Povertà nascesse in voi [p. 148 modifica]dall’inopia, e non dal vitio. La Povertà in tutte le cose mi impedisce ℞. anzi, dì pure, che t’aiuta, e ti promove. Se vuoi attendere quietamente allo studio; ò bisogna, che tù sia povero, ò simil à un povero. Non si può con giovamento atendere allo studio senza haver cura della frugalità, e della parsimonia; e la frugalità non è altro, che una povertà volontaria. Hor dì pur quel, che tu vuoi, che la Poverta è un gran male. ℞. Perdonami di grazia, se Seneca ti dà una mentita, il quale asseverantemente dice; Nihil mali esse in paupertate, modo quis non dum pervenerit in insaniam omnia subvertentis avaritiae. 15 Che non si trova nessun male nella povertà, purchè alcuno non sia arrivato alla pazzia dell’Avaritia, che ogni cosa butta sottosopra.

Hor che ve ne pare, o poverelli (siatevi pure chi voi volete) di un Padre tale? Vede questi un pezzo [p. 149 modifica]di pane in mano di un suo figliuolino, e insieme s’accorge, che un mastino stà per torglierglielo, e morsicargli la mano; E perciò gli leva subito quel pane di mano, e ciò fa egli con molta prudenza, non per vietargli il cibo, mà sì bene per scansare il danno. Così Dio ci leva talvolta le cose necessarie al mantenimento della vita, non per farci morire di fame, mà per guardarci da i vitij. E forse che la Virtù non stà bandita da quel luogo dove non si fà altro, che mangiar bene, e bever meglio; dormir assai, e spender otiosamente il tempo? Quivi per certo i vitij regnano.

Beati dunque i poveri, che non facendo resistenza alla Povertà, la sanno amicissima alla Virtù. Quà batte quel generoso detto di S.Paolo: Quae mihi fuerunt lucra, haec arbitratus sum detrimenta. 16 Per Christo, io [p. 150 modifica]tenni tutti li miei guadagni per danni.

Niuno è degno d’haver Iddio quanto colui, che sà dispreggiare le ricchezze. Poiche assai ricco è colui, che stà bene con la Povertà. Onde benissimo disse Diogene: Paupertas virtus est, quae per se discitur. 17 La povertà è una virtù, che s’impara da se stessa. La cosa è chiara: se le ricchezze non si perdessero fariano perder molti; e chi è quello così ben cautelato, che maneggi queste spine, e non si punga la conscienza? La Povertà solamente è quella, che da queste spine non è punta. Ma non teme la Povertà, chi aspira alla immortalità. Perche come ben dice S.Gregorio: Quisquis in solo desiderio aeternitatis figitur, nec paupertate conteritur, nec adversitate quassatur. 18 Chiunque stà fisso nel solo desiderio dell’eternità, ne è travagliato dalla [p. 151 modifica]povertà, ne per l’Avversità si muove.

Note

  1. [p. 173 modifica]Chrisost. hom. 12. in epist. ad Thim.
  2. [p. 173 modifica]Sen. ep. 223 in fin.
  3. [p. 173 modifica]S. August. in psal. 76
  4. [p. 173 modifica]Basil. in Hexam.
  5. [p. 173 modifica]Isa. cap. 1. 25.
  6. [p. 173 modifica]2. Reg. cap. 14.28.
  7. [p. 173 modifica]Eccles. c. 27.1.
  8. [p. 173 modifica]Psal. 16. 3.
  9. [p. 173 modifica]Chris. hom. 75. in Nath.
  10. [p. 173 modifica]S. Bern.
  11. [p. 173 modifica]Isa. c. 1. 25
  12. [p. 173 modifica]Psal. 10. 4.
  13. [p. 173 modifica]S. Bern. de convers. ad Clericos cap. 13. de quinque negotiationibus
  14. [p. 173 modifica]Iob. c. 27, 17.
  15. [p. 173 modifica]Senec. consol. ad Helviam c. 8. post. med.
  16. [p. 173 modifica]1. Cor. cap. 3. 11.
  17. [p. 173 modifica]Diog.
  18. [p. 173 modifica]S. Greg.

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§. 3. Della Corona di strame.


Q
Uesta Corona di strame, ò di paglia, che sia, significa ogni sorte di beffe, di ludribij, e di dispreggi. Et è questo castigo tanto più grave a i scolari quanto più leggiero egli pare ad altri. Accade talvolta nelle scuole, che ’l maestro fa stare nel mezo uno scolare con le verghe, ò col flagello in mano. E questo supplicio è più [p. 152 modifica]grave a quel poverello, che se havesse dieci cavalli. In Spagna s’usa a metter una mitria di carta per disprezzo in testa di quei, che menano ad abbruggiare. Così intervenne ad Andronico Imperator dell’Oriente, che incoronato con una treccia d’aglio, e posto a cavallo sopra un rognoso camello, a modo d’un miserabile trionfo, fù per tutta la città condotto.

L’esser dispreggiato, beffato, schernito è dall’humana superbia contato per una delle più gravi pene, che dar si possano. Questa Corona di strame, ò di paglia ad alcuni pare, che sia un gravissimo, e pesantissimo pezzo di piombo, d’acutissimi chiodi d’ogn’intorno circondato, ò pure un pungentissimo Riccio, ò Porcospino. Poiche non vi è cosa, che più ci dispiaccia, che l’esser svergognati, tenuti per ignominiosi, e sforzati à vergognarci in presenza d’altri. E [p. 153 modifica]questo alle volte par più grave della morte. Onde moltissimi rei condannati à morte vergognosa, s’uccidono nelle prigioni solo per non essere fatti spettacolo, e ludibrio publico del popolo.

Nell’ultimo giorno del giuditio quando che resuscitaranno tutti quanti i morti, darà più gran tormento a i dannati d’esser forzati à comparire alla presenza di tutto il mondo; et ivi esser da tutti attentissimamente guardati, e rimirati, notati, e mostrati a dito dal Giudice adirato, che non saranno l’istesse fiamme dell’inferno. Quindi nasceranno quelle lor disperatissime grida, che faranno d’ogni intorno tremar i colli, e rimbombare le caverne de’ monti, e all’hora diranno: Cadete sopra di noi; e ai colli, ricopriteci. Tunc incipint dicere montibus, Cadite super nos, et collibus, Operite nos. E parrà loro cosa più to[p. 154 modifica]lerabile l’essere seppelliti vivi dall’horribile mole delle montagne, che essere forzati a comparire, e assistere inanzi a quel tremendo Tribunale, a sentire fulminarsi contra quella sentenza fatale, e l’esser publicamente gridati per nemici di Dio da tutti i Beati.

Il Rè Saul, che fù un nobil ritratto d’un’huomo sceleratissimo, quando egli intese da Samuele, che havea perduto ogni cosa, il Regno, la gratia di Dio, e che già dall’istesso Iddio n’era stato privato, vedendo, che non vi era più alcun rimedio desiderando pure, che almeno una sol cosa gli fusse lasciata, gli disse queste parole: Sed nunc honora me coram senioribus Populi mei, et coram Israel. Almeno fammi questa grazia, ò Samuele, non lasciare d’honorarmi alla presenza del Popolo, e dei Principali di esso. Tanto hebbe in horrore questo Rè doppo la perdita di ogni [p. 155 modifica]cosa il non essere più riverito, e rispettato.

Et eccoti Saul, che à guisa di Struzzo si potè digerire come ferro calamità, e miserie così grandi; e hora pare, che si perda in una cosa così picciola, e tien più grave della morte l’esser coronato di questa corona di strame, e di dispreggio. Ma tutto questo da, che nacque? Certo non d’altro, che dalla superbia. Per rintuzzare adunque la Superbia non vi è cosa nella Scuola della Patienza, che sia più a proposito, che questa corona di strame. Questo è un nobilissimo instrumento per abbassare ogni arroganza. Un che porti questa corona senza lamento, e senza sdegno, non può fare di meno di non deporre ogni alterezza, e ogni fasto.

Ma vedete, di grazia, che bella cosa è questa. Noi altri vogliamo essere tenuti, e chiamati humili; e [p. 156 modifica]odiamo più l’humiltà, e il dispreggio di noi stessi, che un cane rabbioso ò un velenoso serpente. Ogni cosa ci par tollerabile purchè non vi sia vergogna, e ignominia, la quale solamente basta per opprimere gl’animi, quei però che son superbi, e non ancor domati, purchè non vi sia questa corona di paglia, ci promettiamo, come vanamente ci pare, di poter sopportare ogn’altra cosa. Pazzissima persuasione, la quale volendo Cassiano rifiutare così dice: Volumus absque castigatione carnis castimoniam corporis obtinere: sine vigiliarum labore, cordis acquirere puritatem: cum requie carnis, spiritualibus virtutibus exuberare: absque ullius exasperatione convicij patientiae gratiam possidere; humilitatem Christi sine honoris mundani exercere iactura, Christo cum hominum laude, ac favore servire. 1 Noi altri, dice Cassiano, [p. 157 modifica]vogliamo fare acquisto della castità del corpo senza castigar la carne; vogliamo acquistare la purità del cuore, senza la fatica delle vigilie; vogliamo abondare di virtù spirituali mà con pace della carne: vogliamo haver la gratia della Patienza, senza che niuno ci faccia ingiuria; vogliamo professare l’humiltà di Christo, senza danno dell’honor mondano: e servire a Christo con essere lodati, e favoriti dagl’huomini. Diciamolo in una parola: Vogliamo essere humili senza humiltà. Purche non habbiamo a portare in capo questa corona di strame.

Hor qui non bisogna perdonare alla superbia. Ne questa corona di strame stà meglio in capo ad altri, che di chi la ricusa. E a questi tali si deve onninamente un tal diadema. Elegante ed eruditamente disse Seneca: Unde possum scire, quantum adversis ignominiam, [p. 158 modifica]et infamiam, odiumque populare constantiae habeas, si inter plausus senescis? Si te inexpugnabilis, et in elimination quadam mentium pronus favor sequitur? 2 Donde posso io sapere quanto sia la tua constanza contra l’ignominia, e l’infamia, e contro l’odio popolare se tù t’invecchi fra gl’applausi? e se con una certa inclinatione d’animo sei da tutti a spada tratta accarezzato, e favorito?

Nelle Case dei Religiosi, dà talvolta più fastidio a quel, che legge in tavola questa sol parolina, Repete, che non fà tutto il resto del rigore della religiosa disciplina. Mà questo è un buonissimo testimonio di qualche superbia occulta, la quale niente meno non vorrebbe parer d’haver errato, e d’esser forzata à vergognarsi. Quindi è che molti huomini per dottrina, e humiltà segnalati, mentre leggevano alla mensa del Refet[p. 159 modifica]torio, pronuntiarono à bella posta malamente alcune parole, solamente per haver causa di vergognarsi in essere avvisati col Repete dell’ignoranza loro.

Il P. Martino del Rio nato da nobilissimi parenti (e che huomo fusse questo il dicono tanti libri, ch’ei ci hà lasciato) dopo d’haver letto Theologia per alcuni anni in Liegi, fù mandato à Tornai, per ivi ritirarsi dallo strepito degli studij, e far gl’essercitij spirituali conforme alle sue regole. Quivi il buon Padre, spogliandosi della persona di quel Filosofo, e di quel Theologo, che egl’era, stando tra i Novitij, dimandò con gran desiderio ed esercitò i più vili ministerij, e officij della Casa. Se n’andò talvolta con una veste tutta logora, e stracciata ad accompagnare lo spenditore, e portando à casa sulle spalle quel nobile facchino le cose, che quello havea com[p. 160 modifica]prato nella piazza, se ne passava per le più frequentate strade della Città alla vista di tutti, alcuni dei quali se ne stupivano, e altri se ne burlavano. Mà egli non ricusò di portare questa Corona di strame, nè la buttò via, anzi se la tenne à grand’honore. E dopo molti anni, che era stato nella Compagnia di Giesù, dopo d’haver letto Filosofia, e Theologia, e predicato con molta sua lode; Tutti quei di casa questa sol cosa ammiravano in lui, che un sì grand’huomo, che a mala pena poteva più star in piedi, e a pena più ci vedea, da dovero, e sì volontieri mentre gl’altri stavano a Tavola, stando talvolta in piedi, ò pure à sedere con molto incommodo nel luogo solito del Lettore, leggeva qualche divoto libro, come s’usa, e variava gl’accenti, e i suoni à modo d’altri. Et havendo già il P. Martino pigliatasi così volontieri questa corona [p. 161 modifica]di strame, di questo solo si sarebbe vergognato, di non haversi voluto vergognare, ancorchè vecchio.

L’istesso fece il B. Lanfranco, che fù huomo letteratissimo del suo tempo. Questi mentre una volta leggeva in Tavola essendogli dato un Repete contra ragione, e contra le leggi, e precetti della Grammatica dal suo Superiore, che non era così letterato; Ripigliò subito, e pronuntiò ogni cosa come gli era stato commandato. Poiche si teneva per honore, ne si vergognava questo huomo santissimo di portar questa corona di strame, nè d’haver qualche occasione di vergognarsi per amore di Christo. L’istesso fece il B. Luigi Gonzaga come si racconta nella sua vita.

Quando la Virtù hà una volta ben indurato l’animo, lo rende da ogni parte affatto impenetrabile, che non può essere tocco [p. 162 modifica]ne dal dolore ne dalla vergogna. Pensi tu forse, che un huomo, che veramente si è dato alla divina volontà, possa essere mosso dall’ignominia, havendo egli già riposto in Christo ogni sua riputatione? Peggio ancor d’ogni ignominia è una ignominiosa morte. E nondimeno tanti migliaia di Santissimi Martiri la riceverono con quell’allegrezza, e prontezza d’animo, con la quale altri ricevono la porpora, e le corone. L’istesso Christo Rè de’ Martiri per questa ragione ancora sopportò una morte così vergognosa, per insegnare a’ i suoi, non di fuggire dal patire cose vergognose mà si bene dal farle. Niuno vi è, che con più gusto sia da altri disprezzato se non colui, che con più gusto sia da altri dispreggiato, se non colui, che ha imparato a dispreggiar se stesso.

Un vero dispreggiatore di se stesso si reca à grand’honore tutte queste contumelie, e all’hora più seco stesso si compiace quando più [p. 163 modifica]da gl’altri vien burlato. Poiche quella finalmente è vera gloria, che uno dispreggiato per Christo sopporti ugualmente tutte le cose per grandi, ò picciole, che siano. Et i Discepoli di Christo son prima coronati di paglie, e di spine, che di gemme, e d’oro.

Il Rè David havendo dato la caccia alli Amaleciti, trovò nella campagna un servo Egittio, che per l’infermità, e per la fame era quasi morto. Et havendolo diligentemente interrogato della patria, della casa, e della gente sua; quello così gli rispose: Puer Aegyptius ego sum, servus viri Amaecitae: dereliquit autem me Dominus meus, quia aegrotare coepi nudius tertius. 3 Io sono un povero egitiano, servo d’un’huomo Amalecita: e il mio padrone mi ha lassato qui, come vedete, perche l’altro ieri fui assalito da questa infermità. Questi il Rè David, con far[p. 164 modifica]li anche un giuramento, pigliossi per compagno. E ponderando seco stesso queste cose S. Gregorio dice così: Hos eligit Deus, quos despicit mundus; quia plerumque ipsa despectio hominem revocat ad se ipsu. 4 Iddio si elegge quelli, che disprezza il mondo; perche molte volte l’istesso esser disprezzato, fa ritirar in se stesso l’huomo. La Corona di strame non fa danno a nessuno con la sua ignominia se non à chi è superbo, e impatiente.

Exeamus igitur (come ci essorta S. Paolo) exeamus ad Christum Iesum extra castra, improperium ipsius portantes. 5 Usciamo dunque fuori del campo, e andiamo à trovar Giesù Christo, portando ancor noi l’improperio suo. Habbiamo per guida d’andar al sanguinoso trono di Christo nella Croce, S. Paolo, che ci essorta à seguitarlo: Per gloriam et [p. 165 modifica]ignobilitatem, per infamiam, et bonam famam, ut seductores, et veraces. 6 Per la gloria, e per l’ignominia, per l’infamia, e per la buona fama, à guisa di seduttori: e di veraci. Poiche nella stessa strada haveremo per compagni tanti nobilissimi, e fortissimi Heroi, Qui ludibria et verbera experti, insuper et vincula, et carceres, i quali hanno patito vergogne, e bastonate, e più carceri, e catene. E per guadagnarsi una corona d’oro, ne portarono volontieri una di strame. Non è ancor felice, ne beato, chi non sa essere schernito, e dispreggiato.

Note

  1. [p. 187 modifica]Cass. coll. 3 cap. 12 init.
  2. [p. 187 modifica]Sen. lib. de prov. cap. 4. post init.
  3. [p. 187 modifica]1. Reg. cap. 30. 13.
  4. [p. 187 modifica]S. Gregor. in Evang.
  5. [p. 187 modifica]Hebr. c. 13.33.
  6. Heb. cap. 11 36.

[p. 165 modifica]

§. 5. Delle Bacchette.


D
Alle Bacchette ci vengono rappresentate quelle miserie humane, che ogni giorno ci [p. 166 modifica]tormentano la vita. E’ cosa certa, che mai ci manca che patire, mentre stiamo in piedi, mentre sediamo, mentre mangiamo, beviamo, e riposiamo, ci occorrono innumerevoli molestie, e ogni giorno co’ nostri affanni contrastiamo. E si può dire, che in questa Scuola il maestro non lascia mai le bacchette. Appena si troverà uno fra tutti gli huomini, che non habbia da patire ogni giorno qualche cosa. Mà tutte queste cose per le quali ci sdegnamo ci apportano più molestia, che danno.

Quelle parole, che disse quel Santo huomo di Tomaso de Kempis, à tutti appartengono: Miser es ubicunque, et quocunque te verteris, nisi ad Deum te convertas. Dispone et ordina omnia secundum tuum velle, et videre: et non invenies nisi semper aliquid pati, aut sponte aut invite. Converte te supra, converte te [p. 167 modifica]infra, converte te extra, converte te intra: et in his omnibus invenies crucem; et necesse est te ubique tenere patientem, si internam vis habere pacem, et perpetuam promereri coronam. 1 Tu sei un miserabile dovunque ti trovarai, e dovunque ti voltarai se non ti volti à Dio. Disponi pure, e ordina ogni cosa secondo il tuo volere, e parere: e non trovarai se non da patire sempre qualche cosa, o di buona voglia, ò per forza. Voltati pure di sopra, e di sotto, di fuori, e di dentro, che da per tutto troverai la croce: e ti bisogna da per tutto haver patienza se vuoi havere la pace interiore, e meritare l’eterna corona.

Queste miserie se ben sono facili à sopportare, tutta via perche sono come tanti censi quotidiani, accrescono mirabilmente il merito, purche si patischino per amor di Dio. Lodovico Blosio insegna [p. 168 modifica]benissimo: Non esse minimum quid, molestiam vel minimam pro Deo toleratam. 2 Che non è cosa di poco momento qualunque benche minima molestia sopportata per Dio.

Di tutte quante queste molestie, e miserie si può con ogni verità dire: Onerosum sed meritorium: Questo fastidio, ch’io patisco, mi è molesto, mà è meritorio purche io lo patisca per Dio, e volentieri; Perche, come dice S. Agostino: Discutit Deus, quid quisque voluerit, non quid potuerit. 3 Iddio essamina quello, che ciascuno haverà voluto, e non quello, che havrà potuto.

Quella prudentissima donna di Abigail, quando per placare David gli portava mille rinfreschi accompagnando quel suo presente con queste belle parole, così gli disse: Erit anima Domini mei custodia quasi in fasciculo viventium [p. 169 modifica]Apud Dominum Deum tuum. Porro anima inimicorum tuorum habitabitur, quasi in impetu, et circulo fundae. 4 Sarà l’anima del mio Signore, disse questa saggissima femmina, custodita come in un mazzetto di fiori, che si mantengono freschi dinanzi al tuo Signore. Ma l’anima dei tuoi nemici sarà buttata lontano, come un impetuoso girar di fionda.

Differentiò qui, questa saggia Donna con una bellissima comparatione il modo di vivere; che tengono tanto i tristi quanto i buoni, particolarmente in sopportar le miserie di questa vita. Gl’huomini di buon cuore sono come tanti fiori freschi, che il Giardiniero colse poco inanzi, e perche non si perdessero ne fece un mazzetto legandolo con un filo. Hor questi fiori vengono stretti con quel filo, e se potessero gridare mostrerebbero il loro dolore. Mà legati, [p. 170 modifica]e uniti a questo modo si conservano meglio, e posti in fresco nell’acqua durano molto più, che se si lasciassero così disuniti, e sciolti.

Per il filo, che lega questi fiori io intendo le quotidiane miserie, le quali c’insegnano à vivere, se non con più gusto, almeno con più purità. Mi dichiaro con un’essempio. Io mi sento fame, per soccorrere dunque à questa mia necessità desidero la benevolenza del cuoco. Hò sete, non volendo haver cura della cantina, mi servo perciò di un mio creato. Hò bisogno d’una veste, ma non potendo io stesso cucirmela, vò cercando un sarto, che me la cuscia. L’haver bisogno di queste cose, non è dubbio, ch’è una miseria: mà però facendo à questo modo, divento un poco più cortese, e havendo anch’io bisogno dell’opera altrui son costretto ad amarli. E se [p. 171 modifica]vi fussero alcuni, che non havessero niente bisogno d’altri; non si degnariano, ne anche di dire una buona parolina a nessuno. Et a questo modo si dice, che l’anima de i giusti è custodita, come in un mazzetto de fiori belli, e freschi.

Molto dissimile a questo è il modo di vivere de’ cattivi. Poiche se bene sentono ancor essi le quotidiane miserie non dimeno tù diresti, che siano come tanti sassi, che si girano con la fionda per tirarli più lontano. Non voglion’i tristi essere legati da’ leggi; desiderano una larghissima libertà, e vanno con ogni sollecitudine appresso i lor proprij voleri, ne si lasciano scacciare dalle delitie loro. E perciò se ne stanno nella fionda, non già legati, mà si girano quà, e là trascorrendo per ogni sorte di sceleraggini. Alla fine però dopò tante giravolte di lascivia, [p. 172 modifica]sono lasciati andare. Repulsi sunt de manu Dei. 5 vengono gettati via dalla mano di Dio. La onde, come dice un’antico interprete: Fascisulus astringitur, ut conserveturt: lapis in funda ponitur, ut aijciatur. 6 Il mazzetto de’ fiori si lega stretto per conservarlo; e la pietra si mette nella fionda per gettarla via. Ogn’uno pensi fra se stesso, in che modo sopporti le quotidiane miserie, se come fiori insieme legati, ò pure come sassi girati nelle fionde.

Il nostro Rè Giesù Christo crocifisso invitandoci à portar la croce, non c’invitava a portarla una volta l’anno, ò una volta il mese, ò una volta la settimana, mà si bene à portarla ogni giorno, e come testifica S. Luca, diceva à tutti. Si quis vult post me venire, abneget, semetipsum, et tollat crucem suam quotidie, et sequatur me. 7 Se alcuno mi vuol venire appresso, an[p. 173 modifica]nieghi prima la sua propria volontà, e ogni giorni pigli la sua croce, e mi segua.

Mi piace assai ciò, che disse S. Gio. Chrisostomo, il quale assimigliò la nostra vita ad una nave, ch’è tirata con le funi contra la corrente di un fiume. Imaginati i rumori, i tumulti, e le miserie continue, che sono in questa nave. Quì tù sei forzato à sentire notte e giorno perpetue grida. Quì il sonno è poco, e interrotto. Qui il mangiare è alla marinesca, e talmente apparecchiato, come ti puoi pensare, che possa cucinarsi commodamente in un naviglio. Quì il caminar della nave è tardo, e lento: Quì vi sono continue molestie, e una nasce dall’altra: hora si rompe una fune, hor la carina urta in qualche sasso; hor cade un cavallo di quelli, che la tirano, e hor chi lo cavalca: hor quel, che fà la guardia, gridando avvisa qualche imminente pe[p. 174 modifica]ricolo: hor la nave s’incaglia nell’arena, o nel vado si ferma: E perche in simili vascelli molte volte si porta gran copia di vino, quel, che hà cura delle botti, sempre si rompe la testa mentre le racconcia, che non facciano danno, ò che per il mosto, che bolle non crepino. E quando nella nave ci saria qualche poco di riposo; sopragiungono altri fastidij dal cielo: perche hor sopragiunge in un tratto la notte, e hor un’impetuoso vento, che ti fa fermare: hor le pioggie, e hor le tempeste ti trattengono, e non ti lasciano andare se non molto lentamente. E così non manca quì cosa alcuna, che non sia molesta, e fastidiosa. Tale à punto è la nostra vita, è piena di continue miserie, e sempre ci porge materia di patire. Adverso flumine (disse S. Gio. Chrisostomo) in caelum navigamus, et tu quaeris, ne qua tibi difficultas occurrat. 8 Noi [p. 175 modifica]navighiamo verso il cielo, e andiamo contra la corrente del fiume, e tù vai cercando, che non t’occorra difficultà nessuna.

Le molestie dunque quotidiane, non vi sarà altro, che le vinca, se non una quotidiana Patienza. E però pigli ciascuno ogni giorno la sua croce.

Qui si può meritar molto, non tanto per la difficoltà delle cose, che s’hanno da sopportare, quanto per l’assiduità loro. L’Abate Marchoi solea dire con un sentimento molto divoto: Malo aliquod leve opus et continuum, quam grave, quod cito finiatur. 9 Io voglio più tosto qualche opera leggera, e continua, che una grave, che fornisca presto. Non si deve tenere per manco patiente uno, che ogni giorno essercita la sua patienza come al pari di quello, che si tenga un’altro, che porta pesi grandi, mà rare volte. Anzi accade qualche volta, [p. 176 modifica]che superiamo le cose grandi, e poi siamo vinti dalle minime: sopportiamo un’ingiuria grave, e poi ci sdegnamo con grandissima impatienza con un pulce, e una mosca. O graviora passi. 10 disse quel poeta. O come voi, che havete sopportato cose tanto grandi come hora vi perdete in cose così picciole?

Racconta Dionisio Cartusiano, che un novitio di quella sua Religione, che al principio stava allegro, e ad ogni cosa si mostrava pronto si cominciò à poco à poco à stancare, e à contar frà gravezze quelle cose, che dal principio gli erano parse leggierissime. E quel, che più d’ogni altra cosa l’affliggeva, era, che come novitio doveva portare il capuccio nero; e questo gli venne tanto in odio, che lo stimava una pesantissima croce, cosa, che non diede mai fastidio ad altri, che à lui. Occorse, che [p. 177 modifica]un giorno dopo pranzo, stando egli in quel grandissimo silenzio, gli venne un gran sonno, e mentre se ne stava dormendo si sognò, che Giesù Christo nostro Signore se ne andava per un corritorio di quel monasterio con una grandissima croce in spalla, e s’affaticava di salire alcune scale, ne poteva farlo per lo smoderato peso di quella croce. Parve dunque à questo novitio, che egli vi corresse per volerlo aiutare, mà che Christo guardandolo con occhi torti, gli dicea; che fai huomo impatientissimo? Pensi tù forse di potermi aiutare à portare la mia croce? Non puoi portare la tua, e presumi dar aiuto à gli altri? Svegliossi il novitio à queste parole, e si riconobbe dell’errore, con ferma speranza di dover dar migliori esempi di patienza.

L’istesso spesse volte accade à noi: sopportiamo qualche volta cose difficilissime, e gravissime, e poi [p. 178 modifica]siamo vinti in cose minutissime. Noi haveressimo detto à quel novitio: Che fastidio ti dà questa sorte di vestimento? E vero, che il cappuccio, che tu hai tanto in odio, è nero, mà però è leggiero; e secondo l’usanza della Religione, che hai pigliata, l’hanno à portare tutti i novitij. Diciamo dunque di gratia anche à noi stessi simili parole: La fame, la sete, il freddo, l’aria cattiva, l’habitatione molesta, il caminar dispiacevole, la fatica tutta pieno di tedio, gl’amici importuni, i figliuoli discoli, e inquieti, i servitori dapochi, la moglie sdegnosa, sono tutte miserie disgustose, mà facili a sopportare, e purche le sopportiamo senza repugnanza; con l’assiduità del sopportarle si rendono più piacevoli, e facilmente si vincono. Sono bacchette, non travi, e per il più fanno tanto minor danno quanto più spesso percuotono. E quì avvisandoci [p. 179 modifica]molto eruditamente Tertulliano dice: absit à servo Christi tale inquinamentum, ut patientia maioribus tentationibus praeparata, in frivolis excidat. 11 Dio guardi il servo di Christo da un mancamento tale, che in cosa di niente gli scappi la patienza, che si hà guadagnato in maggiori, e più gravi tentationi.

Havendo Iddio fatto Amorevolissime promesse al Rè David, gli disse: Ego ero ei in Patrem, qui eum in vitga virorum, et in plagis filiorum hominum. 12 Io gli sarò Padre, che se farà qualche cosa malamente, lo castigarò con la bacchetta de gl’huomini, e con i castighi, che si sogliono dare à i figliuoli de gl’huomini, cioè come suol fare un Padre, d'un maestro, quando con la sberla dà una palmata à un suo figliuolo, ò à uno scolare: ch’è una leggier per[p. 180 modifica]cossa è un breve dolore.

Così Dio con la bacchetta de gl’huomini, e con i castighi, che si sogliono dare a loro, che sono le miserie loro quotidiane, ci castiga accioche mancando il rigore della paterna disciplina non facciamo contra i suoi comandamenti ne pigliamo animo à commettere ogni sorte di sceleraggini. Perche all’hora cresce l’ardire di peccare, quando manca il timore di pagarne la pena. Percio disse David: Virga tua, et baculus tuus ipsa me consolata sunt. 13 Signore la vostra verga, e la vostra bacchetta sono stati quelli, che m’hanno consolato, e ricondotto sù la buona strada, ed essendosi conosciuto per un figliuolo, che havea peccato, riconobbe ancora il Padre, che sì dolcemente l’havea castigato.

E Seneca disse eruditamente queste parole: Non sentire mala [p. 181 modifica]sua non est hominis; non ferre mala sua non est viri. 14 Il non sentire i proprij mali non è cosa da huomo: Et il non sopportarli non è cosa da huomo forte. Il sentir fame, sete, freddo, con tutte l’altre molestie di questa vita è cosa grave, no ’l nego, mà con tutto ciò è meritoria. Seguitiamo pure à sopportare queste cose: perche ancor quì da questa breve lotta si hà da sperare un premio immortale.

Note

  1. [p. 203 modifica]Thom. de Kemp. de imitat. Chr. lib. 1 cap. 22. et lib. cap. 12 num. 3. et 4.
  2. [p. 203 modifica]Blos. inst. sp. cap. 2 prop. fin.
  3. [p. 203 modifica]S. Aug. in Psal. 61. prop. fin.
  4. [p. 203 modifica]1. Reg. cap 25. 29.
  5. [p. 203 modifica]Psal. 87. 6.
  6. [p. 203 modifica]Glos. ord.
  7. [p. 203 modifica]Luc cap. 9. 23.
  8. [p. 203 modifica]S. Chrisost.
  9. [p. 203 modifica]Pelag. libell. 7. num. 11.
  10. [p. 203 modifica]Virg. lib. 1. Aeneid.
  11. [p. 203 modifica]Tertull. lib. de pat. cap. 8.
  12. [p. 203 modifica]1. Reg. cap. 7.14.
  13. [p. 203 modifica]Psal. 12. 4.
  14. Senec. de consol. ad Polib. cap. 36.