Italiani illustri/Cicerone

Cicerone

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Dante Marco Polo
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I. Suoi cominciamenti — II. Sue opinioni politiche — III. L’arte oratoria — IV. Lotte civili — V. Azioni contro Verre — VI. I possessi. Le leggi agrarie — VII. La congiura di Catilina — VIII. Il consolato di Cicerone. Primo triumvirato — IX. È accusato. Esiglio e ritorno — X. Clodio e Milone — XI. Guerre civili. Caduta della repubblica — XII. Le Filippiche — XIII. Secondo triumvirato. Fine di Cicerone — XIV. Suo carattere — XV. Cicerone scrittore — XVI. Sue lettere — XVII. Sua filosofia.


I.


Meyer nel 1832 pensò pel primo a pubblicare i Frammenti d’oratori romani da Appio Claudio fino a Simmaco, faticosissimamente desunti da storici, da grammatici, da iscrizioni. Dübner ne fece un’edizione francese con una bella storia dell’eloquenza romana di Ellendt. Meyer istesso curò un’edizione ampliata quasi del doppio a Zurigo, 1842, Oratorum romanorum fragmenta ab Appio inde Cœco et M. Porcio Catone usque ad L. Aurelium Symmachum, ove aggiunse più di trenta nomi nuovi di oratori, ma la lista è ancor lontana dai trecento che Frontone numerava nell’XI secolo. Tutti questi si eclissano nello splendore di Marco Tullio Cicerone. Nacque egli in Arpino nella regione dei Marsi il 106, l’anno stesso che Pompeo, da buona famiglia equestre ma segregata dagli affari. Suo padre, attento ai campi ed alle lettere, diresse con premura e senno l’educazione di Tullio, che si segnalò sulle scuole, nelle quali gli esercizj faceansi in greco, giacchè la lingua natìa credevasi bastasse impararla dal quotidiano conversare e dai pubblici dibattimenti. Il primo che aprisse scuola di retorica in latino fu un Lucio Plauzio, e la gioventù vi traeva in folla, come accade alle novità; ma il giovane Tullio ne [p. 62 modifica]era dissuaso da gravissimi personaggi, che pretendevano all’ingegno porgessero ben migliore alimento le greche esercitazioni1. Queste scuole però diventavano palestra di dispute vane, d’artifiziale verbosità e di sfrontatezza; talchè i censori Domizio Enobardo e Lucio Licinio Crasso credettero bene riprovarle, come repugnanti all’uso dei maggiori.

Cicerone cominciò dai versi, come soleano indocti doctique; ma nella poesia poco s’illustrò; colpa in parte de’ soggetti, i quali erano o descrizioni come il Pontio Glauco e il Nilo, o didascalici come i Prati e la traduzione dei Fenomeni d’Arato, o storici come Mario e più tardi il proprio consolato. Assunta a sedici anni la toga virile, studiò il diritto alla scuola dei due Scevola, e più ai dibattimenti del fôro. Distrattosene alquanto per militare nella guerra degli Alleati, subito ritorna a Roma ad ascoltare i greci filosofi e sofisti d’ogni opinione, che vi affluivano come a bottega. Poichè, se nel diritto e nella politica che colà andavano compagni, egli prese per modello i Romani, sentì la necessità di ajutarsi colla coltura greca.

Di ventisei anni fece la prima comparsa nel fôro a difendere Roscio Amerino. Un liberto di Silla volea far reo di morte costui per gola di spogliarlo; Cicerone ne assunse il patrocinio: e sebbene in questo caso nessun pericolo corresse, e blandisse moderatamente il dittatore apponendo alle troppe sue occupazioni se lasciava prevaricare i dipendenti suoi, piacque però il vedere un giovane alzarsi in favore dell’umanità che sì rado trovava campioni, e rinfacciare l’iniquità a coloro che fecero loro pro della proscrizione, e che trionfavano, beati di ville suburbane, di case adorne con vasi di Corinto e di Delo, con uno scaldavivande che valeva quanto una possessione, con argenterie e tappeti e pitture e statue e marmi, oltre una masnada di cuochi, di fornaj, di lettighieri; piacque l’udirgli dire: — Tutti costoro che vedete assistere a questa causa, reputano che si deva riparare a tale soperchieria: ripararvi essi non osano per la nequizia dei tempi».

Piacque poi agli uditori quell’eloquenza immaginosa e pittoresca, che più tardi egli trovava sovrabbondante. Ma anzichè addormentarsi sopra gli allori, facilmente condiscesi ad un principiante, egli andò a viaggiar la Grecia e l’Asia, a farsi iniziare ne’ misteri eleusini, e a [p. 63 modifica]perfezionarsi in Atene e a Rodi sotto dei retori famosi, giacchè i maestri di pensare si erano ormai ridotti a maestri di parlare. Molone Apollonio di Rodi castigò in esso la ridondanza, che non sempre è buon segno ne’ giovani; e udendolo declamare, — Ahimè! (esclamò) costui torrà alla Grecia il vanto unico rimastole, quello del sapere e dell’eloquenza».

Tornato in patria, prese lezioni di bel declamare da Roscio commediante; e si produsse colle arringhe che ci rimangono, tutte sottigliezza e squisitissime forme; acquistò l’ammirazione dei Romani, spiegando una fluidità qual conveniva all’imponente gravità delle forme romane, siccome l’energica concisione demosteniana s’addiceva alla vivacità impaziente e sottile degli Ateniesi. Ma a divenire grande oratore, più che la scuola, gli valsero la conoscenza degli uomini, il sentimento del retto, la benevolenza per gli altri, l’amore de’ suoi, una portentosa operosità, un acume esteso e penetrante, e aggiungiamo anche un buon dato d’immaginazione, per cui spesso ravvisava il presente e l’avvenire con occhi passionati.

Nessuno creda fossero veramente recitate le orazioni sue quali le leggiamo: teneva in pronto alcuni esordj; poi, preso calore, s’abbandonava alla foga dell’improvvisare; i suoi schiavi stenografavano que’ lunghi discorsi, che egli poi a tavolino forbiva, cangiava, insomma facea di nuovo2. [p. 64 modifica]

Nè vi cercate que’ tratti vivaci che, massime nei moderni, colpiscono e fermano; ma piuttosto uno splendore equabilmente diffuso sul tutto, una continua grandiloquenza. Nell’arte di dar risalto alle ragioni, non sia chi pretenda superarlo: ma non s’accontenta a ciò; e vuol recare diletto, si indugia in descrizioni, digredisce or intorno alle leggi, or alla filosofia, or alle usanze3; celia sopra gli altri e sopra sè stesso; singolarmente primeggia nel muovere gli affetti. Sempre poi si atteggia in prospettiva, e ad ogni periodo, ad ogni voce lascia trasparire il lungo artifizio. Di qui la purezza insuperabile del suo stile; di qui il finito d’ogni parte, e il non produrre mai un’idea se non vestita nobilmente; talchè osiam dire che nessuno abbia meno difetti e maggiori bellezze.

Ma parlando come chi vuol dilettare più che convincere, e non teme esser contraddetto purchè dica bene, nella rotonda facilità della sua parola non si eleva mai al vero sublime: per lunga pratica e per analisi argutissima conosce tutti gli accorgimenti con cui svolgere, accomodare, invertere le parole, e tutte le usa come padrone; ma t’accorgi che è formato alla scuola, e v’incontri, non i torrenti di luce fecondatrice che versa dall’inesauribile grembo il sole, bensì i riflessi della luna, che su tutto diffonde gli armonici suoi chiarori.


II


E alla luna il dovremo paragonare se ne ponderiamo i sentimenti. Non t’arresti ad una sua sentenza che mostri un risoluto giudizio, un partito deciso, senza che altrove non t’imbatta nel preciso [p. 65 modifica]opposto: e viepiù nelle orazioni il calore del discorso o l’intento di piacere e di vincere gli faceano gittare alle spalle la verità4. Sosteneva un assunto quando gli servisse, non rifuggendo dal sostenere il contrario quando gli tornasse meglio. Leva a cielo i poeti difendendo Archia? li vitupera nella Natura degli Dei. Encomia i Peripatetici nella difesa di Cecina? li disapprova nel primo degli Uffizj. I viaggi di Pitagora e Platone trova stupendi nel quinto degli Uffizj, li trova sordidi nell’epistola a Celio: chiama povera la lingua latina in alcuni luoghi, in altri la fa più ricca della greca, anzi la greca accusa di povertà5.

Cicerone era stato educato nelle arti giuridiche sotto Lucio Licinio Crasso, il più reputato oratore d’allora e gran sostenitore del senato; ma non sciorinò bandiera; onesto, moderato, amante la costituzione che gli dava modo di sfoggiare il suo talento, pur velando il suo modo di pensare, si bilicò in quel giusto mezzo, che porta innanzi, non porta mai alla sommità.

Oggi qualificheremmo Cicerone per un conservatore, un dottrinario. Eclettico in filosofia, adotta i nuovi concetti morali che si aprivano la strada traverso alla rigidezza del prisco sistema giuridico; ride degli auguri, egli augure; esercita l’umor suo gioviale alle spalle de’ giureconsulti, aggrappati alle forme e superstiziosi delle sillabe, dei riti, delle azioni, delle finzioni arbitrarie6; antepone l’equità allo stretto diritto, e doversi cercare le vere norme, non nelle XII Tavole, ma nella ragione suprema scolpita nella nostra natura immutabile, eterna, da cui il senato non può dispensare, e che fu da Dio concepita, discussa, pubblicata7.

Benchè l’intera vita egli versasse negli affari, nulla di nuovo inventò circa a cose di Stato e alle leggi; e il patriotismo gli toglieva di fare degl’istituti nazionali una stima conveniente, al paragone degli stranieri. Il suo libro delle Leggi non sa che ammirare le antiche consuetudini romane. In quello della Repubblica, la cui recente [p. 66 modifica]scoperta eccitò tanta aspettazione, vanta bensì di dar cose attinte dalla propria esperienza e dalle tradizioni degli avi, e superiori buon tratto a quanto dissero i Greci8: pure non sa far di meglio che tradurre il sesto libro delle storie di Polibio, ove è divisata la costituzione romana; anzichè risalire alle fonti del diritto, accetta il fatto, dando per modello la romana repubblica, blandendola più che non paresse dover consentirglielo i mali di cui era testimonio, e dei quali non ravvisava la ragione nè i rimedj. Fra le costituzioni pospone la democratica, perchè alle persone illustri non dà altro che un grado più elevato di dignità; e preferisce la monarchica, che la turba delle passioni allivella sotto una ragione unica; ma conchiude per un misto delle tre forme9. Siffatta gli è d’avviso che sia la repubblica romana, coll’elemento monarchico ne’ consoli, l’aristocratico nel senato, il democratico ne’ tribuni e nelle adunanze. Ma il potere del popolo vorrebb’egli restringere, e dà consigli sul modo di riconoscergli una libertà apparente, attenuandone in effetto il potere.

Amantissimo della gloria di Roma, e anche della propria, se era molto acconcio a trattare locali interessi, non comprendeva però le quistioni vitali dello Stato, che erano l’assimilare le provincie e l’accomunare le franchigie cittadine: e uom di temperamenti, dell’opportunità, del bene possibile, irresoluto perchè il suo buon senso gli mostra tutte le difficoltà e lo rattiene dagli eccessi, fra i pochi che conducono al despostismo e la folla che trae all’anarchia tende a frapporre una classe media, credendola unica salvaguardia all’integrità della costituzione, e a togliere pretesto alle lotte fra patrizj e plebei, fra provinciali e romani, fra i vincitori e i vinti della guerra civile. Quest’interesse per la classe di cui erasi costituito patrono, è il lato più costante e meglio appariscente del suo carattere; a quel divisamento politico mai non avendo fallito neppur quando sbagliò di mezzi; nè, come il suo Pompeo, se ne lasciò sviare dalla speranza illegittima di ergersi superiore alle leggi che applicava e difendeva. [p. 67 modifica]


III.


I segreti dell’arte sua espose in dettati di purissimo sapore, rilevati da sali e grazie carissime. Chè la critica acquista dignità e grandezza in mano d’uomini, i quali fanno scomparire la differenza che corre fra l’arte del giudicare e il talento del comporre, portano una specie di creazione nell’esame del bello, per genio istintivo pare, inventino allorchè non fanno che osservare, e possono dire, — Son pittore anch’io». La pretensione di dar precetti sul modo d’adoprare ciò che più è personale all’uomo, la sua lingua, l’espressione degl’intimi sentimenti, sa di stolta o ridicola: eppure in Cicerone si leggono volentieri quelle regole, di necessità incomplete, ma dedotte da lunga e splendida esperienza, e dall’abito di tener conto di tutte le ragioni del favellare, dalle più astruse fino alle minuzie materiali della dizione figurata e del ritmo oratorio. A questi attribuendo le vittorie sue e degli altri, volle analizzarli con una sottigliezza eccessiva, discutendo sul tono di voce conveniente al principio e al séguito dell’orazione, sul battersi o no la fronte, sullo scompor le chiome nel tergere il sudore, ed altre inezie che non tardarono a divenire principali. Quei precetti intorno al simulare ciò che farebbe naturalmente chi esternasse i proprj sentimenti, a noi, cambiata lingua e modi, riescono inutili; talvolta neppure intelligibili i suoi suggerimenti sulla disposizione della parole, la consonanza dei membri, la distribuzione de’ periodi, l’alternare delle sillabe lunghe e brevi, e finir col giambo piuttosto che collo spondeo; nè partecipiamo alla sua ammirazione pel dicorèo comprobavit; ma queste che a noi somigliano frivolezze, aveano somma importanza fra un popolo dove Gracco, parlando alla tribuna, faceasi dar l’intonazione da un flautista, e dove una frase ben compassata di Marc’Antonio fu accolto da applausi fragorosi. Pure Cicerone fu appuntato di troppa arte nel contornare il periodo; e a noi stessi non isfugge quanto egli prediliga certe chiuse sonanti, e il frequente ritorno della cadenza esse videatur.

Nè l’arte dell’avvocato limitavasi, come dovrebbe, a scoprire la ragione e dimostrarla; bensì a far parere tale ciò che non è, sparger veleno e sarcasmo sopra atti incolpevoli, ad un racconto ingenuo tramezzar bugie e calunnie, sapere colla ironia sostenersi ove non [p. 68 modifica]si potrebbe cogli argomenti, affettare gravità e morale nell’enunciare dogmi machiavellici, profondere la beffa sull’avversario, solleticare la vanità, la paura, l’interesse, l’invidia. Tali arti possono vedersi analizzate con compiacenza da Marco Tullio: il quale pure scrisse una Topica, indicando i luoghi comuni da cui desumere le ragioni; perocchè il trovare argomenti doveva essere speciale magistero là dove l’eloquenza mirava meno a chiarire la verità, che a far prevalere una parte, una causa, un uomo.

Sì gran maestro di tutti i segreti della parola, era argutissimo nel notare i meriti e i difetti de’ predecessori suoi, che tutti superò, e degli emuli contemporanei, Giulio Cesare, Giunio Bruto, Messala Corvino, Quinto Ortensio. Quest’ultimo a diciannove anni si mostrò al pubblico con un’arringa in favore degli Africani, e fu somigliata a un lavoro di Fidia, che rapisce i suffragi degli spettatori al sol vederlo10. Memoria sfasciata, bel porgere, somma facilità il rendevano arbitro della tribuna, e facevano accorrere i famosi attori ad ascoltarlo, mentre la fluidità asiatica, l’ornamento, l’erudita accuratezza ne rendevano piacevole la lettura. Egli introdusse di dividere la materia in punti, e di riepilogare al fine; ottimo spediente a far bene abbracciare la causa e dar nerbo alle prove condensandole. Nulla di lui ci rimane, ma sappiamo che nessuno de’ coetanei potè reggergli a paro, fin quando non rallentossi, e sviò dal fôro per viver lieto e placidamente in compagnia di letterati, fra le magnificenze. Perocchè aveva quattro ville, insigni di capi d’arte, con boschi popolati di selvaggine, piante rare, fra cui platani che inaffìava col vino, vivaj di pesci squisiti, al cui alimento dava maggior cura che non agli schiavi, e spendea tesori per mantenervi fresca l’acqua in estate; aveva inventato di metter arrosto i pavoni: ed era detto re delle cause e delle mense, e morendo lasciò 1200 anfore di vino prelibato11. Sagrificò anche al suo secolo collo scrivere versi licenziosi; parteggiò con Silla, e si oppose a coloro che, abrogandone le leggi, spianavansi la via alla potenza; contraddisse a Pompeo quando rintregò la potestà tribunizia e quando chiedeva missioni straordinarie; fece condannare Opimio già tribuno; e torna a suo onore l’essersi conservato amico di Cicerone, benchè [p. 69 modifica]di parte opposta ed emulo, e l’averlo a capo de’ cavalieri protetto in giudizio.

L’eloquenza politica non era però la principale e più studiata in Roma: e Cicerone stesso, re nella tribuna, la riguarda come un trastullo a petto alla giudiziale. In questa di fatto si trattava di render flessibile la rigida formola e il testo letterale delle leggi; vi si mescevano le passioni politiche; destavano commozione lo squallore del reo, i gemiti della famiglia, le suppliche dei clienti; sicchè era una delle più ghiotte curiosità l’osservare il modo con cui l’oratore saprebbe a tutto questo far prevalere la giustizia o la propria opinione.

Di due grandi quistioni (come accennammo) tessevasi la storia romana: la prevalenza dell’aristocrazia sopra la plebe: la prevalenza di Roma sopra il resto dell’Italia e del mondo. Il patriotismo all’antica dovea riporre tutte le virtù nel conseguire questi due effetti opprimendo la plebe e gli stranieri. Il vero patriziato feroce ed esclusivo, da tempo era soccombuto ai lenti sforzi de’ plebei; i quali poco a poco avevano acquistato voce, indi luogo in tutte le magistrature. La differenza sussisteva nella proprietà; giacchè i nobili aveano saputo trarre a sè la parte migliore de’ campi conquistati sul nemico, e colle arti e colle legalità assorbire le piccole porzioni toccate al plebeo, il quale, non potendo applicarsi alle arti meccaniche, restava mendico.

Le terre conquistate dividevansi in tre parti: una lasciata agl’indigeni; l’altra venduta a pro del tesoro; la terza costituiva un dominio pubblico, che suddividevasi in porzioni, di cui il possesso, non la proprietà, era conceduta ai cittadini sopra una tenue retribuzione. Era dunque come il soldo del guerriero, ma i patrizj sapevano trarlo a sè, eludendo quelli col cui sangue erasi acquistato. Un più equo riparto domandarono Licinio Stolone e più tardi i Gracchi colle leggi agrarie, che non tendeano a spossessare i ricchi dei dominj aviti, a’ quali nessuno legalmente intentò, bensì a far parte a tutti della distribuzione delle campagne conquistate: domanda così giusta, che il senato non osò mai negarla apertamente, e solo vi attraversò arti subdole o la violenza.

Roma, quand’ebbe doma tutta l’Italia, dilatò fuori le conquiste; ed eccola aver bisogno delle braccia di tutti gl’Italiani, che, come già i plebei, non vi si rassegnavano se non ricambiati con qualche [p. 70 modifica]diminuzione dell’autorità sovrana. L’aristocrazia romana avversava risolutamente questo accumunamento di prerogative, e voleva chiusa a tutti la romana cittadinanza.

La conciliazione tentata dai Gracchi colla potente parola e colla sedizione, non valse, nè più rimanea che la forza aperta. La loro disfida fu sostenuta da Mario, uomo nuovo, del paese de’ Volsci e avvezzo ai campi, fattosi caporione della causa e dell’Italia e della democrazia. Gli si oppose Silla, campione vigoroso del vecchio genio patrizio, e attento ad assicurare la preponderanza de’ nobili in Roma e di Roma sovra l’Italia, escludendo ogni pretensione italica. L’aristocrazia era vigorosa, perchè d’accordo e munita delle forme legali: sicchè egli trionfò.

In queste guerre civili cambia natura la domanda, e non trattasi più di spartire l’ager publicus, ma si attenta ai veri patrimonj: non però per legalità, bensì per conquista. Alcune volte vi si arriva violentemente col depennare i debiti; compenso ingiusto, nè diversa da una spropriazione, da un fallimento legale; altre volte colla proscrizione, che assassinava il proprietario per attribuirne ad altri il possesso. Come già praticavasi coi nemici, così ora ai cittadini vinti si confisca il podere, si distribuisce ai soldati; e il nuovo possesso sottentra coi diritti stessi.

Adunque spostaronsi i possessi; molti poveri divennero possidenti; soldati Iberi e Galli occuparono i campi dell’Etruria o del Mantovano; finchè stanchi del riposo, vendevano la loro porzione, scialacquavano il prezzo, e chiedevano nuova occasione di acquisti. Tolta la sicurezza de’ possessi, la coltivazione andava negletta, e com’essa pervertivansi i costumi; cambiati i possessori, non la natura de’ possessi, punto migliorava la condizione della plebe. Questa volea pane, e le era dato, non con elevare tutta la classe, rionorar il lavoro, porgere modi di guadagno, bensì coll’abbattere i già possidenti per surrogarvene de’ nuovi, i quali però lasciavano sempre una moltitudine vogliosa di elevarsi coll’arti medesime.


IV.


Ma già sentivasi d’ogni parte crosciare la repubblica. La coltura greca valse da principio a dirozzare i Romani, e dell’introdurla vuolsi saper grado agli Emilj ed agli Scipioni: ma l’indole romana ripigliava [p. 71 modifica]il sopravvento; l’abitudine degli accampamenti viziava le dottrine della scuola; sicchè dalla bella letteratura non si domandavano che nuovi stimoli all’appetito; alla politica di Polibio o alla morale di Panezio ponevasi mente soltanto per la felice esposizione; e più che le semplici e tranquille soddisfazioni del vero studioso, si andava in Grecia a raffinarsi nella corruttela, a suggere il peggio della filosofia epicurea, cioè impararvi a sprezzar gli Dei, negare la Provvidenza, godere il più che si potesse, conforme l’esempio di quelle genti, che dell’umiliazione nazionale si stordivano colle voluttà, si vendicavano coll’astuzia.

Coll’empietà, divenuta moda e buon gusto, colla famiglia sconnessa, coll’opinione storta o non curata, poteva più conservarsi quel vivere in repubblica che suppone dominante la virtù? era a sperare che gente sì fatta accettasse temperamenti agrarj, o potesse rigenerarsi alle austerità repubblicane? o forse ve li avviavano l’educazione letteraria, la religione, la filosofia? Le guerre lontane, i comandi in conseguenza prorogati, tanti Italiani già ammessi alla cittadinanza di Roma, l’aspirazione di tutti i paesi conquistati ad entrarvi e così pareggiare il diritto, facendo svilupparsi le ragioni dell’umanità, davano il crollo alle istituzioni particolari d’un gran Comune qual era Roma. La lotta, in prima latente, venne infine ad incarnarsi ne’ grandi personaggi di Gneo Pompeo e di Giulio Cesare, sotto ai quali capi scompariva la patria. Pompeo, fautore dei cavalieri cioè dell’ordine medio, onesto ma debole, seguendo le idee di Silla ma colla piccola ambizione che cerca i posti e non sa ben tenerli, reggeasi sopra le famiglie primarie e i fautori del passato; ambizioso senza lontana preveggenza, carattere senza decisione, che facea nascere le eventualità, poi non sapea valersene. Lucio Crasso, ricco sfondolato e di ricchezze avidissimo, godea gran credito in senato, unitosi a Pompeo contro l’oligarchia, diè il colpo al partito conservatore formato da Silla, talchè da quel punto la costituzione romana dovè considerarsi perduta.

Di gran lunga superiore era Cajo Giulio Cesare, uno de’ maggiori personaggi dell’antichità; uno di quelli che bisogna sieno primi. Segnalato fra i nobili per sangue e costumi, al popolo fu caro come nipote di Mario; ed egli in fatti pettoreggiò i fautori di Silla. Genio ordinatore al par di questo, divisò un procedere ben diverso da esso. Silla ritraeva verso un irrevocabile passato; Cesare avviava [p. 72 modifica]all’avvenire cercando ciò che paresse effettibile: Siila escludeva tutto che non fosse romano; Cesare abbracciava che che il mondo barbaro potesse tributare all’annosa civiltà, e dilatava le gelose barriere della città romana; che ben presto dall’Impero e dal cristianesimo doveano essere spalancate a tutti: anche ai Barbari, anche agli schiavi estendeva l’attenzione sua: chi avesse soprusi da frenare, miglioramenti da chiedere, a lui ricorreva; egli allettava il popolo collo spettacolo, colla gloria, colla forza.

Tra i due oscillava Cicerone, non ben deciso con quale stesse la libertà, come avviene in tempi di fazione. E prima Pompeo lo giudicò il meglio opportuno a ferire l’aristocrazia, e gli porse il destro d’offrire a noi posteri il quadro più parlante della corruzione d’allora.


V.


Cajo Licinio Verre senatore, amico dei Metelli e degli Scipioni, spende la giovinezza nei bagordi: questore di Carbone nella guerra civile, diserta al nemico colla cassa; luogotenente di Dolabella contro i pirati, pirateggia egli medesimo, e la dà per mezzo alle peggiori scelleraggini. Raccoltele tutte in un libello, Scauro gliele presenta, minacciando citarlo in criminale se non gli rivela per filo le colpe e mancanze di Dolabella: e Verre tradisce il suo capo, anzi sta in giudizio contro di esso. A Scio, a Tenedo, a Delo, ad Alicarnasso ruba le più belle statue: da’ Milesj chiede a prestanza una nave, e avuta la migliore, la vende e se ne intasca il prezzo. A Lampsaco invaghitosi della figlia di Filodamo, ordina ai littori di condurgliela; ma i fratelli e il padre repulsano quella brutale violenza: ne nasce un parapiglia, che a gran fatica è calmato da’ cavalieri e negozianti romani: poco dopo Verro cita Filodamo al suo tribunale, e il dimostra reo di morte. Venuto a Roma pretore, lasciasi governare da Chelidone cortigiana greca e da un favorito, che fanno traffico delle sentenze di esso. Qual dovea costui riuscire mandato pretore, cioè arbitro nella Sicilia? (73 av. C.)

Questo paese, che avea avuto una letteratura emula della greca, medici e naturalisti insigni, filosofi, matematici, artisti, tutto aveva perduto coll’indipendenza; e dimentiche le antiche grandezze, era caduto in quel fondo d’oppressione, dove nè tampoco rimane il [p. 73 modifica]coraggio di querelarsi e la forza di fremere12. A malgrado di tanti danni, quell’isola era tuttavia il fiore delle provincie. Il commercio la stringeva agl’Italici: ricchi e industriosi terrazzani prendevano a fitto estesissimi poderi, e v’impiegavano a gran vantaggio grossi capitali: Roma la guardava come suo granajo; talmente fruttava l’un per venti delle merci importate, che dal solo porto di Siracusa in pochi mesi Verre ricavò dodici milioni di sesterzj13. Che ghiotto boccone alla gola de’ magistrati romani! che bell’arricchirsi in provincia tanto ubertosa, e per soprappiù così vicina, da potere considerarsi un suburbano di Roma!

Verre, ottenutone il governo, calpestate e le leggi romane e le paesane consuetudini, in quei tre anni fece traboccare a sua voglia le bilancie della giustizia; egli cavillava ogni testamento finchè nol si satollasse di denaro; egli obbligava i contadini a contribuire più di quello che raccoglievano, talchè molti campi rimasero abbandonati; egli saccheggiava città, o le obbligava a mantenere le sue bagascie; egli assoldava accusatori, citava, esaminava, sentenziava. Possessi aviti furono aggiudicati altrui; cassati testamenti e contratti; alterato il calendario per vantaggiare gli appaltatori14; fedelissimi amici condannati come avversarj; cittadini romani messi alla tortura, o mandati al supplizio; gran ribaldi assolti per denaro; onestissime persone accagionate assenti, o condannate; porte e città dischiuse ai pirati; uccisi i capitani, le cui squadre si erano lasciate [p. 74 modifica]vincere perchè egli tardava le paghe, perdute o vendute ignominiosamente opportunissime flotte; tiriamo un velo sulle violenze al pudore.

I Romani mai non mostrarono nè disinteressato culto nè retto gusto per le belle arti15; però dalle grosse somme che costavano agli amatori, e dal dispiacere che le città greche palesavano al vederseli rapiti, avevano imparato ad apprezzare i capi d’arte, a crederli un glorioso trofeo nelle città, un signorile ornamento ne’ palagi.

Ricchissima ne era la Sicilia, greca ella stessa, fors’anche maestra alla Grecia, corte di re possenti e generosi, e madre di segnalati artisti. Parve dunque a Verre d’avere un bel destro onde radunarsi una galleria, che non iscapitasse dalle più vantate di Roma; e già prima di porvi piede s’era informato dove giacessero i capi più stimati; indi, o a prezzi determinati da lui medesimo, o più sovente colla frode e colla violenza, ne spogliò il paese. — Prima della costui pretura (dice Cicerone) in Sicilia non v’avea casa per poco doviziosa, dove, se anche altro argento non si trovava, mancassero questi capi, cioè un grande vassojo con figure e intagli di divinità, una pátera da servirsene le donne ne’ riti sacri, un turibolo, e tutto di lavoro antico e di squisito artifizio: onde si può argomentare che un tempo i Siciliani anche delle altre cose tenessero in proporzione: e sebbene la fortuna ne avesse rapite di molte, pur conservassero quelle che appartenevano alla religione».

A tutti Verre fe togliere le incrostature, gli emblemi, i lavori fini; poi da cesellatori e vasaj, che aveva in abbondanza, per sei mesi continui fabbricare vasi d’oro, e in essi incastrare i pezzi levati ai turiboli e alle pátere, in maniera che sembrassero fatti [p. 75 modifica]apposta. — In quella sì antica provincia (parla ancor Cicerone), di tante città, tante famiglie, tante ricchezze, vi assicuro a stretta precisione di termini, non esser vaso d’argento, di Corinto o Delo, non gemme, non lavoro d’oro o d’avorio, statuette di bronzo, di marmo o d’altro, non pittura o in tavola o in tessuto, ch’egli non abbia esaminata per portarne via quel che gli garbasse. Siracusa perdette più statue allora, che non uomini nell’assedio di Marcello».

Anche su altre preziosità spingevasi la costui ingordigia; tappezzerie ricamate d’oro, ricche bardature da cavallo, vasi probabilmente di quelli che noi chiamiamo etruschi, tavole grandiose di cedro16; e poichè in Sicilia abbondavano fabbriche di tele e d’arazzi e tintorie di porpora, esso le obbligava a lavorare per suo conto. Riceve una lettera coll’impronta d’un bel suggello, e manda di presente pel possessore, e ne vuole l’anello. Antioco, figlio del re di Siria, dirigendosi a Roma per sollecitare l’amicizia del senato, recava, per donare a Giove Capitolino, un candelabro, pari per arte e per ricchezza al posto cui era destinato e alla sontuosità del donatore. Fermatosi il principe in Sicilia, Verre l’invita a cena, sfoggiando una magnificenza reale; e Antioco in ricambio invita il pretore, e ostenta le splendidezze asiatiche che seco traeva, vasellame di metallo fino, una coppa stragrande d’una gemma sola, una guastada col manubrio d’oro. E Verre a maneggiare e lodare que’ lavori, e prega il re voglia prestarglieli da mostrare agli orefici suoi. Antioco il compiace senza un sospetto, non sa tampoco negargli quell’insigne candelabro che con gelosia custodiva: ma quando si tratta di restituirli, il pretore lo rimanda d’oggi in domani, poi glieli chiede sfacciatamente in dono; e perchè il principe ricusa, Verre talmente insiste, che Antioco per istracco gli dice: — Tenetevi pure il restante, solo restituitemi il dono destinato al popolo romano». Ma Verre garbuglia non so quali pretesti, e gl’intima che esca dalla provincia avanti notte.

Veneravasi a Segesta una Diana bellissima, rapitane già dai Cartaginesi, ricuperata da Scipione. Verre ne pigliò vaghezza, la chiese, e ricusato, vessò gli abitanti e i magistrati fino a impedirne i mercati e i viveri; ond’essi pel minor male dovettero acconsentire che se la prendesse. Con tal devozione però era guardata, che nessuno [p. 76 modifica]a Segesta, libero o schiavo, cittadino o forestiero, avrebbe osato porvi mano; onde Verre chiamò dal Lilibeo operaj stranieri, che ignari della venerazione, a prezzo la trasportarono. Che fremito degli uomini! che pianger delle donne! che desolarsi de’ sacerdoti! La spargeano d’unguenti, la cingevano di corone, l’accompagnavano con profumi sino al confine; e poichè non cessavano di deplorare fosse rimasto solo il piedistallo con iscritto il nome di Scipione, Verre ordinò di portar via anche quello. Più sacra a tutta l’isola era la statua di Cerere in Enna, la dea dirozzatrice della Sicilia, e che in quei campi appunto avea visto rapirsi dal dio Plutone la figlia Proserpina. Che monta? il pretore se la tolse, e agli oppressi insultava col volerli plaudenti; e alla festa con cui commemoravasi la presa di Siracusa per opera di Marcello, ne fece sostituir una al proprio nome.

Tanto permettevasi un pretore in sì breve tempo e alle porte di Roma; ed ogni anno spediva due navi di spoglie e si vantava, — Ho rubato tanto, che non posso venir più condannato». I Siciliani non osavano richiamarsene direttamente al senato, e si raccomandarono a Cicerone (anno 70 av. C), che nell’isola loro aveva lasciato buon nome quando vi fu questore al Lilibeo; ma anche dopo insinuata l’accusa, pretori e littori minacciavano chi venisse a riferire, impedivano i testimonj. Non ostante ciò, non ostante che Verre fosse protetto da amici ragguardevoli, e patrocinato dal celebre Ortensio, dai cavilli forensi e dall’onnipotenza dell’oro, pel quale potè far prorogare i dibattimenti fin all’anno seguente, quando sedeano console Ortensio e pretore Metello, Cicerone ne assunse l’accusa a preghiera de’ Siracusani e de’ Messinesi; e assicurato di protezione da Pompeo, girò l’isola a raccorre testimonianze; presentò la requisitoria, facendovi pompa di tutta l’eloquenza e sonorità sua. Più che colle miserie de’ Siciliani, egli destava il fremito col dipingere come Verre avesse osato di far battere colle verghe nel fôro di Messina un cittadino romano17. Tutti inorridivano a tanto eccesso, senza riflettere alle migliaja che giacevano stivati negli ergastoli, sferzati a morte dal capriccio dei padroni o dall’arbitrio de’ custodi: ma costoro non erano cittadini; eran uomini solamente18. [p. 77 modifica]

E del disprezzo che s’avea per ciò che romano non fosse, è grande indizio la causa stessa che esponiamo. Il senato scorgeva in esso la propria condanna, laonde pensò prevenire lo scandalo che ne sarebbe venuto dalla pubblicità dei rostri; e prima che Cicerone avesse compita la sua requisitoria, condannò Verre all’esiglio ed a restituire quarantacinque milioni di sesterzj ai Siciliani, che ne avevano domandati cento. Le arringhe girarono manuscritte, e restano a provare le trascendenze dell’aristocrazia, e giustificare l’odio che nelle provincie si portava a questi governatori di Roma. Con una franchezza, di cui vogliamo fargli merito per quanto spalleggiato, Tullio rivelò una folla d’altre prevaricazioni de’ nobili che avevano secondato Verre, talchè dava di colpo a tutta l’aristocrazia, la quale riconoscea sè stessa in qualcuno almeno de’ lineamenti attribuiti a Verre; dimostrava quanto danno derivasse dal lasciar i giudizj in arbitrio del senato; e in fatti Pompeo riuscì ad ottenere che le funzioni giudiziarie fossero ripartite fra i senatori, i cavalieri, i tribuni del tesoro, restando così annichilata l’opera di Silla, che voleva tutto concentrare nell’aristocrazia.


VI.


Quel gran nome di Roma, nel quale patrizj e plebei, agguagliati nelle nozze, ne’ possessi, ne’ magistrati19, si congiungevano alla gloria comune, perdeva il fascino da che Mario e Silla avevano condotto i cittadini gli uni a guerreggiare gli altri, e le nimicizie,

[p. 78 modifica]esulcerate col sangue, faceano riguardare ciascuno, non come membro della stessa repubblica, ma come congiurato d’una fazione. Nelle lunghe guerre la plebe erasi educata alla licenza, al lusso, al furto; tornando satolla di preda, profondea colla spensierata prodigalità di chi acquistò senza fatica; poi trovandosi risospinta nella pristina povertà, maggiormente sentiva le privazioni, guatava con invidia i ricchi, e ribramava guerre e tumulti e torbido in cui pescare; inabile del pari e a possedere e a tollerar chi possedeva.

Chiunque conosce che la possidenza è la base materiale della società, come base morale n’è la famiglia, non potrà non meravigliarsi della poca stabilità ch’essa ebbe fra gli antichi, e sin fra i Romani. Piuttosto che un diritto naturale, consideravasi come una conseguenza di formole religiose o legali, subordinata poi sempre all’alto dominio dello Stato. La delimitazione dell’augure segnava i confini di ciascun fondo; l’ara o le tombe lo consacravano: talchè all’illanguidirsi del sentimento religioso diminuivasi la sicurezza della proprietà. Divenuta legale, restava all’arbitrio de’ legislatori o de’ violenti, e trenta volte vedesi rimpastata, ora con parziali confische, ora colle spropriazioni in cumulo, or colle proscrizioni, colle colonie, colle distribuzioni ai veterani. Soltanto col cristianesimo il sentimento di giustizia dovea diventare una potenza bastante a difendere la proprietà.

Al tempo di Cicerone, la guerra civile, le proscrizioni, l’abolizione de’ debiti aveano mutato violentemente il padrone a tutti i campi, non però il modo di possesso: come già si soleva nelle conquiste esterne, il vincitore sottentrava al vinto coi diritti medesimi, senza che della plebe restasse migliorata la condizione, non rionorato il lavoro, non aperte vie onorevoli al guadagno; se non che il possessore quasi su altro non fondavasi che sull’ingiustizia, sull’usurpazione, sulla denunzia, sull’assassinio.

Travolte le fortune, rotte le tradizioni, acuite la cupidigia e le speranze, chiunque alzasse una bandiera certo trarrebbe dietro una moltitudine, volonterosa di sovvertire l’ordine presente, senza curarsi quale sarebbe a sostituirvi. I primitivi proprietarj spodestati baccaneggiavano nel fôro, vivacchiavano delle largizioni pubbliche, o al più faceano sonare qualche debole ed isolato lamento contro la forza, che eransi assuefatti a riguardare come diritto.

Vedevasi l’abisso, non come colmarlo. Stimolato da Cesare, il [p. 79 modifica]tribuno Rullo Servino pensò almeno un palliativo, proponendo leggi agrarie modellate sulle precedenti (anno 63). Decemviri doveano vendere i possessi pubblici in Italia e fuori d’Italia quelli conquistati dopo il primo consolato di Silla; le gabelle di essi mettevansi all’incanto per ottenere subito un capitale, con cui si comprerebbero campi in Italia, da piantarvi colonie e ripristinare le proprietà minute. Come un compenso, egli dichiarava legittime le vendite di possessi pubblici fatte dopo l’82 cioè le Sillane, ed anche le usurpazioni.

Sbigottirono i ricchi al pensare che le proprietà loro dovessero passare alla rassegna del rappresentante del popolo; sbigottirono di questo smisurato potere affidato ai Dieci, che col sovvertimento delle fortune avrebbero potuto anche mutar lo Stato. Pertanto a Cicerone, che, mercè de’ cavalieri, era divenuto console, e attorno al quale si aggruppavano i ricchi, affidarono l’incarico di dissuadere la legge. Ed egli, benchè nell’accettare la suprema magistratura avesse professato voler essere console popolare, adoprò quella sua eloquenza tutta di passione a combattere Rullo; con arte da retore mettendo in giuoco tutti i sotterfugi e pregiudizj, confuse le proposizioni, riducendole continuamente a questioni di persone; lusingò, il vulgo col chiamare i Gracchi chiarissimi, ingegnosissimi, amantissimi della romana plebe, che coi consigli, la sapienza, le leggi assodarono tante parti della repubblica; blandì la boria nazionale col magnificare la repubblica, ma soggiungeva: — Quando mai s’era veduta questa comprar a denaro lo spazio ove stabilire colonie? Sarebbe degno di sì gran madre il trapiantare i suoi figli sopra terre acquistate altrimenti che colla legittimità della spada? distribuire le terre, state teatro di gloriose vittorie? e i campi, da cui proveniva il grano da dispensare al sacro popolo?20 Popolare [p. 80 modifica]son io al certo, stratto da gente nuova, non appoggiato di aderenze: ma la popolarità non consiste nel sommuovere con larghe promesse; bensì la pace, la libertà, il riposo sono i beni inestimabili che io voglio far goder al popolo. Cotesto Rullo, orrido e truce tribuno, a pezza lontano dall’equità e dalla continenza di Tiberio Gracco, che cosa pretende colla legge agraria? gettare in gola alla plebe i campi per depredarne la libertà, arricchire i privati spogliando il pubblico. I decemviri restano convertiti (quale orrore!) in dieci re, che una nuova Roma meditano erigere in Capua; in quella Capua la quale già un tempo aveva osato chiedere che uno de’ consoli fosse campano, e che, lieta di posizione e di territorio, si fa beffe di Roma, piantata su monti e valli, trista di vie, con angusti sentieri, con povera campagna». Così solleticando tutti i pregiudizi, Cicerone vinse la causa: ma la sua popolarità ne rimase scossa.

Un altro tribuno, Roscio Otone, propose che ai cavalieri si assegnasse posto distinto ne’ giuochi. Ne spiacque talmente ai plebei, che dai sibili si stava per venire ad aperta sommossa, quando Cicerone ricomparve alla ringhiera, e sì bene parlò, sì bene confuse l’ignoranza della ciurma, la quale osava fare schiamazzo fin mentre il gran comico Roscio recitava21, che il popolo s’inghiottì la proposta di Otone.

Cajo Rabirio, fazionere di Silla, quarant’anni prima aveva ucciso il tribuno Lucio Apulejo Saturnino, allorchè i cittadini in massa furono chiamati dal senato a prender le armi per Mario e Flacco. Contro di lui, or vecchio e senatore, Giulio Cesare per mezzo di Tito Labieno portò accusa, dove si trattava nullameno che di sminuire al senato il diritto d’affidare la plenipotenza ai consoli colla legge marziale. Cavalieri e senatori, avvedutisi del pericolo comune, pagarono Cicerone per difendere l’imputato: ma l’eloquenza di lui, l’orrore che sparse contro i sommovitori della pubblica quiete, le lodi che profuse a Mario «padre e salvator della patria, vero procreatore della libertà e della repubblica», nol salvarono dai fischi [p. 81 modifica]della moltitudine esaltata dall’effigie di Saturnino esposta sulla ringhiera; nè il reo sarebbe sfuggito alla condanna di perduellione, che portava il supplizio della croce, se non s’intrometteva uno spediente legale.

Dei cavalieri aveva ottimamente meritato Cicerone, perseverando nell’attribuire importanza a quell’Ordine; e da essi portato console, li costituì come una classe media fra i senatori e la plebe. Essi in ricambio lo spalleggiavano, mentre il popolo a cotesto signor degli affetti cedeva i proprj comodi, i piaceri, fin le vendette. I figliuoli de’ proscritti che, per le leggi Sillane, rimanevano non solo spogli della proprietà, ma esclusi dal senato e dai pubblici onori, si arrabattavano per far derogare l’iniquo castigo. Domanda giusta quanto moderata: ma Cicerone vi si oppose a titolo di convenienza, col mostrare che fosse inopportuno il ringagliardire la parte soccombuta, la quale per prima cosa avrebbe pensato alla vendetta, poi a nuove spropriazioni; d’altra parte se si dessero impieghi a gente, onorevole per certo e degna, ma impoverita, non era probabile che se ne volesse rifare?22

Con uno sfoggio di stile, qual forse niun’altra volta mai tanto artifiziò, insinuava ai soffrenti la necessità di soffrire pel comune vantaggio; pazientassero un’ingiuria profittevole alla repubblica, la quale, avendo avuto e quiete e sistemazione dai decreti di Silla, sarebbe sovvertita all’infirmarsi di quelli. Anche questa volta trionfò l’eloquenza; gli arricchiti dalle confische di Silla deposero la paura di vedersi spogliati: e lascisi pure che Roma brontoli contro Tullio, fautore dei sette tiranni, come chiamavano quelli che più s’erano impinguati nelle preterite vicende, e che erano i due Luculli, Crasso, Ortensio, Metello, Filippo e quel Catulo, che fu uno degli ultimi conservatori romani di vigorosa indipendenza. [p. 82 modifica]


VII.


Restava quel morbo postumo di tutte le guerre, gli spadaccini, che sprezzano gli uomini di legge e di lettere, e non anelano se non occasioni di menare di nuovo le mani; opportunissimi a chi, per via della sommossa e degli assassinj politici, macchinasse cambiamenti23. E lo fece Lucio Catilina, senatore, dell’illustre gente Sergia, colto, educato, destro negli affari, di seducenti maniere, franco parlatore, largo del suo, cupido dell’altrui, simulatore e dissimulatore, pronto in parole e in metterle ad effetto, versatile ne’ mezzi, ambendo ad alte cose, biscazziere, gozzoviglione, di rotti costumi. Serviziato cogli amici; s’aveva bisogno d’un cavallo? d’armi? di disporre giuochi gladiatori? bastava ricorrere a lui; a lui per eludere l’oculatezza d’un padre o d’un marito, la severità d’un giudice, le persecuzioni d’un creditore; a lui per comprare voti ne’ comizj, testimoni falsi ne’ tribunali, assassini sulle vie. Queste erano le arti con cui uno allora poteva a Roma acquistarsi reputazione e clientela, quanto in altri tempi colla virtù, coll’onoratezza o colle loro apparenze.

Al tempo di Silla, Catilina erasi segnalato per ferocia nell’eseguirne e trascenderne i comandi, e per tali vie attinse le primarie dignità: questore, luogotenente in molte guerre, alfine pretore in Africa, dove commise strane vessazioni. Alle sue prodigalità non bastando le concussioni, affogava nei debiti; e non sentendosi bastante potenza nè ricchezza per far dimenticare gli assassini e gl’incesti suoi, cercava modo di capovoltare la repubblica per sublimarsi sopra le ruine, e gliene davano lusinga quelle cose in aria e la facile riuscita di Silla.

Col largheggiare ai bisognosi, col prestar denaro, favore, e all’uopo il braccio e il delitto, erasi assicurato uno stormo d’amici, alcuni, buoni, allettati da certe apparenze generose; i più, fradici nel vizio, strangolati dal bisogno, sospinti da ambizione o avarizia; veterani di Silla, che avevano sciupato facilmente i facili guadagni; figliuoli di famiglia, che in erba s’erano mangiata l’eredità; Italiani spossessati, provinciali falliti, gente consueta a vendere la testimonianza e [p. 83 modifica]la firma ne’ giudizj e ne’ testamenti, la mano nelle schermaglie civili, e che guatavano ai ricchi, e adocchiavano solo il destro di far suo l’altrui. Tra siffatti, Catilina primeggiava per maggiore sfacciataggine, corpo tollerantissimo della fatica e dello stravizzo, anima robusta, acuto ingegno, mediante il quale conosceva il suo tempo sì bene, che diceva: — Io vedo nella repubblica una testa senza corpo, e un corpo senza testa; quella testa sarò io».

Cercava singolarmente appoggio col blandire gl’Italiani. La gran nemica della libertà italica chi era? Roma. Chi fabbricava e ribadiva le catene a tutti i popoli? quella classe aristocratica, che come privilegio traeva a sè nobiltà, ricchezze, giudizj, e per conseguenza le potenti clientele e le magistrature. Si sovverta dunque il mal congegnato edifizio, e l’incendio di Roma divenga segnale dell’affrancamento di tutta Italia: i beni siano restituiti agli spropriati di Silla, distribuite terre ai nulla aventi, cassati i debiti: insomma il fallimento pubblico, la sovversione sociale. — I soffrenti non troveranno un difensore fedele se non scegliendo un uomo anch’esso soffrente, i poveri, gli oppressi qual fiducia potrebbero riporre in promesse di ricchi e poderosi? Chi vuol riavere il perduto, ripigliare il maltolto, guardi ai debiti miei, alla mia posizione, alla disperazione mia: agli oppressi, agli sgraziati fa mestieri d’un capo ardito e più sgraziato di tutti»24.

Eppure un tal ribaldo osava presentarsi a domandare il consolato; tanto fidava nella briga de’ suoi e nel denaro. Il senato gli oppose che dovesse in prima scagionarsi delle accuse di concussione dategli dagli Africani; col che lo rimosse, e fece prevalere nella domanda Cicerone, caro all’oligarchia senatoria che se l’era guadagnato, ai cavalieri al cui ordine apparteneva, agl’Italiani come Arpinate, alla plebe come uomo nuovo.

Catilina per dispetto accelerò la congiura già preparata, che da basso ladro e assassino lo convertisse in gran cospiratore, e alla quale aveva guadagnato cavalieri, senatori, plebei, d’ogni sorta scontenti. Tra la costumanza vulgare d’attribuir sozzure o atrocità alle congreghe secrete, tra l’interesse dei ricchi a screditarlo, non era infamia che non si bucinasse sul conto di Catilina e de’ suoi: suggellarsi i loro giuramenti col tuffare tutti insieme le mani nelle [p. 84 modifica]ancor palpitanti viscere d’uno schiavo, e bevere l’uno il sangue dell’altro25; sacrificarsi vittime umane alla trovata aquila argentea di Mario; che Catilina mandasse ad assassinare questo o quello, per mero esercizio; che ordisse d’appiccar fuoco a Roma, e trucidare il meglio dei senatori. A queste basse e inutili atrocità presteremo noi fede, qualora pensiamo che alla congiura presero parte più di venti personaggi senatorj ed equestri, fra cui Autronio Publio, escluso dal consolato perchè convinto di broglio, Gneo Pisone consolare, fors’anche Antonio Nepote console, Cornelio Cetego tribuno, due Silla figli del dittatore, Lentula Sura, il quale vantava tra’ suoi avi dodici consoli e dai libri Sibillini esser promesso il regno a tre Cornelj, cioè Cinna e Silla e lui terzo?26 Che Catilina [p. 85 modifica]divisasse qualche riforma grandiosa, non consta, nè egli l’affettava ipocritamente: e forse, come il più de’ cospiratori, voleva abbattere prima di sapere che cosa sostituirebbe, o rinnovar soltanto la guerra civile e le proscrizioni, gavazza di chi ambiva denaro, sfogo di passioni, voluttà di prepotenza. Avesse anche ideato alcun bene, poteva compirlo con simili mezzi? tanti ribaldi sguinzagliati poteano portar altro che il saccheggio, l’assassinio, l’irruzione dei poveri viziosi contro l’ordine sociale? Mal si spera la rigenerazione da un obbrobrioso; male la si comincia col trascinare altri ne’ proprj vizj, siccome Catilina faceva; e una causa appoggiata a ribaldi può reggersi per un momento, non mai riuscire.

Già quel cupo susurro che precede la tempesta, e qualche imprudente rivelazione, e alcuni portenti interpretati dagli Etruschi diffondevano una vaga paura d’uccisioni, d’incendj, di battaglie civili, talchè a stornarli si erano ordinate litanie e sacrifizj. Cicerone ne sapeva di più, ma que’ rumori non ismentiva: preparavasi; scaltriva il senato; teneasi sull’avviso.

Compariva tra’ congiurati Quinto Curio, ridottosi al verde per corteggiare Fulvia, donna di buona nascita e di pessima fama, la quale, com’egli cessò le largizioni, cessò i favori. Rifiorito di grandi speranze pei vanti di Catilina, Curio cominciò a prometterle mari e monti; ed ella insospettita, ne succhiellò il secreto, e lo vendette a Cicerone, che del congiurato si fece una spia: mutazione agevole in anime depravate.

Tullio aveva raccolto altre prove, dissipato un tentativo, codiato ogni passo di Catilina, il quale, quanto denaro potè mandò a Fiesole in Etruria, colonia di Sillani, che facilmente guadagnò e fece nocciolo del suo partito, armandolo sotto Cajo Mallio prode veterano di Silla, mentre altri eccitavano nell’Umbria, nel Bruzio, nella Campania, e fin nella Spagna e nell’Africa, e legavansi intelligenze colla flotta a Ostia.

Allora Cicerone convoca il senato, e gli manifesta tutta quell’orditura, il giorno e l’ora in cui doveasi metter in fuoco Roma, trucidare i senatori e lui console; ottenuta illimitata autorità, spedisce chi tenga in dovere le città d’Italia sempre indisposte contro la loro tiranna; empie Roma di scolte, promette impunità e guiderdone ai complici che rivelassero. In una nuova adunanza del senato, Catilina ebbe la franchezza di comparirvi, quasi volesse imporre [p. 86 modifica]coll’audacia; ma Cicerone lo investì colla famosa invettiva gettando in volto a costui i suoi disegni, mostrando saper tutto, avere a tutto provvisto, e fulminandone l’impudenza. — Potrei, dovrei far giustizia subito, quivi stesso, d’uno scellerato par tuo; basterebbe un cenno, e questi cavalieri si avventerebbero sopra di te. Non vedi l’orrore che ispiri a tutti? Lascia Roma, dove omai nulla ti resta a fare: vattene al campo di Mallio, ove t’attende una morte da par tuo. Mi domanderete, o padri coscritti, perchè io permetta a Catilina d’andare a mettersi a capo di bande, armate contro la repubblica, invece di usare contro di lui l’autorità conferitami dalla legge. Il supplizio del solo Catilina non basta a svellere questa già invecchiata peste della repubblica; lasciate che s’annodino, e d’un sol colpo schiacceremo i nemici».

Catilina l’ascoltò immobile sul suo scanno, poi con affettata tranquillità avvertì i senatori non badassero ai millanti del console, sua giurato nemico, villan rifatto, che nè tampoco una casa propria avrebbe avuto a perdere in codesto incendio, da lui almanaccato per provare fin a che punto giungesse la burlevole credulità dei senatori. Questi però troncarono le parole al cospiratore, gridandola micidiale, incendiario, parricida; talchè egli se ne andò dalla curia, esclamando: — Giacchè mi vi spingete, estinguerò quest’incendio non coll’acqua, ma colle ruine».

E buttata giù la visiera, sbucò dalla città con pochi complici27, lasciando raccomandato ai rimasti di tor di mezzo i più accanniti avversari e Cicerone pel primo, finch’egli ritornasse dall’Etruria con un esercito da far tremare i più audaci. Il senato pronuncia Catilina e Mallio nemici della patria, e decreta che rimanga a tutela della città Cicerone, il quale compariva in pubblico con una gran corazza28 per ripararsi dagli stiletti che d’ogni parte immaginava; l’altro console Antonio Nepote proceda contro i rivoltosi.

Catilina, assunto il comando dell’esercito d’Etruria e le insegne del potere, cresce ogni giorno di seguaci; i pastori schiavi son dai padroni ammutinati nel Bruzio e nell’Apulia; le vette dell’Appennino si coronano d’armi; armi somministrano i veterani di Silla agli [p. 87 modifica]spodestati contadini: — povera Italia, che non inalberava più lo stendardo nazionale, ma quello d’un tristo cospiratore, e non affidavasi nella riscossa popolare, ma nei coltelli di assassini! I congiurati rimasti a Roma, discordavano fra loro sul modo d’azione, gli uni spingendo ad atti di subitanea violenza, gli altri mirando a lunghe provvidenze e a far rispondere a quel movimento la Gallia: ma Cicerone fa arrestare Ceprajo, Gabinio, Statilio, il timido Lentulo Sura, il violento Cetego, in casa del quale si scoprono armi e materie da incendio29; e insiste perchè, come di perduelli, se ne prenda l’ultimo supplizio. I senatori aderivano al consiglio di lui e della paura; Giulio Cesare esortava s’andasse piano a’ mai passi: ma sovra proposta di Catone fu sentenziato che il nemico della patria non era cittadino; dunque morissero.

Benchè, quando si levò l’adunanza, fosse ora tarda, temendo che nell’intervallo non si maturasse qualche colpo per salvarli, il console si recò al carcere Tulliano, dov’erano stati ridotti, per assistere al loro supplizio: compito il quale, annunziò egli stesso che erano vissuti; e tra le fiaccole e le vie illuminate, corteggiato, applaudito qual salvatore e padre della patria, tornò alla sua casa; poi il domani potè assicurare i Quiriti che — la repubblica, la vita di tutti, i beni, le fortune, le spose, i figli, la furtunatissima e bellissima città, stanza del chiarissimo impero, per ispecial amore degli Dei immortali, con fatiche, con senno, con pericolo proprio, dalla fiamma, dal ferro, quasi dalle fauci della morte aveva egli strappato e restituita a loro».

Catilina pretesseva a’ suoi sovvertimenti il nome di emancipazione, di salvezza degli oppressi; e con una folla tumultuaria, armata di bastoni aguzzi e di giavellotti, dall’Etruria difilavasi verso la Gallia Cisalpina, che allora fremeva sotto il giogo. Ma il pretore Metello Celere appostollo nella montagna pistoiese, e dopo accannita battaglia, Catilina medesimo ferocemente combattendo perì, e seco tremila congiurati, con valore degno di causa migliore.

Col cadere di lui tutto dispare, e non resta nel popolo se non quel vago terrore che accetta le dicerie e le asserzioni come fatti certi, e che fece credere tutto quello che gli si spacciò su questa [p. 88 modifica]ciurma di viziosi, volenti null’altro che lo sterminio e il saccheggio. Cicerone fu salutato salvator della patria; eppure la patria, di cui egli restava campione, periva. Sallustio, mal arnese, pigliò quella congiura per tema d’un racconto, ove sfoggiare massime e parole vecchie e un poco d’astio verso Cicerone, senza per altro rivelare le cause vere, per le quali cotesta, al dir suo, non altro che combriccola di capestrati, era potuta divenire pericolosa alla repubblica30.

Cesare, svergognato dal dubbio d’aver mestato in quel sudiciume, ma salvato dall’importanza che già erasi acquistata, continuò l’opera a quelli fallita, ma con arti più generose e larghe; presto fece [p. 89 modifica]passare una legge agraria; poi andò nelle Gallie a coglier gloria e forza, colla quale opprimere l’aristocrazia.


VIII.


Il consolato di Cicerone fu insigne, se altro ne ricorda la romana storia: ma troppo egli dimenticava quel che di inordinato e di labile ha alla fortuna. Gonfio del togato trionfo, non rifiniva di preconizzarlo, e Catilina, e il minacciato incendio, e gli aguzzati pugnali erano o tema o episodio inevitabile d’ogni suo discorso. — Cedano le armi alla toga! (esclamava egli) O fortunata Roma, me console nata!.. Me Quinto Catulo presidente di quest’Ordine, in pienissimo senato chiamò padre della patria; Lucio Cellio, uom chiarissimo, disse dovermisi una corona civica; il senato mi rese testimonianza non d’aver bene amministrata ma di aver conservata la repubblica, e per ispeciale supplicazione aperse i tempj degli Dei immortali. Quando deposi la magistratura, interrompendomi il tribuno dal dire quel che avevo meditato, e solo permettendomi di giurare, giurai senza esitanza che la repubblica e questa città furono salve per opera di me solo. E il popolo romano tutto in quell’adunanza, dandomi non la congratulazione di un sol giorno ma l’immortalità, un tale e tanto giuramento approvò ad una voce»31.

Sul proprio consolato scrisse commentarj in greco e un poema in tre canti; e sollecitava Lucio Lucejo a voler raccontarlo alla posterità in modo benevolo; ch’egli stesso gliene somministrerà i documenti32. È certamente bello il poter fare questi vanti, e più [p. 90 modifica]volentieri corrono al labbro di chi è vittima dell’ingratitudine cittadina; ma difficilmente ottengono perdono, e Cicerone col ripeter continuo i suoi vanti attizzava l’invidia, quanto più remota diveniva la paura; la libertà s’adombrò dei poteri che aveva dati a costui in un momento di terrore, in cui egli avea disposto di tante vite; le ire provocate e nascose a poco a poco tornarono in campo; vedendolo glorioso d’aver congiunto senatori e cavalieri a comprimere la democrazia, i malevoli lo chiamavano il terzo re [p. 91 modifica]straniero, dopo Tazio e Numa, ed aspettavano tempo e luogo per fargli scontare i resi servigi. Perocchè al benemerito di rado è perdonato il ben che fece; e l’invidia, rassegnata a tollerare le violenze, non soffre che uno si glorii d’avere operato il bene. Tullio da troppi era preso in uggia, e ce ne rimane testimonio una fiera invettiva, attribuita a Sallustio, nella quale (lasciam da banda le ingiurie contro i costumi di lui, della moglie, della figliuola) gli si diceva: — Vantarti della congiura soffocata! dovresti vergognarti che, te console, la repubblica sia stata sovversa. Tu in casa con Terenzia tua risolvevi le cose, e chi condannare a morte, chi multare in denaro, secondo te ne entrava talento. Un cittadino ti fabbricava l’abitazione, uno la villa di Tusculo, uno quella di Pompej, e costoro erano i belli e i buoni: chi nol volesse, quello era un ribaldo, che ti tendeva insidie in senato, veniva ad assalirti in casa, minacciava fuoco alla città. E ch’io dica il vero, qual patrimonio avevi, e quale or hai? quanto strarricchisti coll’azzeccare liti? con qual cosa ti procacciasti le ricche ville? col sangue e colle viscere dei cittadini, tu supplice cogli inimici, tu burbanzoso cogli amici, turpe in ogni tuo fatto. Ed osi dire, O fortunata Roma, me console nata? Sfortunatissima, che sostenne una pessima persecuzione, allorchè tu ti recasti in mano i giudizj e le leggi. E pur non rifinì di tediarci esclamando: Cedano l’armi alla toga, i lauri all’eloquenza; tu che della repubblica pensi una cosa stando, un’altra sedendo; banderuola non fedele a vento alcuno»33.


IX.


Tra siffatti tumulti andavasi logorando la repubblica, e ormai non mancava se non un braccio robusto che le ponesse o il freno o i ceppi. La capitananza del partito popolare, fiaccamente maneggiata da Gneo Pompeo, fu presa risolutamento da Giulio Cesare. L’orgoglio patrizio egli riponeva nel sottomettersi cotesti usuraj arricchiti; ma agli inferiori mostrava un rispetto insolito, e alla propria tavola facea sedere persino provinciali, e servirli coll’istessa qualità di pane. Pompeo, mentre era tutto invidiuccie verso Cicerone, non pren[p. 92 modifica]deva ombra di Cesare, e s’accontentava di dimezzar l’impero coll’emulo dacchè più non si vedeva l’idolo del senato; e fra questi due e Crasso si strinse un connubio, conosciuto col nome di primo triumvirato (anno 60), che ovviando la mutua opposizione, riduceva in loro mano la pubblica cosa, usandovi Crasso il denaro, Pompeo la popolarità, Cesare il genio.

In tale posizione diventava ormai un sogno la libertà repubblicana, e Cicerone pur vedendolo, or all’uno or all’altro s’accostava, ma principalmente a Pompeo, perchè fautore del senato e conservatore degli antichi privilegi. Onde di Cesare diceva: — Io pressento in lui un tiranno: eppure quando lo miro con quel capolino così acconcio e grattarsi col dito per non iscomporre la pettinatura, non so persuadermi che uom siffatto pensi sovvertire lo Stato». La libertà però che egli permettevasi rimpetto ai triumviri, gl’indusse ad avversarlo; il che era più facile e perchè non apparteneva alla vecchia aristocrazia nè munivasi che de’ proprj meriti, e perchè il senato stesso, benchè se ne giovasse, amava vederlo umiliato, sia per que’ suoi vanti, sia per mostrare quanto poco potesse chi non avea gran natali o grandi ricchezze. Laonde aizzarono contro di lui Publio Clodio. Stratto dall’illustre casa Claudia, ma fattosi demagogo, e rottosi alla petulanza e al disordine, costui avea diffamato la sua gioventù con ogni nefando libertinaggio: violò i misteri della Dea Bona, e potè cavarsene impunito: in una sommossa uccide il tribuno del popolo, ch’era favorevole a Pompeo, e temendo non ne sia peggiorata la sua causa, fa assassinare anche l’altro tribuno ch’era favorevole al suo partito, onde incolparne gli avversarj. Nel territorio di Rosella, nella Maremma, movea guerra alla strada Aurelia, e imbaldanzito dall’impunità, stipendiato un branco di gladiatori, facea tremare que’ poveri liberti, che ormai soli rappresentavano nel fôro la maestà del popolo romano. Benchè nobile, si fece adottare da un popolano, per essere eletto tribuno della plebe. Allora, spalleggiato dai triumviri (anno 58) che sotto la sua maschera esorbitavano, si affezionò il vulgo con proporre distribuzioni che consumavano un quinto delle pubbliche entrate.

Fra per izza personale, fra per istigazione de’ triumviri, fra per ingrazianire la ciurma, sempre smaniosa di buttar nel fango gl’idoli di jeri, Clodio aguzzava i ferri contro Cicerone. Il quale, vedendo in aria il nembo, compressi il tribuno Lucio Mummio, perchè [p. 93 modifica]costantemente si opponesse al collega: ma Clodio giurò a Cicerone che nulla imprenderebbe contro di lui, purchè ritraesse Mummio dalla sistematica opposizione. Pompeo e Cesare ne stettero mallevadori, e Cicerone lasciossi cogliere al laccio; ma Clodio, toltosi quel contradditore, fa decretare dal popolo non esser mestieri d’augurj per le leggi proposte ai comizj dai tribuni, mirando con ciò a rimuovere l’ostacolo della religione, che potessero frammettere gli amici del nemico suo.

Allora porta una legge che dichiara reo chi avesse mandato al supplizio un cittadino senza la conferma del popolo. Tullio comprese che era macchina contro di sè, onde vestì a corrotto, lasciò crescersi la barba, supplicava gli amici a difenderlo; anche il senato s’abbrunò, finchè i consoli ordinarono riprendesse la solita porpora; duemila cavalieri in tutto supplicavano per Cicerone, e gli faceano scorta contro i bravacci di Clodio, che insultavano l’umiliato oratore, e dispensavano coltellate.

Da Clodio accusato davanti alle tribù d’avere ucciso Lentulo, Cetego e gli altri cavalieri romani, Cicerone cedette alla procella, e uscì di città nottetempo. Il terrore sparso da Clodio faceva più amari i passi della fuga di lui: si vide chiusa Vibona, città della Lucania da cui era stato eletto patrono; si trovò respinto dalla Sicilia, campo di sua gloria durante la questura, poi sua protetta contro Verre34; ricevette intrepida ospitalità da Lenio Fiacco a Brindisi, ma non vi si credette sicuro, e prese il mare. Approdato a Durazzo, non che dalla cortesia sentisse addolcito il fiele dell’esigilo, fiaccamente sconsolavasi, sempre gli occhi, sempre il parlare vôlti alla patria35; onde quei [p. 94 modifica]Greci, dopo esaurite tutte le consolatorie che la scuola insegnava e di cui Cicerone stesso faceva parata nelle filosofiche disquisizioni, mettevano in campo sogni ed augurj per assicurarlo di un sollecito richiamo. Aspettando il quale, si conduce a Tessalonica: quivi piange, si dispera, desidera morire, vuole uccidersi; tutti modi di far parlare di sè quando teme che il mondo se ne dimentichi.

Clodio, esultante come d’un trionfo, fece decretare bandito Cicerone a quattrocento miglia dalla città e confiscati i suoi averi, demolirne la casa e le ville, e consacrare dai pontefici l’area dov’erano sorte, sicchè più non potessero venirgli restituite. Dov’erano allora gli amici, i beneficati di Tullio? dove i cavalieri ch’egli avea messi in istato? Tristo il paese dove non si osa chiarirsi pel perseguitato! sciagurata libertà dove l’ingiustizia fatta ad uno non si considera torto comune!

Ai triumviri più non rimase ostacolo; ma Clodio era una lama che tagliava anche le mani che la impugnavano. Fattosi da Lucio Flavio consegnare il figlio di re Tigrane affidatogli da Pompeo, il rimandò in Armenia, fomite di turbolenze: Pompeo se ne tenne insultato, e pensò vendicarsi dell’audace demagogo col revocare Cicerone.

La proposta fu dal senato ricevuta siccome una rivincita sopra la parte popolana. Quando venne sporta alla plebe, Clodio comparve nel fôro circondato da’ suoi accoltellatori per atterrire gli amici di Cicerone, per frapporre, come dicea questi, un lago di sangue al suo ritorno: ma Tito Annio Milone, italiano di Lanuvio e genero di Silla, collega di Clodio e non meno manesco, fece altrettanto: e mentre le due masnade stavano guatandosi in cagnesco, il richiamo passò.

A volo Cicerone fu a Roma in un vero trionfo (anno 57), del quale non prenderà meraviglia chi veda anc’oggi la leggerezza di moltitudini che festeggiano del pari un pontefice e un tavernajo. Per verità i quotidiani battibugli aveano stanco a segno, che non Roma solo, ma tutta Italia desiderava riposo, e avea chiesto il richiamo di Cicerone come una riscossa contro la violenza, e perchè egli era simbolo della libertà regolare, dell’inalzamento d’un uomo nuovo contro la fazione patrizia cui appartenevano Catilina, Clodio, Cesare, delle volontà comuni e moderate contro le personali e violente. Già quando si erano posti all’asta i suoi beni, nessuno avea voluto dirvi: allora poi tutte le città municipali, tutte le colonie sul suo passaggio gareggiavano [p. 95 modifica]a festeggiarlo; il senato gli usci incontro fino a porta Capena, e il condusse in Campidoglio, donde a spalle venne portato a casa.

Fu una delle più giuste sue compiacenze, e — Qual altro cittadino, da me in fuori, il senato raccomandò alle nazioni straniere? Per la salvezza di quale, se non per la mia, il senato rese pubbliche grazie agli alleati del popolo romano? Di me solo i padri coscritti decretarono che i governatori delle province, i questori, i legati custodissero la salute e la vita. Nella mia causa soltanto, da che Roma è Roma, avvenne che, per decreto del senato, con lettere consolari si convocassero dall’Italia tutti quelli che amassero salva la repubblica. Chi giammai fu più ridomandato dalla curia? chi più compianto dal fôro? chi più desiderato dai tribunali stessi? Ogni cosa fu deserto, orrido, muto al mio partire, pieno di lutto e di mestizia. Qual luogo è d’Italia, ove nei pubblici documenti non sia perpetuata la premura della mia salvezza, l’attestazione della dignità? A che serve rammemorare quel divino consulto del senato intorno a me? o quello fatto nel tempio di Giove ottimo massimo, quando il personaggio che, con triplice trionfo, aggiunse a quest’impero le tre parti del mondo, proferì una sentenza, per cui a me solo diede testimonianza d’aver conservata la patria: e quella sentenza fu dall’affollatissimo senato approvata in modo, che un solo nemico dissentì, e ne’ pubblici registri fu la cosa tramandata a sempiterna memoria? o quel che il domani fu decretato nella curia, per suggerimento del popolo romano e di quelli accorsi dai municipj, che nessuno frapponesse ostacolo, o causasse indugi in grazia degli auspicj; chi lo facesse, sarebbe avuto qual perturbatore della pubblica quiete, e dal senato punito severamente? Colla quale severità avendo il senato repressa la iniqua baldanza di taluni, aggiunse che se, ne’ cinque giorni in cui si poteva trattare del fatto mio, nulla fosse risolto, io tornassi in patria e in ogni dignità.... Il mio ritorno poi chi ignora qual fosse? come, venendo, i Brindisini mi abbiano, per così dire, sporta la destra di tutta l’Italia e della medesima patria? e per tutto il viaggio le città italiche si parassero in festa pel mio ritorno, le vie affollate di deputati spediti d’ogni onde, le vicinanze della città ridenti d’incredibile moltitudine congratulante: l’entrata dalla porta Capena, l’ascesa al Campidoglio, il ritorno alla casa furono tali, che fra quel sommo d’allegrezza io mi accorava che una città così riconoscente fosse stata misera ed oppressa» 36. [p. 96 modifica]


X.


Rimesso nel senato, e mal vôlto ai nobili che aveano favorito Clodio, si colloca coi triumviri che almeno non eran gente di subbugli e di violenza, e che, sopportati in pace, lascerebbero, se non altro, il riposo: col ringiovanito suo credito sostenne Pompeo, e forse esagerando la carestia, fecegli attribuire la commissione di tenere provveduta di grani la città per cinque anni, con pieno potere sui porti del Mediterraneo: commissione amplissima, che rinnovava il governo personale37. In compenso il Magno gli fece dai pontefici restituire lo spazzo della casa, ed assegnare dal pubblico due milioni di sesterzj per riedificarla, cinquecentomila per la villa tusculana, ducencinquanta per quella di Formia.

Clodio, ostinato a impedire si ricostruissero le ville di Tullio, era tenuto in rispetto da Milone con altri bravacci. Avendo Clodio messo il fuoco alla casa del costui fratello, Milone gliene dà accusa. Clodio dunque briga l’edilità, ottenendo la quale, sarebbe inviolabile: ma Milone dichiara che gli auspizj sono sfavorevoli, e l’elezione vien prorogata. Al nuovo giorno, Clodio fa occupare il fôro da’ suoi satelliti, acciocchè l’elezione si compia prima che Milone objetti sopra gli auspizj: ma che? Milone già vi ha disposto i suoi nella notte. E così prorogasi d’oggi in domani, finche gli Italioti non sieno stracchi di venir dai loro paesi a tumultuare in Roma. E quando Pompeo arringa in favor di Milone, i bravi di Clodio lo fischiano, Clodio gli getta dalla tribuna ingiurie a gola; per tre ore si ricambiano urli, bassi insulti, osceni lazzi, infine si rompe ai sassi e ai pugni; Clodio è messo in fuga; Cicerone fugge anch’esso per paura che «nel tumulto non avvenga qualcosa di male»38.

Cicerone diceva desiderare il regime, stanco di tanti salassi39: ma i due capibanda, incastellati nelle case, forbottandosi per le vie, sommoveano ogni dì la pubblica quiete; finchè Milone, sentendosi forte nell’appoggio di Pompeo e di Cicerone, il quale avea fin detto pubblicamente che Clodio era vittima destinata allo stocco [p. 97 modifica]dell’altro40, scontrato costui in cammino, venne seco alle prese, e lo freddò. Il vulgo, levatosi a rumore, saccheggiò la curia per alimentare il rogo su cui onorevolmente bruciava Clodio, ed assalì Milone: ma questi, ben munito e ricinto di maneschi, respinse la forza con la forza. Citato in giudizio, gli domandano, secondo le forme, che consegni i suoi schiavi perchè sieno interrogati alla corda; ed egli risponde avergli affrancati, nè uom libero potersi mettere alla tortura. Così mancavano i testimonj al fatto. Cicerone metteva in giuoco tutti gli ordigni di destro avvocato per difenderlo: ma Pompeo, pago d’aversi tratto dagli occhi quello stecco, non si curò di salvar l’uccisore; e Cicerone, presa paura dei bravi di Clodio, non recitò la bella sua arringa, e lasciò che Milone andasse esule a Marsiglia, consolandosi col mangiarvi pesci squisiti41.


XI.


Cicerone nel suo accorgimento politico poteva non vedere che la romana costituzione periva, o si trasformava? Lo impoverire de’ molti rendeva onnipotenti i pochi doviziosi; i comandi militari prolungati e le commissioni accumulate sopra una sola testa, avvezzavano a identificare la causa nazionale con un uomo; talchè non parlavasi più della repubblica, sibbene di Cesare, di Crasso, di Pompeo, sopra i quali ormai si concentrava l’interesse. Perciò in queste ultime lotte della libertà aristocratica col principato militare non appar nulla di elevato; gelosiuccie, ambizioncelle, vacillamenti, un passare dall’anarchia all’oligarchia, e sempre il governo personale, appoggiato sull’intrigo o sui bravacci. Cicerone ora, nell’orazione sua più elaborata, appoggia la proposta del tribuno Manilio di affidare a Pompeo amplissimi poteri in Asia: ora sostiene Cesare perchè gli si prolunghi il comando nelle Gallie; or contro coscienza difende Vatinio e Gabinio perchè raccomandati da Pompeo, sebbene altre volte gli avesse violentemente attaccati: uom d’equilibrio, e perciò sbolzonato [p. 98 modifica]qua e là, e più quanto più violento diveniva il turbine delle guerre civili.

Pompeo era grandeggiato nelle guerre d’Asia, ove vinse il gran re Mitradate; Cesare reprimeva i Galli, gli Elveti, i Britanni. Cicerone (dice Merivale) aveva un proposito politico ben divisato, e tutta sua vita lo seguì colla fermezza illuminata d’uomo di forte volontà. Costantemente attese ad elevare le classi medie, unica salvaguardia, a parer suo, dell’integrità della costituzione: e per queste classi di cui erasi costituito difensore, mostra un interesse, anzi un’affezione, ch’è la parte più bella del suo carattere. Cercò tor via ogni pretesto ai conflitti tra patrizj e plebei, tra Romani e Italiani, tra vincitori e vinti nelle ultime guerre civili. La sua linea politica non fu, come quella del suo capo Pompeo, sviata da speranza illegittima di sovrapporsi alle leggi che applicava o difendeva. L’ambizione sua nobile e legale non vedea nulla di là dei più grandi onori, possibili nella costituzione. V’arrivò mediante il consolato, suprema carica dello Stato; e quel consolato fu fecondo e insigne se mai altro ne ricorda la storia romana. La gelosia de’ suoi colleghi, l’egoismo del suo primo patrono recisero quella carriera tanto utile al bene generale. Inebriato dalla prosperità, egli dimenticò facilmente quanto la fortuna abbia di straordinario e precario; e la sua vanità può dirsi il secreto della sua caduta. I nobili desideravano provar al mondo l’ingenita debolezza di chiunque, per quanto notevole, si trovasse sprovvisto di natali e di danaro; Pompeo, scegliendo Cicerone a bersaglio de’ suoi rancori, volle ostentare la propria potenza, e sfidare il senato, a cui non osava portar di quei colpi che penetrano fin alla carne viva»42.

A questi elogi poco risponde la condotta di Cicerone, che volendo barcheggiare, era sospinto or qua or là, e più quando il nembo infieriva. Nelle guerre civili la plebe chiedeva partecipare ai diritti della nobiltà e agli esterni compensi; i conquistati voleano anch’essi entrar nella città e divenire uguali alla loro conquistatrice, dacchè non le erano inferiori d’armi e di civiltà; e sebbene la costoro insurrezione non procurasse che nuovi trionfi a Roma, ne venne di conseguenza che quasi tutta Italia ottenne il diritto di cittadinanza. Ora però lo pretendeano anche le altre province d’ogni [p. 99 modifica]parte. Un tal movimento pareva allora assorto nelle fazioni civili; pure i partiti cercavano appoggio dalle nazioni, accortesi che il loro innalzamento verrebbe o dal distrugger Roma, o dal meritarsene i privilegi. Erasi visto Mario sostenuto da tutta Italia, e Catilina chiedere ausiliarj nell’Etruria e fra gli Allobrogi. Ed apparve più evidente sotto Cesare, quando in folla Galli ed Iberi vennero ad acquistare possessi in Italia. Al qual modo fu preparato l’Impero, durante il quale stranieri difesero, stranieri regnarono, Roma non fu più che la città dell’universo; e dovette perire quel patriotismo ristretto, che era prima virtù delle repubbliche antiche e fondamento di tutte le loro istituzioni.

Tali effetti prevedevano e voleano prevenire que’ patrioti romani, i quali ci sono dipinti dalla scuola come repubblicani e liberali, contro di Cesare tiranno. In entrambe le sètte vi aveva non pochi uomini di abilità pratica, avvezzi alla vita dei campi e alle norme del fôro; ma da Cesare in fuori, nessun genio iniziatore, che comprendesse bene i tempi e ciò che chiedeano. In età sì critica, al popolo romano saria stato bisogno d’una guida di ben altra tempra, di ben altra previdenza che Cicerone o Pompeo, amministratori abili di certo, ma nulla più, nè capaci di cogliere il senso o d’arrestare il male della rivoluzione di Silla; rivoluzione che avea troncato i progressi naturali d’una riforma reclamata dall’estendersi della cittadinanza romana, che avea rotto gli antemurali d’una costituzione senza basi, senza ragione d’essere ne’ costumi presenti.

Quanto volentieri troveremmo in Cicerone la storia delle opinioni contemporanee intorno ad una guerra intestina, di cui le cause e l’andamento sono ardue a spiegarsi anche dai posteri! Ma egli giudica passionato, angusto, variando secondo il vento. Tornato dall’esilio, s’accôrse avere altri occupato il posto ch’egli coll’eloquenza erasi guadagnato, e ormai prevalere altre armi. Cesare, che sebben di politica diversa, lo stimava e amava come gran letterato, se l’amicò dapprima col pregarlo a mettersi di mezzo fra lui e Pompeo, e coi suoi consigli, col suo credito, coll’autorità sua ripristinare la pace. Come vide andar a fascio le cose di Pompeo, Cicerone volentieri se ne sarebbe spiccato, se non l’avesse trattenuto vergogna o punto d’onore; e ad Attico scriveva: — Tu dici lodato quel mio motto, Amerei piuttosto esser vinto con Pompeo che vincitore con Cesare. Sì; l’amerei, ma col Pompeo che era allora o che mi parea, non con questo che [p. 100 modifica]fugge prima di sapere da chi fugga nè dove, che lasciò in mano di Cesare i nostri averi, abbondonò la patria, l’Italia: se amai d’esser vinto, l’effetto ne seguì». Si ritirò alla campagna; ma come Cesare andò in persona a sollecitarlo di ritornare, persuaso che l’esempio molti altri senatori indurrebbe, egli rispose: — Tornerò, purchè sia lecito dir francamente la mia opinione»43. Appena però si sparse voce che Cesare fosse perduto nella Spagna, con molti altri deliberò di raggiungere Pompeo, per quanto Cesare gli scrivesse che un uom d’onore in guerra civile non deve chiarirsi, e che parrebbe spinto non da sentimento di giustizia, ma da personale disgusto.

La vanità di Cicerone dovette appagarsi della festa che ricevette al campo; ma il suo senno conobbe quanto poco fondamento fosse a fare sopra que’ giovani pretensivi, arroganti, la cui prodezza consisteva nel protestare col fuggire, e ricoverati sotto le tende pompejane, chiamar traditore chiunque era rimasto in patria, e perseguirlo di sarcasmi e di calunnie; quivi intanto sognar riscosse e vittorie, spartirsi in prevenzione le prede; l’uno avrà il pontificato massimo, vacante per la morte di Cesare; l’altro le ville e i giardini di questo o di Attico; chi appigiona una casa nel fôro per trovarsi più comodo a brigar i voti ne’ prossimi comizj; chi già s’accaparra i suffragi; e preparano le tabelle di proscrizione, ognuno iscrivendovi come nemico della patria il proprio nemico. Chiunque sta indifferente, chiunque non è abbastanza infervorato, dee soffrirne gl’insulti; i consigli moderati, l’aspettare l’opportunità, il calcolare i mezzi saranno considerati codardia e tradimento. Intanto si servono di Pompeo; ma quando per suo mezzo avran vinto Cesare, lui pure sbalzeranno, onde ripristinare la pura aristocrazia e il sistema di Silla.

Cicerone prese stomaco di costoro che nol lasciavano parlare, non consigliare, non arringare; da uom disingannato mostrava quella diffidenza dell’esito che mal si perdona, e non facea risparmio d’epigrammi. A Pompeo che gli disse, — Tardi arrivasti», rispose: — Eppur non trovo ancora disposto nulla» . Chiedendogli quegli ove fosse Dalabella suo genero, replicò: — È con vostro suocero». A Nonnio che l’esortava a far cuore, perchè aveano ancora sette aquile, — Eccellenti, se avessimo a combatter cornacchie». Udendo che un tale avea lasciato via il cavallo, — Provvide meglio alla salute della [p. 101 modifica]bestia che alla propria». Dando Pompeo la cittadinanza a un disertore gallo, — Che bizzarro! (esclamò) promette una patria ai Galli, e non sa assicurarla a noi».

Pompeo, adontato di sarcasmi che più ferivano quanto più ingegnosi, gli intonò: — Vattene una volta a Cesare, ove comincierai a temermi» . Catone stesso gli mostrò avrebbe meglio servito la causa loro tenendosi di mezzo; alcuni perfino il sospettavano d’intelligenze con Cesare; talchè esso, fedele alla teorica delle evoluzioni opportune che dichiarò più volte con ingenuità, abbandonava il campo, disgustate ambe le parti, e supponendo a Pompeo feroci divisamenti e il proposito d’imitare Silla.

Si sa che nella battaglia di Farsalo i Pompeiani furono vinti; Pompeo fuggendo fu ucciso; Catone si diede morte da sè in Utica; gli ultimi partigiani furono sconfìtti e dispersi. Cesare, arbitro delle cose, non sevì; perdonò a tutti e a Cicerone pel primo, il quale poi adoprò la sua eloquenza a favore di varj, e nominatamente di re Dejòtaro e di Marco Marcello, in un’orazione ove, adulando Cesare come in quella per la legge Manilia aveva adulato Pompeo, ne esaltò la clemenza: esortava i vecchi amici a non fare se non quel che a Cesare gradisse44, e sperava in lui un nuovo Pisistrato, volente il bene della patria per autorità assoluta, non per graduali progressi del popolo. Il suo facile cangiar di parte egli pretendeva rattoppare con belle parole: — S’io vedo una nave col vento in poppa difilarsi non al porto ch’io un tempo desiderai, ma ad altro non men sicuro e tranquillo, vorrò avventurarmi contro la tempesta, anzichè secondandola procacciarmi salute? Nè io credo incostanza il dar volta ad un’opinione, come ad una nave o ad un cammino, secondo le circostanze pubbliche. Ho udito e visto e letto in sapientissimi e chiarissimi personaggi di questa e d’altre città, che non si deve sempre ostinarsi nelle medesime sentenze, ma difendere quello che richiedono [p. 102 modifica]lo Stato della repubblica, l’inclinazione dei tempi, la ragione della concordia. Così io faccio, e farò sempre; e crederò che la libertà, cui io nè ho lasciata nè lascerò mai, consista non nell’ostinatezza, ma in una certa moderazione».

Dopo mezzo secolo di continue commozioni, dove tutti erano tormentatori o tormentati, dove il mare dai corsari, la terra veniva conturbata da poveraglia disposta a seguire Clodio o Catilina, Spartaco o Sertorio, tutti credevano che il dominio d’un solo fosse una necessità, fosse l’unico mezzo di rendere al mondo la pace interna e la sicurezza della vita civile, primo ed essenziale scopo della sociale convivenza.

Cesare, arbitro della repubblica, ne rispettò le forme, ma persuaso che ciò complisse alla felicità di Roma e del mondo, non badò abbastanza ai tanti che restavano scontenti perchè scadeano dalla lor posizione. E questi, congiurati, l’uccisero. Nè per ciò riuscirono a ripristinare la repubblica antica; il popolo si eresse vendicator di Cesare contro il senato; scoppiò nuova guerra civile. A Cicerone, conosciuto alieno da partiti estremi, i congiurati non avevano partecipato la loro macchinazione, ch’egli definì «azione di fanciulli, eseguita con coraggio d’eroi»: ma dell’esserne lasciato fuori più volte si dolse; e mentre avea tanto inneggiato a Cesare clemente, allora tripudiava dell’uccisione di Cesare tiranno.


XII.


A vendicar il quale sorse principalmente Marcantonio, suo prode soldato, sostenuto dai veterani, e che parve volere stabilir la tirannia.

Cicerone, a capo del senato, si chiarì in aperta ostilità contro di costui, e gli avventò le orazioni, che forse sono le più eloquenti fra le sue, dette Filippiche per somiglianza con quelle di Demostene contro Filippo. Lo studioso potrebbe mettere a parallelo l’Orazione per la corona di Demostene con queste di Cicerone, e massime colla seconda. Nella quale l’oratore aveva a difendere sè stesso d’accuse personali e pubbliche, onde vien opportunissima al nostro intento storico di far conoscere sì l’indole di Cicerone, sì quella de’ suoi avversarj, e lo stato della repubblica in quei tempi; sicchè non parrà fuor d’opera il darne l’analisi.

Dopo che Cicerone ebbe recitata la prima arringa contro Antonio, [p. 103 modifica]questi si ritirò in villa a meditare per diciassette giorni la risposta; poi comparso nel senato, donde Cicerone erasi tenuto lontano per paura dei satelliti di quello, lanciò una fiera invettiva contro il suo avversario. Cicerone allora tessè la seconda filippica, dove, purgato sè stesso dalle imputazioni, ritorce l’argomento contro Antonio.

«Che destino è il mio, o padri coscritti, che in questi venti anni nessun nemico sia sorto alla repubblica, il quale a me pure non abbia rotto guerra? Senza ch’io ve li rammenti, voi ben li ricordate, e come mi diedero maggior pena ch’io non volessi. Ben mi stupisco, o Antonio, che tu non tema la fine di quelli di cui imiti le azioni. Ciò mi riusciva meno meraviglioso negli altri, de’ quali nessuno mi fu nemico per elezione, ma erano stati da me provocati pel pubblico bene. Tu, neppure scalfito con una parola, mostrandoti più audace di Catilina, più furibondo di Clodio, mi straziasti con ingiurie, e giudicasti che l’inimicarti a me ti dovesse servir di raccomandazione presso i ribaldi».

Sventa l’accusa d’ingratitudine appostagli da Antonio, dicendo che con tal uomo non dee qualificare l’opporsi ad un tristo per vantaggio di tutti, nè poter un assassino pretendere favori perchè lasciò di commettere un delitto. «Affinchè voi intendeste qual console egli si professasse da sè, rinfaccia a me il consolato mio; mio in parole, in realtà vostro, o padri coscritti. Imperocchè qual cosa io statuii, qual feci, quale eseguii se non per consiglio, autorità e sentenza di quest’Ordine? E tu, non eloquente solo ma scaltro, osasti vituperare tai cose al cospetto di quelli, per cui consiglio e senno furono compite? E trovossi mai chi il mio consolato riprovasse, da Clodio in fuori?»

Con ciò mirava ad involgere nella causa sua tutto il senato, mentre associava perpetuamente il nome d’Antonio coi più esosi. Enumera quindi i tanti personaggi che approvarono il suo operare: «Ma a che menzionarli uno ad uno? all’affollatissimo senato andai così in grado, che nessuno vi fu il quale non mi ringraziasse come padre, non mi si professasse debitore della vita, delle fortune, dei figli, della patria; ma poichè dei tanti illustri che nominai è vedovata la repubblica, veniamo a quei due che avanzano dell’Ordine consolare. L. Cotta, sommo d’ingegno e di prudenza, decretò con generosissime parole una supplicazione per le imprese che tu disapprovi, e a lui consentirono i consolari e il senato intero: onore che, dopo Roma fondata, a nessun uomo togato erasi reso....» [p. 104 modifica]

Alla gloria del suo consolato pone di fronte la vergogna di quello d’Antonio, infamato da tante brutture, e si scagiona dell’aver preso le armi contro Catilina. «Qual pazzia potrebbe esser peggiore che il rinfacciare ad altri le armi assunte per salute, tu che per ruina le assumesti? Ma volesti anche in alcun luogo celiare. Buoni Dei, quanto poco ciò ti conveniva! Però è tua colpa, giacchè qualche sale avresti potuto imparare dalla moglie tua, donna da teatro. Cedano l’armi alla toga! Sì; non hanno forse allora ceduto? ma dappoi la toga dovette cedere alle tue armi. Ponderiamo dunque qual sia stato il meglio, o che alla libertà del popolo romano cedessero le armi de’ ribaldi, o la libertà nostra all’armi tue. Nè ti risponderò intorno ai versi; solo dirò in breve che tu non ti conosci nè di versi nè di altra letteratura: io nè alla repubblica nè agli amici non venni mai meno; eppure in ogni genere di lavori miei feci che le veglie mie e le mie lettere portassero alcun vantaggio alla gioventù e al nome romano.

«Ma non son discorsi da quest’ora; tocchiamo punti più rilevanti. Dici che Clodio fu ucciso per mia istigazione. Che penserebbe la gente se fosse stato ucciso allorquando tu nel fôro, in vista di tutti, l’inseguisti a spada nuda, e l’avresti finito se non si fosse cacciato sotto alle scale d’una libreria? Ch’io ti favorissi lo confesso; che te lo consigliassi, neppur tu osi dirlo. A Milone poi neppur favorire io potei, avendo egli compito il fatto innanzi che alcuno il sospettasse. Oh sì, io l’avrò indotto io, quasi a Milone non bastasse il cuore di giovare alla repubblica anche senza istigatore. Ma me ne rallegrai; ecchè? nella contentezza di tutta la città, doveva io solo rimanere malinconioso?

«Quanto a ciò che in molte parole ripeti, che per opera mia Pompeo si avversò a Cesare, ond’è mia colpa la guerra civile, errasti non solo in tutto il fatto, ma, che è peggio, anche nel tempo. Io, sotto il consolato dell’egregio Bibulo, non lasciai cosa intentata per disunire Pompeo da Cesare; ma a Cesare riuscì meglio la cosa, avendo sviato Pompeo dalla mia domestichezza. Dopo che Pompeo si diede tutto a Cesare, dovevo faticarmi a staccarnelo? era follia lo sperarlo, imprudenza il suggerirlo. Pure occorsero due circostanze, in cui alcuna cosa insinuai a Pompeo contro Cesare, e vorrei che tu le riprendessi, se ti dà il cuore: una, che non si prorogasse a Cesare il comando quinquenne; l’altra, che nol si lasciasse concorrere al [p. 105 modifica]consolato assente. Il che se fossi riuscito a persuadere, non ci troveremmo ora a queste strette. Ma io stesso, quando già Pompeo avea trasmesse a Cesare tutte le forze sue e del popolo romano, e tardi cominciava ad accorgersi di quello ch’io da un pezzo avevo preveduto; quando conobbi portarsi alla patria un’empia guerra, non cessai di consigliare pace, concordia, conciliazione; e molti udirono quelle mie parole. E deh, non avessi tu mai, o Pompeo, fatta lega con Cesare, o mai troncata! Una cosa conveniva al tuo decoro, l’altra alla prudenza. Tali, o Marcantonio, furono sempre i consigli miei intorno a Pompeo ed alla repubblica; che se fossero valsi, la repubblica starebbe; tu colle tue ribalderie saresti caduto in povertà ed infamia.

«Ma queste son cose vecchie: nuovo è l’aver io consigliato l’uccisione di Cesare. Temo, o senatori, non paja ch’io mi sia preparato un accusatore finto, il quale non solo mi ornasse delle lodi mie, ma le altrui ancora mi attribuisse. Perocchè chi mai udì mentovar il mio nome fra i partecipi di quel gloriosissimo fatto? e di quale fra i complici restò occultato il nome? che dico occultato? anzi non divulgato tantosto? Più volentieri direi che alcuni se ne facessero belli, per mostrare d’essere entrati in quella cospirazione senz’esserne conscj, anzichè nascondersi alcuno che vi partecipasse davvero. Quanto è verisimile che, fra tanti uomini parte oscuri, parte giovani, i quali di nessuno tacevano, potesse rimaner nascosto il mio nome? Che se bisognassero consigliatori del liberar la patria a coloro che il fecero, addurrei i Bruti, le cui effigie essi vedevano ogni dì. Nati da tali padri, dovevano cercar parere da altrui, anzichè dai loro? fuori, anzichè in casa? E che? C. Cassio, nato da gente che non pur la dominazione ma nè tampoco la potenza di veruno potè sopportare, avea bisogno del mio eccitamento, egli che, anche senza questi altri illustri personaggi, avrebbe compito il fatto in Cilicia, se la nave fosse approdata al lido stabilito da lui, non al contrario? Gneo Domizio a ricuperar la libertà sarà stato spinto non dalla uccisione di suo padre, non da quella dello zio, non dalla toltagli dignità? Avrò io persuaso a Trebazio, al quale neppure avrei ardito proporre? a lui, cui la repubblica va tanto più debitrice, perchè antepose la libertà del popolo romano all’amicizia, e volle piuttosto abbattere il dominio che parteciparvi? O avrà dato ascolto a me L. Cimbro, che io mi maravigliai avesse compiuto tal cosa; ed anzichè credere avesse a [p. 106 modifica]eseguirla, mi stupii che fosse memore della patria, egli immemore de’ benefizj? Che dirò dei due Servilj, dei Casca, degli Aala? li crederete mossi da istigazione mia piuttosto che da amore della repubblica? Lungo sarebbe il rammentar gli altri, ed è un fatto insigne per la repubblica, glorioso per essi che sieno stati tanti.

«Ma vi ricordi che cosa mi abbia rinfacciato cotesto acuto senno, dicendo che, subito ucciso Cesare, Bruto alzò il pugnale e gridò il mio nome, e con me si congratulò della ricuperata libertà. Perchè meco piuttosto? perchè io lo sapeva? Bada non m’abbia chiamato perchè, avendo operato un’azione simigliante a quelle ch’io stessa avea condotte, non volesse chiamar me in prova d’avermi emulata nelle lodi. Ma tu, o stoltissimo, non intendi che, se è colpa l’aver tramato l’uccisione di Cesare, colpa è pure l’essersene rallegrati? che ci corre fra chi persuade e chi approva? o che importa se io abbia desiderato si facesse, o mi rallegrassi del fatto? Chi mai, tranne quelli cui profittava il regnar suo, chi mai non avrebbe voluto si facesse quel colpo, o fatto il disapprovò? Tutti dunque sono in colpa, giacchè tutti i buoni, per quanto fu in loro, hanno ucciso Cesare: a chi mancò il senno, a chi il coraggio, a chi l’occasione; la volontà a nessuno».

Non potrebbe in modo più assoluto Cicerone approvar l’eccidio di Cesare e appoggiarsi al comune consenso: e prosegue attestando che bisogna assolutamente scegliere fra il credere eroi i congiurati, o riprovarli come pessimi tra gli uomini, avendo ucciso il capo della Stato. Or la seconda parte non potevasi ammettere, dopo che il senato in tanti modi avea dichiarato il favor suo agli uccisori.

«Io scriverò loro, che, se mai sieno interrogati sopra alcuna delle cose che tu mi apponi, non la neghino. Giacchè qual azione mai, pel sommo Giove, non solo in questa città ma per tutto il mondo fu compita più grande, più gloriosa, più raccomandata alla sempiterna ricordanza degli uomini? In questa partecipazione di consigli, come nel cavallo trojano, io non rifiuto d’esser rinchiuso insieme coi primarj: te ne ringrazio anzi, con qualunque intenzione tu il faccia.

«Risposto alle più gravi imputazioni, anche alle altre ora il devo. Mi rinfacciasti il campo di Pompeo e tutto quel tempo. Nel qual tempo, se il consiglio e l’autorità mia fossero valsi, tu oggi saresti in angustia, noi liberi, nè la repubblica avrebbe perduto tanti capitani ed eserciti. Confesso che, prevedendo i futuri casi, tanta [p. 107 modifica]melanconia presi quanta n’avrebbe ogni buon cittadino se altrettanto avesse preveduto. M’accorava, o padri coscritti, che la repubblica, salvata un tempo dai vostri e dai miei consigli, in brev’ora dovesse perire; nè io era così rozzo e inesperto delle cose, da cader d’anima per cupidigia d’una vita, che restando mi struggerebbe di cordoglio; lasciata, m’avrebbe sciolto d’ambascie. Quegli egregi cittadini, lume della repubblica, io volea salvi; tanto fiore di nobiltà e di gioventù, tanto stuolo d’ottimi cittadini, i quali, se vivessero, sebbene a trista condizione di pace (giacchè qualunque pace coi cittadini io reputava più utile della guerra civile), oggi godremmo ancora la repubblica. Che se il mio parere fosse prevalso, nè, imbaldanziti dalla fiducia della vittoria, m’avessero resistito appunto quelli alla cui vita io provvedeva, tu certo non saresti rimaso in quest’Ordine, anzi neppure in questa città.

«Ma il parlar mio, dicono, mi disamicava Pompeo. Or chi amò egli più di me? con chi ebbe più spesso e colloquj e consulti? Ond’era mirabile che durassero amici due, i quali dissentivano ne’ supremi affari. Io vedeva quel ch’egli, ed egli quel ch’io pensassi; io provvedeva prima alla salvezza dei cittadini, poi al decoro, se fosse possibile; egli piuttosto al decoro presente: egli non mai di me fece menzione se non onorifica, confessando ch’io avea veduto meglio, egli meglio sperato. Ed ora molestar me a nome di colui, di cui confessi ch’io fui amico, tu partigiano? Tacerò la guerra, in cui tu fosti soverchiamente fortunato; neppure agli scherzi risponderò che tu dici da me usati in campo. Quel campo era pieno d’apprensioni davvero; pure gli uomini, anche posti in torbidi momenti, se sono uomini, ricreano ad or ad ora lo spirito: che se egli accusa del pari e la mestizia e la giovialità, segno è che in entrambi io fui temperato....

«Ma risposto omai abbastanza alle sue accuse, diciamo alcun che dell’accusatore stesso; nè verserò tutto, per serbare qualche cosa di nuovo, se più volte si dovrà disputare. Vuoi dunque che cominciamo dalla fanciullezza? Parmi bene principiar dal principio. Ti rammenta come tu ragazzo fallisti? È colpa del padre, tu rispondi. Concedo, poichè tal difesa è indizio di pietà: ma è tua sfacciataggine l’esserti assiso fra i quattordici, benchè la legge Roscia assegnasse altro posto a coloro che fallirono, ancorchè fosse per mala ventura. Assumesti la toga virile, che tantosto rendesti muliebre: dapprima bagascia vulgare, sinchè Curione ti levò dal traffico meretricio, e quasi t’avesse [p. 108 modifica]dato l’anello, ti tenne in istabile matrimonio. Nessun ragazzo comprato per la voluttà fu così in balia del padrone, come tu di Curione. Quante volte tuo padre ti cacciò di casa? quante volte postò guardie perchè tu non vi ponessi piede? mentre tu, protetto dalla notte, stimolato dalla libidine, costretto dalla mercede, eri calato giù dal tetto».

E segue ad enumerare brutture d’Antonio, che danno infamia a questo non men che al popolo, innanzi a cui un grave oratore osava esporle. Poi incalza Antonio per tutta la carriera degli impieghi e delle ribalderie; e massime nel suo tribunato.

«In quello, avendo Cesare, nell’andar nella Spagna, data a costui l’Italia da conculcare, qual fu il modo de’ suoi viaggi? quale la visita ai municipj? Quando mai si udì pari iniquità sulla terra, pari turpitudine, pari infamia? Il tribuno della plebe era menato in cocchio, preceduto da littori laureati, fra cui in lettiga scoperta era portata una commediante; alla quale essendo obbligati di andar incontro i municipali delle borgate, non la salutavano con quel noto nome da teatro, ma di Volunnia. Seguiva una carrozza con mezzani, turpissima brigata; la madre rinegata seguiva l’amica dell’impuro figlio, come fosse una nuora. Ahi sciagurata fecondità dell’infelice donna! Colle orme di queste sozzurre costui impresse tutti i municipj, le prefetture, le colonie, l’intera Italia.

«Degli altri fatti suoi scabroso e lubrico è il parlare. Fu in guerra; satollossi del sangue di cittadini dissimiglianti; fu felice, se felicità può esservi nel delitto.... Tu con cotesta gola, con cotesti fianchi, con cotesta robustezza da gladiatore, nelle nozze d’Ippia bevesti tanto vino, che il domane fosti costretto vomitare al cospetto del popolo romano....

«Ma per non ommettere la più bella fra le tante imprese di Marcantonio, veniamo ai lupercali. O senatori, nol dissimula; e’ mostrasi commosso, suda, impallidisce. Quale scusa può addursi a turpitudine tanta? Sedeva ne’ rostri il collega tuo, vestito di purpurea toga, col seggio d’oro e la ghirlanda; ascendi; t’accosti alla sedia; talmente eri luperco, da scordarti di esser console. Mostri il diadema; e per tutto il fôro un fremito. Donde il diadema? giacchè non l’avevi raccolto per via, ma portato da casa; delitto meditato. Tu gl’imponevi il diadema con fremito del popolo; egli con applauso il respingeva45. [p. 109 modifica]Dunque tu solo, o ribaldo, consigliando il regno, volevi per signore colui che avevi collega; tu tentavi sin dove il popolo romano tollererebbe. Ma anche la pietà imploravi, e ti gettavi supplicando ai piedi, cercando che cosa? di poter servire. Lo cercavi per te solo, che fin da fanciullo vivesti in modo da soffrire qualunque cosa; da noi e dal popolo romano non avevi certo un tal mandato. O insigne eloquenza tua allorchè arringasti ignudo! qual cosa più turpe? qual cosa più degna d’ogni supplizio?...

«Il giorno poi dell’uccisione di Cesare, come fuggisti! come tremasti! come disperasti della vita per coscienza dei delitti, quando da quella fuga, per bontà di coloro che ti vollero salvo, tornasti nascostamente a casa! O miei pur troppo veraci indovinamenti dell’avvenire! A que’ liberatori nostri in Campidoglio io, non volendo venire a te per esortarti alla difesa del buono stato, ripetevo che, finchè tremavi, avresti ogni cosa promesso; cessata la paura, torneresti quel di prima....

«Turbate le religioni, invadi il fondo Casinate di M. Varrone, integerrima persona. Con qual diritto? con che faccia? Allontana un tratto quelle spade che vediamo, e udrai altra causa avere l’asta di Cesare, altra la confidenza e temerità tua. Or quanti giorni straviziasti in quella villa turpissimamente? Dall’ora terza si beveva, giocava, vomitava. O case mal arrivate per sì dissimile signore! Quella villa consacrò Varrone agli studj, non alle libidini; e quali cose vi si dicevano, quali si pensavano, quali si scrivevano? i diritti del popolo romano, i monumenti degli avi, ogni maniera di sapienza, ogni dottrina. Ma divenutone tu abitatore (non già padrone), risonava ogni cosa di voci ubriache; ondeggiavano i pavimenti di vino, n’erano bagnate le pareti; fanciulli ingenui venderecci con meretrici vi stavano fra le madri di famiglia».

Giunto poi al fine di tante accuse, conchiude: «Risponderai tu a queste incriminazioni? e che troverai in sì lunga orazione mia, cui tu abbi confidenza di poter rispondere? Ma lasciam da banda il passato. Questo giorno solo, quest’oggi solo, questo momento in cui parlo, difendi, io dico, se puoi. Perchè il senato è ricinto d’una corona di armati? perchè i tuoi satelliti stanno ad ascoltarmi colle spade? perchè [p. 110 modifica]non sono schiuse le porte della Concordia? perchè meni nel fôro arcieri d’ogni nazione, e massime barbari Iturei? Per assicurarlo, tu dici. Or non è meglio morir mille volte, che nella propria città non poter vivere senza sentinelle? Ma qui, credilo, non v’è presidio alcuno: conviene esser munito della benevolenza de’ cittadini, non d’armi. Queste il popolo romano te le strapperà, deh, sia noi salvi! ma comunque tu operi con noi, finchè userai di tali consigli, credimi, non potrai a lungo durare. Dolce è il nome di pace, salutare l’averla; ma fra pace e servitù gran divario corre. La pace è tranquilla libertà; la servitù, sommo dei mali, devesi allontanare non colla guerra soltanto ma eziandio colla morte. Che se quei nostri liberatori si sottrassero agli occhi nostri, ci lasciarono però l’esempio del fatto. Compirono essi quel che nessun altro. Bruto perseguitò Tarquinio, che fu re quando esser re poteasi in Roma; Cassio e Melio Spurii e Marco Manlio per sospetto d’ambir il regno furono uccisi; quei primi assalirono colle spade, non chi ambiva il regno, ma chi già regnava. Il qual fatto, per sè stesso insigne e divino, è proposto all’imitazione; ed essi ne conseguirono tal gloria, quale appena sembra potersi dal cielo contenere. Giacchè, quantunque nella coscienza stessa fosse il frutto della bellissima impresa, pure non credo che uom mortale deva sprezzarne l’immortalità. Ma se la lode non può indur te ad operar rette cose, neppure la paura non ti potrà ritenere dalle turpissime? Non temi i giudizj? se per innocenza, ti lodo; se per violenza, non comprendi che cosa abbia a temere chi in tal modo i giudizj non paventa? Che se non temi i forti ed egregi cittadini, tenuti lontani dal corpo tuo coll’armi; i tuoi stessi, credimelo, non ti comporteranno a lungo. Or che vita è mai il temere de’ tuoi notte e dì? se pure tu non te li legassi con benefìzj, più che non abbia fatto quest’altro con coloro da cui fu ucciso. Che se in cosa alcuna potessi con lui paragonarti, in lui fu ingegno, senno, memoria, letteratura, attenzione, meditazione, diligenza; compì imprese disastrose alla repubblica, ma pur grandi; per molti anni ruminò il regno; con gran fatica e grandi pericoli effettuò il suo pensiero; con spettacoli e monumenti e donativi e mense allucinava l’ignara moltitudine; i suoi coi premj, gli avversar con aspetto di clemenza erasi amicati; in una città già libera aveva indotto l’abitudine del servire, parte col timore, parte colla pazienza. Con lui poss’io paragonar te nella cupidigia di regnare; ma in nessun’altra cosa. Fra tanti guaj ch’esso [p. 111 modifica]recò alla repubblica, questo ci fu di buono che il popolo romano imparò quanto fidarsi ad uno, in chi commettersi, da chi guardarsi. Non le pensi tu queste cose? non intendi che agli uomini forti basta l’aver imparato quanto sia bello, degno di gratitudine e di gloria l’uccidere un tiranno? E quei che uccisero lui, sopporterebbero te? A gara da qui innanzi, te n’assicuro, si correrà a simil fatto, senza sopportare l’indugio dell’occasione.

«Abbi una volta riguardo alla repubblica, o Marcantonio: pensa da chi sei nato, non con chi vivi: con me fa come vuoi, colla repubblica torna in amicizia. Ma di te provvedi tu stesso; io mi professerò sul conto mio. Difesi garzone la repubblica, non l’abbandonerò vecchio; affrontai gli stocchi di Catilina, non paventerò i tuoi. Anzi volentieri offrirei la vita se colla morte mia potesse la libertà ravvivarsi della città; acciocchè il dolore del popolo romano partorisca una volta quello, di che sta tanto tempo in travaglio. Che se fin da vent’anni fa, in questo tempio stesso, asserii non poter essere immatura la morte d’un consolare, quanta più a ragione il dirò d’un vecchio? A me poi specialmente, o padri coscritti, conviene desiderar la morte, dopo che vidi compiute le cose che procurai e che operai. Ciò solo desidero morendo, di lasciar libero il popolo romano; nè cosa più grande di questa potrebbero darmi gli Dei immortali; dopo questa, che avvenga a ciascuno secondo della repubblica meritò».


XIII.


Pure il senato e Antonio non erano lontani dal rappaciarsi, quando intervenne Ottaviano, nipote di Cesare, che con Antonio e col generale Lepido formò un secondo triumvirato, che li rese arbitri dell’Italia. Per contentare i soldati e sbigottire gli avversarj, stabilirono toglier di mezzo e nobili e repubblicani; e in una proscrizione, più calcolata di quella di Mario e più implacabile di quella di Silla, sagrificarono trecento senatori e duemila cavalieri. Cicerone gradì le dimostrazioni che gli fece Ottaviano, e le ripagò di lodi e di favore; del che indignato, Bruto esclamava: — Purchè abbia chi lo lodi e gli faccia riverenza, egli accetta qualunque schiavitù»; ma Ottaviano non esitò ad abbandonarlo all’ira di Antonio.

Cicerone rimpiangeva la repubblica caduta, ma non voleva ricuperarla al prezzo che sarebbesi voluto: inquieto, dubbioso sebben [p. 112 modifica]migliore della gran maggioranza e degli scontenti, si ritirò al suo Tusculano buttandosi agli studj, che sono la consolazione ne’ grandi disinganni, sono il bisogno degli uomini e delle società al chiudersi de’ gravi momenti della vita privata o della pubblica.

Nella villa di Tusculo udì Cicerone che il suo nome leggevasi con quel del fratello Quinto sulle tavole della proscrizione, sicchè stabilì camparsi in Macedonia presso i repubblicani. E già era riuscito ad imbarcarsi: ma o dubbioso, o timido, o confidando più in Ottaviano suo protetto che in Cassio e Bruto da lui abbandonati, si fece rimettere a terra a Circeo, e riprese la via di Roma: poi tentennando fra opposte paure, ripiegò verso il mare, ondeggiante fra l’idea d’uccidersi, d’affidarsi ad Ottaviano, o di rifuggire in un tempio. Intanto sopraggiunto (anno 43, 7 dicembre) presso Formia da una banda guidata dal centurione Erennio e dal colonnello Pompilio Lena, che altre volte egli avea difeso di parricidio, fu indicato dal liberto Filologo. I servi disponeansi a proteggerlo coll’armi, ma egli: — No: sommettiamoci al destino; non si versi sangue più di quello che i numi dimandano»; e senza frasi, e col coraggio che fu l’ultima e la men rara virtù de’ Romani, sporse la testa dalla lettiga, dicendo a Pompilio: — Qua, veterano: mostra come sai ferire».

Il capo suo e la destra mano furono portati ad Antonio: e questo che, vivo lui, non credea potersi dire sicuro nella tirannide, esclamò: — Ecco finite le proscrizioni; deponete ormai la tema, o Romani»; contemplò con selvaggia compiacenza quel teschio, poi l’inviò a Fulvia moglie sua, stata moglie di Clodio. Veduto lo spento viso di Cicerone, atrocemente ella schernì il nemico de’ suoi mariti, e ne traforò la lingua con uno spillone, indi quel teschio e la mano furono collocati sulla ringhiera, donde egli avea le tante volte strascinato la volontà della moltitudine.

Accanto, qual altra testa è confitta? quella di Verre: l’accusato presso l’accusatore in quella terribile eguaglianza della mannaja, che i padri nostri hanno spesso veduta nella rivoluzione francese. Esulato ventiquattro anni, Verre avea profittato dell’amnistia di Cesare per tornare: Antonio il richiese di certi vasi corintj, strascico degli antichi latrocinj; avutone rifiuto, lo scriveva sulle tavole, e uno scellerato puniva scelleraggini contro cui si era spuntata la legge.

Benchè in quella proscrizione, più dell’altre selvaggia, fosse perfino ordinato di gioire delle commesse crudeltà, Cicerone fu pianto dai [p. 113 modifica]senatori e dal popolo: Antonio stesso, per una spietata riparazione, consegnò il liberto delatore a Pomponia moglie di Quinto Cicerone, la quale, dopo squisiti tormenti, lo obbligò a recidersi da sè stesso brani della propria carne, cuocerli e mangiarseli. Ottaviano dovette sentirne, se non rimorso, indelebile vergogna: nessuno osava con lui nominar Cicerone; Orazio, lodatore universale, non ne fa pur motto: Virgilio, rammentando le glorie romane, concede alla Grecia il vanto di perorar meglio le cause. Un nipote di Ottaviano, sorpresa un giorno da esso colle opere di Tullio alla mano, s’affrettò a nasconderle; ma egli, preso il libro e scorse alquante pagine, glielo restituì dicendo: — Fu grand’uomo e amante la patria».


XIV.


Per noi è di conforto il vedere quest’oscuro Arpinate sorgere per forza d’ingegno sino a meritare il nome di padre della patria: a primeggiare in senato; ad emular inerme il trionfo de’ guerrieri, a subire la gloria d’un esilio, riguardato come pubblico lutto; ad acquistar potenza colla parola dove tant’altri se la procacciavano colle daghe e coi coltelli.

Che fin dalla sua prima gioventù egli si affezionasse a quella che tenea per causa della libertà, e che a sostenerla dirigesse tutta la sua politica quando si trovò in potere, appena si può dubitare46. A quest’effetto cercò, durante il consolato, congiungere l’Ordine senatorio e l’equestre, per farne una forte barriera contro la fazione democratica, da cui prevedeva, per consueta riazione, uscirebbe lo stemperato despotismo. A tal effetto pure, allorchè quasi tutto il suo Ordine correva furiosamente in guerra contro Cesare, protestò contro quella funesta risoluzione, prevedendo le medesime calamità per la repubblica, qualunque parte fosse riuscita vincente. Fin a che grado fosse in ogni occasione preparato a sacrificarvi la salute, la riputazione e gli averi, è un’altra quistione. Ad ogni modo, lo sventare la congiura di Catilina fu impresa che richiedeva almeno altrettanto [p. 114 modifica]coraggio quanta patria carità; e ne’ tentativi posteriori per frenare i Cesariani capitanati da Antonio, risplende una nobile ed eroica risoluzione, pari ai più grandi esempj di magnanimità romana. In quella crisi ben vedeva egli che il perdere sarebbe stato per lui inevitabile rovina: nondimeno getta il dado, nè più pensa a dar indietro, comechè gliene dovesse venire talvolta nell’animo una fiera disperazione.

La vanità, se non il fondo, fu l’ingombro continuo del carattere di Cicerone; quella piccola vanità, che talvolta lascia deprimere la dignità propria, purchè si elevi la fama; che sente l’amicizia, ma ne fa vanto come d’ogni pregio estrinseco; che ama la patria, ma i servigi a lei resi diminuisce coll’esagerarli o almeno ripeterli; vuol beneficare, purchè siagli permesso parlarne, e all’uopo rinfacciarlo agl’ingrati; ama la verità, purchè non lo offenda; e fin lo stile contorna di tal pompa, da costringere il lettore a dire: — Che grande ingegno ha costui!» A questa vanità son dovute le sue variazioni; ad essa in parte la sua grandezza, poichè ne fu spinto agli studj, all’azione: da essa potè talvolta esser incitato ad attività e perseveranza dove il suo patriotismo sarebbesi forse per natural timidezza accasciato, e rallentata la sua costanza per amore della propria conservazione. Quando gli occhi de’ suoi concittadini sapea fisi in lui, e gli sonavano all’orecchio i loro applausi; quando egli fu chiamato al primo posto d’onore e di pericolo; quando, contro un nemico assai più terribile di Catilina, fu riconosciuto e careggiato come anima e capo del suo partito; incaricato di patteggiare coi capitani degli eserciti nelle lontane provincie, e da essi risalutato come principal rappresentante dell’oltraggiata maestà della repubblica, il suo coraggio non si mostrò inferiore all’assunto. Allettato dalla vaghezza di un trionfo, non esitò di arrischiarsi sulle alture di Amano; e la speranza della medesima ricompensa lo avrebbe spinto ad affrontare le saette dei Parti, se la fortuna lo avesse tratto a guerreggiarli. Ma allorchè fu forzato a scendere da quella preminenza, e diventare sussidiario da principal personaggio ch’egli era; allorchè, come nella lotta tra Cesare e Pompeo, egli non poteva che d’un nonnulla accrescere il peso dell’uno o dell’altro partito, e avrebbene quindi ottenuto ben tenue mercede, tornò all’insita sua cascaggine, ch’era stata vinta per breve tempo dal potente stimolo della lode avuta od aspettata; donde oscillamenti e paure e, loro naturali conseguenze, doppiezza [p. 115 modifica]ed inganno. La vanità dovea togliergli pure d’esser buono storico, cioè sincero, s’anche il suo fare da retore non l’avesse portato ad aver la mira alla forma più che ad altro.

Oscillante volontà, debolezza di propender sempre alla parte fortunata, indifferenza per la causa popolare, scarsa avvedutezza ne’ politici maneggi, inettitudine a innestare sull’antico ceppo patrio le nuove gemme, vengono a macchiare la splendida memoria di quest’uomo, d’altra parte meritevole di tanta stima ed affetto. Intelligente del bene, amico del bello, cupido di sapere, instancabile nell’operare, per sete di gloria e di popolarità ogni cosa riconduce a sè; egoista di buona fede, ambisce di comparire più che di comandare, vuole il consolato non pel vigore de’ fasci, ma per la pompa della sedia curule; dal rispetto umano trae un coraggio fittizio, in cui qualche volta la codardia si unisce alla violenza, ma dalla vanità è reso stromento degli ambiziosi, dai quali ha molto da sperare e da temere. Elevato non fermo, batte i nemici per gelosia anzichè per rancore; a momenti vigoroso, più spesso vacillante e disilluso, eppure ostentando coraggio, e dolendosi quando il vede posto in dubbio: sopra ogni atto suo e degli altri distende lo splendido velo dell’arte e dell’eloquenza. La posterità, malgrado i difetti di lui, potrà dimenticare come spesso egli ardì farsi eco della pubblica indignazione contro ribaldi, da’ cui coltelli non era chi l’assicurasse?

Del resto buon uomo, buon cortigiano, buon compagnone nelle brigate47, per Roma faceano fortuna le sue arguzie, che furono raccolte poi da Tirone, suo liberto e segretario. Ingenti ricchezze gli produssero le arringhe, non per onorarj che ne traesse, essendo inusate le sportule, ma pei legati che ciascun ricco in testamento lasciava a chi avesse di lui ben meritato. Di questi Cicerone toccò per venti milioni di sesterzj48, onde crebbe di case e di poderi; e sebbene nelle provincie s’astenesse dai comuni ladronecci, ebbe agiatezza e lusso d’arti, potè splendidamente ospitare gli amici, e per mantenere suo figlio a studio in Atene spendeva l’anno ingente somma.

Nella vita privata troveremo in lui (come, fino a un certo grado, in tutti i migliori, anche sotto l’influsso di moventi più sacri e alla scorta di divino lume) una mescolanza di virtù e di vizj, un tessuto [p. 116 modifica]a varj e contrastanti colori. Egli tenero padre; egli affabile, cortese, benevolo verso i dipendenti; egli magistrato integerrimo: se, come marito, più biasimo meriti o compassione mal si potrebbe chiarire. Ne’ litigi col fratello e col nipote mostra aver anzi patito che fatto torto. Dall’epistolario appare come fosse domestico coi personaggi più cospicui. Quanto favoreggiasse gl’ingegni lo dicono i versi che la gratitudine ispirò a Catullo, che è da credere non fosse il solo da lui beneficato. La casa apriva ai letterati d’ogni paese; e le sue ville, per la quantità e la fama degli ospiti, prendeano sembianza delle filosofiche scuole d’Atene. La sua propensione a lusingare i potenti, la non dissimulata avidità d’applausi, uno o due casi ove sembra procedesse disonestamente, formano ombra alla sua bella fisionomia.

In fondo non era peggiore dei tanti suoi amici, fra i quali vogliami distinguere Lucullo e Pomponio Attico. Lucullo, raffinato nell’arti greche, precorreva l’età sua coll’aprire la biblioteca e la galleria a chiunque fosse; e con una lautezza ben meglio raffinata che non le grossolane maniere con cui i prodighi compravansi i favori del vulgo. Urtato nella sua ambizione, girò le spalle alla vita pubblica, e concentrò tutta l’attività dello spirito nella mensa; imbandita ogni giorno in modo, da poter accogliere anche inaspettati gli ospiti più schifiltosi; le cene ordinarie gli costavano duemila quattrocento lire; ma bastava accennasse che si cenerebbe nella sala d’Apolline, perchè il mastro di casa allestisse un banchetto di quarantacinquemila lire.

Di quelli che in ogni età scompigliata pretendono il titolo di buoni e d’onest’uomini col non far nulla e disapprovare tutto, e rimpiccinirsi dietro una moderazione che si riduce ad egoismo, il tipo più lusinghiero fu Pomponio Attico. Di buona casa patrizia, educato diligentemente, si prefisse per iscopo la tranquillità, e per mezzo di raggiungerla il tenersi in disparte dalle pubbliche faccende. Conservava amici in ogni fazione, e dell’aver suo faceva generosa comodità agli esuli ed ai proscritti di qualunque bandiera; non accusò nessuno, ma nessun mai patrocinò; potea dire amico Silla non meno che i Mariani, amici Cassio e Bruto non men che Cesare, Ottaviano non men che Antonio; stendeva la destra ad Ortensio, la sinistra a Cicerone; provedeva a quei che correvano dietro a Pompeo, ma egli non vi correva; a Bruto, cui non avea favorito mentr’era in fiore, largheggiò denari quando parevano sussidio non contribuzione; senza adulare Marcantonio potente sovveniva ai bisogni dei fautori e [p. 117 modifica]della moglie di lui. L’aristocrazia romana vedevasi sull’orlo dell’abisso; ed egli per consolarla scrisse la Storia delle famiglie illustri. Risparmiato nelle proscrizioni, calmo ne’ bollimenti civili, onorato nell’Impero, quando sentì aggravarsi una malattia, lasciossi morir di fame. Cornelio Nepote, che ne tessè un panegirico anzichè la vita, lo propone a modello, come un piloto che sa guidar la nave tra le bufere.

Di questi, come de’ migliori contemporanei, era amico Cicerone.


XV.


Le doti e i difetti suoi come uomo riproduconsi in lui scrittore e filosofo. La sua eloquenza è, rispetto a quella di Demostene, ciò che il gentile epico romano rispetto al «primo pittor delle memorie antiche». Acconciata singolarmente a far effetto o a persuadere, di perfetta eleganza, e spesso tonante con irresistibile forza; nondimeno, nella libera e naturale potenza, come negli alti e felici ardimenti, resta gran tratto inferiore a quella con che l’oratore ateniese cercava suscitare l’assopita energia de’ suoi concittadini contro l’insidiosa politica del Macedone oppressore. I latini oratori si erano fissati sulla formazione del periodo, sicchè ad una parola importante, che attirava il tono della voce, seguissero altre di minor conto, esperimenti qualità o idee secondarie, che riuscissero poi ad una ancora di rilievo, colla quale chiudeasi il senso. Il periodo avea dunque un principio, un mezzo, un fine, e le parole costituivano un insieme armonico e compiuto quanto il concetto che esprimevano. Seguire queste norme era l’arte dell’oratore, che così rendeva il suo eloquio numeroso e melodico. Cicerone, nel De oratore, difende il suo fare, e toglie a convincere che l’eloquenza non è un semplice genere d’ingegno e di pratica, ma fina arte. Vuol dare a Bruto l’immagine dell’ottimo oratore, e com’era ad aspettarsi, ritrae sè stesso. L’eloquenza per lui era riserbata al vero oratore, che «nel foro e nelle cause civili dica in modo di provare, dilettare, persuadere». Quinci lo studio della parola, che deve colpir l’orecchio, non l’occhio e l’attenzione come avvien negli scritti. Trova dunque «molle e ombratile» il discorso de’ più grandi filosofi, dal divino Teofrasto, di Senofonte per cui bocca diceasi aver parlato le Muse; perchè non aveano nulla di iracondo, di invido, di atroce, d’astuto, di mirabile.

Pur troppo i moderni vollero conformarsi a quel tipo, e supposero lo [p. 118 modifica]scrivere deva esser qualcosa di concitato, di violento, o almeno di dignitoso e fuori del volgare uso: donde i tanti che sciaguratamente son lodati di eloquenza, di parlare ornato. In conseguenza Cicerone trova che coloro, i quali prima di lui aveano trattato di filosofia, cioè tradotto i Greci, erano incolti e orridi, e ch’egli fosse il primo che liberalmente erudito, adoprasse nel filosofare anche l’eleganza.

Ma troppo l’arte di lui traspare nella modulazione di quasi ogni cadenza, nella struttura d’ogni gradazione e antitesi; e fra tanti pregi, manca spesso del più nobile, cioè quello d’unire la semplicità dei mezzi colla bellezza dell’affetto, e di cattivarsi i lettori per mezzo di una forza non ostentata. Che, se riesce oserei dire perfetto nell’armonica disposizione delle parti, questo pregio egli ottiene talvolta a scapito d’un altro di maggior rilievo. La sublimità, il nerbo e le concentrate espressioni, che nelle arringhe di Demostene fanno tanta forza agli affetti, raro s’incontrano in quelle di Cicerone; le quali, riflettendo alla nostra immaginazione il carattere del luogo in cui furono composte, mostrano d’essere state meditate piuttosto presso agli aprichi portici ed ai susurranti boschetti di Tuscolo, che fra il rauco spezzarsi dell’onde sul molo del Pireo, o fra il tumulto de’ flutti sopra la spiaggia del promontorio Sunio.

Aggiungi che i supremi principj a cui l’oratore ateniese così spesso e con tanta fortuna ricorse, furono meno valutati da Cicerone, in cui le consuetudini forensi sembra restringessero alquanto le vedute sociali, e lo inducessero a considerare in relazione al partito, ciò che doveva ingrandirsi in relazione all’uman genere. Trattata da Demostene, la causa d’Atene è la causa della libertà, della civiltà, dell’umanità intera; e la voce dell’oratore appella a sentimenti universali come gli elementi, e costanti come le leggi che li fanno operare. Per Cicerone la causa della libertà è troppo spesso quella dell’aristocrazia romana, pel cui ristabilimento le provincie, gementi sotto intollerabili esazioni, non sarebbero rimaste esonerate da una sola imposta, nè arrestato un solo istante il corso dello vittoriose legioni, spinte a nuove conquiste. Il greco oratore attingeva dalla storia del suo paese sublimi immagini, di cui al latino non era dato giovarsi. Le glorie del tempo in cui Atene sorgeva come tutrice de’ più sani principj, nella memorabile contesa colla servile ignoranza e colla barbarica forza de’ monarchi persiani, diffondevano un continuo splendore sulle energiche esortazioni di [p. 119 modifica]Demostene, e le reminiscenze di quell’età, insigne nella storia dei mondo, gli si affollavano attorno ad ogni minima evocazione. Questi partiti a Cicerone mancavano. Fin dai primordj, Roma era stata oppressora, non redentrice delle nazioni; coloro ch’erano morti sotto a’ suoi stendardi, erano caduti cercando d’imporre il giogo a tali che mai non n’avevano conosciuto il peso, e non già di levarlo di collo agli oppressi; e Cicerone, se avesse voluto imitare il sublime entusiasmo del suo gran maestro allorchè giurava per le ombre di quei che primi affrontarono il pericolo nella pianura di Maratona, Cicerone non v’avrebbe trovato un riscontro in tutta la serie de’ metrici annali di Roma e nei favolosi libri de’ sacerdoti.

Pongasi anche mente alla natura de’ giudizj fra un popolo mosso da intriganti, e dove la protezione delle leggi ormai non assicurava nè la vita nè l’avere a chi non fosse capace di tutelarli da sè o col mezzo d’amici. Secondo Cicerone, Sassia, a cui era stato ucciso il marito, per iscoprire i rei fa porre al martòro i servi (tormentis omnibus vehementissimis quaeritur); e poichè sostengono di non saper nulla, per quel giorno gli amici, al cui cospetto si teneva questa domestica investigazione, opinano di desistere. Dopo qualche intervallo si rimettono alla corda, nulla vis tormentorum acerrimorum praetermittitur, tanto che l’aguzzino ne riesce spossato, e gli astanti dichiarano che sono a sufficienza49. È vero che si trattava non d’uomini, ma di schiavi!

E in generale i giudici non si limitavano ad accertare il senso delle leggi ed applicarle ai casi particolari; ma si consideravano padroni della vita e dell’onore dell’imputato. Pertanto il reo ed i suoi amici compajono in abito di duolo, stringendo la mano all’uno e all’altro; è dovere d’amicizia e pietà di parentela il venire famiglie, corporazioni, interi municipj a sostenere del loro voto un accusato: se pur questo non avrà denari quanti bastino a comprare i giudici, perocchè in proverbio correva non potersi condannare una buona borsa. L’oratore non faticherà tanto a mostrare l’innocenza del suo cliente, quanto a chiarirne i meriti antecedenti, e [p. 120 modifica]commuovere i giudici a favor di lui, della sua famiglia, de’ figlioletti che in bruna veste girano supplicando50.

Cicerone indica bensì la necessità che l’oratore sia uomo onesto, ma insegna tutte le arti per far trionfare una causa, buona o trista che sia; per opprimere l’avversario, abbia ragione o torto; e al pari degli altri oratori dissimula la verità, inventa menzogne, imputa i giudici d’ignoranza o di venalità, ingiuria i testimonj pubblicandone anche atti della vita privata, li spaventa con minaccie, li carica di ridicolo51; coll’avvocato contrario poi o coll’avversario usa invettive e attacchi incivilissimi e violenti; e le arguzie, alle quali valeva non meno che all’ironia ed al sarcasmo, fino a cadere talvolta nell’insulso e nel triviale52.

Eppure quello stesso che maggior gloria trasse dal fôro, e che m qualche accesso di vanità esclamava, — Cedano le armi alla toga», era costretto confessare che l’eloquenza e le magistrature doveano chinarsi alla forza; la forza, idolo e ragione di Roma. «Questa [p. 121 modifica](diceva egli) al popolo nostro eterna gloria produsse; questa gli sottomise il mondo; questa è il più sicuro modo d’ottenere il consolato»53. Di quante congiure e sollevazioni non fu Tullio testimonio!54. Sicchè potea ben dire che la repubblica sussisteva di nome, non più di fatto55, e perciò esitare sul partito da abbracciare.


XVI.


Le lettere, raccolte dal liberto Tirone, parte sono sue, dirette ad Attico, al fratello Quinto e a varj personaggi; parte sono di Cesare, Pompeo, Antonio, Bruto, Cassio, Trebonio, Sulpicio, Pollione, e di altri principali in quel periodo memorabilissimo; serie di documenti autentici, a cui niun altro dell’antica storia e pochi della moderna si possano contrapporre, viepiù importanti alla posterità, perchè non ad essa destinati. Per quanto un tal carteggio famigliare riesca talvolta oscuro per allusioni, proverbj, prudenti reticenze, ci lascia meravigliati alla singolare versatilità dell’ingegno di Tullio, alle ampie cognizioni, alla dottrina nelle sue più graziose e schiette forme. Ivi non più retorica, ma il cuore in mano, una vena inesaurabile di spirito, una lingua svincolata dal periodare oratorio, un’eleganza [p. 122 modifica]d’espressione, lontanissima dalla fiorita affettazione che prevalse più tardi, un felice accoppiamento dell’ingegno e del gusto. D’inestimabil pregio riescono poi quelle epistole se le consideriamo quale specchio de’ sentimenti e delle opinioni dello scrittore, e rivelatrici perpetue di molte di quelle impercettibili gradazioni di carattere che lo storico non può rappresentare nella narrazion generale: e ci addimesticano coi guerrieri e cogli statisti che parlano o dei quali parlano, così nella vita pubblica come nella privata. Non più circondati di scenica pompa, essi depongono quel loro favoloso eroismo, e ci stanno dinanzi con tutte le ordinarie passioni e follie dell’umanità; e collegati nei sentimenti d’un dolore comune, espongono la porzione che in particolare soffriva ciascuno de’ guai comuni, e il dispetto di vedersi da Cesare ridotti al nulla, o presi in sospetto ed in persecuzione dai vendicatori di esso: le tumultuose scene rappresentate nelle provincie o per le vie di Roma, risuscitano come per incanto. Non essendo destiniate alla posterità, rivelano l’uomo quale aprivasi agli amici, colle paure sue e le virtù, le speranze e le debolezze, colle impressioni del momento, con mille particolarità che l’amor proprio avrebbe dissimulate qualora avesse creduto potessero cadere sotto altri occhi56. [p. 123 modifica]


XVII.


Essendo periti i monumenti della filosofia italica, i moderni cercarono ricomporla mediante il linguaggio e la giurisprudenza: e per quanto incerto vada tal genere di congetture, n’esce una filosofia non di scuola come fra’ Greci, ma pratica e civile. Quanto però avea di originale ben tosto si mescolò alla greca, alla quale tutti accorrevano, e che essendo fatta men per la vita che per la scuola e per esercizj di ingegno, variava secondo il differente punto d’aspetto, e menava facilmente al rifugio dei tempi scredenti, l’eclettismo. Pure anche qui come nel resto, i Romani si mostrarono utilitarj e stimando la scienza in ragione del vantaggio che recava, la filosofia assoluta disprezzavano non solo come inutile e ciancera, ma come pericolosa, imputando ad essa la decadenza della Grecia57. Perciò attesero piuttosto alla morale, cui proposero uno scopo immediato: e Panezio, che iniziò i Romani alle dottrine stoiche, non restringeasi ad angustie di partiti; venerava Platone come il più saggio e santo de’ filosofi, ma insieme ammirava Aristotele: non approvava negli Stoici la durezza affettata, e giungeva sino a raccomandare il libro d’un Accademico, ove s’insegnava che la pietà ci è data dalla natura per renderci clementi58. [p. 124 modifica]

Questo avvicinare le varie filosofie teneva all’indole conciliatrice di Roma: nè scuola filosofica propria vi si costituì, solo studiandola come necessaria coltura, e come opportuna a formar l’oratore, a dare fermezza e consolazione nelle calamità. Pertanto prediligevasi la scuola stoica, che ispirava l’orgoglio della personalità e lo stretto obbligo di adempiere il dovere, checchè ne costasse. Quantunque da Silla fossero portate a Roma, le opere di Aristotele rimasero chiuse nella biblioteca di lui, finchè Tirannione grammatico non vi diede pubblicità; corrette poi e supplite da Andronico di Rodi contemporaneo di Cicerone, se ne fece qualche copia: ma anche persone erudite ignoravano quel filosofo59. Le dottrine epicuree furono presentate in teoria dal poeta Lucrezio60, in pratica da molti anche illustri, che contro i mali politici preparavansi uno schermo col negare ogni altra esistenza di là dalla terrena, e in questa evitare al possibile i dispiaceri colla moderazione.

Ma i Romani, grandi in ogni loro opera, doveano portare agli estremi anche l’epicureismo, e la loro corruzione divenire immensa come il loro imperio. Cicerone ci offrirebbe molti tratti a dipingere la corruttela romana; ed egli medesimo, uomo austero e magistrato, ci racconta leggermente una sua serata di stravizzo in casa di cortigiane; nè fu lodevole la condotta sua verso la moglie e la figliuola. Ma tipo dell’elegante epicureismo è Orazio, quel poeta che tutti prediligono perchè più di tutti sa unire pensieri, sentimenti, immagini; perchè, componendo per l’immortalità ma all’occasione di avvenimenti giornalieri, parla sempre di sè e de’ suoi, talchè c’introduce appieno nella vita di que’ famosi antichi. Ora in Orazio, più che in Ovidio stesso, può ravvisarsi a qual fondo giungesse la depravazione. Ma non era effetto di dottrine, chè in filosofia i Romani non ispiegarono alcun sistema nuovo: e i filosofi loro non furono conservati che come opere letterarie; e servirono solo a trasmettere le opinioni dei loro maestri; e nessuno vi recò nè gran [p. 125 modifica]dottrina nè bastante pulitezza; i libri di Varrone, anzichè istruire, stimolavano ad istruirsi61; ce ne assicura Cicerone, il quale alfine presentò agli ultimi nipoti di Pompilio e di Cincinnato le raffinatezze della filosofia greca, ma sol come collettore delle opinioni altrui.

Allorchè potesse egli occuparsi della azienda pubblica, in questa si concentrava: n’era escluso? ritiravasi nelle sue ville di Tusculo o del Palatino, dove, senza perdere di vista Roma, dall’alto delle colline egli aveasi dinanzi un quadro vasto e variato, ricco di memorie storiche quanto di bellezze naturali. La pianura al suo piede era stata il campo di battaglia de’ re di Roma e della repubblica nascente, vedeasi sparsa de’ marmorei sepolcri dei patrizj e degli uomini consolari; lunghe linee tracciavano sul suolo le strade militari, calpeste dagli eserciti che aveano portate le aquile fin tra i Parti e gli Arabi; a destra prati, boschi, ruscelli; di sopra del primo terrazzo le bianche torri di Esulo, di Preneste, di Tivoli, graziosa ghirlanda sospesa a’ fianchi delle montagne sabine; a dritta, Alba coricata nella cuna di verdura, l’elevato monumento del Giove Laziale, le quercie d’Aricia, i pini di Laurento, infine il mare, coperto di navigli d’ogni nazione, che faceano scalo ad Ostia. In faccia potea contemplare la città eterna, la regina del mondo, i cui tetti, dorati da un sole magnifico, aveano per baldacchino il cielo d’Italia. Nè essa presentava allora i campanili e le cupole della moderna; ma i sette colli, divisi da mura, meglio distinguevansi l’uno dall’altro, e le statue degli Dei, erette su colonne e decoranti il fastigio dei templi, pareano un esercito d’immortali, pronti a difendere le sacre loro dimore. Dal lago Regillo alle porte di Tuscolo era pieno delle ville dei Balbi, dei Bruti, dei Catuli, de’ Metelli, de’ Gabinj, de’ Luculli, dei Lentuli, dei Varroni, de’ Pompei, dei Cesari, a dir solo quelle citate da Cicerone. Così dal suo ritiro l’oratore penetrava nel centro de’ più cari suoi interessi, vedeasi cinto dalle abitazioni degli amici od emuli suoi. [p. 126 modifica]

Colà, dopo il dechino di sua fortuna, e solo perchè eragli tolto di operare62, compose alcuni de’ trattati più astrusi della sua filosofia: ma anche queste composizioni risentono l’amor suo pei costumi della città e le abitudini della sua vita politica; gl’interlocutori dei suoi dialoghi sono personaggi che avea lasciati nel senato, nobili amici che poteva imbattere in campagna; se testo non ne sono sempre gli affari del momento, il lettore vi è ricondotto da frequenti allusioni.

Del resto egli s’occupava di filosofia per esercizio dello scrivere, per isfoggiare la propria abilità, e per fare che nella letteratura romana non rimanesse questa lacuna63. I Greci vi mescolavano versi, ed egli fa altrettanto; nonchè aspirare ad originalità, ad Attico che gli domandava come potesse scrivere tanto, non dissimula che le sono traduzioni64, nelle quali talvolta anche s’inganna: ma mediante le quali ci conservò memoria e sunti di molte opere, dappoi perdute. Novità sua vera è l’intento civile, proponendosi d’indirizzare a una nuova operosità scientifica e intellettuale i Romani, quando annullavasi la politica; e preparare ristori alle vicende della fortuna, cui poteano essere esposti. Tanta è l’inclinazione alla pratica, che nell’Ortensio crede dovere scusarsi se si applica alla filosofia, allegando che quella è l’istitutrice della vita e la sola consolazione dei mali.

Si riferiscono alla filosofia teoretica i trattati suoi della Natura degli Dei, della Divinazione e del Fato, delle Leggi, della Repubblica: alla morale, le Quistioni Tusculane, gli Uffizj, i Paradossi, i libri [p. 127 modifica]dell’Amicizia, della Vecchiaja, Più sobrj che le orazioni, li troviamo più lodati dai contemporanei; pure l’abitudine del declamare impedisce Cicerone di saper piegarsi alla esattezza delle voci e delle frasi, le accatta sovente dal greco, e sagrifica la precisione alla circonlocuzione, valendosi delle definizioni greche benchè le parole non avessero equivalente significato, rispettando le conclusioni de’ Graci benchè dedotte da tutt’altre premesse; mal fila il ragionamento, e mostrasi inetto a raggiungere il fondo della scienza.

Lasciati a parte i sommi modelli Aristotele e Platone, prevaleva allora la sètta eclettica de’ Nuovi Accademici, che con leggerezza mostrava come, deducendo ragioni pro o contro dalle altre sètte, si arrivasse a conseguenze opposte. Questo metodo calza perfettamente a coloro che vogliono avere una tintura di molte cose, piuttosto che approfondirsi in una. E appunto per secondare tal gusto, Cicerone, che pur chiama Platone l’autor suo, il suo dio, si ferma alla probabilità65, anzichè fissarsi in convinzioni risolute; tante sono le cose che asserisce, che tu dubiti se profondamente n’abbia meditato veruna; e come varia di stile, di lingua, di colore secondo l’autore che copia, così muta sentenza secondo la parte cui s’accosta.

Per lui la filosofia è una raccolta di ricerche particolari sopra questioni date66: e la divide in luoghi, che tratta indipendentemente gli uni dagli altri. Dall’esperienza sua del mondo deduce riflessioni vere, argute, evidenti: ma se occorrono ricerche sulle basi della verità, analisi esatta del pensiero, dell’azione, della natura umana, s’avviluppa ed abbuja. La sua filosofia è fatta pel galantuomo, più che pel sapiente; i doveri risultanti dallo stato sociale preferisce a quelli che derivano dall’indagine scientifica; ogni ricerca vada da banda, non appena sorge occasione di operare. Ingegnoso ed erudito, ma nè originale nè profondo, tenta conciliare le varie dottrine: l’incertezza che domina nella filosofia, egli la riscontra anche nella geometria, nella medicina, nelle scienze fìsiche: nella morale sente la scossa data alle credenze, ed egli medesimo la riduce talvolta alla sensibilità: conseguenza naturale del non mirar che alla pratica applicazione. [p. 128 modifica]

Calmo, elegante, non vien a conflitto col pensiero, vuol dare copia, splendore, efficace linguaggio alla filosofia, ma accetta gli asserti delle varie scuole; sol pretendendo eliminare le parti vere e certe dalle false; onde è contemplatore coi Platonici e sperimentale cogli Aristotelici; si piace alla morale degli Stoici, ma ne ripudia l’esagerazione; dubita cogli Accademici, ma ritiene probabili alcune cose: fin dagli Epicurei toglie a prestanza alcuni concetti sull’amicizia: da Socrate riceve il testimonio della coscienza, l’evidenza interiore, ma non pronunzia mai assoluto sopra quel che discusse, mai non rivela la personalità umana. Con Posidonio e Panerzio egli crede al diritto e alla giustizia; pure gli si affacciano i dubbj degli Accademici, speculatori sempre, non pratici mai, perturbatori d’ogni principio67.

È notevole come i Romani avessero idea confusa e incompleta della divinità, e quindi della morale. Sentendosi chiamati a dominare il mondo, suprema legge era per essi la grandezza del popolo: altri profeti non riconoscevano che i legislatori; nel diritto consisteva il fine e la ragione storica della loro missione. Non voleasi abbandonare il solido terreno della vita positiva per correre negli spazj incogniti della speculazione, nelle regioni del pensiero: ammettevano lo spirito, ma come una cosa estranea, cercando piuttosto rimoverlo che conoscerlo: uomini di Stato operosi, intrepidi guerrieri, profondi giureconsulti, non li vediam mai nè devoti nè metafisici: alla scienza divina non s’applicarono se non quando era già perduta la fede.

Non sappiamo che altri scrivesse di teosofia prima che Cicerone nei tre libri de Natura Deorum avvertisse questa negativa conoscenza del soprasensibile; ed egli stesso vacilla fra la materialità degli Epicurei e le indeterminate aspirazioni degli Stoici: quelli che negavano ogni provvidenza, questi che Dio confondevano col mondo. Effetto inevitabile in una credenza mancante di base, e che dal panteismo o dalla fatalità non la deriva che illogicamente: laonde i dogmi più venerati e universali Cicerone non può recarli che come probabilità, dove il sentimento prevale quand’anche l’argomentazione sia stringente. Trova debolissimi gli argomenti con cui gli Stoici provano esister Dio; tiene che uno deva credere alla religione de’ suoi padri, ma la [p. 129 modifica]filosofia ha diritto di cercarne le prove. E la prova che più gli fa colpo è il consenso di tutti gli uomini, riconoscendo un legame fra lo spirito divino e umano. Ma la religione è per lui ancora uno spediente sociale, cui per altro dee servire di fondamento una certa verità generale, la quale non è bene far conoscere al popolo, giacchè non conduce che al dubbio. L’anima umana è una parte della divina: si manifesta mediante l’attività sua, come la divinità; come questa, dovrebb’essere immortale. Siffatta è la credenza del genere umano; ma le pene del Tartaro sono fole da donnicciuola. Barcollando fra opinioni altrui, conosce l’errore delle vulgari credenze, ma con esse confonde spesso i dogmi più essenziali, fin l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima68. Queste sostiene se il cuor suo ha bisogno di consolarsi della defunta figliuola, o se gli giovano per difendere Rabirio; per difendere Cluenzio invece professa che colla tomba finisce tutto69; e dice che agli Dei si domandano i beni esterni, non la virtù, nè alcun mai pensò a ringraziar gli Dei d’esser galantuomo70. Tal era lo scetticismo de’ contemporanei suoi. Cesare, pontefice massimo, proferì in pien senato che la morte è il fine dei [p. 130 modifica]mali, nè dopo di essa v’ha gaudio o tormento71: eppure egli stesso, dopo che una volta rischiò di esser rovesciato, non saliva mai in cocchio senza recitare tre volte una giaculatoria preservativa, «come facciamo la più parte», dice l’ateo Plinio72.

Anche in Orazio la morte non offre che il nulla: e perpetuo sonno preme Quintilio73: e «A te, gran sapiente Archita, che vale l’aver saputo calcolar le stelle del cielo e le arene del mare, se più non sei che polvere sul lido marino?»74

Come avviene quando le credenze sono scosse, Cicerone, secondo i Nuovi Accademici si tranquilla nelle probabilità; pure combatte costantemente gli Epicurei e le altre scuole che qualifica di plebee75; non foss’altro, perchè sconsigliavano dalle pubbliche faccende, mentre il carattere della sua filosofia, e in generale della romana, è l’applicazione al vivere cittadino. Pertanto predilige l’etica stoica, anche perchè meglio si presta all’eloquenza; salvo del resto a voltarla in beffa nella persona di Catone; e scopo della morale e regola della vita pone il sommo bene, il quale consiste nella virtù e nell’onestà, cioè in quel che è lodevole per sè stesso, non per idea di utilità: e quantunque l’onesto sembri talvolta pugnare coll’utile, utile è però sempre. [p. 131 modifica]

Bellissimo è l’udire esposta la virtù in parole sì eloquenti com’egli fa; ma se gli richiediamo una norma fissa, troviamo o il vuoto o l’eccesso. Ne’ suoi Paradossi Stoici ci dirà che «il savio non perdona veruna colpa, guardando la compassione come debolezza e follia; — in quanto è savio, egli è bello benchè scontraffatto; è ricco benchè muoja di fame; è re benchè schiavo; — chi non è savio, è pazzo, brigante, nemico; — è colpa eguale uccidere o un pollo pel desinare, o il padre: — il savio di nulla dubita, mai non si risente, non s’inganna, non cangia d’avviso, non si ritratta». Certo non è con questi teoremi che si educherà al vero la mente, alla bontà il cuore. Lo Stoico impugnerà gli Epicurei, che non discernono il piacevole dall’onesto: ma questo onesto ove lo troverà? dove questa virtù, a cui la volontà deve aderire?76 Cicerone, anzichè sodare verità generali, cerca l’applicazione utile, e utile ai Romani: evita pertanto ogni regola angustiante; raccomanda di non istaccarsi troppo dalle vie battute, quand’anche non le approvi la stretta morale; l’avvocato può sostenere una causa non giusta; per gli amici uno può permettersi cose che non farebbe per sè stesso77; ciascuno nell’operare deve riguardo alla propria indole, cui inerisce sempre qualche difetto: nessuno è obbligato all’impossibile: e l’uno è più atto a questa, un altro a quella virtù. Così attempera l’onestà alla convenienza.

Cicerone ha vivissimo il sentimento della sociabilità: crede istinto dell’uomo la convivenza, indipendentemente dal bisogno che se n’ha: ed esserne legge la indulgenza e benevolenza universale: nulla v’ha di meglio che l’amare i nostri simili, che l’essere buoni e far bene78: il riscattare i prigionieri e nutrire i poveri trova generosità ben [p. 132 modifica]maggiore che non le larghezze onde i grandi di Roma blandivano il popolo79: estende anzi la patria a tutto il mondo, volendo che l’umanità stia di sopra del patriotismo, e reclamando diritti anche per gli stranieri: fin degli schiavi si cura, volendo vi si abbia riguardo, quanto almeno agli armenti80. Ma il patriotismo e gl’istinti pagani ricompaiono: Fontejo è accusato di estorsioni e crudeltà, e Cicerone chiede: — Chi è che lo accusa? son Barbari, persone in brache e sajo. Chi testimonia per lui? cittadini romani. Il più nobile de’ Galli potrebb’essere messo in bilancia coll’infimo de’ Romani?»

Pure le applicazioni il più delle volte sono generose: e se pone alquanto della natura sua allorchè predica doversi seguitare la virtù in modo da non pregiudicar la salute, essere da sapiente il secondare i tempi, e adattarsi alla procella nel navigare81, piace nella Roma di Silla e di Marcantonio l’udirlo proclamare che scopo della guerra è la pace, e non doversi quella intraprendere che per rimuovere l’offesa82. Queste aspirazioni pacifiche in verità erano comuni al cadere della repubblica, quando della guerra sentivansi tutti i danni e la spossatezza che suol seguirne. Come letterato poi preferisce la toga alle armi, e trova feroce il precipitarsi ciecamente alla strage, e lottar corpo a corpo col nemico, e vi antepone la gloria di grandi e numerosi servigi resi alla patria e all’umanità.

Come Aristotele, predilegeva un governo misto. Egli ci offre belle esposizioni e descrizioni della legge, del diritto, degli intimi rapporti di questo coll’onestà e la morale, volendone dedurre la scienza non dalle XII Tavole o dall’Editto pretorio, ma dalla natura [p. 133 modifica]dell’uomo: il solo che somigli alla divinità, perchè con questa ha comune la ragione. E poichè la retta ragione costituisce la legge, e questa legge è la fonte della giustizia, tra Dio e gli uomini v’è comunion di legge e di diritto, e tutto l’universo deve considerarsi una città comune degli Dei e degli uomini.

Ma quel desso che riprodusse la morale più pura di cui fosse capace il mondo pagano, morale che tanta efficacia esercitò sulle leggi e sui costumi romani, non riesce a cancellare l’impronta originale della filosofia gentilesca, per la quale l’uomo non aveva un valore assoluto, ma solo uno relativo e subordinato alla società. Tali massime toglievangli e pietà e giustizia qualora si trattasse d’uno straniero o d’uno schiavo: e di giudicar rettamente della malvagità che avea sott’occhio.

Lo stesso libro degli Uffizj non riflette all’uomo, ma al cittadino; non mette la debita distinzione fra la scelta d’uno stato e quella de’ principj, e trascurando la moltitudine operosa ed utile, dà precetti soltanto pel magistrato o pel generale, al più pel letterato; insegna come acquistar onoranza nella repubblica e nei governi, come operare con decoro, ma nulla della famiglia, nulla delle giornaliere relazioni dell’uomo coll’uomo; non vi sono definiti il bene, il male, la legge: della morale non si porge altro criterio che una vaga ragione, un’onesta politica: nulla di Dio, dell’anima, dell’immortalità, del libero arbitrio; la scienza non v’è stimata se non in quanto utile; l’amor di patria è anteposto a quel della famiglia, nè in fondo dimostra se non che la virtù è utile; e i primi cinque libri vanno tutti in ricercare la morale indipendente; ommette poi i doveri verso la divinità; senza dei quali come si può efficacemente imporre il dovere, determinarlo, sanzionarlo?

Fra gli Stati poi esiste una moralità come fra’ particolari, o norma unica è l’interesse? Come platonico, Cicerone fonde la morale colla politica, e fa da Lelio proclamare che alle società nulla nuoce più che l’ingiustizia, nè alle genti è possibile governarsi e vivere senza rispettare il diritto: ma nell’applicazione ricasca all’angustie del patriotismo, crede che Roma conquistò il mondo nel difendere i suoi alleati, e sostiene legittima la conquista di essa, cogli argomenti onde Aristotele sosteneva legittima la schiavitù: natura ha stabilito che chi è superiore per ragione sia anche per autorità; e la dominazione di Roma è giusta perchè fu un bene pei popoli, i quali perivano in [p. 134 modifica]grazia dell’indipendenza83. Il patrioto dimentica che la filosofìa non deve fondarsi sopra le conseguenze delle azioni stesse; che l’avvenire è di Dio, ma regola invariabile dell’uomo dev’essere il dovere.

Conforme a morale siffatta, con cui Roma giustificò pessime iniquità, Cicerone esibisce il modello d’un cittadino perfetto: — Imitiamo i nostri Bruti, Camilli, Decj, Curj, Fabj Massimi, Scipioni, Lentuli, Emilj ed altri senza numero, che questa repubblica assodarono, e ch’io ripongo nel numero degli Dei immortali: amiamo la patria, obbediamo il senato, sosteniamo i buoni, trascuriamo i vantaggi presenti per servire alla posterità ed alla gloria; giudichiamo ottimo ciò che è più retto; speriamo; speriamo quel che ci aggrada, ma sopportiamo quel che accade; pensiamo in fine che il corpo degli uomini forti e grandi è mortale, ma sempiterna la gloria dell’anima e della virtù»84.


Mai non si finirebbe di parlare di questo, che niuno esiterà ad annoverare fra’ maggiori intelletti. L’essersi tornato a studiarne gli scritti al ridestarsi della bella letteratura in Europa giovò grandemente a raffinar le menti degli uomini, a cui erano presentati con quasi perdonabile esclusività, e a mettere in corso quelle abitudini di ricerca e d’investigazione da cui cotanto benefizio derivò, e continuerà probabilmente a derivare. Che le sue produzioni alleviassero in gran parte l’austerità e la noja della solitudine monastica, quando pochi altri mezzi a tal effetto giovavano; e che in quei gotici chiostri, la cui esterna bellezza formava la sola reminiscenza rimasta dell’ingegno umano, tendessero fino ad un certo grado a nutrire la vita intellettuale che andava languendo e corrompendosi in mezzo a circostanze così sfavorevoli alla sua durata, può allegarsi come il titolo non minore alla nostra riconoscenza: come pure il piacere che i tesori della sua eloquenza lungamente somministrano alle sorgenti generazioni non solo d’Europa, ma di regioni attraversate al suo tempo da fiumi ignoti, e i cui deserti erano lontani dal potere non solo, ma fin dai sogni dei romani conquistatori.

Nella sua patria la memoria e il nome di lui si risvegliano quasi ad ogni piè sospinto, comechè senza numero sieno quivi le reminiscenze [p. 135 modifica]della passata grandezza. Il mirabile edifizio politico, alla cui conservazione egli consacrò la vita, e che nelle sue opere egli si piace di chiamare eterno, è crollato da un pezzo: ma le verdi piagge della Campania ed i boscosi ciglioni de’ colli Albani sono tuttora sacri all’onore di esso. Per entro quella un tempo imperiosa metropoli, regina ed arbitra della terra, stanno profonde rovine; i dorati tetti del Campidoglio, splendenti un giorno come maestoso diadema sulla città di cui erano ornamento, giaciono fra rottami; il pomposo sacerdote non ne ascende più, seguito dalle vergini, i cento gradini per recarsi all’ara de’ suoi numi bugiardi; l’erba è sbrucata nel Foro deserto, e infrante colonne sole parlano de’ magnifici edifizj consacrati alla Concordia o a Giove Tonante, in cui raccoglievasi una volta il senato a deliberare dei re soggiogati: pure la voce di Marco Tullio sembra ancora echeggiarvi e parlare all’orecchio del viaggiatore. Tanto è il sublime potere dell’intelligenza, il carattere del pensiero, che sopravvive alle violenze e alle rovine, al succedere di generazioni a generazioni; e mentre l’aspetto del mondo materiale, non meno che i monumenti innalzati da’ suoi passaggieri abitanti, rivela l’alterna onnipotenza delle umane sorti e quella forza operosa che le affatica di moto in moto, e travolge l’uomo e le sue tombe e le estreme impronte e le stesse ruine, esso conserva le sue prime sembianze di sempre nuova e incorruttibile bellezza.


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BIBLIOGRAFIA


L’edizione principe delle opere compiute di Cicerone fu fatta a Milano da Alessandro Minuziano (1498, 4 vol. in-fol.), e ristampata a Parma con pochi cambiamenti dovuti a Buddeo, da Badio Ascenzio (1511, 4 vol. in-fol.). Aldo Manuzio e il Navagero la ripubblicarono in 9 vol. in-fol. a Venezia, 1519-20. Delle innumerevoli piccole edizioni successive, le più pregevoli sono quella degli Elzevir (Amsterdam, 1684-99, 11 vol. in-12), di Foulis (Glascovia, 1749, 20 vol. in-16) e di Barbou (Parigi, 1768, 14 vol. in-12).

Egregi commenti fece Gaspare Garatoni napoletano nell’edizione di Napoli, ove precorse molti moderni: fra’ quali vuolsi distinguere lo Zumpt.

La prima, ove fosser compresi anche i frammenti scoperti dal Maj nel 1814-22, dal Niebuhr nel 1820, dal Peyron nel 1824, è quella del Le Clerc in latino e francese, 1821-25, 30 vol. in-8, e 1823-27, 35 vol. in-18. L’Orelli (Zurigo, 1827-37, 9 vol. in-8 in 13 parti) rivide con grande accuratezza e discernimento il testo, e vi pose un mirabile Onomasticon Tullianum, continens M. T. Ciceronis vitam, historiam literariam, indicem geographicum-historicum, indices legum et formularum, indicem græco-latinum, fastos consulares: curaverunt Io. Gasp. Orelliu Et Io. Gorg. Raiterus. Il vol. VII contiene gli scoliasti sopra Cicerone, vale a dire C. Mario Vittorino, Rufino, C. Giulio Vittore, Boezio, Favonio, Eulogio, Asconio Pediano, Scholia Bobiensia e Scholiasta Gronovianus.

L’edizione di Torino (Pomba, 1823-35) è in 16 volumi secondo la recensione di Cristoforo Gofredo Schütz cogli indici del Leclerc.

Convers Middleton nella Vita di Cicerone dà la storia di quel tempo, ma soverchiamente parziale al suo eroe. Ben prima, Francesco Fabricio nostro aveva scritto Sebastiani Corradi quæstura et M. T. Ciceronis historia, in bel latino, difendendo l’Arpinate da Dione e Plutarco, tediando però coll’uso d’un’allegoria perpetua, come allora usava, giacchè suppone che un questore presenti le azioni di Cicerone in forma di moneta buona, per contrapposto alla falsa degli storici greci. Vedi pure Facciolati, Vita Ciceronis litteraria, 1760; e Golbery, [p. 137 modifica]Histoire de Cicéron in fronte alla traduzione delle opere di questo, edita da Pankoucke, Parigi 1835; A. F. Gautier, Cicéron et son siècle 1842: M. T. Ciceronis commentarii rerum suarum, seu de vita sua: accesserunt annales ciceroniani, in quibus ad suum quæque annum referuntur quæ in his commentariis memorantur, Leyda, per W. Suringar.

Noterò coll’asterisco le opere che ci pervennero imperfette e mutile, ma bastanti per aver idea del disegno generale e dello spirito; di doppio asterisco quelle di cui possediamo scarsi frammenti; di le al tutto perdute; fra parentesi quelle credute spurie.

I. — Opere filosofiche.

L’edizione principe del 1471 da Sweynheim e Pannartz in 2 vol. in-fol. è rarissima.

De officiis, De amicitia, De senectute, Somnium Scipionis, Paradoxa, Tusculanæ Quæstiones, in 2 vol. in-fol., senza data o luogo, ma pubblicati a Parigi intorno al 1471 da Gering, Grantz e Friburger.

De natura Deorum, De divinatione, De fato. De legibus, Hortensius, De disciplina militari in-4 a Venezia, 1471, per Vindelino di Spira.

L’edizione di tutte le opere filosofiche di Cicerone cominciata da Goerenz, fu condotta fino al III volume (Lipsia, 1809-13).

Ampj schiarimenti intorno a Cicerone come scrittore filosofico danno Bruker, Storia crit. filosof. (vol. II, pp. 1 a 70). — Gautier de Sibert, Examen de la philosophie de Ciceron nei Mémoires de l’Acad. des Inscript. (vol. XLII e XLIII). — G. Waldin, De philosophia C. platonica (Jena, 1753). — G. Zierlein, De phil. Cicer. (Hall, 1770). — C. Brieglies, Progr. de phil. Cicer. (Cob. 1784). — M. Fremding, Philosoph. Cicer. (Luneb., 1796). — F. Hulhemann, De indole philosoph. Cicer. (Ivi 1779). — F. Gedicke, Hist. philosoph. antiq. ex Cicer. scriptis (Berolini, 1815). — R. Kuehner, M. Tullii Cicer. in philosoph. ejusque partes merita (Amburgo, 1825). — Meiners, Oratio de philosophia C. ejusque in universam philosophiam meritis.

Le suddividiamo in, A. Filosofia del gusto o Retorica. — B. Filosofia politica. — C. Filosofia morale. — D. Filosofia speculativa. — E. Teosofia.

A. Filosofia del gusto, o Retorica.

L’edizione principe delle opere retoriche fu stampata a Venezia da Alessandrino ed Asulano, 1485, in-fol.; e la prima compiuta da Aldo in Venezia, 1514. Delle moderne le più notevoli sono quelle di Schutz (Lipsia, 1804, 3 vol.); le Opera rethorica minora di Wetzel (Lignitz, 1807); e quella dì Baier e Orelli (Zurigo, 1830).

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Rhethoricorum, seu De inventione rhetorica, libri II. — Pare sia la prima composizione in prosa di Cicerone; contiene un compendio dei retorici greci. Esaminata l’intiera arte dell’eloquenza sotto cinque capi distinti, genus, officium, finis, materia, partes rhetoricæ, discorre delle parti dell’orazione, exordium, narratio, partitio, confirmatio, reprehensio, conclusio.

De partitione oratoria dialogus. — Dialogo fra Cicerone e suo figlio Marco: l’arte è compresa sotto tre capi, I. Vis oratoris, in cui il soggetto è trattato rispetto all’oratore sotto cinque capi, inventio, collocatio, elocutio, actio, memoria; II. Oratio, che tratta dell’arringa sotto cinque capi, exordium, narratio, confirmatio, reprehensio, peroratio; III. Quæstio, che tratta del caso.

Dell’edizione di G. Fontana, 1470, probabilmente a Venezia, è forse anteriore una di Moravo a Napoli.

De oratore ad Quintum fratrem, libri III. — Dialoghi del modo di formar l’oratore; elogio dell’eloquenza. Per arte e profondità d’idee e per eleganza di stile e lingua, è una delle principali opere dell’autore.

L’edizione principe, Subiaco per Sweynheim e Pannartz fra il 1465 ed il 1467 col Brutus. Vedi A. Ernesti, De præstantia librorum C. de Oratore prolusio (Lipsia, 1736). — E. Gierig, Von dem ästhetischen Werthe der Bücher des Cicer. vom Redner (Fulda, 1807). — L. Trompheller, Versuch einer Charakteristik der Cic. Bücher vom Redner (Coburgo, 1830).

Brutus, seu De claris oratoribus. — Dialogo fra Cicerone, Attico e Bruto, contenente la storia critica della romana eloquenza da Giunio Bruto, Appio Claudio, Marco Curio fino ad Ortensio.

L’edizione principe, Roma Sweynheim e Pannartz. Quella di Ellend con preziosi prolegomeni (Königsberg, 1826).

5.° Orator, seu De optimo genere dicendi. — Immagine del perfetto oratore, ad istanza di Marco Bruto. Cicerone lo raccomanda dicendo: Mihi quidem sic persuadeo, me quidquid habuerim judicii de dicendo, in illum librum contulisse; e in fatti è ammirabile per purezza della dizione, perizia di appropriata fraseologia, e scorrevolezza armoniosa dei periodi.

L’edizione migliore è quella di Meyer (Lipsia, 1827). Vedi A. Burchardus, Animad. ad Cicer. Orat. (Berlino, 1815).

L’Orator, col Brutus, forma un sistema compiuto d’arte retorica.

6° Per confutare Bruto e Calvo, i quali tenevano che l’essenza del vero stile attico consistesse nell’adoperare il minor numero possibile di parole, Cicerone tradusse in latino i due più perfetti modelli della greca eloquenza, vale a dire le due orazioni di Demostene ed Eschine [p. 139 modifica]per la corona. Traduzione perduta; resta una breve prefazione, sotto il titolo De optimo genere oratorum. L’edizione principe è di Parigi, 1551.

Topica ad C. Trebatium — Veleggiando verso la Grecia l’anno 44 avanti Cristo, Cicerone compose a memoria questo trattato, e lo inviò al giureconsulto Trebazio da Reggio per fargli capire i Topici d’Aristotele. L’edizione principe credesi a Venezia circa il 1472.

8° ✠ Communes loci.

9° (Rhetoricorum ad C. Herennium, libri IV). — Esame generale di tutta l’arte retorica, con precetti per lo studioso. Alquanti brani sono citati da san Girolamo, da Prisciano, da Rufino ed altri antichi grammatici, che l’attribuiscono a Cicerone: ma la sua autenticità fu rivocata in dubbio di buon’ora da Raffaele Regio ed Angelo Decembrio, e alcuni l’ascrissero a Quinto Cornificio, altri a Marcantonio Grifone. Vedasi la prefazione di Burmann alla edizione di Leida, 1761.

L’edizione principe fu stampata col De inventione sotto il titolo di Ciceronis Rhetorica nova et vetus da Nicolò Jansson, Venezia, 1470.

B. Filosofia politica.

De republica, libri VI. — Vuol determinare la miglior forma di governo, definire i doveri di tutti i membri del corpo politico, e quai principj di giustizia e moralità devano formar la base d’ogni sano sistema politico. Non si conoscevano che la conclusione e l’episodio Somnium Scipionis, quando nel 1822 Angelo Mai scoprì in un palimsesto della biblioteca Ambrosiana di Milano una parte, poi nella Vaticana il resto del I e II libro, e frammenti degli altri. L’edizione di Creuzer e Moser (Francoforte, 1826) è la più compiuta. L’opera di Tullio non regge al paragone con quella di Platone sullo stesso argomento, neppure informa appieno della costituzione romana, e per lo più copia.

Vedi C. Wolf, Observ. crit. in M. Tull. Cic. orat. pro Scauro et pro Tullio, et librorum de Rep. fragm., 1824. — Zacharia, Staatswissenschaftliche Betracktunger über Ciceros neu auf gefunmdenes Werche vom Stadte (Heidelberg, 1823).

De legibus. — Tre dialoghi sulle sorgenti della giustizia e della virtù, con continue allegazioni delle antiche istituzioni di Roma. D’autenticità dubbia. La miglior edizione è quella di Goerenz (Lipsia, 1809). Di altri due trattati si trova qualche cenno.

•• De jure civili in artom redigendo.

4° (Epistola ad Cæsarem de ordinanda republica). [p. 140 modifica]

C. Filosofia morale.

De officiis, libri III. — Tratta del distinguere e dello scegliere fra l’onesto e l’utile. Codice di morale politica ad uso dei cittadini d’uno Stato libero, e non sistema generale di morale. Lo intitolò a suo figlio Marco, che studiava in Atene, e vi espose la condotta che dee seguire un giovane romano nell’esercizio delle funzioni pubbliche, ecc. L’opera ha carattere antropologico anzichè morale, ed è imperfetta perchè suppone i principj svolti in altri scritti, e risguarda soltanto l’istruzione pratica del figlio di Cicerone.

Fu stampata coi Paradoxa, da Faust e Schöffer a Magonza fin nel 1465 e nel 1466, in-4 piccolo. La migliora edizione è quella di Lipsia, 1820-21.

•• De virtutibus. — Doveva essere un supplemento alla precedente.

Cato major, seu De senectute. — Catone il censore, di ottantaquattro anni, confuta le quattro principali objezioni che soglionsi fare alla vecchiezza. È dei più graziosi trattati morali.

Le prime cinque edizioni furono di Colonia: delle moderne le migliori sono quelle di Gerhard e di Otho (Lipsia, 1819 e 1830).

Lælius, seu De amicitia. — Dialogo specialmente destinato alla gioventù che imprende a leggere gli scritti filosofici dei Romani, non dà la teorica compiuta dell’amicizia, ma dappertutto in modo dignitoso e persuasivo palesa animo di filosofo e d’uomo di Stato, che pensa e sente nobilmente. Forma semplice e vivace, robusta e chiara; ma scarso il nesso logico delle idee.

L’edizione principe a Colonia da Guldenschaff precede quella di Sweynheim e Pannartz del 1471. Delle moderne è lodata quella di Baier (Lipsia, 1828).

•• De gloria libri II. — Il Petrarca l’aveva, ed avendolo prestato a un amico, più nol ricuperò, e ce ne sopravanzano poche parole.

•• De consolatione seu de luctu minuendo.

D. Filosofia speculativa.

Academicorum, libri II. — Accurata narrazione dell’origine e dei progressi della filosofia Accademica, colle modificazioni introdotte dai successivi professori, per dimostrare la superiorità de’ principj della Nuova Accademia insegnati da Filone, sopra quelli della vecchia propugnati da Antioco d’Ascalona. Contiene una sposizione storica e dialettica della questione sulla realtà delle umane conoscenze, concludendo [p. 141 modifica]che la semplice probabilità dovrebbe non solo soddisfarci, ma renderci tranquilli.

Le edizioni migliori sono quelle di Goerenz (Lipsia, 1810) e di Orelli (Zurigo, 1827).

De finibus honorum et malorum, libri V. — Dialoghi dedicati a Marco Bruto, in cui sono esposte, paragonate e discusse le opinioni delle scuole greche, specialmente degli Epicurei, Stoici e Peripatetici sul bene supremo, vale a dire il finis a cui volgere tutti i nostri pensieri, desiderj ed atti. È il più perfetto degli scritti filosofici di Cicerone.

L’edizione principe in-4, senza data, credesi stampata a Colonia coi tipi di Ulrico Zeli intorno al 1467. La migliore è quella di Madwig, Copenaghen, 1839, in-8.

Tusculanarum disputationum, libri V. — Discussioni su varj punti importanti di filosofia pratica, ove espone con eleganza e chiarezza i risultati delle profonde indagini dei filosofi greci; e se talvolta si smarrisce nel labirinto delle opinioni anzichè coglier l’insieme dei sistemi e giungere all’unità, palesa però di continuo sentimenti di giustezza e nobiltà, e trasceglie con operosa sollecitudine quanto havvi d’ingegnoso e vero nei pensieri disgiunti de’ greci maestri.

L’edizione principe, Roma da Ulrico Han in-4 nel 1499; la più compiuta quella di Moser (Annover, 1826-37).

Paradoxa Stoicorum sex. — Sei paradossi favoriti degli Stoici, espressi in linguaggio famigliare, propugnati con argomenti popolari, ed occasionalmente illustrati con esempj desunti dall’istoria contemporanea. Egli dice: Illa ipsa, quæ vico in gymnasiis et in otio Stoici probant, ludens conjeci in communes locos; talchè è piuttosto un passatempo.

5 •• Hortensius, seu De philosophia. — Dialogo per raccomandare la filosofia ai Romani.

•• Timæus, seu De universo, ex Platone.

•• Protagoras, ex Platone. — Traduzioni di Platone.

E. Teosofia.

De natura Deorum, libri III. — Tre dialoghi a Marco Bruto, in cui vengono discusse le speculazioni degli Epicurei e degli Stoici sull’esistenza, gli attributi e la provvidenza di Dio. In niun altro scritto di Cicerone incontrasi maggior varietà di dottrina, maestria di lingua, grazia e leggiadria, accoppiate con lucidezza d’espressione e splendor di eloquenza. Un preteso IV libro fu pubblicato da Serafino a Bologna nel 1811. [p. 142 modifica]

De divinatione, libri II. — Continuazione o appendice dell’opera precedente, e documento pregevole per l’istoria delle idee del secolo. Cicerone vi esamina con piena libertà le pratiche divinatorie allora in uso, con stile chiaro, vivo, arguto, ingegnoso, e con un argomentare più calzante che nelle altre opere.

L’edizione principe è nella raccolta di Sweynheim e Pannartz (Roma, 1471); la migliore è quella di Creuzer, Kayser e Moser (Francoforte, 1828).

De fato, liber singularis. — Frammento di un dialogo per integrare le due opere antecedenti sulla teologia speculativa.

•• De Auguriis — Auguralia. — Pochissimo ne sappiamo.

II. — Orazioni.

Cronologia.

Pro P. Quinctio (Anno 81 av. C.)
Pro S. Roscio Amerino (80).

Pro muliere aretina e Pro Caecina (33).

Pro Q. Roscio comœdo (76).
Pro adolescentibus siculis (75).

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Quum quæstor Lilybeo decederet (74).

Pro Scamadro (74).

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Pro L. Vareno (71).

Pro M. Tullio (71).
Pro C. Mustio (70); non mai pubblicata, secondo il pseudo Asconio.
In Q. Cæcilium (70).
In Verrem actio prima (5 agosto 70).
In Verrem actio secunda; non recitata.

Pro M. Fontejo (69).
Pro A. Cæcina (69 probabilmente).

••

Pro P. Oppio (67).
Pro lege Manilia (66).

•••

Pro C. Fundanio (66).
Pro A. Cluentio Avito (66).

••

Pro C. Manilio (65).

Pro L. Corvino (65).

••

Pro C. Cornelio. Due orazioni (65).

Pro C. Calpurnio Pisone (64).

••

Oratio in toga candida (64).

••

Pro Q. Gallio (64).
[p. 143 modifica]

Orationes consulares.

In senatu (1 Gennajo 63).

2° De lege Agraria oratio prima in Senatu.
De lege Agraria oratio secunda ad popolum
De lege Agraria oratio tertia ad popolum.

••

3° De L. Roscio Othone

4° Pro C. Rabirio.

••

5° De proscriptorum liberis.

In deponenda provincia
7° In Catilinam prima oratio (8 novembre).
8°           »            secunda   »   (9 novembre).
9°           »            tertia        »
10°         »            quarta      »  (5 dicembre).
Pro Murena (63).

••

Contra concionem Q. Metelli (3 gennajo 62).
Pro P. Cornelio Sulla (62).

••

in Clodium et Curionem (61).
(Pro A. Licinio Archia) (61).
Pro Scipione Nasica (60).
Pro L. Valerio Fiacco (59).

Pro A. Minucio Thenno (difeso due volte nel 59).

Pro Ascitio (prima del 56).

Pro M. Cispio (dopo il 57).
(Post reditum in Senatu) (5 settembre 57).
(Post reditum ad Quirites) (6 o 7 settembre 57).
(Pro domo sua ad Pontifices) (29 settembre 57).
(De haruspicum responsis) (56).

Pro L. Calpurnio Pisone Bestia (11 febbraio 56).
Pro P. Sextio (marzo 56).
In Vatinium rogatio (stessa data).
Pro M. Cælio Rufo.
Pro L. Cornelio Balbo (56).
De provinciis consularibus (56).

••

De rege Alexandrino (56).
In L. Pisonem (55).

••

In A. Gabinium.
Pro C. Prancio (55).

Pro Caninio Gallo (55).
Pro C. Rabirio Postumo (54).

Pro M. Æmilio Scauro (54).

Pro Crasso in Senatu (54).

Pro Druso (54).

Pro C. Messio (54).

De Reatinorum caesa contra Interamnaetes.

••

De ære alieno Milonis interrogatio (53).
Pro T. Annio Milone (52).

Pro M. Saufejo. Due orazioni (52).

Contra T. Munatium Plancum (dicembre 52).

Pro Cornelio Dolabella (50).
(Pro M. Marcello) (47).
Pro Q. Ligario (46).
Pro rege Dejotaro (45).
De Pace in Senatu (17 marzo 44).
Sono comunemente ritenute spurie queste:
Responsio ad orationem C. Sallustii Crispi.
Oratio ad populum et ad equites antequam iret in exilium.
Epistola, seu Declamatio ad Octavianum.
Oratio adversus Valerium.
Oratio de pace.

L’edizione principe delle orazioni è probabilmente del 1471 a Roma per Sweynheim e Pannartz, sotto l’ispezione di Andrea vescovo d’Aleria. Delle moderne fanno per migliore quella di Klotz a Lipsia, 1835, con ottime introduzioni e note in tedesco.

III. — Epistolario.

Settanta lettere si suppone fossero pubblicate dopo la morte di Tullio dal suo liberto Tirone, con ampie addizioni posteriori: ora ne possediamo 864, genuine, le quali sono diposte comunemente così:

Epistolarum ad familiares, oppure Epistolarum ad diversos, libri XVI. — Lo studio degli ultimi tempi della repubblica romana non potrebbe farsi meglio che su queste Epistole, principalmente al modo che le ordinò e tradusse in tedesco C. Wieland; poi G. Schütz professore a Jena col titolo di M. T. Ciceronis epistolæ ad Atticum, ad Quintum fratrem, et quæ vulgo ad familiares dicuntur, temporis ordine dispositæ, ecc., ristampate a Milano in 12 vol. in-8, colla versione del Cesari e illustrazioni. Vedi Abeken, Cicero in seinen Briefen. Annover, 1835. Ci fanno conoscere a fondo la vita di Cicerone, e penetrare nel segreto delle convinzioni sue e de’ suoi desiderj, che depone [p. 145 modifica]con fiducia nel seno dell’amicizia. Per eleganza, gentilezza, eccellenza di dizione e purezza di stile hansi quai modelli del genere epistolare. La raccolta comprende anche alcune risposte.

Epistolarum ad T. Pomponium Atticum, libri XVI. — Meno pregevoli dal lato dello stile.

Epistolarum ad Quintum fratrem, libri III. — Son ventinove dirette al fratello Quinto, allora vice pretore in Asia; racchiudono specialmente consigli relativi all’amministrazione della provincia.

Epistolarum ad M. Brutum liber. — Diciotto lettere dopo la morte di Cesare; ne furono aggiunte altre otto, pubblicate primamente da Catandro, di genuità non ben decisa.

Le Epistolæ ad familiares furono la prima opera che uscì dai torchi di Sweynheim e Pannartz (Roma, 1467), poi le Epistolæ ad Atticum, ad M. Brutum, ad Quintum fratrem nel 1470.

IV. — Poemi.

•• Versus Homerici. Traduzioni di Omero.
Arati Phænomena.
•• Arati prognostica.
Circa due terzi dei primi, cioè più di cinquecensessanta esametri furono preservati, venzette dei secondi. Traduzione esatta, ma di poco pregio.
•• Alcyones. Capitolino (in Hord., 3) fa menzione di un poema attribuito sotto questo titolo a Marco Tullio.
Uxorius Vedi Capitolino l. c.
Nilus
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Limon. Quattro esametri di questo poema, di cui ignorasi il soggetto, sono citati da Svetonio in Terenzio, 5.
••
Marius. Un arguto frammento di tredici esametri è citato nel De divinatione, I, 47.
De rebus in consulatu gestis. Un frammento di settantotto esametri è citato nel De divinatione, I, 11-13.
••
10° De meis temporibus. Quintiliano (XI, 1, § 24) ne cita quattro versi: fra i quali i due celebri:

Cedant arma togæ, concedat laurea linguæ.
O fortunatam natam me consule Romam!

•• 11° Tamelostis. Elegia.
••
12° Libellus jocularis. Quintiliano (VIII, 6, § 73) cita una strofa arguta in quodam joculari libello di Cicerone.
13° Pontius Glaucus. D’argomento ignoto.

I frammenti poetici di Cicerone furono accuratamente pubblicati nell’edizione di tutte le opere fatta da Nobbe a Lipsia, 1827, 1 volume in-4, e con miglioramenti da Orelli (vol. IV, p. ii, 1828).

V. — Opere storiche e miscellanee.

De meis consiliis, oppure Meorum consiliorum expositio. È, secondo Asconio e sant’Agostino, una giustificazione della propria politica, quando temeva non esser eletto console a cagione degli intrighi di Crasso e Cesare. Sopravanzano poche sentenze.
De Consulatu. La sola opera veramente storica di Cicerone era un commentario sul suo consolato in lingua greca: non ce ne pervenne tampoco una parola.
De Laude Cæsaris. È citato in una lettera di Attico, IV, 5.
•••
M. Cato, seu Laus M. Catonis. Panegirico di Catone dopo la sua morte: Cesare vi rispose l’Anticato.
Laus Porciæ. Panegirico di Porzia, sorella di Catone e moglie di Lucio Domizio Enobardo.
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Œconomia, ex Xenophonte. Probabilmente parafrasi del trattato di Senofonte, adattato ai bisogni e alle usanze dei Romani.
Corographia. Altri la crede Conographia.
Admiranda. Specie di registro di fatti curiosi, citato da Plinio, Nat. Hist. XXXI, 8, 28.

È dubbio che sieno state scritte da Cicerone le opere che alcuno cita sotto i titoli seguenti:

1. De ortographia. 2. De re militari. 3. Synonyma. 4. De numerosa oratione ad Tyronem. 5. Orphaeus, seu adolescente studioso. 6. De memoria.

Note

  1. Svetonio, De claris rhet., II.
  2. A Tirone, liberto di Tullio, attribuiscono l’invenzione delle note o abbreviature stenografiche. Che Cicerone scrivesse le orazioni dopo averle recitate, lo attesta egli stesso: — An tibi irasci tum videmur, quum quid in causis acrius et vehementius dicimus? Quid! quum, jam rebus transactis et præteritis, orationes scribimus? num irati scribimus?» Tuscul., VI, 25. «Pleræque enim scribuntur orationes habitæ jam, non ut habeantur». Brutus, 24. Nei momenti d’ozio preparava introduzioni a futuri componimenti, onde gli occorse di metter la stessa a due diversi lavori. — Nunc negligentiam meam cognosce. De Gloria librum ad te misi; at in eo proæmium idem est quod in Academico tertio. Id evenit ob eam rem, quod habeo volumen proæmiorum; ex eo eligere soleo, cum aliqoud σύγγραμμα institui: itaque jam in Tusculano, qui non meminissem me abusum isto proœmio, conjeci id in eum librum, quem tibi misi. Cum autem in navi legerem Academicos, agnovi erratum meum; itaque statim novum proœmium exaravi, ecc.» Ad Attico, XVI, 6. Un’altra disattenzione sua ci occorre nel lib. V De Finibus, ove finge che gl’interlocutori trovino in Atene Papio Pisone, il quale poi nel parlare si riferisce ai discorsi tenuti antecedentemente, e ai quali non si suppone ch’egli assistesse. Le distrazioni anche dei più forbiti valgano di scusa, se non di discolpa a noi scrittorelli.
  3. Che Cicerone riponesse in ciò la finezza dell’arte, appare dal vedere come la mancanza di digressioni sia da lui presa per segno di rozzezza negli antichi, ai quali appone che «nemo delectandi gratia digredi parumper a causa posset», Brutus, 91. — Cicerone (diceva Apro nel dialogo Della corrotta eloquenza, che si attribuisce a Tacito) fu il primo a parlar regolato, a scegliere le parole e comporle con arte; tentò leggiadrie; trovò sentenze nelle orazioni che compose sull’ultimo, quando il giudizio e la pratica gli aveano fatto conoscere il meglio, perchè l’altre non mancavano di difetti antichi, proemj deboli, narrazioni prolisse; finisce e non conclude, tardi si commuove; si riscalda di rado; pochi concetti termina perfettamente e con certo splendore; non ne cavi, non ne riporti; è quasi muro forte e durevole, ma senza intonaco e lustro».
  4. «Ego quia dico aliquid aliquando, non studio adductus, sed contentione dicendi aut lacessitus; et quia, ut fit in multis, exit aliquando aliquid, si noi perfacetum, attamen fortasse non rusticum, quod quisque dixit id me dixisse dicunt». Pro Plancio.
  5. Pro Cecina; De finibus, III e I; De nat. Deorum, I; Tuscul., II.
  6. Pro Murena.
  7. De legibus, l, 5, 6; De repub., III, 17.
  8. 1, 22, 23.
  9. «Quartum quoddam genus reipublicæ maxime probandum esse sentio, quod est ex his quæ primo dixi moderatum et permixtum tribus. . . Placet esse quiddam in republica præstans et regale; esse aliud auctoritati principum partum ac tributum; esse quasdam res servatas judicio voluntatique mullitudinis». Ecco l’idea dei tre poteri, però già accennata dal pitagorico Ippodamo, poi attuata dai popoli moderni.
  10. Cicerone, Brutus, 64.
  11. Varrone, De re rustica, I, 2, 17; III, 6. Macrobio, Saturnaliorum, II, 9.
  12. Parmi questo il concetto che ragionevolmente esce dalle ampollose lodi di Marco Tullio: «Sic porro homines nostros diligunt, ut his solis neque publicanus, neque negotiator odio sit. Magistratuum autem nostrorum injurias ita multorum tulerunt, ut nunquam ante hoc tempus ad aram legum, præsidiumque vestrum publico consilio confugerint. . . . Sic a majoribus suis acceperunt, tanta populi romani in Siculos esse beneficia, ut etiam injurias nostrorum hominum perferendas putarent. In neminem civitates ante hunc (Verrem) testimonium publice dixerunt; hunc denique ipsum pertulissent si, ecc.» In Verrem, II.
  13. Ibidem.
  14. Se Cicerone riferisce il vero, i Siciliani usavano un calendario ben rozzo, giacchè, per mettere in accordo i mesi solari coi lunari, aggiungevano o toglievano uno o due giorni, facendo più breve o più lungo il mese. «Est consuetudo Siculorum, ceterorumque Græcorum quod suos dies mensesque congruere volunt, cum solis lunæque ratione, ut nonnumquam, si quid discrepet, eximant unum aliquem diem, aut summum biduum ex mense, quos illi ἐξαιρεσίμους dies nominant; item nonnumquam uno die longiorem mensem faciunt, aut biduo». Ivi.
  15. Cicerone si scusa dell’attribuire importanza a pitture e sculture. «Dicet aliquis: Quid? tu ista permagno æstimas? Ego vero ad meam rationem usumque non æstimo; verumtamen a vobis id arbitror spectari oportere, quanti hæc eorum judicio, qui studiosi sunt harum rerum, æstimentur, quanti venire soleant, ecc.» In Verrem, IV. Un libro intero della sua azione contro Verre aggirasi sui lavori di belle arti da costui rapiti; ed è prezzo dell’opera il leggerlo, sì per informarsi di tanti capi insigni, sì per conoscere le maniere con cui esso li carpì: tra questi, un Apollo ed Ercole di Mirone, un Ercole dello stesso, un Cupido di Prassitele. Nelle Memorie dell’Accademia francese di belle letture, tom. IX, Frangier inserì una dissertazione, intitolata La galleria di Verre.
  16. «Scyphos sigillatos... phaleras pulcherrime factas... attalica peripetasmata.... pulcherrimam mensam citream...»
  17. In Verrem, V, 3.
  18. Nell’orazione stessa Cicerone narra siccome, essendo pretore in Sicilia Lucio Domizio, uno schiavo uccise un cinghiale d’enorme grossezza; onde il pretore desiderò vedere quell’uomo destro e forzuto. Ma come intese che uno spiedo gli era bastato a quel colpo, non che lodarlo, ne prese tale sospetto, che il fece crocifiggere, sotto il crudele pretesto che agli schiavi era proibito usar arma qualunque. Cicerone lo racconta freddamente; e conchiude: — Ciò potrà parer severo; io non dico nè sì, nè no».
  19. Tentaverunt connubia patrum significa che anche i plebei voleano nozze legittime e riconosciute, non già, come s’interpreta vulgarmente, che aspirassero alle nozze coi nobili. Tutta la lotta de’ plebei co’ patrizj è elegantissimamente espressa da Floro col dire che i plebei volevano acquistare «nunc libertatem, nunc pudicitiam, tum natalium dignitatem, honorum decora et insigna». Egli stesso (di che lo loda Ballanche, Palingénésie sociale) scrive: «actus a Servio census quid effecit, nisi ul ipsa se nosset respublica?» È il nosce te ipsum, che il Vico dice aver Solone insegnato al vulgo attico.
  20. — Vi fanno vendere i campi di Attalo e degli Olimpeni, aggiunti al popolo romano dalle vittorie di Servilio, fortissimo uomo; poi i regj campi di Macedonia, acquistati dal valore di Flaminio e di Paolo Emilio; poi la ricca e ubertosissima campagna corintia, unita alle rendite del popolo romano dalla fortuna di Lucio Mommio; quindi i terreni della Spagna, posseduti per l’esimia virtù dei due Scipioni; poi la stessa Cartagine vecchia, che spogliata di tetti e di mura, o per notare la sciagura de’ Cartaginesi, o per testimonio della nostra vittoria, o per qualche religioso motivo, fu da Scipione Africano ad eterna memoria degli uomini consacrata. Vendute queste insegne, ornata delle quali i padri vi trasmisero la repubblica, vi faranno vendere i campi che re Mitradate possedette nella Paflagonia, nel Ponto, nella Cappadocia: e non pare che inseguano l’esercito di Pompeo coll’asta del banditore, costoro che propongono di vendere i campi stessi dov’egli or agita la guerra?» De lege agraria, I.
  21. Macrobio, Saturn. II, 10. Vedi le orazioni contro Rullo e Pisone.
  22. Se ne vantò molli anni dipoi: — Ego adolescentes fortes et bonos, sed usos ea conditione fortunæ, ut, si essent magistratus adepti, reipublicæ statum convulsuri viderentur. . . . comitiorum ratione privavi». In Pisonem, II. Quel Cicerone che aveva rinfacciato a Rullo di ratificare le usurpazioni di Silla, tre anni dopo sosteneva la legge portata dal senato che confermava i possessi Sillani, e che autorizzava a vendere le gabelle per comprare possessi a nuovi coloni (Ad Attico, I, 19); e per far grato a Pompeo, sostenne la rogazione di Flavio.
  23. — Quicumque aliarum ac senatus partium erant, conturbari rempublicam quam minus valere ipsi volebant», Sallustio, Catil. 37.
  24. Così lo fa parlare Cicerone.
  25. Sallustio attribuisce quest’accusa all’astuzia degli amici di Cicerone. — Nonnulli ficta hæc et multa præterea ab iis existimabant, qui Ciceronis invidiam leniri credebant atrocitate sceleris eorum qui pœnas dederant». Pure Dione Cassio pone espresso che si scannò uno schiavo, e proferita la formola del giuramento, Catilina la confermò prendendone in mano le viscere, e dopo lui i complici: παῖδα γὰρ τίνα καταθύσας, καὶ ἐπὶ τῶν σπλάνγχνων αὐτοῦ τὰ ὄρκια ποιήσας ἔπειτα ἐσπλάγχνευσεν αὐτὰ μετὰ τῶν ἄλλων. XXVII, 30. Niente di strano in quest’atto, derivante dalla comune credenza del potere misterioso de’ sacrifizj umani.
  26. Cicerone dà Catilina come un mostro nelle Catilinarie: ma nell’orazione pro Rufo lo imbellisce. — Voi non avete dimenticato come egli avesse, se non la realtà, l’apparenza delle maggiori virtù. Circondavasi d’una banda di perversi, ma affettavasi devoto a stimabilissime persone. Avido della dissolutezza, con non minore ardore si applicava al lavoro ed agli affari. Il fuoco delle passioni struggeva il suo cuore, ma piacevasi altrettanto delle fatiche guerresche. No, mai cred’io sia esistita al mondo una mescolanza di passioni e gusti tanto differenti e contrarj. Chi meglio di lui seppe rendersi gradito a’ personaggi più illustri? qual cittadino sostenne a volta a volta una parte più onorevole? Roma ebbe mai nemico più crudele? chi si mostrò più dissoluto nei piaceri, più paziente nelle fatiche, più avido nelle rapine, più prodigo nel largheggiare? Ma il più mirabile in costui era il suo talento d’attirarsi una turba d’amici, d’allacciarseli con compiacenza, di partecipar loro quanto possedeva, di fare a tutti servigio col proprio denaro, col credito, colle fatiche, fin col delitto e coll’audacia; di padroneggiare il suo naturale, acconciarlo a tutte le circostanze, piegarlo, raffazzonarlo in tutti i sensi; serio cogli austeri, spassone cogli allegri, grave coi vecchi, amabile coi giovani, audace cogli scellerati, dissoluto coi libertini. Mercè di questo carattere flessibile e accomodante erasi attorniato d’uomini perversi e arditi, come anche di cittadini virtuosi e fermi, colle sembianze d’una virtù affettata. ... La colpa d’essergli stato amico è comune a troppi, ed anche ad onestissimi. Io stesso fui ad un punto di restar ingannato da costui, credendolo buon cittadino, zelatore degli uomini onorevoli, amico devoto e fedele».
  27. Credo a Sallustio e a Cicerone più che a Plutarco, il quale (in Cicer. 16) gli dà trecento seguaci armati e i fasci consolari.
  28. «Illa lata, insignisque lorica». Pro Murena, 25.
  29. ξίφη δὲ, καὶ στύππεια, καὶ θεῖον, dice Plutarco; ma Cicerone non parla che di armi.
  30. Il racconto nostro dee aver mostrato le incertezze che rimangono sopra la natura e l’estensione del delitto stesso. Su quella congiura abbiamo testimonianze incidenti di molti; più estese, sebben tarde, di Appiano, Dione Cassio, Plutarco e Svetonio, che tutti recano qualche nuova particolarità; contemporanee quelle di Sallustio nella Catilinaria, e di Cicerone nelle famose arringhe. Sallustio era devoto a Cesare, e scriveva per arte più che per istudio di verità; e come avverso a Cicerone, non disfavorisce troppo Catilina, sebbene ostenti morale col disapprovarne i vizj. Cicerone è un regio procuratore, che vuole dimostrar rei gli accusati. Se ci restassero la storia del suo consolato e le lettere sue di quel tempo, ne trarremmo certo maggior lume che da passionate arringhe. Delle Catilinarie i moderni filologi impugnano l’autenticità, or di alcuna, or di tutte, scoprendone cattiva la latinità, infelice l’arte, e dichiarandole opera di retori. Gli eccessi della critica ci muovono a sdegno collo strapparci quelle ammirazioni che concepimmo fin dalle scuole: pure è forse vero che le da noi possedute non sono proprio le recitate da Tullio, quantunque si sappia ch’egli medesimo aveva introdotto nel senato gli stenografi per raccorre gli atti verbali. Ad ogni modo, tanta vi appare la cognizione de’ fatti speciali, degli usi, delle leggi, tanta la corrispondenza con altri passi di Tullio e nelle orazioni e nelle lettere, che diventa assurdo l’attribuirle a qualche frate del medioevo, o a qualche retore posteriore; resterebbe di farne merito a Tirone, il celebre liberto e secretario di Tullio: lo che, se pregiudicherebbe al concetto artistico, non diminuirebbe la loro validità storica.
    Sulla congiura di Catilina fecero riflessioni in senso diverso, oltre gli storici, Saint-Evremond, Saint-Real, Mably, Gordon, Montesquieu, La Harpe, Vauvenargues, Napoleone (Mèm. de Sainte-Hélène, 22 marzo 1816). Una buona storia ne tessè Sèrant de la Tour; e a tacere quella debole di un anonimo, una completa ne pubblicò Prospero Merimée, Études sur l’histoire romaine. Crebillon e Voltaire in Francia, Ben Johnson in Inghilterra, ne trassero soggetto di tragedia; e un dramma giocoso Giambatista Casti. Gomont, traducendo poc’anzi in francese la Catilinaria di Sallustio, si credette in dovere di protestare che non faceva allusione a fatti del 1848 e posteriori.
  31. In Pisonem.
  32. «Epistola non erubescit. Ardeo cupiditate incredibili, neque, ut ego arbitror reprehendenda, nomen ut nostrum scriptis illustretur et celebretur tuis: quod etsi mihi sæpe ostendis te esse facturum, tamen ignoscas velim huic festinationi meæ... . Non enim me solum commemoratio posteritatis ad spem immortalitatis rapit, sed etiam illa cupiditas, ut vel auctoritate testimonii tui, vel judicio benevolentiæ, vel suavitate ingenii vivi perfruamur.... Nos cupiditas incendit festinationis, ut et ceteri, viventibus nobis, ex literis tuis nos cognoscant, et nos metipsi vivi gloriola nostra perfruamur». Epistolæ ad familiares, V.
    «Res eas gessi, quarum aliquam in tuis literis et nostræ necessitudinis et reipublicæ causa gratulationem expectavi.... Quæ, cum veneris, tanto consilio tantaque animi magnitudine a me gesta esse cognoses, ut ibi multo majori quam africanus fuit, me non multo minorem quam Lælium, facile et in republica et in amicitia adjunctum esse patiare». Ivi.
    Già scrivendo contro Verre (v. 14) esclamava: — Dei immortali, qual divario di mente e d’inclinazioni fra gli uomini! Così la stima vostra e del popolo romano approvi la mia volontà o speranza, com’io ricevetti le cariche in modo da credermi legato per religione a tutti i doveri di quelle. Fatto questore, reputai essa dignità non solo attribuitami, ma affidatami. Tenni la questura in Sicilia come se tutti gli occhi credessi in me solo conversi, ed io e la questura mia stessimo s’un teatro a spettacolo di tutto il mondo, onde mi negai ogni cosa che è riputata piacevole, non solo a straordinarj appetiti, ma alla natura stessa ed al bisogno. Ora designato edile, tengo conto del quanto io abbia ricevuto dal popolo romano, e che devo fare santissimi giuochi con somma cerimonia a Cerere, a Libero e Libera; colla solennità degli spettacoli placare Flora madre al popolo e alla plebe romana; compiere colla massima dignità e religione i giuochi antichissimi, che si dicono Romani, ad onore di Giove, di Giunone, di Minerva; che mi è data a difendere la città tutta, a curare i sacri luoghi; che per la fatica e l’attenzione di queste cose sono assegnati, come frutti, un luogo antico in senato dove proferire il suo parere, la toga pretesta, la sedia curale, la giurisdizione, le immagini per conservare la memoria alla posterità».
    Thomas, parlando di Cicerone nel Saggio degli elogi, scrive: — Lodò sè medesimo anche fuor dei momenti d’entusiasmo, e ne fu biasimato: io nè lo accuso nè lo giustifico; solo osserverò, che quanto più in un popolo la vanità supera l’orgoglio, più esso tien conto dell’arte importante d’adulare e d’essere adulato, più s’ingegna a farsi stimare con mezzi piccoli in mancanza di grandi, si sente ferito persino dall’altera franchezza e dalla schiettezza naturale d’un animo che conosce la propria lealtà e non teme di menarne vanto. Ho veduto alcuno stomacarsi perchè Montesquieu osò dire Son pittore anch’io: oggi anche l’uomo più guasto, anche nell’atto di concedere la sua stima, vuol conservare il diritto di ricusarla. Fra gli antichi la libertà repubblicana concedeva maggior energia ai sentimenti, e più libera franchezza al discorso; quest’infiacchimento del carattere, che si chiama gentilezza, e che tanto teme di ledere l’amor proprio, cioè la debolezza incerta e vana, era allora men comune; si aspirava mentosto ad esser modesti che grandi. La debolezza conceda pure qualche volta alla forza di conoscere sè stessa; e se ci è possibile, consentiamo ad avere uomini grandi anche a questo prezzo».
  33. Ap. Quintiliano, Instit. IV.
  34. Oltre le lettere, vedi l’orazione pro Plancio, 40.
  35. Le lettere sue ridondano di fiacchi lamenti. — Mi struggo di doglia, Terenzia mia. Io son più misero di te miserissima, perchè, oltre la sciagura comune, mi pesa la colpa. Mio dovere sarebbe stato o colla legazione evitare il pericolo, o colla diligenza e gli armati resistere e cadere da forte. Nulla poteva esser più misero, più turpe, più indegno di questo.... Dì e notte mi sta innanzi la vostra desolazione.... Molti sono nemici, invidiosi quasi tutti. Vi scrivo di rado, perchè, se sono accorato in ogni tempo, quando vi scrivo o leggo lettere vostre vo lutto in lagrime, che non posso reggere. Oh fossi stato men cupido della vita! oh me perduto! oh me desolato! Che ne sarà di Tullietta? pensateci voi, ch’io più non ho testa.... Non posso dire di più, perchè mi impedisce l’angoscia». Onde Asinio Pollione (ap. Seneca) diceva: — Omnium adversorum nihil, ut viro dignum est, tulit præter mortem»: ma soggiunse; «Si quis tamen virtutibus vitia pensarit, vir magnus, acer, memorabilis fuit, et in cujus laudes oratione prosequendas Cicerone laudatore opus fuerit».
  36. Pro Sextio.
  37. Pro lege Manilia.
  38. Cicerone ad Qaintum fratrem, 5, ad Fam., I, 5.
  39. Diæta curare incipio; chirurgiæ tædet.
  40. Ad Attico (IV, 3) scriveva: — Clodio sarà da Milone accusato, se pure in prima non lo ammazzi. Io me la vedo che Milone, scontrandolo per istrada, lo ammazzerà: lo dice aperto».
  41. Dei senatori dodici condannarono, e sei assolsero; dei cavalieri tredici condannarono, e quattro assolsero; degli erarj quattro assolsero, e dieci condannarono: onde in quel giudizio l’aristocrazia aveva trentacinque voti sopra quarantadue.
  42. Roma sotto gl’imperatori. Londra, 1856.
  43. Ad Attico, VIII, 7, 10.
  44. «Adhuc in hac sum sententia, nihil ut faciamus nisi quod maxime Cæsar velle videatur». Epist. lib. IV ad Sulpicium. «Admirari soleo gravitatem et justitiam et sapientiam Cæsaris. Nunquam nisi honorificentissime Pompejum appellat, At in ejus personam multa fecit asperius. Armorum ista et victoriæ sunt facta non Caesaris. At nos quemadmodum complexus! Cassium sibi legavit, Brutum Galliæ præfecit, Sulpicium Græciæ, Marcellum, cui maxime succensebat, cum summa illius dignitate restituit, etc.» Lib. VI ad Cæcinam. — L’orazione pro Marcello pare o non sua o men degna di lui.
  45. Nelle feste lupercali, Antonio pose in testa a Cesare una corona da re, quasi esperimento del fin dove arrivasse la tolleranza del popolo. Questo susurrò; e Cesare fece atto di respingerla, e venne applaudito.
  46. Così press’a poco Hollings, The Life of Cicero, Londra, 1839. Mommsen mostra il più gran disprezzo per Cicerone, paragonandolo a un gazzettiere, e non riconoscendolo che come uno stilista.
  47. «Non multi cibi hospitem, sed multi joci». Ad Famil. IX, 26.
  48. Philipp. II, 32.
  49. Cicerone, pro Cluentio. Egli riconosceva non l’iniquità, ma la falsità delle deposizioni estorte colla tortura: «Illa tormenta gubernat dolor, moderatur natura cujusque tum animi tum corporis, regit quæsitor, flectit libido, corrumpit spes infirmat metus, ut, in tot rerum angustiis, nihil veritati loci relinquatur».
  50. Cicerone per Flacco dice: «Huic misero puero vestro, ac liberorum vestrorum supplici, judices, hoc judicio vivendi præcepta dabitis.... qui vos, quoniam est id ætatis, ut sensum jam percipere possit mærore patrio, auxilium nondum patri ferre possit, oret ne suum luctum patris lacrymis, patris mærorem suo fletu augeatis: qui etiam me intuetur, me vultu appellat, meam quodammodo flens fidem implorat.... Miseremini familiæ, judices; miseremini patris, miseremini filii; nomen clarissimum et fortissimum, vel generis vel vetustatis vel hominis causa reipublicæ reservate».
    Per Plancio: «Quid enim possum aliud nisi mœrere? nisi flere? nisi te cum mea salute complecti? Huc exurge tamen, quæso: retinebo et complectar, nec me solum deprecatorem fortunarum tuarum, sed comitem sociumque profìtebor..... Nolite, judices, per vos, per fortunas vestras, per liberos, inimicis meis dare lætitiam.... nolite animum meum debilitare cum luctu, tum etiam metu commutatæ vestræ voluntatis erga me.... Plura ne dicam, tuæ me etiam lacrymæ impediunt, vestræque, judices, non solum meæ».
    E per Milone: «Quid restat, nisi ut orem obtesterque vos judices, ut eam misericordiam tribuatis fortissimo viro, quam ipse non implorat, ego autem, repugnante hoc, et imploro et exposco? Nolite, si in nostro omnium fletu nullam lacrymam adspexistis Milonis, si vultum semper eundem, si vocem, si orationem stabilem ac non mutatam videtis, hoc minus ei parcere».
    Queste mozioni d’affetti erano il forte di Marco Tullio; e quando fra molti componessero un’arringa, sempre a lui lasciavano la perorazione e il patetico.
  51. Vedi l’orazione pro Cecina.
  52. Macrobio (Saturnal. II, 3) ha un capitolo intero de jocis M. T. Ciceronis, donde appare che gli era reso pan per focaccia.
  53. «Ac nimirum rei militaris virtus præstat ceteris omnibus. Hæc nomen populo romano, hæc huic urbi æternam gloriam peperit, hæc orbem terrarum parere huic imperio coegit; omnes urbanæ res, omnia hæc nostra præclara studia, et hæc forensis laus et industria latent in tutela ac præsidio bellicæ virtutis.... Qui potest dubitare quin, ad consulatum adipiscendum multo plus afferat dignitatis rei militaris, quam juris civilis gloria?» Pro Muræna.
    Ogniqualvolta però cito un’opinione di Cicerone, son quasi sicuro di trovare la precisa opposta in altri suoi scritti, tanto egli è indeterminato e vago. Il capo 21 De officiis prova «longe fortius esse in rebus civilibus excellere, quam in bellicis».
  54. Philipp. II, 9; V, 6; Ad Quirites post reditum. — Lapidationem persæpe vidimus: non ita sæpe, sed nimium tamen sæpe gladios ». Pro Sextio, 36. — Cum quis audiat nullum facinus, nullam audaciam, nulla vim in judicium vocari....» è l’argomento dell’esordio pro Cælio. E nella perorazione: «Oro obtestorque vos, ut, qua in civitate Sextus Clodius absolutus sit, quem vos per biennium aut ministrum seditionis aut ducem vidistis.... in ea civitate ne patiamini illum absolutum muliebri gratia, Marcum Cœlium libidine muliebri condemnatum....»
  55. «Nostris vitiis, non casu aliquo, rempublicam verbo retinemus, re ipsa jampridem amisimus». De rep. V, 1.
  56. Sono ottocensessantaquattro lettere; più di novanta scritte da altri. Quelle ad Attico precedono il consolato di Cicerone; le altre vanno dal 692 sino a quattro mesi prima della morte di lui. Alcune sono vergate coll’intenzione che andassero attorno, e specialmente la lunga al fratello Quinto, dove espone la propria amministrazione proconsolare dell’Asia minore.
    È noto che molte opere degli antichi perirono allorchè, incarendosi pel chiuso Egitto la carta, si rase la primitiva scrittura per sovrapporne una nuova. Si suol dare colpa ai frati di questo artifizio; eppure Cicerone convince che fino a’ suoi tempi si praticava. — Ut ad epistolas tuas redeam, cætera belle; nam quod in palimpsesto, laudo equidem parcimoniam; sed miror quid in illa chartula fuerit, quod delere malueris quam excribere, nisi forte tuas formulas; non enim puto te meas epistolas delere, ut deponas tuas. An hoc significas nil fieri? frigere te? ne chartam quidem tibi suppeditare?» Ad fam. VII, 18.
    Ne appare anche il nessun rispetto al secreto delle lettere, e quanto poco si distinguessero i caratteri. Cicerone incarica Attico di scrivere in vece sua. — Tu velim et Basilio, et quibus præterea videbitur, conscribas nomine meo. XI, 5; XII, 19. Quod literas, quibus putas opus esse curas dandas, facis commode». XI, 7; e così 8, 12 e spesso. Talvolta accenna di scrivere di proprio pugno, quasi il suo più grande amico non potesse riconoscerlo: Hoc manu mea, XIII, 28. Altrove dice allo stesso: — Ho creduto riconoscere la mano d’Alessi nella tua lettera» (XV, 15); e Alessi era il solito scrivano di Attico. Bruto dal campo di Vercelli scrive a Cicerone: — Leggi le lettere che spedisco al senato, e, se ti pare, cambiavi pure». Ad fam. XI, 19. Un capitano che dà arbitrio all’amico di alterare un dispaccio offiziale! Cicerone stesso apre la lettera di Quinto fratello, credendo trovarvi grandi arcani, e la fa avere ad Attico dicendogli: — Mandala alla sua destinazione: è aperta, ma niente di male, giacchè credo che Pomponia tua sorella abbia il suggello di esso».
    Da ciò la grande importanza data al suggello, ancor più che alla firma. In fatti la scrittura, oltre essere tanto somigliante perchè unciale, poteva facilmente falsificarsi o sulle tavolette di cera o sulla cartapecora. Pertanto succedeva spesso di fare interi testamenti falsi, come appare nel Codice Giustinianeo De lege Cornelia de falsis, lib. IX, tit. 22.
  57. Quibusdam, et iis quidem non admodum indoctis, totum hoc displicet philosophari», Cicerone, De finib. I, 1. — Vereor ne quibusdam bonis viris philosophia nomen sit invisum». De off. II, 1. — Reliqui, etiamsi hæc non improbent, tamen earum rerum disputationem principibus civitalis non ita decoram putant». Acad Quœst. II, 2. Si può consultare Ritter e L. Preller, Historia philosophiæ græcæ et romanæ ex fontium locis. Gota, 1863, ediz. III.
  58. Cicerone, De finib. IV, 28 e 9; Acad. Quœst. II, 14.
  59. Cicerone, Topica Quœst. I.
  60. Gli odierni eterogenisti vedano come Lucrezio professasse la loro dottrina:

                        «Ex insensibilibus tamen omnia confiteare
                        Principiis constare....
                        Ex insensibilibus, quod dico, ammalia gigni
                        Quippe videre licet vivos existere vermes
                        Stercore de tetro».

  61. «Multi jam esse Ialini libri dicuntur, scripti inconsiderate ab optimis illis quidem viris, sed non satis eruditis. Fieri autem potest ut recte quis sentiat, sed id quod sentit, polite eloqui non possit.... Philosophiam multis locis inchoasti (o Varro) ad impellendum satis, ad edocendum parum» . Cicerone, Acad. Quœst. I. Tra i filosofi latini non vogliamo preterire Corellia, lodata da Cicerone come «miriphice studio philosophiæ flagrans», e da lui amata troppo, se crediamo a Dione, lib. XLVI.
  62. «Philosophia illustranda et excitanda nobis est, ut, si occupati profuimus aliquid civibus nostris, prosimus etiam, si possumus, otiosi» . Tusc.
  63. «Sic parati ut.... nullum philosophiæ locum esse pateremur, qui non latinis literis illustratus pateret». De divin. II, 2. Nel proemio delle Tusculane professa dolergli che molte opere latine siano scritte neglettamente da valenti uomini, e che molti i quali pensano bene, non sappiano poi disporre elegantemente: il che è abusare del tempo e della parola. Negli Uffizj raccomanda a suo figlio di leggere le sue filosofiche discussioni: — Quanto al fondo, pensa quel che ne vuoi; ma tal lettura non potrà che darti uno stile più fluido e ricco. Umiltà a parte, io la cedo a molti in fatto di scienza filosofica, ma per quel che sia d’oratore, cioè la nettezza e l’eleganza dello stile, io consumai la vita intorno a quest’abilità, onde non fo che usare un mio diritto col reclamarne l’onore».
  64. «Ἀπόγραφα sunt, minore labore fiunt; verba tantum affero, quibus abundo». Ad Attico, XII, 52.
  65. «Ne in maximis quidem rebus quidquam adhuc inveni firmius, quod tenerem aut quo judicium meum dirigere, quam id quodcumque mihi quam simillimum veri videretur, cum illud ipsum verum in occulto lateret». In fine dell’Oratore.
  66. Tuscul. V, 7.
  67. «Turbatricem omnium rerum Academiam.... Si invaserit in hæc, nimias edet urinas, quam ego placare cupio, submovere non audeo». De leg. I, 13.
  68. La conchiusione del trattato sulla Natura degli Dei è: «Ita discessimus ut Vellejo Cottæ disputatio verior, mihi Balbi ad veritatis similitudinem videretur esse propensior».
  69. «Sæpissime et legi et audivi, nihil mali esse in morte, in qua si resideat sensus, immortalitas illa potius quam mors ducenda est; sin sit amissus, nulla videri miseria debeat quæ non sentiatur». Ad fam. V, 16. — Una ratio videtur, quidquid evenerit ferre moderate, præisertiæ cum omnium rerum mors sit extremum» . Ivi, VI, 2. — «Sed de illa.... sors viderit, aut siquis est qui curet Deus». Ad Attico, IV, 10. Poi in piena udienza (pro Cluentio, 61) diceva: — Si quid animi ac virtutis habuisset, mortem sibi conscisset. Nam nunc quidem quid tandem illi mali mors attulit? nisi forte fabulis ac ineptiis ducimur, ut existimemus illum apud inferos impiorum supplicia perferre.... Quæ si falsa sunt, id quod omnes intelligunt, quid ei tandem aliud mors eripuit præter sensum doloris?» Pro Rabirio dice il preciso opposto.
  70. Lo mette in bocca a Cotta: «Omnes mortales sic habent, externas commoditates a Diis se habere: virtutem autem nemo unquam accepium Deo retulit. Num quis quod bonus vir esset, gratias Diis egit nunquam?» De nat Deorim. E Orazio, Ep. I, 18:

                   Hæc salis est orare Jovem quæ ponit et aufert:
                   Det vitam, det opes: æquum mi animum ipse parabo.

    Questo sottrarre a Giove la direzione delle coscienze trovasi pure nel devoto Tito Livio, che fa dire a Scipione (XXXVII, 45): — Romani ex iis, quæ in Deum immortalium potestate erant, ea habemus quæ Dii dederunt: animos, qui nostræ mentis sunt, eosdem in omni fortuna gessimus gerimusque».
    Pure dai poeti stessi potrebbero trarsi nobilissimi concetti della divinità; che mostrerebbero come la tradizione primitiva non fosse spenta. Il Dio retributore anche delle azioni individuali è dipinto da Plauto nel prologo del Rudens.

                   Qui falsas lites falsis testimoniis
                   Petunt, quique in jure abjurant pecuniam,
                   Eorum referimus nomina, excripta ad Jovem.
                   Cotidie ille scit quis hic quærat malum....
                   Iterum ille eam rem judicatam judicat....
                   Bonos in aliis tabulis excriptos habet, ec.».

  71. «Mortem ærumnarum requiem esse: eam cuncta mortalium mala dissolvere: ultra neque curæ, neque gaudio locum esse». Sallustio, Catil. 49.
  72. Naturæ hist. XVIII, 2.
  73.                Ergo Quinctilium
                   Perpetuus urget sopor.

  74. «Te maris et terræ numeroque carentis arenæ Mensorem....»
  75. «Plebei philosophi, qui a Platone et Socrate et ab ea familia dissident appellandi videntur». Tuscul. I, 22.
  76. «Quid est igitur bonum? Si quid recte fit et honestum et cum virtute, id bene fieri vere dicitur: et quod rectum et honestum et cum virtute est, id solum opinor beatum». Paradox. I. È un paralogismo.
  77. «Quæ in nostris rebus non satis honeste, in amicorum fide honestissime, ut etiam si qua fortuna acciderit, ut minus juste amicorum voluntates adjuvandæ sint, in quibus eorum aut caput agatur aut fama, declinandum sit de via, modo ne summa turpitudo sequatur». De Amicitia, 16, 17.
  78. «Natura propensi sumus ad diligendos homines, quod fundamentum juris est». De leg. I, 13. — Studiis officiisque scientiæ præponenda sunt officia justitiæ, quæ pertinent ad hominum caritatem, qua nihil homini debet esse antiquius». De off. I, 43. — Quid est melius aut quid præstantius bonitate et beneficentia?» De nat. Deorum, I, 43.
  79. De off. II, 18, 16.
  80. «Quum se non unius circumdatum manibus loci, sed civem totius mundi quasi unius urbis agnoverit». De leg. I, 23. — Qui autem civium rationem dicunt habendam, externorum negant, ii dirimunt communem humani generis societatem: qua sublata, beneficentia, liberalitas, bonitas et justitia funditus tolluntur». De off. III, 6.
    «Est autem non modo ejus qui servis, qui mulis pecudibus præsit, eorum quibus praesit commodis utilitatique servire». Ad Quintum, I, 1, 8; e più generosamente De off. I, 13: «Est infima conditio et fortuna servorum: quibus non male præcipiunt qui ita jubent uti ut mercenariis; operam exigendam, justa præbenda».
  81. «Ita sequi virtutem debemus, ut valetudinem non in postremis ponamus. Temporibus assentiri sapientis est. In navigando tempestati obsequi artis est».
  82. «Bellum ita suscipiatur, ut nihil aliud pax quæsita videatur.... Suscipienda sunt bella ob eam causam, ut sine injuria in pace vivatur». De offic., e vedi I, 23.
  83. De repub. III. — De off. II.
  84. Pro Sextio.