Dante

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Prefazione Cicerone
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I. Il medioevo — II. Risorgimento degli studj — III. e delle arti belle — IV. Dante. L’amore — V. Sua attività civile. L’esiglio — VI. Il poema — VII. Grandiosità del suo concetto — VIII. La forma — IX. Come ritrae i tempi — X. Sua religione — XI. La Chiesa è l’Impero — XII. Della Monarchia — XIII. Dell’unità d’Italia — XIV. Il Vulgare Eloquio — XV. Paragone col Petrarca.


I.


Che ogni lume di scienze e di lettere fosse spento nel medioevo è uno de’ tanti pregiudizj d’una storia, che, ancor più leggera che ingiusta, avvezza a guardar solo al lato triviale delle cose grandi e al debole delle potenti, non è capace di valutare un’età, media fra un passato non più possibile e un avvenire non possibile ancora, e che si spiega meno colla ragione che colla fede.

Sfasciatosi l’organamento pagano dinanzi alla predicazione dei nuovi dogmi, parve tutto finisse, e tutto invece si ricomponeva; periva una società, ma per dar vita a un’altra. La soperchiante idea dello Stato, per la quale l’uomo non era valutato se non in quanto cittadino, era stata distrutta dal cristianesimo, che, col discernere le due podestà, avea resa impossibile quella tirannia completa, che impone anche alle coscienze. La Chiesa, sempre meglio sceverando i cattivi elementi della conquista, li santificava e inciviliva; destituita di forze materiali per distruggere i fatti maligni, ve ne poneva accanto dei buoni; propagava le dottrine, imponeva la morale, consacrava l’eguaglianza, redimeva gli schiavi, intimava anche ai sommi la verità, elevava la scienza a virtù: cercava insomma la santificazione della società. Nella sua attuazione esterna poi si costituì in repubblica, dove nessun posto era ereditario, neppure il supremo: [p. 2 modifica]nulla si risolveva se non in sinodi e concistori, le cui decisioni non ebbero mai bisogno d’esser cambiate in alcun punto essenziale, perchè fondavansi sul vangelo e sulla morale eterna.

Al papa era attribuita la direzione suprema della Chiesa, e per conseguenza la missione di tutelare la fede minacciata, e a tal uopo manteneva l’unione tra i fedeli. Così potè effettuare le Crociate, l’epopea maggiore che la Cristianità tutta insieme assumesse per un’idea; e che valse a respingere dall’Europa la mezzaluna, cioè gli eunuchi, gli harem e la illimitata potestà d’un despota, che unisce il potere spirituale e il temporale nella bifida scimitarra. Impresa di convinzione popolare, impresa espiatrice, dove la nobiltà si trovò occupata, le plebi elevate, la fraternità diffusa, l’industria avvivata, cresciute le cognizioni con esempj e comunicazioni di civiltà, e a guerrieri baldanzosi data la disciplina di monaci.

Questo fermento di dissoluzione e di ricomposizione avveniva tra spaventose traversie, all’irrompere di orde barbariche non solo, ma d’intere popolazioni, le quali, dall’occidente asiatico o dal settentrione europeo avventatesi sulle nazioni civili, devastando a vicenda ed occupando i paesi e il nostro, spodestavano i natii, riducendoli a plebe senza diritti, su cui essi, col nome di feudatarj o baroni o nobili, carpirono i privilegi, il dominio, i possessi, e s’intitolarono nazione.

Accanto alla fede in un Dio solo creatore rimuneratore piantavasi dunque la forza, con quest’altro dogma, che dal possesso territoriale emani ogni potenza, ogni diritto, non v’abbia terra senza un signore, e il padrone abbia pure giurisdizione dove ha possesso. I due dogmi, nella Chiesa e nella feudalità, si svolsero in gerarchia. Al sommo dell’una è il papa, primo tra i vescovi; dell’altra il re, primo tra i capitani; in questo forza, comando, guerrieri; in quello esortazione, preghiera, convinzione. La Chiesa, fondata s’un’autorità soprumana e sulla fede del popolo, prevaleva, e alla monarchia concedeva la sua consacrazione. Oltre custode e dispensiera della verità, la Chiesa era dunque depositaria anche del potere, secondo l’oracolo Ogni podestà è da Dio: per lui regnano i re. Non si nominavano questi perchè nati da principi, ma perchè più meritevoli, e perchè ricevevano la consacrazione, nella quale impegnandosi ad obblighi speciali, sottintendeano l’obbligo generale di osservare la legge di Dio.

Ne seguì un’età, zotica d’atti, cruda di parole, stranamente [p. 3 modifica]ingenua e scortesemente franca nell’espressione; con perpetui contrapposti di rusticità e gentilezza, di ferocia e santità; un irregolato sviluppo della personalità, sottraentesi alle classificazioni della statistica; un procedere non per teoriche ma per fatti: laonde i pedanti moderni la chiamano barbara, come barbaro fu da Voltaire sentenziato Dante che la ritrasse. Ma per giudicarla rettamente bisognerebbe esser vissuti in essa; per condannarla bisognerebbe non doverle nulla, mentre da essa deriva quanto abbiamo e siamo.

Appunto per lo sfasciamento degli ordini civili, ciascuno esercitava intere e piene le proprie facoltà, nulla aspettando dal Governo, neppur la tutela. La feudalità portava l’indipendenza de’ singoli, stretti solo da promesse e giuramenti; donde un’aria di lealtà, con forme servili ma spirito ardito fin all’audacia e libertà trascorrente alla violenza, non corretta da riguardi, da consuetudini, da educazione: come dei forti ciascuno colla propria spada, o dal proprio castello, coi proprj villani signoreggiava, difendeasi, opprimeva, così de’ pensanti ciascuno di per sè davasi alla ricerca del vero, all’attuazione del buono; la società proponeasi per iscopo la virtù, come oggi si propone il ben essere; all’idea morale, alla salute dell’anima guardavano fino i più maligni e i più atroci; riconoscevasi il peccato anche commettendolo, e nasceva il bisogno d’espiarlo avanti alla giustizia divina, quando la umana non valeva a prevenirlo o punirlo. Anime straziate dalla coscienza, persone disonorate eppure avide di stima e d’onore, sottometteansi a rigide penitenze, a pellegrinaggi disastrosi, fondavano monasteri o spedali, struggevansi di rimorsi somiglianti a virtù.


II.


Nè la tradizione della scienza era perita; alcuni pochi non solo conservarono quanto gli antichi aveano saputo, ma lo accrebbero. Massimamente dopo il milleducento si videro ampliarsi le scienze e rinnovarsi le arti belle e le lettere, del cui risorgimento sol la storia convenzionale può dar merito ai poveri pedanti, fuggiaschi dalla soggiogata Grecia. Il trivio (grammatica, storia, dialettica) e il quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, metafisica) occupavano le Università, ove Dante, come altri uomini già maturi, andavano a raccogliere non precetti elementari, ma le sublimità delle dottrine [p. 4 modifica]dalla bocca di insigni. Al maggior filosofo e teologo del medioevo, dottor angelico (Tommaso d’Aquino), faceano corteggio il dottor sottile (Duncano Scoto), il dottor serafico (san Bonaventura); Enrico di Gand ravvivava l’ipotesi platonica delle idee archetipe (1295); Egidio Colonna dottor fondatissimo (1316), col libro De regimine principum preparava il modello a Giovanni Bodino, che fu modello di Montesquieu. Pietro d’Abano toglieva a conciliar le due scuole mediche dell’umidità e del seccore, oggi diremmo dello stimolo e del controstimolo, Taddeo d’Alderotto, Simon di Cordo, Lanfranco di Milano, Cecco d’Ascoli, associavano la filosofia alla medicina: l’alchimia e l’astrologia trascendeano i confini del mondo visibile per rintracciare forze occulte, interrogare le stelle, «rompere anche alla morte il telo» mediante l’elisir. La dialettica, affaticatasi nelle arguzie della scolastica, feudalità del pensiero, entro il vasto campo che all’argomentazione era lasciato dalla fede, si spinse fino all’arte combinatoria di Raimondo Lullo; ma dall’alchimia e dalla cabala tornavasi alle vie dell’esperienza «ch’esser suol fonte ai rivi di nostre arti»: e frà Ruggero Bacone, dottor ammirabile, dalle categorie logiche richiamava la spiegazione de’ fenomeni fisici all’osservazione e allo sperimento: Basilio Valentino, Brandt, Glauber, Arnaldo di Villanuova, Michele Scoto dalle scienze occulte traevano lumi di scienza positiva: Fibonacci introduceva le cifre arabiche: il novarese Campano commentava Euclide.

Dacchè la ragione, l’autorità, l’intuizione, l’esperienza possedeano ciascuna un gran dottore in Alberto Magno, Tommaso, Bonaventura, Bacone, sentivasi il bisogno di ricongiungere questi quattro cammini della verità, e Vincenzo di Beauvais (1264) compose una specie d’enciclopedia, a cui tenne dietro il Tesoro di quel Brunetto Latini, il quale a Dante insegnava «ad ora ad ora come l’uomo s’eterna».

L’arabo e l’ebraico studiavansi al pari del greco; diffondeasi il culto della poesia latina: la tedesca esultava nei canti de’ Minnesingeri, e già l’aveano portata a somma altezza Enrico di Waldeck, Walter di Vogelweide, Wolfram d’Eschenbach, che Göthe dichiarò il più gran poeta germanico: Enrico di Ofterdingen avea già composto il poema dei Niebelungen, che, colla Gudruna furono qualificati l’Iliade e l’Odissea tedesca.

Questi paragoni sono di trattatisti più tardi, mentre carattere di tali produzioni è il non connettersi punto colle classiche. Nè vi [p. 5 modifica]s’atteneano i componimenti nelle lingue romanze di oc e d’oil, nelle quali già i Trovadori avevano cantato «rime d’amor dolci e leggiadre»; dal 1260 al 1300 era comparso il Romanzo della Rosa, fra i tanti altri che or la dotta curiosità richiama in luce; nella Spagna celebravansi in canzoni di variatissima unità le imprese del Sid Campeador; sei poemi componeva il canonico Berceo (1268); l’Amadigi diveniva comune, come le migliaja di romanze. L’Italia, dopo gli arcaici, ricreavasi ai versi della Nina Sicula, di Guido Guinicelli, di Guido Cavalcanti, che si tolser l’uno all’altro il primato, e che tutti doveano cederlo a Dante.

Staccatasi dai classici, l’immaginazione aveva preso due corsi: delle idee religiose e delle cavalleresche: dalle prime era venuta una serie di leggende, applicate a personaggi di tempi diversissimi, e che costituivano una mitologia cristiana, tanto men bella della gentilesca quanto più morale ed efficace, e cui forma erano l’allegoria e la visione. La cavalleria, portata in Europa colle crociate ed avvivata dall’alito di queste, aveva generato tutte quelle prodezze degli eroi della Tavola Rotonda e de’ paladini di Carlo Magno, oppure vestito alla moderna i commilitoni d’Alessandro Macedone, e inventato geneologie delle Case dominanti e principalmente de’ Reali di Francia. In questi predominavano la satira e il grottesco, fosse col narrar imprese ridicole, fosse coll’esagerare le eroiche ed esporle sogghignando. Solo la forma metrica fa collocare colle poesie certe narrazioni storiche sprovvedute di fantasia.

Anche i tanti fabliaux e poemi e romanzi in francese, in tedesco, in provenzale, in italiano, erano rozzi di apparenza e scempi di concetto, istintivi piuttosto che d’arte.

Il sentimento individuale esprimevasi nella lirica, tutta o di devozione o d’amore. Ma se questo fra Provenzali e Francesi teneva forma leggera e spensata, in Italia ben presto la assunse colta, divenne platonico e metafisico, tanto che fu mestieri di commenti alle canzoni amorose. Il sentimento e la bellezza ne scapitavano; ma faticando ad esprimere quelle idee o ad analizzarle, la lingua prendeva ampiezza e vigore.

Colla poesia ricompariva la storia, giacché qualcosa meglio che cronisti sono l’ingenuo Joinville (1317), il Villehardonin, il veneto Da Canale in francese; e tra noi il robusto Gaufrido Malaterra, il ghibellino Jamsilla, Ugo Falcando detto il Tacito siciliano, il [p. 6 modifica]maestoso Andrea Dandolo, Rolandino e Albertino Mussato padovani; e dopo il forse non autentico Matteo Spinelli da Giovenazzo che narrò i fatti patrj dal 1247 al 68, e Ricordano Malaspini quei di Firenze dal 1200, dettava in bell’italiano Dino Compagni, contemporaneo mal negato del nostro Alighieri e vicinissimo a Giovan Villani.


III.


Insieme avevano preso il volo le belle arti, dalla musica cui Guido d’Arezzo avea dato la scrittura, alla edificatoria che spiegavasi prima ne’ chiostri e nelle basiliche, poi ne’ palazzi de’ Comuni, colle società de’ Franchimuratori e colle devote aspirazioni de’ costruttori del triplice tempio d’Assisi. Marchione d’Arezzo ergeva la pieve della sua patria (1216); Lorenzo Montani il meraviglioso duomo d’Orvieto (1290), palestra ai migliori pennelli e scalpelli di quel secolo; ed ecco la facciata di quel di Siena (1284), e Santa Maria de’ Servi ad Arezzo, e Or San Michele a Firenze, e ’l duomo di Perugia poco dopo; e subito il campanile di Pistoja. San Martino di Lucca era restaurato (1308), come il duomo di Prato (1312) e San Martino di Pisa (1332); Arnolfo di Cambio da Colle (1311) piantava a Firenze il Palazzo Vecchio, Santa Maria del Fiore e Santa Croce; alcuni monaci Santa Maria Novella, e così Santa Chiara a Napoli, Santa Maria sopra Minerva a Roma: e il ricinto ove i Pisani voleano esser sepolti in patria, ma entro terra di Palestina.

Nè in Italia soltanto. Già erano avanzati il duomo di Colonia (1248) e le cattedrali di Ulma (1277) e di Spira, e quella di Strasburgo, vanto di Ervino di Steinbach; in Francia la Santa Cappella ricopriva di finissimi lavori le reliquie che san Luigi avea raccolte in Oriente: la cattedrale d’Amiens era finita nel 1288; poi Nostra Donna di Parigi, e il duomo di Reims, e Sant’Ovano di Rouen. Aggiungete gli insuperabili monumenti d’Inghilterra, e non farò che accennare le meraviglie moresche della Spagna, e l’innesto di queste col normando nella Sicilia. Qui pure l’originalità non era ancora soffogata dall’imitazione, nè il raffinamento materiale prevaleva alle idee e al sentimento; e il secolo nostro, impotente a creare, vantossi novatore quando si rimise alla loro imitazione.

I marmi erano intanto effigiati insignemente da’ Pisani, da’ Senesi, dai Masegni, dagli Arnolfi; nei quadri abbandonavansi le secchezze [p. 7 modifica]bisantine e il convenzionale jeratico per accostarsi al vero senza cader nel naturalismo; e Margaritone, Buffalmacco, Cimabue (1240-1310) ancor prima di Giotto (- 1337) esprimevano caratteri con dignità e vita, mentre il bisogno di effigiare o i magistrati benemeriti o i ribelli infamati, e gli stemmi, e i santi nuovi, obbligava anche i pittori dozzinali a non più rinchiudersi nei tipi, ma presentare la verità e l’individualità.

L’amore dell’arte si estendeva dal volgo sino ai principi. Margaritone non crede ricompensar meglio Farinata che donandogli un suo Crocifisso: i Pisani cedeano qualche città in Asia all’imperatore Calojanni purchè sovvenisse a fabbricar il loro arcivescovado e la cattedrale di Palermo: ai priori di Firenze è permesso, contro lo statuto, uscire di palazzo per andar ad ammirare le porte del mio bel San Giovanni, fuse da Andrea di Pisa; quando Carlo d’Anjou è invitato a vedere il quadro che Cimabue stava finendo, tanto n’esulta tutta Firenze che a quella via resta il nome di Borgo Allegri, e poichè fu compìto lo portarono in chiesa con solennissima processione.

Non era dunque l’Europa d’allora un gran deserto, una cupa notte, nella quale splendesse solo il nostro poeta. Nessuno ancora avrebbe pensato separarsi dalla ragione umana per trovare in sè solo la legge suprema dell’ordine fisico e morale dell’umanità; pure lo spirito d’esame è rinato; il pensiero si snoda dalle fasce della scolastica, e affronta problemi audacissimi; l’uomo sentì l’alito della libertà; dalla selva oscura, dove avea smarrita la via, traverso allo spettacolo de’ tormenti che puniscono il delitto, osservò le dure prove dell’espiazione, e per quelle aspira a svincolarsi dalla tirannide degli uomini e da quella dell’ignoranza e dell’errore. Ormai sono rivelati dai viaggiatori il carbon fossile, il biglietto di Banca, la stampa: si piantano istituzioni civili in nome o della libertà o dello Stato; la guerra privata è repressa; le giurisdizioni feudali sono tolte o limitate; il gius romano rivive colla santità de’ suoi principj e la vastità coordinata delle sue applicazioni; nella contesa fra il pastorale e la spada si chiarisce l’idea dello Stato; fioriscono in Italia e nelle Fiandre le repubbliche industriali; in Francia, Spagna, Scozia, Inghilterra, le valorose signorie assicurano l’indipendenza, e costruiscono nuovi regni. Ormai quel ch’era famiglia, poi accozzamento di tribù, è divenuto dominio di signori, poi [p. 8 modifica]affratellamento di Comuni; e già si forma l’unità nazionale, per divenir poi civiltà europea e mondiale, e render impossibile una nuova barbarie.

E l’Italia trova la sua unità, non in congegni amministrativi o nella fusione di spade o di corone, bensì nell’avere sentimento unico, unica lingua, unica fede, unico culto, e riverenza ai grandi che la onorarono; commercio, arti, devozione, libertà sono gli elementi di cui si compone la vita italiana.

Mancava chi (uffizio de’ poemi primitivi) raccogliesse tutte le tradizioni viventi, le combinasse colla scienza più raffinata del suo tempo, impastasse la satira, la storia, l’amore, la devozione, e, forme loro, la lirica, il dialogo, il racconto, l’allegoria; e culto, dogmi positivi, istituti civili, fatti storici, speculazioni filosofiche e teologiche, unisse mediante il proprio genio, e coll’arte che sola può eternare le opere.


IV.


Ciò fece Dante, con ingegno sommo, ajutato dai casi. Usando del suo popolo le parole, ma combinandole secondo l’ingegno proprio, assicurò il primato della lingua toscana, contrastato indarno da coloro che vollero tenere di lui piuttosto le mal chiarite dottrine, che non gl’immortali esempj. Esempj così grandiosi e inaspettati, ch’egli fu salutato qual creatore non solo della poesia ma della lingua: mentre e dell’una e dell’altra non fece che assodare le tradizioni, accostandovi la fiaccola del genio; tanto più mirabile quanto meno meno erano conosciuti gli antichi modelli.

Guardandosi attorno, egli ammira il movimento d’allora, e internamente vede formarsi la classe media, menando i proletarj a conquistare l’eguaglianza, la libertà di coscienza, di intelligenza, di lavoro: stringersi in fraternite le arti e i mestieri; l’esistenza divenire più agiata, più onorevole e morale; la Bibbia tradursi nei nuovi volgari; le allegorie interpretarsi; il clero, riformato dai due grandi Ordini mendicanti, aspirare a dottrina e santità, i nobili a cavalleresche onoranze, le plebi a franchigie e libertà d’industria; la pittura staccarsi dagli immobili tipi ascetici per esprimere le geste de’ nuovi santi; la poesia avventare strali anche alle persone e alle [p. 9 modifica]cose venerande; l’architettura sublimar le guglie di sopra alle umili abitazioni dell’uomo e alle regolate curve dei classici; ma a tutto sovrastare la filosofia della preghiera e dell’espiamento, della rassegnazione e della speranza, eterna quanto i gemiti dell’umanità.

Della legge del progresso che faceasi sentir più che mai, si fa grande fattore l’Alighieri, che raccogliendo e coordinando tutto il passato, inizia tutto l’avvenire; onde possiam dire non vi sarà una gente d’Europa, nella cui storia non accada menzione di lui; non ramo dell’albero enciclopedico ov’esso non figuri. Perocchè l’opera, il tempo, il poeta formano una cosa sola, e rappresentante di quest’età sarà un uomo, che dall’età sua fu sconosciuto, dalle invidie partigiane calpesto, che visse esule in mezzo alla patria ancor prima d’esserne sbandito; che le soavi ispirazioni di Beatrice mutò ne’ fremiti di Farinata, nelle imprecazioni di Ciacco e ne’ rimbrotti severi di san Pietro; che vergognoso di cadere in compagnia di persone troppo diverse, vantavasi di «farsi parte da sè stesso»; rimproverando tanto, eppur tanto amando una patria, ch’egli non volle ricuperare con una bassezza.

Discendente da un Cacciaguida, che erasi meritato il paradiso crociandosi dietro all’imperatore Corrado, nacque a Firenze il 1265. A nove anni, capitato coi parenti a festeggiare il calen di maggio in casa di Folco de’ Portinari, vide Bice figlia di questo, la quale. «di tempo non trapassava l’anno ottavo, era leggiadretta assai, e ne’ suoi costumi piacevole e gentile, bella nel viso, e nelle sue parole con più gravezza che la sua piccola età non richiedea. E Dante così la ricevette nell’animo, che altro sopravvegnente piacere la bella immagine di lei spegnere nè potè, nè cacciare» (Boccaccio). Sopra l’amata fanciulla cominciò egli a far versi, inviandoli, com’era costume, ad altri poeti toscani, che o l’avranno dissuaso da una via dove il prevedevano emulo, o donato di que’ compassionevoli conforti che somigliano ad insulto. Dante, con altri poeti amici suoi, aveano istituito la compagnia de’ Fedeli d’amore, dove professavasi fedeltà all’amore delle cose celesti e divine; del quale le dame da essi scelte restavano considerate qual simbolo. Come i Trovadori celebravano Dama Giustizia, Dama Bontà, così essi dedicaronsi a sessanta belle e savie fiorentine, in ciascuna delle quali rappresentavasi una qualità morale che era significata dal loro nome; per esempio. Lucia, Matelda, Beatrice, Savina, Felicita, Giovanna o [p. 10 modifica]Vanna1, amata da Guido Cavalcanti, Lagia da Lappo Gianni degli Uberti. Trentesima tra queste era la Bice, tenendo così il posto d’onore, oltre aver il numero multiplo del tre. Ma Dante più degli altri ebbe intelletto d’amore, cioè l’ideale, l’essenza dell’amor vero, dell’amor spirituale. Chi si commuove alla passion vera, sentirà quanto egli e come la amasse allorchè scriveva: — Questa gentilissima donna venne in tanta grazia delle genti, che, quando passava per la via, le persone correvano per veder lei; e quando fosse presso ad alcuno, tanta onestà venia nel cuore di quello, che non ardìa di levar gli occhi, nè di rispondere al suo saluto. Ed ella, coronata e vestita d’umiltà, s’andava, nulla gloria mostrando di ciò ch’ella vedeva ed udiva. Dicevano molti, poichè passata era: Questa non è femmina, anzi è de’ bellissimi angeli del cielo; ed altri dicevano: Questa è una meraviglia: che benedetto sia il Signore, che sì mirabilmente sa operare! Io dico ch’ella si mostrava sì gentile, che quelli che la miravano, comprendevano in loro una dolcezza onesta e soave tanto, che ridire nol sapevano; nè alcun era, lo quale potesse mirar lei, che nel principio non gli convenisse sospirare»2.

Beatrice eragli anche ispiratrice di virtù: e «Quando ella appariva da parte alcuna, per la speranza dell’ammirabile salute nullo nemico mi rimaneva: anzi mi giungeva una fiamma di carità, [p. 11 modifica]la quale mi faceva perdonare a chiunque m’avesse offeso: e chi allora mi avesse addimandato di cosa alcuna, la mia risposta sarebbe stata soltanto amore»3.

Bice si maritò in uno de’ Bardi; ma ben presto (racconta esso poeta) «lo Signore della giustizia chiamò questa nobile a gloriare sotto l’insegna di quella reina benedetta virgo Maria, lo cui nome fue in grandissima reverenza nelle parole di questa beata Beatrice». A lui, com’è dell’anime passionate, parve tutto il mondo avesse a prender parte al suo lutto; onde non solo la pianse in versi, ma per lettera ne informò re e principi; poi, affine di distrarsi, si approfondì in solitarj studj, e promise seco stesso di «non dir più di questa benedetta infintanto che non potesse più degnamente trattar di lei»; e sperava dirne «quello che mai non fu detto d’alcuno».

Gli amori suoi raccontò nella Vita nuova, il primo di quei libri intimi alla moderna, dove uno analizza il sentimento e rivela le proprie recondite tribulazioni. Dettata troppo spesso con pretensione erudita e scolastica aridità, ma qui e qua con semplice candore come di chi narra sè stesso, governato da una malinconia non arcigna, Dante vi si mostra poeta più che in molte poesie; contempla Beatrice nelle visioni, anche molt’anni dopo morta, e ne favella come fosse d’jeri4. A tale entusiasmo voi sentite che non riuscirà uomo nè scrittor vulgare: e se tanto soffriva per amore, che doveva essere quando vi si unissero i patimenti politici, l’esiglio immeritato, e il cader con indegni?5 [p. 12 modifica]


V.


Il profondo sentire lo spingeva a volersi cingere il cordone di san Francesco; poi se ne distolse per mescolarsi ne’ parteggiamenti civili, attesochè nelle democrazie, massime se ristrette, i giovani sono facilmente portati verso gli affari pubblici, e vedendo il Governo da vicino, credono conoscerlo e facile il guidarlo. Dante «fu uomo molto polito, di statura decente e di grato aspetto, pieno di gravità, parlatore rado e tardo, ma nelle sue risposte molto sottile. Nè per gli studj si racchiuse in ozio, nè privossi del secolo; ma vivendo e conversando con gli altri giovani di sua età, costumato, accorto e valoroso, ad ogni servizio giovanile si trovava. Ed era mirabil cosa che, studiando continuamente, a niuna persona sarebbe paruto ch’egli studiasse, per l’usanza lieta e conversazione gioviale» (Leonardo Aretino). E fu veramente suo distintivo il passare agevolmente dalla contemplazione all’attività, che esercitò a servizio della fazione guelfa in magistrature, in ambascerie, e colle armi a Campaldino; e alla scuola della politica, allo straziante contatto degli uomini, al laborioso insegnamento delle rivoluzioni ebbe vero esperimento dell’inferno, del purgatorio e del paradiso.

L’antica nobiltà fiorentina, che pretendeva discendere dai Romani, avea sempre messo ostacolo all’alzarsi della gente nuova, e parteggiato coi Guelfi, che l’indipendenza italiana metteano all’ombra della santa sede. Così aveano usato gli Alighieri e Dante stesso, fin quando essi Guelfi si partirono in Neri e Bianchi e quest’ultimi deviarono a segno, da potersi considerare come Ghibellini. Dante stette fra questi, e con loro fu mandato in esiglio. Che ne sia della malversazione addebitatagli nella sentenza da Cante d’Agubio, nol possiam dire; Dante non ne fa motto in verun luogo, perchè v’ha azioni di cui uno non si difende, come altre di cui non si vanta; e troppo è consueto alle fazioni denigrare chi vogliono perdere, e sceglier le accuse appunto che più ripugnano al carattere dell’oltraggiato, correndo le plebi a credere più facilmente ciò ch’è meno credibile.

Dante badossi alcun tempo alla guelfa Siena e ad Arezzo ghibellina insieme cogli esuli; ingrata società, che lo costringeva a partecipare ad ire impotenti, a garrule speranze, a persecutrici esagerazioni che non erano le sue. Con soccorsi di Bartolomeo della Scala [p. 13 modifica]signor di Verona tramarono essi di rimpatriare per forza, e fallito il tentativo, ne imputarono Dante perchè lo avea sempre dissuaso; ond’egli risolse abbandonare la compagnia malvagia e scempia, e farsi parte da sè stesso, sceverandosi da entrambe le sette, delle quali vedeva i torti: il che dai settarj s’interpreta come un tradirle entrambe.

«Cacciato di patria (racconta nel Convivio), per le parti quasi tutte, alle quali questa lingua si stende, peregrino quasi mendicando sono andato mostrando, contro a mia voglia, la piaga della fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata»: passò a studiare teologia e filosofia nell’Università di Parigi, piena testè degli insegnamenti di Tommaso d’Aquino, e allora di quelli dell’abate Suggero: nè mai deponendo l’eterna speranza degli esuli, cercò «con buone opere e buoni portamenti meritarsi di poter tornare in Firenze per ispontanea revoca di chi reggeva la terra; e sopra questa parte s’affaticò assai, e scrisse più volte non solamente a’ particolari cittadini del reggimento, ma ancora al popolo, e intra l’altre un’epistola assai lunga che comincia: Popule mi, quid feci tibi? E diceva: — Ogni infelice mi fa pietà: più di tutti, coloro che, logorandosi nell’esiglio, non rivedono la patria che in sogno»6; ma per quanto gemesse o fremesse, più non potè rivedere il suo bel San Giovanni.

Solea Firenze, nella solennità di san Giovanni, far grazia ad alcuni condannati, che colla mitera in capo e con un cero in mano venivano offerti al santo. Fu esibito a Dante di ricuperar la patria a questo modo7, ma egli: — È questo il richiamo glorioso con che Dante degli Alighieri è richiamato alla patria? questo han meritato il sudore e la fatica continuata nello studio? Non per questa [p. 14 modifica]via si dee tornare alla patria; e se per niun’altra si può, io non entrerò mai in Firenze. Forse non vedrò io da qual sia luogo gli specchi del sole e degli astri? non potrò io speculare dolcissime verità sotto qualsiasi cielo, senza arrendermi, spoglio di gloria, anzi con ignominia, al popolo fiorentino?» Il Boccaccio ce lo racconta nella vita di lui, e soggiunge che «veggendosi non poter ritornare, in tanto mutò l’animo, che niuno più fiero ghibellino ed a Guelfi avverso fu come lui. E quello di che io più mi vergogno in servigio della sua memoria, è che pubblichissima cosa è in Romagna, lui ogni fanciullo, ogni feminella, ragionando di parte e dannando la ghibellina, l’avrebbe a tanta insania mosso, che a gittar le pietre l’avrebbe condotto non avendo taciuto».8

Eppure egli stesso ripeteva quel che non mai fia ripetuto abbastanza agli Italiani; che il buono non dee prender guerra col buono finchè non siano riusciti a vincere i malvagi; che è follia il non abbandonare un cattivo partito per rispetto umano9.


VI.


Il dispetto verso i concittadini, l’aver dolorato delle miserie d’Italia, il conversare cogli artisti che gli davano esempio di nobili ardimenti, maturarono la vasta sua facoltà poetica; e amore, politica, teologia, sdegno gli dettarono la Divina Commedia.

Non rassegnandosi al diritto di persecuzione che i contemporanei si arrogano contro gli uomini di genio, ideò e compì un’epopea affatto differente dagli esempj classici, de’ quali aveva imperfetta notizia. L’Iliade espone vicende guerresche; l’Odissea, il vivere domestico de’ principotti greci; l’Eneide, la grandezza di Roma. Questa Roma stessa avea Dante veduta quando centinaja di migliaja di pellegrini vi accorrevano al giubileo del 1300, mossi tutti da un [p. 15 modifica]unico pensiero, la salvezza dell’anima, eppur ciascuno portandovi gli affetti, le passioni, le fantasie proprie. Il devoto entusiasmo di tutta cristianità si concentrò nel poeta, il quale tolse a cantar l’uomo, e come i suoi meriti in terra sono retribuiti nell’altro mondo.

Già la cavalleria aveva mostrato potersi amare senza peccato, e come stimolo al bene; ed egli aveva amato una fanciulla di nove anni, che sposò un altro e che volò in paradiso. Dante pure vedeva il mondo come una valle di lacrime, un pellegrinaggio verso un’altra vita, dove soltanto era la realtà; da cui solo trovava spiegazione la presente. Ma di quel mondo postumo poco o nulla dice la rivelazione: l’immaginazione avea dovuto foggiarlo sopra il mondo di qua, descriverlo colle forme materiali della vita, secondo una giustizia dura quanto l’umana.

Come l’epopea più ardita, così essa è l’opera più lirica di nostra favella, giacchè nel canto egli trasfonde l’ispirazione propria, l’entusiasmo onde ardeva per la religione, per la patria, per l’impero, e gl’immortali suoi rancori.

Le pitture e ancor meno le architetture d’allora non ci allettano col sentimento armonico della perfezione, come le greche e le romane: sibbene son elementi essenziali della storia, ritraendo la condizione sociale, e mostrando sempre in presenza, se non in armonia, la Chiesa e l’Impero, la feudalità e i Comuni, la cattedrale e il palazzo, le città e le rôcche, gli spedali e i conventi.

Così il poema di Dante: ed io me lo figuro intento qualche volta a discorrere con Giotto ad Assisi, o in Firenze con Arnolfo (1310) sui segreti delle logge massoniche, sul mistico aritmo e sulle forme simboliche, secondo cui concordano le figure geometriche, le proporzioni generali e l’intero aspetto dell’edifizio, dall’ornamento vegetale, variato eppure armonico nell’effetto, semplice e organico nel principio, insino alle pareti trasparenti per finestroni effigiati, alle statue, ai dipinti; tutto ciò che riportasse le menti verso l’origine del vero culto e la destinazione del tempio; tutto ciò che rammentasse la Chiesa non esser compagine di sassi ma edifizio vivente, di cui Gesù Cristo è pietra angolare, e membri i fedeli. Per tal guisa la cattedrale diveniva immagine finita del modello infinito della creazione: come il mondo è il tempio che il Signore si fabbricò nello spazio, così la chiesa materiale rappresenta all’uomo la creazione, qual egli la concepisce nella causa prima; è l’idea più [p. 16 modifica]compiuta ch’esso abbia del vero e del bello; il centro della manifestazione dell’umana natura intellettuale e morale.

Or questo non vi pare il medesimo concetto della Divina Commedia? Al modo che tutte l’arti si congiungevano nel duomo, prima che il separarsi raffinasse le singole a scapito dell’universale espressione, così Dante nell’idea divina concentrò tutto lo scibile, ripigliando l’epopea vera, che comprendesse i lampi della fantasia come le speculazioni del raziocinio; toccasse all’origine e alla fine del mondo; descrivesse terra e cielo, uomo e Dio, angelo e demonio, il dogma e la leggenda, il contingente e l’eterno, l’amore e la vendetta, la politica e la teologia, l’immenso, l’eterno, l’infinito, colle cognizioni tutte dell’intelligenza e del popolo. Da poeta riformatore toccò tutte le quistioni sociali e morali de’ suoi giorni, e ne diede l’esposizione conforme alla scienza e alla coscienza del suo tempo. Ivi si sente quella suprema potenza dell’arte, che deriva dalle misteriose sue connessioni con quell’infinito che l’anima umana contiene. Il poeta che non si spinga in tali abissi non raggiunge che effetti volgari, non può svegliare nessun di que’ suoni che echeggiano negli spazj immensi, e pei quali diviene creatore mediante le visioni interne che suscita, più che non per quelle che esprime; misurate queste, incommensurabili quelle, e perciò poetiche; e affini alla natura dell’uomo, che, traverso alle passaggiere realità, si muove perpetuamente verso ciò che nè da tempo nè da spazio è circoscritto, verso l’Ente supremo che «tutto muove e per l’universo penetra e risplende». Il bisogno di conoscer sempre più e sempre più amare, sempre più potere e fare, è l’essenza degli spiriti eletti, condannati a lavoro incessante, a sprezzar ostacoli, fatiche, patimenti per raggiungere il supremo vero, amare il supremo bello, operar il supremo bene. Perciò Dante «sovra gli altri com’aquila vola».


VII.


Il Boccaccio, di poco a lui posteriore, lasciò cadersi dalla penna che unico intento di Dante fosse il distribuir lodi o biasimo a coloro, di cui la politica e i costumi reputava onorevoli o vergognosi, utili o micidiali. Ridurre un sì vasto concetto alla misura d’un libello d’occasione non s’addice che a menti volgari, solite a veder soltanto allusioni e attualità, perchè in fatto stanno racchiuse in quella [p. 17 modifica]vastità dei generali che è il carattere degl’ingegni elevati. Il vero è che la Divina Commedia è poema eminentemente storico, dove vitupera ed esalta da uom di parte; irato persecutore, di tutto fa arme alla vendetta: e coll’autorità che danno l’ira, l’ingegno, la sventura, insieme coi dolori e i rancori suoi, eternò le glorie e le sventure d’Italia10. Tutti gli uomini e le cose che lo circondavano chiama ad austera rassegna, traendone concetti di speranza o di vendetta, attinge alla fede, alla scienza, all’amore supreme aspirazioni dell’uomo; e nel concetto come nella forma unisce sublimità e vulgarità, amore ed ira, fede e discussione, contemplazione e operosità; ma la mal cristiana rabbia onde tesse l’orditura religiosa, pregiudica non meno alla forma che all’interna bellezza. E poichè fra gl’Italiani fu sempre grande il numero di questi infelici «che la patria non rivedono se non in sogno», Dante fu immedesimato ai patimenti di tutti, preso come tipo di quanti soffrono tirannia ed ingiustizia.

Ma è ben più che un’allegoria politica un poema, cui poser mano e cielo e terra. Il problema cardinale, che Eschilo presentiva nel Prometeo, che Shakespeare atteggiò nell’Amleto, che Faust cercò risolvere colla scienza, don Giovanni colla voluttà, Werter coll’amore, fu l’indagine di Dante come di tutti i pensatori; questo contrasto fra il niente e l’immortalità, fra le aspirazioni a un bene supremo e l’abjezione di mali continui e inevitabili.

In fondo a tutti i fatti trovasi un mistero; l’origine e la destinazione loro: giacchè li vediamo attuarsi e procedere, e non sappiamo nè perchè nè verso dove. Oggi vi applichiamo mille opinioni, presumendo nell’infallibilità del senno individuale; allora quel mistero veneravasi.

Un primitivo peccato, una conseguente infelicità, una necessaria espiazione erano i canoni dominanti nel medioevo, e questi atteggiò Dante. Sapienza, onnipotenza, bontà appartengono unicamente a Dio: all’uomo il peccato e, punizione di esso, i mali, che affliggono [p. 18 modifica]la vita presente, ma ne preparano una migliore. Mediatore fra un Dio offeso e l’uomo peccatore non poteva esser che un Dio, e la rivelazione operata da questo ravviò al meglio co’ precetti, coll’esempio, senza però togliere l’originale disaccordo fra il conoscere, il volere, il potere: somministrò superni sussidj ad operare il bene, senza abolire la concupiscenza. Pertanto la cura della società dovea consistere nel deprimere la materia rialzando le facoltà morali; invigorir l’anima col mortificare la carne; moltiplicare preghiere a Colui che solo può sviare i mali, ed espiazioni per non meritarseli; calcare tremando questa terra d’esiglio e di prove, delle quali la spiegazione non si trova che nel triplice regno postumo del gastigo, dell’espiamento, della gloria.

L’uomo che crede, può ravvisare la Providenza nei casi della propria famiglia non men che in quelli del genere umano: a guisa del sole che rifrange i suoi colori nell’ampiezza dell’arcobaleno come nella stilla di rugiada. Allora dunque la si vedeva assister continua ai procedimenti del genere umano sia nella persona dei re, sia maggiormente in quella dei sacerdoti; era stabilito un parallelismo fra il cielo e la terra: pèsti, comete, nembi, locuste erano preavviso o punizione di disordini morali, e la scarsezza d’altre cognizioni lasciava veder meglio il cielo, siccome nella notte appajono più vicine le stelle: dipendenza almeno più logica che non la fisica odierna, ove da Dio si fa collocare semplicemente il sole come una macchina che è l’orologio della storia del mondo, non degli atti nostri quotidiani. La scarsezza della scienza lasciava maggior campo al meraviglioso, e se ora è tutto fede politica nelle terrene contingenze, allora tutto era fede, altri dica credulità nelle cose soprasensibili; all’intelligenza e alla rivelazione attribuivasi l’infallibilità che oggi alla forza e ai decreti; nè conosceasi quel divorzio che oggi si fa dell’anima dal corpo, degli interessi dalla morale. La società non si trovava abbandonata al fatale arbitrio delle podestà di fatto; tra ineffabili guai, la vita si effondeva in tutta la pienezza fino alle membra estreme; una essendo la credenza, uno il proposito di immolarsi per essa. Nell’economia sociale quanto nella religiosa non erano sconnessi il legame intimo che nell’eternità stringe l’uomo a Dio mediante la coscienza, e il legame imperioso che nel tempo sottomette a un comando esteriore. Dell’autorità era depositaria ed espressione la Chiesa, e su di essa e sulla fede si modellavano gli atti. [p. 19 modifica]

Secondo tale condizione di cose, comune a tutta la cristianità, Dante il mondo contingente contempla sempre in relazione all’eterno. Non conoscendosi i temperamenti dell’educazione, tutto allora veniva spinto all’assoluto; e Dante ci dipinge que’ tempi colla credulità, coll’ira, la morale, la vendetta. Secondo è uffizio del poeta, s’erge consigliere delle nazioni, giudice degli avvenimenti e degli uomini, re dell’opinione: e poichè allora tutto era diverso in ciascun paese e in ciascun uomo, ne veniva il poema meno uniforme, eppur regolato con impreteribile euritmia numerica e geometrica. Perocchè Dante non poeteggia per istinto, ma tutto calcola e ragiona, compagina l’uno e trino suo poema in tre volte trentatre canti, oltre l’introduzione, e ciascuno in un quasi egual numero di terzine11; e gli scomparti numerici cominciati dal bel primo verso (nel mezzo), lo accompagnano per le bolge, pei balzi, pei cieli, a nove a nove coordinati. Questo rispetto per la regola, questo fren dell’arte che crea egli stesso e al quale pure si tien obbligato, non deriva da quell’amore dell’ordine, per cui vagheggiava la monarchia universale? Ivi i personaggi e l’autore e l’opera sua sono improntati d’una individualità incancellabile. S’è potuto dubitare se Omero, se Virgilio, se Calidasa, se Orazio, se David siano gli autori de’ componimenti a loro attribuiti; di Dante mai non si dubitò.

La politica primeggia all’inferno; nel purgatorio si associa alla filosofia; alla teologia nel paradiso, finchè negli ultimi canti svanisce nell’estasi. Ma sempre appare il sentimento della personalità dell’autore, e i pungenti ripetii dell’ingratitudine cittadina.


VIII.


«L’autore in quel tempo che cominciò questo trattato, era peccatore e vizioso, ed era quasi in una selva di vizj e d’ignoranza; ma poichè egli pervenne al monte, cioè al conoscimento della virtù, allora la tribolazione e le sollecitudini e le vere passioni procedenti da [p. 20 modifica]quelli peccati e difetti cessarono e si chetarono»12. Ciò fu nel mezzo del cammin della vita del poeta, quando il giubileo lo richiamò a coscienza.

I tre elementi della poesia, narrazione, rappresentazione, ispirazione si mescono ed avvicendano nella Divina Commedia.

I poeti pagani sono pieni di calate all’inferno. I Padri cristiani non insistettero sul descriverlo e sol di volo ne tocca anche l’estatico di Patmos; ma cresciuta la barbarie, parve si volessero rinforzare i ritegni dal male col divisare a minuto que’ fieri supplizj. Divenuto unico sentimento comune il religioso, in centinaja di leggende ricomparvero viaggi all’altro mondo. Pel pozzo di san Patrizio in Irlanda, Guerrino il Meschino scende a laghi di fiamme ove l’anime si purgano: e nell’inferno, disposto in sette cerchj concentrici un sotto l’altro, in ciascuno dei quali è punito uno de’ peccati mortali, trova molte persone conosciute: infine Enoch ed Elia lo elevano alle delizie del paradiso, e risolvono i dubbj suoi13. I lepidi componimenti del Sogno d’inferno di Rodolfo di Houdan, e del Giocoliere che va all’inferno, correano per le mani come espressioni di credenze vulgatissime e comuni ai popoli i più lontani. In Italia principalmente doveva esser conosciuta la visione d’Alberico, monaco a Montecassino attorno al 1127, il quale dopo lunga malattia rimane fuor di sentimento nove giorni e nove notti; nel qual tempo, portato su ale di colomba e assistito da due angeli, va nell’inferno, poi nel purgatorio, donde è assunto ai sette cieli e all’empireo. Da tali credenze Brunetto Latini, maestro di Dante, avea dedotto l’idea di [p. 21 modifica]un viaggio, in cui dicevasi salvato per opera d’Ovidio da una selva diversa, dove avea smarrito il gran cammino14.

Ben sarebbe meschino chi imputasse Dante di plagio. Quante Madonne col Bambino avea sgorbiate l’imbianchino del villaggio, prima che la dipingesse Raffaello! Dante vi era portato dai tempi e dalle credenze universali; e il libro più comune e quasi unico del medioevo gli somministrava queste allegorie e le visioni, e perfino le tre fiere che l’impediscono al cominciare dell’erta15.

I poeti de’ nobili e delle corti amavano una certa ricercatezza che distinguesse i loro canti dalle poesie popolari. Quindi enigmaticamente si esprimevano i più illustri Trovadori, e in quel che chiamavano stile clus o car, coperto o prezioso, come i minessingeri del Nord lo chiamavano oscuro o recondito (ólióst, folgit).

La predilezione di Dante pei concetti simbolici trapela da tutte le opere sue. Conobbe Beatrice a nove anni, la rivide a diciotto alla nona ora, la sognò nella prima delle nove ultime ore della notte, la cantò ai diciotto anni, la perdè ai ventisette nel nono mese dell’anno giudaico; e questo ritorno delle potenze del numero più augusto gli indicava alcun che di divino16, come il nome di lei parevagli cosa di cielo, aggiuntivo della scienza e delle idee più sublimi; onde la divinizzò come simbolo della luce interposta fra l’intelletto e la verità.

Talmente la visione è forma essenziale dell’opera di Dante, che fu applicata anche a lui morto, e si disse che, otto mesi dopo la tomba, foss’egli apparso a Pier Giardino ravignano per indicargli dove stessero riposti gli ultimi tredici canti del poema, di cui in conseguenza la terza parte fu pubblicata solo postuma. [p. 22 modifica]

La mistura del reale coll’ideale, dal fatto col simbolo, dalla storia coll’allegoria, comune nel medioevo17, valse all’Alighieri per innestare nella favola mistica l’esistenza effettiva e casi umani recenti; costruisce la città superna con materiali toscani, coi monti e fiumi d’Italia: vi assicura d’aver visto i dannati, come voi vedete lui; piglia paura delle stesse sue invenzioni; sicchè i due mondi sono il riflesso l’uno dell’altro, e Beatrice è la donna sua insieme e la scienza di Dio, come dalle quattro stelle vere sono figurate le virtù cardinali, e dalle tre le teologiche.

Smarrito nella selva selvaggia delle passioni e delle brighe civili, dalla letteratura e dalla filosofia personificate in Virgilio, vien Dante condotto per l’esperienza fin dove può conoscere il vero positivo dalla teologia, raffigurata in Beatrice, alla cui vista, prima gioja del suo paradiso, egli arriva traverso al castigo ed all’espiamento. Al limitare dell’inferno incontra gli sciagurati che vissero senza infamia e senza lode, inettissima genia, chiamata prudente dalle età che conoscono per unica virtù quella fiacca moderazione, la quale distoglie dall’esser vivi. Con minore acerbità sono castigati coloro, di cui le colpe restano nella persona; peggior ira del cielo crucia quelli che ingiuriarono altrui. Così nel secondo regno si purgano le colpe con pene proporzionate al nocumento che inferirono alla società; e a questo assunto sociale si riferiscono, chi ben guardi, le quistioni che in quel tragitto presenta e discute il poeta, le nimistanze civili, il libero arbitrio, l’indissolubilità dei voti, la volontà assoluta o mista, e come di buon padre nasca figlio malvagio, e come nell’eleggere uno stato non devasi andar a ritroso della natura; laonde il poema suo riuscì teologico, morale, storico, filosofico, allegorico, enciclopedico; pure coordinato ad insegnare verità salutevoli alla vita civile18. [p. 23 modifica]

Nell’inferno i condannati non si lagnano de’ supplizj, bensì de’ mali morali; Ugolino non cura il freddo, ma rode l’arcivescovo Ruggeri e domanda d’infamarlo: Farinata non muove costa in mezzo alle fiamme, tra le quali Cavalcanti teme soltanto sia morto suo figlio, dacchè nol vede con Dante; Francesca non bada al vento che li mena di qua di là, di su di giù, ma a colui che mai da lei non fìa diviso. Ciò rende tanto superiore l’inferno: che invece nelle pitture s’accosta al burlesco, intanto che bellissimi sono i paradisi del Gozzoli, di Mino da Fiesole, di Frate Angelico. Nel paradiso. Dante non può variare la perfezione morale, e passionar per la beatitudine; in quel torrente di musica, di luce, di movimento, noi restiamo attoniti più che commossi, difficilmente appassionandosi l’uomo pei gaudj altrui.

Tra ciò Dante porge le bellezze più nuove della poesia moderna, coll’immaginazione antica; sposa l’inno di Pindaro, il carme di Tirteo, il giambo d’Archiloco senza conoscerli; eleva al cielo col suo genio, rimena alla terra co’ suoi dolori.

E bellezza sua originale è quella rapidità di procedere, per cui non s’arresta a far pompa d’arte, di figure retoriche, di descrizioni, a ripetere pensieri altrove uditi; ma si difila alla meta, colpisce e passa. Insigne nel cogliere o astrarre i caratteri degli enti su cui si fissa, egli è sempre particolare nelle dipinture; vedi i suoi quadri, odi i suoi personaggi. Libero genio, adopera stile proprio, tutto nerbo e semplicità, con quelle parole rattenute che dicono men che il poeta non abbia sentito, ma fanno meglio intravedere l’infinito acciocchè ne cerchiamo il senso in noi medesimi. La forza e la concisione mai non fecero miglior prova che in questo poema, dove ogni parola tante cose riassume, dove in un verso si compendia un capitolo di morale19, in una terzina un trattato di stile20, [p. 24 modifica]e in eleganti versi si risolvono le quistioni più astruse, come la generazione umana e l’accordo fra la preveggenza di Dio e la libertà dell’uomo; le quali non apparivano fin là che nell’ispido involucro dell’argomentazione scolastica21.

Dante opera sul lettore non tanto per quel che esprime, quanto per quel che suggerisce; non tanto per le idee che eccita direttamente, quanto per quelle che in folla vengono associarsi alle prime. Capirlo è impossibile se l’immaginazione del lettore non ajuti quella dell’autore; egli schizza, lasciando che il lettore incarni; dà il motivo, lasciando a questo il trovarvi l’armonia; il quale esercizio della nostra propria attività, ce lo fa sembrare più grande.

Ma egli non è autor da tavolino; fa parere la sua nobiltà scrivendo ciò che vide, laonde, di libero genio, non teme la critica, pecca di gusto, manca della pulitura che richiedono i tempi forbiti; e intese la natura dello stil nuovo che non può reggersi colla indeclinabile dignità degli antichi, ma, come nella società, mette accanto al terribile il ridicolo; donde quel titolo di Commedia22.

Dell’introdurre tante quistioni teologiche e scolastiche nol vorrò difendere io, ma oltrechè è natura de’ poemi primitivi il raccorre e ripetere tutto quanto si sa, se oggi appajono astruse e vane a noi disusati, allora si discuteano alla giornata, ed ogni persona colta aveva parteggiato per l’una o per l’altra, non altrimenti che oggi avvenga delle disquisizioni politiche: sicchè riuscivano usuali e note. Alcune gli sono spiegate da Virgilio o dalle ombre: le più sublimi son riservate a Beatrice, cioè alla teologia.

Il maggior difetto di Dante resterà sempre l’oscurità23. [p. 25 modifica]Locuzioni stentate, improprie; voci e frasi inzeppate per necessità di rima; parole di senso nuovo; allusioni stiracchiate o parziali, o troppo di fuga accennate; cose effimere e municipali, poste come conosciute e perpetue, l’ingombano sì, che Omero e Virgilio richiedono men commenti; e tu, italiano, sei costretto a studiarlo come un libro forestiere, alternando gli occhi fra il testo e le chiose, e poi trovi concetti che, dopo volumi di discussioni, non sanno risolversi. Vero è che quel fraseggiare talmente s’incarna col modo suo di concepire e di poetare, da doverlo credere il più opportuno a rivelar l’animo e i pensamenti di esso. Anzi, si direbbe che l’allettativo di Dante consista in una virtù occulta delle parole, le quali devono essere disposte al tal modo nè più nè meno; movetele, cambiate un aggettivo, sostituite un sinonimo, e non son più desse: ha versi senza significato, e che pure tutti sanno a memoria: udite que’ terzetti quali stanno, ed eccovi la vanità divien persona, e presente il passato, e figurato l’avvenire.


IX.


Noi, avvezzati dalle accademiche menzogne a non veder nel medioevo che desolazione, assassinio, violenza, stupiamo all’udir Dante rimpiangere sempre il passato. Chi ignora gli splendidi versi ove descrive la Firenze del 1100, in pace, sobria e pudica, con donne massaje e modeste, con uomini contenti al rustico vestire, con abbondante figliolanza? gloriosi e giusti in così riposato, in così bello vivere, in così fida cittadinanza, guerreggiavano nelle Crociate, mercatavano, nè mai il giglio era fatto rosso per divisione; non v’avea case vuote di famiglia, nè donne deserte per gente che esulasse in grazia della Francia. Egualmente valore e cortesia solevano, prima di Federico, trovarsi in sul paese irrigato dal Po e dall’Adige, le antiche case non erano ancora diredate delle prische virtù; gli Ordini monastici non ancora tramutati in sacchi di farina ria.

Tanta operosità, tanto fermento non poteva attuarsi senza gravi scosse; nè fa meraviglia se in Italia nessuna parte godeva pace: se non vi stavano senza guerra neppur quelli che chiude una stessa fossa e uno stesso muro.

Nazionalità non è solo l’agglomerazione d’una stirpe umana sotto unico governo; nè l’aggregazione artificiale più o men violenta di [p. 26 modifica]alcune Provincie della stirpe stessa, forzate a viver in una comunella politica che forse disamano. Essa implica l’idea di libertà, la quale sola può conferire la potestà d’esercitare e svolgere senza impacci le facoltà naturali nella indipendente comunanza delle tradizioni, de’ costumi, delle idee che per secoli formarono il tipo della stirpe. Non unità di leggi, di bandiera, di nome, non possa d’esercito, non accentramento d’amministrazione aveva l’Italia quando essa primeggiava capo ed esempio delle genti, e quando essa produsse Dante; eppure era nazione, se per tale, intendasi l’accordo di interessi, di sentimenti, d’inclinazioni istintive verso uno scopo comune; nè mai si sentì tanto italiana come allora, quando i fatti di essa sembrano quelli del mondo, perchè il papato vi costituiva l’unità organica della cristianità, cioè di tutto l’orbe civile. E mentre negli altri paesi assodavansi i principati, piccole nazionalità che poco a poco si fonderebbero in più grandi, e in un sistema di Stati uniti da un legame generale, pur conservando l’autonomia, qui pure surrogavansi le signorie ai Comuni. Nell’alta Italia la Lega Lombarda avea vinto gli imperatori; ma scarsa di civile prudenza, provvedendo al presente anzichè all’avvenire, non seppe formar una federazione che avesse centro a Milano, patria per tutto, feste ed esercito comune, tesoro, patti, assemblea: conobbe soltanto spedienti istantanei, abbandonossi al mareggio del suffragio universale, che pazzeggiando come sempre, portava a capo qualche signore, il quale alleavasi coll’infima plebe per prepotere, e non avendo contrappeso perchè eletto dal popolo, diventava tiranno là dov’era venuto parteggiando; oppure rivalevano le famiglie baronali, che ritiratesi nella campagna e sulle alture, non aveano perduto mai il dominio, nè cessato d’esser minacciose al popolo; od accanto alle città libere ergeano torri o costituivano borgate feudali; e tutte s’appoggiavano all’imperatore come ghibelline.

In Toscana, attorno alla guelfa Firenze, principavano Ranier di Corneto, «il qual fece alle strade tanta guerra» in vai del Savio; i Cadolinghi a Fucecchio, gli Aldobrandeschi a Grosseto e Sovana, gli Albertini a Soffena e Gaville, i Guidalotti a Sommaja, i conti di Mangona nei castelli d’Elci, Gavorrano, Scarlino, Monte Rotondo e altri della Maremma. Così per tutta Italia. Altri eransi patteggiati colle città, pur conservando privilegi, come di far guerra e alleanze, e immunità personali; onde nelle città stesse ergevansi torri, in cui [p. 27 modifica]o da cui poteano sbraveggiar la legge, costretta ad assumere le sembianze della forza.

Così dentro le città contendeano nobili e borghesi, quelli per recuperare le giurisdizioni di un tempo, questi pretendendole soli; che è la contesa odierna de’ paesi costituiti, e se ai soli proprietarj competa la pienezza dei diritti civili. Per lo più i nobili otteneano prevalenza in grazia dei possessi, delle parentela, dell’abito di comandare, come i Buoso, gli Ezelini, i Polenta. Qualche città, fra cui Firenze, gli escludeva assolutamente dalle magistrature, talchè Dante stesso, che vantavasi di stipe venuta da Roma, doveva immatricolarsi fra gli speziali; a Pisa e a Lucca non poteano deporre testimonianza contro un plebeo, e bastava la voce popolare per condannarli.

Questi conflitti della spada col pastorale, de’ Comuni co’ principi, dell’illustrazione storica de’ Ghibellini coll’illustrazione teocratica dei Guelfi, sotto qualsifosse nome, non erano speciali alla patria nostra, ma condizioni generali dell’Europa, in uno di que’ periodi critici in cui, l’autorità rimanendo debolissima, grandeggiano gli uomini, come vediamo in Dante, che n’era testimonio, vittima, pittore.

Dei peccati di Firenze trova egli la ragione nell’aver ricevuto a cittadinanza quei di Campi, di Certaldo, di Figline, mentre le gioverebbe trovarsi ancora ristretta fra il Galluzzo e Trespiano, nell’aver accolto il villan puzzolente d’Aguglione e il barattiere da Signa24 in mezzo alla nobiltà veramente romana, rimastavi dalle prime colonie, e mal attorniata da quelli che discesero da Fiesole, e che tengono ancora del natio macigno. Se alcuno rimane di quella buona stirpe antica, non serve che a raffaccio del secolo selvaggio, ora che la città è turpe di gola, superbia, avarizia, invidia; nemica ai pochi buoni che ancor vi allignano; del resto spensierata sì, che ogni tratto cambia leggi, monete, uffizj, costume, e provede sì scarsamente, che a mezzo novembre non giunge quel che filò d’ottobre.

Voi qui sentite il patrizio intollerante, il quale, stizzito non solo coi rettori della patria, ma colla patria stessa, oltre eccitare l’imperatore a «venir abbattere questo Golia colla frombola della sua sapienza e colla pietra della sua fortezza,» professò che «per quanto fortuna l’avesse condannato a portar il nome di fiorentino, [p. 28 modifica]non voleva che i posteri immaginassero tener lui di Fiorenza altro che l’aria ed il suolo»25. Avesse almeno aggiunto e l’idioma, senza cui non avrebbe egli potuto farsi per gloria eterno. Ma chi dalle care illusioni della gioventù, infiorate da una benevola fantasia, per iniquità degli uomini trovasi balestrato negli acerbi disinganni e fuori del circolo dell’operosità, degli affetti, delle speranze primitive; chi abbia sentito profondamente come Dante, e come Dante sofferto le persecuzioni del secolo, che non suol perdonare a chi di buon tratto lo precede; quegli solo ha diritto a condannarlo di tali iracondie.

Nè men gravi dispetti mostrava Dante alle altre città italiane: gente vana più che i Francesi è quella di Siena; i Romagnuoli son tornati in bastardi; i Genovesi diversi d’ogni costume e pien d’ogni magagna; in Lucca ogni uomo è barattiere; avari e lenoni i Bolognesi, i Veneziani di ottusa e bestiale ignoranza, di pessimi e vituperosissimi costumi, e sommersi nel fango d’ogni sfrenata licenza26: l’Arno appena nato passa tra brutti porci, più degni di galle che d’altro cibo; poi viene a botoli ringhiosi, che sono gli Aretini; indi tra’ lupi di Firenze; infine alle volpi piene di frodi, quai sono quelli di Pisa. A questa, vitupero delle genti, impreca che ogni persona vi si anneghi; a Pistoja, che sia incenerita perchè procede sempre in peggio fare; al Casentino che il nome di tal valle pera: Firenze è la maledetta e sventurata fossa; Romagna è piena di venenosi sterpi; Bagnocavallo deve isterilire; nella Puglia son vilissimi soldati; nella Marca Trevisana perpetui traditori; la Lombardia è degna di chi lasciasse per vergogna di ragionar coi buoni.

Le antiche case rimorde come diredate delle prische virtù; i Malatesti fan dei denti succhio; i Gallura divennero vasel d’ogni frode; Branca Doria vive ancora, eppur l’anima sua giù spasima in inferno, e lasciò un diavolo a governare il corpo suo e d’un suo prossimano; in Verona i Montecchi e Capuleti sono gli uni già tristi, gli altri in sospetto; Alberto della Scala è mal del corpo intiero, e peggio della mente; Guido da Montefeltro ebbe opere non leonine, ma di volpe, e seppe tutti gli accorgimenti e le coperte vie; al buon re Roberto iterò oltraggi, come men acconcio allo scettro che alla cocolla. Così augura [p. 29 modifica]che Bertinoro fugga via per non soffrire la tirannide de’ Calboli; così sentenzia Rinier da Corneto che fe guerra alle strade, e Provenzan Silvani che presunse recar Siena alle sue mani; e i Santa Fiora che malmenarono i dintorni di questa città. Sono al contrario encomiati gli Scaligeri e i Malaspini, suo rifugio ed ostello, e Uguccione della Faggiuola, cui pensava intitolare la prima cantica: onde, chi cerca la storia non per declamazione o per teorica preconcetta veda se uom possa, altrimenti che a retorico esercizio o pel perdonabile intento di voler trovare tutto grande nei grandi, sostenere l’amor patrio e l’equità di Dante nel distribuire i vituperj e il guiderdone.

Le vendette sue non si limitano fra l’Alpi, ma le scaglia ad Edoardo d’Inghilterra e Roberto di Scozia che non sanno tenersi dentro lor meta; al codardo re di Boemia, all’effeminato Alfonso di Spagna, al dirazzato Federico d’Aragona, all’usurajo Dionigi di Portogallo, agl’infingardi Austriaci, e fino al re di Norvegia, e a non so qual principe di Rascia (Servia), falsatore di ducati veneti. Principalmente infellonisce contro i Capoti, che maledice già nel loro stipite Ugo figliuol di beccajo, la cui discendenza poco valea, ma pur non fece male, sinchè acquistata Provenza, cominciò con forza e con menzogna la sua rapina. Di là uscì Carlo di Valois senz’altre arme che quelle di Giuda; di là Filippo il Bello, il mal di Francia, che crocifigge di nuovo Cristo nel suo vicario; onde il poeta invoca di presto esser consolato nel veder la vendetta che Dio prepara in suo segreto; come altrove invoca il giusto giudizio sopra la stirpe di Alberto d’Austria, tanto che il mondo ne pigli sgomento.


X.


In fondo egli combatte la democrazia; svelenasi contro i tiranelli che aveano abbattuto i vecchi baroni, contro la gente nuova e di guadagno ch’era prevalsa alla semenza santa delle stirpi conquistatrici; combatte pel passato che crolla, sempre nell’intento di surrogare alla delirante plebe il dominio de’ migliori, de’ sapienti.

In fatto dall’innovarsi delle dottrine derivava reluttamente all’autorità, ed il pensiero si ribellava alla fede. Oltre la dottrina di Averoe e del Maimonide, che s’insinuavano collo studio dell’ebraico e dell’arabo, i Patarini rattizzavano gli errori degli Ariani e de’ Manichei; la [p. 30 modifica]Guglielmina, frà Dolcino, il nominalista Abelardo, gli scettici Cornificiani, il materialista Roscellino, il panteista Amalarico predicavano o praticavano dottrine, avverse alla religione non meno che alla società; l’Evangelo Eterno opponeva una nuova rivelazione a quella di Cristo, e sotto una perfezione inattingibile mascherava il disordine delle menti e forse delle azioni. Dante mettea fra i miscredenti anche persone da lui dilette; l’amico Cavalcante e il gran Farinata relegava tra gli Epicurei «che l’anima col corpo morta fanno», e asseriva che le arche n’erano piene più che non si credesse. Alcuni già riguardavano la Bibbia come una grande allegoria; altri la tormentavano colle sottigliezze scolastiche: e Stefano vescovo di Tournay scriveva a Celestino III: — Oggi v’è tanti scandali quanti scritti, tante bestemmie quante pubbliche discussioni: e tra la confusione delle scuole pare non si pensi che a proporre quistioni stravaganti, a rischio di non saperle risolvere».

A quel libertinaggio del ragionamento e degli atti opponevasi l’Inquisizione; procedura smoderata, come si suole in età che non conoscono il dubbio, ma solo l’entusiasmo; età eccezionali nel bene come nel male, dove l’intolleranza era quanta la carità. Nè Dante l’avrebbe disapprovata, egli che talora prorompe: — A siffatte objezioni non si risponde con argomenti ma con coltelli».

Poco si tardò a ravvisare che la Chiesa, nel tutelare i canoni proprj, tutelava la verità e la ragione, tenendosi in quel mezzo che formò sempre la sua forza: e dopo di Pietro Lombardo e di Lanfranco e Anselmo d’Aosta, Alberto Magno, san Bonaventura, Duncano Scoto, san Tommaso ebbero distinte le competenze della fede e quelle della ragione.

E ci pare gran segno della civiltà di quegli Italiani il saper essi discernere l’evangelo dalle arbitrarie interpretazioni, la Chiesa dagli abusi, il principe di Roma dal pontefice universale, e con baldanza imprecare all’adultera di Babilonia, mentre si mostravano così sommessi all’autorità papale. Il che poco videro quegli intolleranti di tempo fa, che pretesero fare dell’Alighieri un precursore della dottrina protestante, e quei ghiribizzosi d’adesso che lo chimerizzarono autore d’una perpetua allegoria contro la Chiesa, e fino istitutore di non so qual nuova religione.

Dante non era un fino critico, un ardito novatore, come alcuni vollero figurarlo; conosceva i difetti del suo tempo, ma viveva e [p. 31 modifica]pensava con quello; cercava che seriamente e sinceramente si praticassero i principj, accettati allora comunemente; nel secondare la sua fazione non pensava punto a crollare le credenze, a trasformare la società, a sovvertire la fede: flagellò alcuni pontefici, ma perchè, secondo lui, traviavano e corrompeano la santità del papato, cui pur sempre egli riguardava come la chiave maestra dell’edifìzio sociale. La facoltà, in lui eminente, di concentrar in sè il proprio secolo e di rifletterlo di fuori, esclude di necessità il concetto di opporsi a questo, di volere trasfigurarlo. Espone precisissima la formola del cattolicesimo27. Il mondo egli riguarda come una rappresentazione cattolica dell’umanità, per modo che anche i pagani, anche le divinità gentilesche trovano posto in quell’unità e vi ricevono l’impronta del tempo figurato nel poema. Caccia in inferno qualche papa; Clemente V, pastore senza legge e di più laid’opera (Inf. XIX), colloca con Simon mago ad aspettare Bonifazio VIII.

E nessuno, in questa apocalissi della società laica, fu più bersagliato dall’Alighieri che Bonifazio VIII, contro cui ben nove volte si scaglia, come ad uomo non mai satollo dell’avere, pel quale non temè tôrre a inganno la santa Chiesa, e poi farne strazio; che mutò il cimitero di san Pietro in cloaca della puzza e del sangue onde si placa il demonio, in modo che i cristiani siedano parte a destra, parte a manca, e i vessilli segnati colle chiavi s’inalberino contro i battezzati, e Pietro s’impronti sovra suggelli a privilegi venduti e mendaci.

Ma per quanto ingiustamente fiero a questo, allorchè ne vide intaccata l’autorità del re di Francia, e sminuite le ragioni della Chiesa, tonò gravemente contro il nuovo Pilato28; morto Clemente V, dirige una lettera ai cardinali adunati in Carpentrasso, acciochè eleggano un papa italiano che ritorni a quella Roma, di cui perfino i sassi pareangli venerabili. E della sua Firenze, allora in [p. 32 modifica]guerra col papa, dice: — Nel vero con ferità di vipera ella si sforza di lacerare il seno della madre, mentre contro Roma la quale fecela a sua similitudine e immagine, ella aguzza le corna della ribellione». Crede che «la capitale del Lazio sia per tutti gli Italiani da venerarsi siccome principio comune di civiltà»29. Alteri Babilonii, nova regna tentatis, ut alia sit florentina civilitas, alia sit romana. L’opinione ghibellina e il vindice dispetto e le disonestà del clero gli facevano bestemmiare il lusso de’ prelati che coprivano de’ manti loro i palafreni, sicchè due bestie andavano sotto una pelle; e la corte ove tuttodì Cristo si mercava; e i lupi rapaci in veste di pastori, che fattosi Dio dell’oro e dell’argento, attristavano il mondo calcando i buoni e sollevando i pravi. Batte i frati, di cui le badie erano fatte spelonche, e le cocolle sacca di farina ria; eppure le lodi più calde del suo poema tributa ai santi Tommaso, Francesco, Domenico. Professava riverenza alle somme chiavi, e credeva che l’imperio di Roma fosse stato da Dio costituito per la grandezza futura della città ove siede il successore di Pietro. Esalta Matilde contessa, larga donatrice di beni alla Chiesa, sebbene mal sapesse grado a Costantino Magno d’aver dotato di terre i pontefici, e a Rodolfo d’Habsburg d’avergliele confermate. Disapprova l’abuso delle scomuniche, che toglieano or qui or quivi il pane che il pio padre a nessuno serra; e non le crede mortali all’anima, tanto che non possa tornar l’eterno amore a chi si pente (Purg. III).

Facea dunque colla Chiesa come colla patria; le attestava amore e riverenza col lamentarsi de’ vizj che la disabbellivano. Riprovava i pontefici, ma perchè erano o li supponeva tralignanti, nè il guelfo Villani od altro contemporaneo vediamo apporgliene colpa; quand’egli morì a Ravenna presso Guido da Polenta, è scritto che il cardinale Bertrando del Pogetto, legato pontifizio in Romagna mentre la santa sede stava serva e avvilita in Francia, cercasse sturbare le ossa di lui. Questa follia sarebbe a cumular alle tante onde quel prelato contaminò la sua missione politica; potrebb’essere una vendetta ch’egli meditasse del male che Dante disse di quella Francia, alla quale allora i papi eransi fatti vassalli; ma non ne fece nulla; e non che molestarne il sepolcro, subito anzi cominciò pel poeta una venerazione, che tanto meno s’attaglia ai moderni sogni, [p. 33 modifica]in quanto si sa che i Guelfi prevalsero. I suoi concittadini ripararono i loro torti istituendo una cattedra per leggerlo e spiegarlo in duomo, ove Domenico di Michelino30 lo dipingeva vestito di priore e laureato, colla Commedia aperta in mano, mostrando a’ suoi cittadini le bolge dell’inferno e la montagna del paradiso; nelle loggie vaticane fu dipinto tra i Padri della Chiesa: al concilio generale di Costanza leggevasi la Divina Commedia, e frà Giovanni di Serravalle minorita riminese, vescovo di Fermo, ad istanza del cardinale Amedeo di Saluzzo e dei vescovi di Bath e di Salisburgo, la tradusse in prosa latina, e ne fece un commento, che sta manoscritto nella Vaticana. Alla badia di Fonte Avellana, sui più difficili Appennini dell’Umbria, dov’egli dimorò alcun tempo, quei camaldolesi moltiplicarono le ricordanze del pio loro ospite: e i suoi contemporanei lo qualificarono theologus Dantes, nullius dogmatis expers.

A smentire queste moderne invenie basta ricorrere al poema stesso. Lutero nega il libero arbitrio, e Dante lo chiama nobile virtude31 e lo fa largamente spiegare da Beatrice. Crede alle scomuniche, alle indulgenze32, alla confessione33; sul purgatorio s’aggira tutta una parte della sua Commedia, e più volte fa che quelle anime domandino i suffragi dei viventi; Manfredi si duole che «il decreto più corto per buon preghi non diventa, chè qui per quei di là molto s’avanza»34. Marco Lombardo lo prega «che per me preghi quando su sarai»35, e Nino Giudice che dica «a Giovanna mia che per [p. 34 modifica]me chiami là dove agli innocenti si risponde»36, e Guido Guinicelli

               Fagli per me un dir di paternostro,
               Quanto bisogna a noi di questo mondo
               Ove poter peccar non è più nostro37.

Anzi impone come dovere il suffragio:

               Ben si dee loro atar lavar le note
               Che portàr quinci, sì che mondi e lieti
               Possan uscire alle stellate ruote38.

Già dicemmo della sua venerazione pei frati e pei santi Benedetto, Domenico, Tommaso, Francesco; e come riprovi coloro che a Picarda fecero violare il voto39, ed altre a cui «fu tolta di capo l’ombra delle sacre bende»; e intima:

               Non prendan i mortali il voto a ciancia.....
               Siate, cristiani, a muovervi più gravi
               Non siate come penna ad ogni vento40.

Di Maria nessuno parlò con maggiore entusiasmo41. Del pontefice «a cui Cristo le chiavi raccomandò» del cielo42, professa l’infallibilità quando crede che «bastino a salvamento» i due testamenti e il pastor della Chiesa.

Non taceremo però come corresse voce ch’e’ fosse citato al Santo Uffizio, e qui si scagionasse con quel capitolo ch’è conosciuto col nome di Credo di Dante43. Quando il famoso Bartolo lo disse eretico, ne [p. 35 modifica]lo difese sant’Antonino. Sorta la Riforma, Duplessis Mornay, detto il papa de’ Calvinisti, cernì varie opinioni di lui, consone a quelle de’ protestanti, ma lo ributtò Coeffetan. In un Avviso piacevole dato alla bella Italia da un nobil giovane francese, dipingeasi Dante come avverso alle istituzioni cattoliche, e lo confutò il Bellarmino. Il famoso paradossista padre Hardouin volle mostrarlo un impostore, mascherato seguace di dogmi eterodossi. Il secolo nostro, destinato a resuscitare tutte le stravaganze dei passati, ripetè quella bizzarria: e Ugo Foscolo e Gabriele Rossetti poeti, rifuggiti in Inghilterra, vollero ingrazianirsi i loro ospiti sostenendo che Dante voleva «riordinar per mezzo di celesti rivelazioni la religione di Cristo e l’Italia». Sulle orme loro Eugenio Aroux diede un’intera esposizione della Divina Commedia, considerata come un codice di eresia, di rivoluzione, di socialismo. Quando nel 1865 l’Italia unificata volle celebrare il VI centenario della nascita di lui, l’iracondia onde è ossessa la rivoluzione nostra volle palesarsi col celebrare l’inimicizia di Dante pei papi e per la religione cattolica: ma i meglio pensanti e scriventi d’Italia salvarono la sua memoria contro il volgo ufficiale e scribacchiante44. E mostrarono ch’egli serba quella scienza moderata, che non presume spiegar tutto; della teologia non dubita, come non dubita della filosofia e del sillogismo o degli altri artifizj della scolastica per raggiungere la verità: ammira la sapienza di Dio e la provvidenza, anzichè abbandonarsi alla scienza stanca e disillusa, che, più nulla credendo, a nulla conduce. [p. 36 modifica]


XII.


Alla Chiesa erasi attribuito, ragionevole o no ma incontestato, il diritto di disporre d’alcuni dominj. Cosiffatta, dava lo scettro ai re di Sicilia, come ai dogi l’anello di sposo del mare, non mettendo divario nelle forme governative, purchè restasse la libertà. Se scioglieva sudditi dal giuramento, il faceva per interessi religiosi; i due reggimenti restavano distinti, e quando i papi sosteneano l’integrità del matrimonio o eccitavano contro dei Musulmani, usavano ben altrimenti da quando affermavano la Sardegna, la Sicilia o l’Inghilterra essere feudi della santa sede.

Ed è spettacolo insigne il veder questa Chiesa resistere all’Impero ch’essa medesima creò, e che, sconoscendo l’origine sua, volea confondere le due potestà, e sottomettere le coscienze alla spada. Che se l’osservatore superficiale stupisce che tanta potenza essa acquistasse, l’osservatore attento si meraviglia non trionfassero le teoriche di Gregorio VII e Innocenzo III, attesa l’autorità illimitata sulle coscienze, e la superiorità intellettuale e morale de’ prelati sovra i principi d’allora. Qualora il canone dell’autorità pontifizia, assodato nell’opinione come nel diritto, fosse prevalso, l’Europa si riduceva a federazione di repubbliche feudali, gerarchicamente disposte, avvolte in guerriciuole senza efficacia d’incivilimento, senza neppur quelle conquiste che forzano l’unità. Un prete, sovrano elettivo, da Roma avrebbe mandato non solo i dogmi della fede, ma le leggi civili e politiche all’Ebro e al Tanai, alla Twed e alla Narenta.

Questo concetto, lodato nella società pagana, riusciva troppo pericoloso alla sacerdotale pietà e all’attuazione d’un regno che non è di questo mondo. E vuolsi confessare che, come ogni potenza, anche la pontifizia travalicò: nel respingere la confusione delle due autorità, ambita dai re, talora le confuse ella stessa; adoprò armi spirituali per interessi temporali; sognò la forza nell’ampliamento dei possessi, come fanno i re. Innocenzo IV diceva a san Tommaso: — Vedete che non siamo più ai tempi che san Pietro esclamava, Non ho oro nè argento». E il santo rispondevagli: — Ma non è neppur il tempo che san Pietro intimava allo storpio, In nome di Cristo sorgi e cammina». Legati e nunzj spediti ne’ paesi a recar la conciliazione, l’indulgenza, la giustizia, spesso smungevano colle tasse i popoli: con pretese di giurisdizione [p. 37 modifica]turbavano i governi locali; alla concessione di indulti e dispense davano aria di traffico. Le badie si conferivano all’intrigo, alla parentela, alle aderenze, e con ciò perigliavasi la morale del monaco o del prelato, il quale in sostanza era un cavaliero, la cui secolaresca condotta non trovava freno nelle ammonizioni de’ superiori e nelle decisioni de’ concilj, assiduamente attenti a correggere la disciplina. I papi s’impicciolivano anche in divisamenti politici, ispirati da interessi e passioni: Clemente IV offrir la Sicilia ai Provenzali per sottrarla agli Svevi; Nicola III ideare di spartir l’Impero in quattro regni ereditarj: la Germania pei figliuoli di Rodolfo d’Austria; il regno d’Arles per Carlo Martello; la Lombardia e la Toscana a due Orsini suoi nipoti.

Con ciò, dal magnifico concetto del medioevo scendeasi fino alla principesca grettezza odierna. Chi, nel dolersi Dante che il mondo sia sossopra perchè Roma «confonde in sè due reggimenti», vede una disapprovazione del dominio temporale, attribuisce frivola causa a grandissimi effetti. Bensì egli allude, o piuttosto fa alludere da uno de’ suoi interlocutori (Marco) alla prevalenza dei papi sugli imperatori: chè quel che allora chiamavasi poter temporale non consisteva nel possesso di un piccolo territorio in Italia, bensì nella supremazia del pontefice su tutti i signori cristiani, considerandoli come delegati da quello a governare le cose temporali. E Dante era talmente alieno dal disputare al papa una città o un territorio, che non solo trova sconveniente il dubitare che i papi ne abusino45, non solo esalta Matelda, così larga di beni terreni a coloro che dispensano i beni celesti, ma gli balenò un pensiero di filosofia della storia, quasi che tutti i fatti dei Trojani e del Lazio fossero coordinati affinchè grandeggiasse la città «ove siede il successor del maggior Pietro». Bensì repugnava da quelle guerre della tiara colla spada, ove la passione peggiorava il diritto, ove da una parte scarseggiava la fede, dall’altro la carità. L’Impero, sublime concezione per render morale la forza, legittima la dominazione, durevole la pace, era degenerato nell’aspirazione di render ereditaria una dignità, per essenza elettiva, e di connettere alla Germania l’Italia. Federico II, un de’ maggiori principi, appunto colla sua grandezza e colle sue arti aveva [p. 38 modifica]chiarito come non potesse allora primeggiare nel modo chi «non avea cura dell’anima sua».

Lui morto, la sua famiglia, ch’esso avea voluta render grande in Germania e in Italia, andò sterminata; cominciò il grande interregno; non v’era più imperatore riconosciuto, pure l’autorità non era morta; potevasi ancora recarvi appello nella contesa da principi a principi, da città a città, da cittadini a signori: e la corte suprema nel Castel di Lumello, e qualche missus dominicus rendeano giustizia. Però indebolita l’autorità superiore, ciascun regolo, ciascun barone esercitò la giurisdizione e la forza sua, il diritto del pugno, come dissero i Tedeschi, finchè conferirono la corona al men temuto fra essi, al povero Rodolfo di Habsburg. E questi per prima cosa riconobbe le giurisdizioni e i possessi della santa sede; non si mescolò alle vicende d’Italia, nel che imitollo suo figlio Alberto, perciò imprecato da Dante che avrebbe voluto inforcasse gagliardamente gli arcioni di quest’Italia, fatta indomita e selvaggia.

Partito poi il pontefice dall’Italia anche la media e la meridionale, che più specialmente dipendea da essi, restava o agitata, o minacciata dai francesi Angioini, sicchè i Ghibellini desideravano che l’imperatore venisse, e prendesse influenza sulla meridionale, come l’avea sulla settentrionale, tanto da impedirne la ruina; venisse a vedere la sua Roma.

Ma mentre la potenza imperiale declinava, anche contro alle esuberanze pontifizie insorgeano i Governi e il pensiero. Non v’è Comune italiano che non mettesse limiti agli acquisti ecclesiastici, all’ingerenza curiale, alla potestà vescovile. A tacere d’altri regni, in Francia un gran re e gran santo, tipo dell’equità, colla quale arrivò a ben più che non i suoi predecessori e successori coll’astuzia, accentrò nel trono, la giustizia, rendendola così imparziale e regolata; cogli Stabilimenti sistemò l’amministrazione; colla Prammatica preservò dal pericolo che alla disciplina e al dogma causava il soverchio intreccio degli interessi del mondo colla fede, e l’identificarsi del potere che regola gli affari della terra con quello che schiude le porte del cielo.

Con altri intenti proseguì l’opera del santo il tristo Filippo il Bello, che dentro il regno volendo esser padrone assoluto, e fuori esercitare estesa ingerenza, per nessun riguardo o diritto non ritraeasi da una politica tutta mondana, appoggiata a soldati e legulej. Bonifazio VIII gli oppose la formola più esplicita della potestà papale, che riassumeva [p. 39 modifica]le teoriche raccolte nelle False Decretali, temperandole nelle frasi e nelle formole: ma Filippo le fe spogliare di queste precauzioni, e presentare in una nudità che eccitò l’indignazione patriotica e regalista, traendo così dalla sua gli studiosi, i legisti, e il rancore nazionale de’ Francesi contro gl’Italiani.

Allora nel biasimare gli abusi e le debolezze personali de’ grandi usavasi una franchezza, di cui perdette l’idea la vanagloriosa servilità d’oggidì; e Dante, che parlò si acerbo a re, a consoli, a imperadori, a papi, non fu punito se non dall’invidia dei cittadini e dall’abjettezza de’ posteri. Aveva egli tacciato i papi d’avarizia e di ambizione; per ira di parte e vendetta di fuoruscito bersagliò implacabilmente Bonifazio; ma vituperò Filippo il Bello perchè senza decreto, cioè senza autorizzazione pontifizia, stendesse le cupide mani sul tempio (Purg. XX, 8), e perchè si facesse nuovo giudeo per crocifìgger Cristo nel suo vicario.

La Spagna continuava la sua crociata religiosa e nazionale di sette secoli, ritogliendo ai Musulmani il sacro suolo della patria; dove nell’Aragona si introduceva una generosa costituzione, nella Castiglia si pubblicava il codice delle Sette Partite; dapertutto le Cortes prevenivano le trascendenze della monarchia.

Un’altra Crociata si combatteva nella Prussia e nella Livonia, dove i Cavalieri Teutonici piantavano principati, che un giorno diverrebbero il nucleo del protestantismo. Russia e Lituania levavano appena la testa di sotto al brutale giogo de’ Mongoli. L’Ungheria si dava la costituzione originale della bolla d’oro; e guerresca al pari di essa, la Polonia dominava sui paesi che un giorno la sbranerebbero e conculcherebbero. L’Inghilterra esigeva dal suo re la Magna Carta, concessale «davanti all’esercito di Dio e della Chiesa» nel 1215 e riconfermata nel 1300; dove si istituiscono già la Camera de’ Comuni, la mutua solidarietà, il gran giurì. Nella Scozia Wallace e Roberto Bruce difendono l’indipendenza; e la battaglia di Bannockburn (1314) costringe gli Inglesi a restituire la «pietra di Scona». Insomma ogni paese svolgea la propria costituzione, nata dal fondersi gli elementi locali con quelli della conquista; tutti si ingegnavano di sottrarre la propria libertà dalla giurisdizione dei conti e de’ vescovi, e tutelarla dalle ambizioni indigene e dalle armi forestiere.

Questo lavoro faceasi più vivo, o almeno più avvertito in Italia, atteso i tanti ricordi che v’avea lasciati l’antica civiltà; e fu spettacolo [p. 40 modifica]grandioso il veder i nostri trionfare d’un potere armato, frenare un’autorità sconfinata, ridurre a giusti limiti le immunità del clero e i privilegi dei nobili, sbalzare le antiche famiglie prepotenti, emancipare i servi e trasformarli in coloni, costruire l’edifizio nuovo coi rottami dell’antico intrisi di sangue.

Quelle gare, che alcuni deplorano come gravissima infelicità, non erano effetto della libertà, bensì sforzi per acquistarla e colpa del non averla piena, appunto perchè accanto alle città libere sopravviveano la campagna servile, le giurisdizioni feudali, l’ingerenza imperiale. I popoli liberi possono agognare alla vittoria, non al riposo. Fra essi non si governa che per via di fazioni: ognuno deve appartenere ad una. Sono compatte e permanenti? il Governo dura; se no, non giunge a mezzo novembre quel che si fila d’ottobre. Scopo propongonsi il meglio del paese; ma i partiti confondono questo coll’interesse proprio. I Guelfi, teocratici, probi, ideali, utopisti: i Ghibellini, imperiali, positivi, pratici; entrambi erano partiti generosi: guelfe Milano e Firenze «rôcca ferma e stabile della libertà d’Italia» (Gio. Villani), ricovero ultimo di questa: bandiera ghibellina sventolavano i signorotti, che la forza credeano necessaria alla quiete e alla giustizia, ma neppur essi tradivano la patria agli stranieri, benchè la guastassero coll’implicarli ne’ loro dissidj. Gli uni e gli altri svisavano l’intento abusando o esagerando o traviando, prestando culto agli uomini, anzichè all’idea, e gli uni invocando l’imperatore, gli altri il papa. Ma il papa anch’egli è principe, ha esercito, serve a politiche passioni che alterano i grandiosi intenti. Così i Guelfi di Firenze divengono fautori dell’imperatore e avversi al papa, e si dividono in Bianchi e Neri. È il giuoco che vediamo continuo nelle due supreme divisioni inglesi dei tory e degli wigh: e Dante era guelfo come Roberto Peel fu tory, compiendo nel 1843 quel che gli wigh aveano voluto al 1830.

Ambi i partiti riconoscevano un principio superiore a tutte le rivoluzioni; la distinzione del potere temporale dall’ecclesiastico, dello spirito dalla legge, della fede dal diritto, della coscienza dell’individuo dalla forza della società, dell’unità umana dall’unità civile. Il prevalere di una di queste tesi porta necessariamente l’antitesi; se la Chiesa si fa democratica col popolo, l’Impero si fa democratico colla plebe; se i Guelfi costituiscono l’eguaglianza, i Ghibellini vogliono impedirla colla legge; se prevale il concetto [p. 41 modifica]della libertà individuale, rendesi necessario frenarla colla potenza sociale. Le gelosie e le gare rinascenti indebolivano la coscienza dei doveri da Stato a Stato, da uomo a uomo: impedivano si formasse uno spirito pubblico, toglievano alla patria di valersi dei migliori, esclusi perchè Guelfi o Ghibellini, nobili o plebei; e invece di afforzarsi nella federazione, ognuno vagheggiò il suo vantaggio particolare.

La parte popolana prevale generalmente; ma sentendosi inetta, domanda a reggerla il prode o lo scaltro, che avendo poteri temporarj ma illimitati, avvezza all’illimitato obbedire. Chè così va sempre; gli uomini si danno a una fazione; le fazioni a un uomo, il quale trovasi despoto di tutti coloro i quali ad esso si consacrarono, e che non gli domandano se non di farli trionfare; poi salutano benvenuto chi, al dechino d’una rivoluzione, ricompone comunque sia le cose. Agiati, colti, dediti alle arti, i nostri aspirano alla quiete; il diritto romano risorgente abitua a servilità; i nobili amano meglio corteggiare un grande fortunato che il popolo.


XIII.


A questa trasformazione assisteva Dante, e allo spettacolo delle interminabili guerre, fantasticò quella pace universale, che fu lusinghiero pretesto a tante false teoriche; e la cercò nell’unità del capo, in una potestà assoluta che dominasse su tutte. Conforme agli imperiali d’allora ed ai leggisti, Dante palesa somma riverenza per la «nostra antichissima ed amata gente latina, che mostrar non poteva più dolce natura in signoreggiando, nè più sottile in acquistando, nè finalmente più forte in sostenendo; e massimamente di quel popolo santo, nel quale l’alto sangue trojano era mischiato, cioè Roma; quella città imperatrice, per cui guidata la nave della umana compagnia per dolce cammino al debito porto correa.... E certo sono di ferma opinione che le pietre che stanno nelle sue mura siano degne di riverenza, e il suolo dov’ella siede nè sia degno, oltre quello che per gli uomini è predicato»46. Dagli imperatori sperava ristoro ai mali d’Italia, e invitavali a sostenere i rancori suoi e i suoi amori: inteso in rialzare l’opinione della loro autorità, [p. 42 modifica]cacciò nell’ultimo fondo dell’inferno gli uccisori del primo Cesare, e pose in cima al paradiso l’aquila imperiale, e stese un libro particolare, De monarchia. Tocco anche personalmente dalle tribolazioni in cui il disaccordo delle due potenze gettò la cristianità, pensava che, a voler il progresso, si richiedesse la pace sotto un monarca, unico arbitro delle cose terrene, mentre il pontefice dirige quelle risguardanti l’eterna salute. La monarchia è necessaria al bene del mondo? Il popolo romano s’è con giustizia attribuito l’impero? L’autorità imperiale rileva da Dio direttamente o dal papa? Questi problemi egli si propone nel libro De monarchia, ed è facile indovinarne la risposta. L’unità è la perfezione: tipo ne è l’impero romano; il Cesare tedesco ricomporrà il freno della nazione regina. Quando uno solo sia padrone di tutte cose, è spenta la cupidigia, radice d’ogni male, e nascono la carità, la libertà: un imperatore è troppo alto per servire all’interesse de’ singoli47. Questa monarchia universale deve appartenere alla nazione più nobile, e questa è la latina, il cui fondatore discende al pari da Enea e da Dardano, e per essi da Atlante, œthereos humero qui sustinet orbes; popolo a cui vantaggio Iddio operò i miracoli che si leggono in Livio, e gli concesse vittoria nel conflitto colle altre genti. Se guardiamo il Vangelo, Cristo volle nascere suddito di Cesare; la Chiesa venne dopo l’Impero, talchè la costituzione di quella non potrà dedursi che da questo. Che se i diritti s’acquistano legittimamente col duello, ben s’ha a credere che il giudizio di Dio si manifesti non meno nelle battaglie generali, e perciò abbiano legittimamente ottenuto l’imperio i [p. 43 modifica]Romani, popolo che quanto amasse gli altri mostrò col conquistarli, posponendo le comodità proprie alla salute dell’uman genere.

Eccovi prevenuta di secoli la teorica moderna, che asserisce sempre vincente la parte migliore; ecco dichiarata ottima salvaguardia della pubblica felicità la massima potenza d’una monarchia, universale e dipendente da Dio solo, non da alcun suo vicario; ecco in conseguenza tolto l’unico schermo che allora contro l’imperatore avessero i popoli, ed usurpata a questi la indipendenza nazionale, che è vanto e desiderio loro.

Conseguente a questa teorica, egli aveva imprecato giusto giudizio dalle stelle sopra il sangue di Rodolfo tedesco e d’Alberto suo figlio, che per cupidigia lasciavano disertare il giardin dell’Impero; e bestemmiò Venceslao pasciuto d’ozio e di lascivia: mentre al divino e felicissimo Enrico VII di Lussemburgo preparò un seggio in paradiso, e lo inizzava contro quella città, che allora e poi fu rôcca della libertà italiana. A questa bassezza non scendeva Dante per viltà, sì per dispetto; e dalle servili conseguenze arretrava; e gli avveniva, come troppo spesso agl’Italiani, di desiderare quel che non hanno, per tardi pentire quando n’abbiano fatto esperimento. I voti del poeta furono esauditi; furono inforcati gli arcioni di questa Italia, fiera fella e selvaggia; e gli abbracci degli imperatori, quand’ebbero i papi non più oppositori ma conniventi ed alleati, prepararono un’età di obbrobrioso servaggio, e la malaugurata necessità di violenti tentativi per riscattarsene.

Nel III della Monarchia professa che «incomincerà la battaglia per la salute della verità, usando quella riverenza la quale è tenuto usare il figliuolo pio inverso il padre, pio inverso la madre, pio inverso Cristo e la Chiesa e il pastore, e inverso tutti quelli che confessano la cristiana religione». In effetto egli muove guerra non alla sede romana, ma ai decretalisti: al dominio temporale non tocca mai, ma solo alla presunzione che ostentavasi di soprastare temporalmente all’Impero: gli imperatori loda tutti: i papi non critica in generale, ma alcuni di essi.

Vuol poi la monarchia non sia tale che «i minimi affari della città siano sottoposti all’imperatore»: ma «le nazioni e i regni obbediscano a leggi diverse, ed altrimenti si regolino gli Sciti sotto il polo, altrimenti i Garamanti sotto l’equatore»48. Poi cotesto [p. 44 modifica]imperatore universale onnipossente, Dante volea risedesse in Italia, e intimava esser i monarchi fatti pel popolo, non questo per quelli: anzi essi sono i primi ministri del popolo: tanto il senno abituale rivaleva, appena che l’ira attuale cessasse d’allucinarlo. Parimenti, geloso come si mostrò delle pure origini, bersaglia i privilegi di nascita e l’edifizio feudale, sino a voler abolita l’eredità dei beni, non che quella degli onori. «La pubblica potenza non dee andar a vantaggio di pochi, che, col titolo di nobili, invadano i primi posti. A sentirli, la nobiltà consiste in una serie di ricchi avoli: ma come far caso sopra ricchezze, spregevoli per le miserie del possesso, i pericoli dell’incremento, l’iniquità dell’origine? La quale iniquità appare o vengano da cieco caso, o da industrie fine, o da lavoro interessato, e perciò lontano d’ogni idea generosa o dal corso ordinario delle successioni. Poichè questo non potrebbe conciliarsi coll’ordine legittimo della ragione, che all’eredità dei beni vorrebbe chiamar solo l’erede delle virtù. Che se il diritto di nobili sta nella lunga serie di generazioni, la ragione e la fede riconducono tutte queste a’ piedi del primo padre, nel quale tutti furono nobilitati o tutti resi plebei. Poichè dunque un’aristocrazia ereditaria suppone l’ineguaglianza, la primitiva moltiplicità delle razze repugna al dogma cattolico. Vera nobiltà è la perfezione, che ciascuna creatura può raggiungere ne’ limiti di sua natura: per l’uomo specialmente è quell’accordo di felici disposizioni, di cui la mano di Dio depose in esso il germe, e che, coltivata da solerte volontà, divengono ornamenti e virtù».

E nel Convivio, dove più blandisce alle plebi e ai signorotti, intima: — Ahi malestrui e malnati, che disertate vedove e pupilli, e rapite alli men possenti; che furate ed occupate l’altrui ragioni, e di quelle corredate conviti, donate cavalli ed armi, robe e denari; portate le mirabili vestimenta, edificate li mirabili edifizj, e credetevi larghezza fare! E che è questo altro fare che levar il drappo d’in sull’altare, e coprire il ladro e la sua mensa? Non altrimenti si dee ridere, tiranni, delle vostre mansioni, che del ladro che menasse alla sua casa li convitati, [p. 45 modifica]e ponesse sulla mensa tovaglia furata d’in sull’altare, con li segni ecclesiastici ancora, e non credesse che altri se n’accorgesse».

Questi sfoghi egli si permetteva, non senza domandare scusa dell’opporsi all’opinione di Federico II.

Sbandito dai Guelfi, per passione si fa ragionato propugnatore della parte avversa; battuto dalla procella, cerca riposo nel despotismo; assoda l’incondizionata tirannide; vuol l’Italia sotto un imperatore; ma questa dignità non deve competergli perchè forte, bensì perchè giusto; attesochè mal segue il segno dell’aquila chi questa separa dalla giustizia. Egli, che lodava Roma d’aver avuto due reggimenti, non volea distruggere il temporale del papa, bensì che questo non soverchiasse l’imperatore.

Insomma non era vero ghibellino, ma guelfo bianco, sicchè batte entrambi i partiti, egli proscritto dopo essere stato proscrittore. Da ciò ottiene vista più elevata, superiore ai democratici di san Tommaso come agli imperialisti di Marsiglio da Padova, sebbene non si accorga che fra Guelfi e Ghibellini si erige la fiera imparzialità de’ tiranni. Se fosse stato d’un solo partito, l’altro partito l’avrebbe respinto: mentr’egli usa l’abito del medioevo che domanda un senso letterale ed uno concettuale, e dapertutto vuol trovare un significato arcano sotto alle forme della natura e dell’arte.


XIV.


E l’unità d’Italia fu vagheggiata e proclamata da Dante?

Sì, ma al modo suo, cioè in coerenza co’ suoi principj filosofici, teologici, giuridici, etici, politici, che sempre facea convergere. Legge di movimento e fine dell’universo, secondo lui, era l’unità dell’ordine creativo, conforme a sant’Agostino, sulle cui traccie camminò san Tommaso, considerando le due città di Dio e del mondo congiunte nel viaggio terreno, di là della morte separate in due vie, che l’una conduce all’eterna felicità, l’altra all’inenarrabile miseria. La Città di Dio, la Somma del dottore Angelico, e l’Itinerario di san Bonaventura, furono le vere fonti dell’invenzione dantesca; che contempla il mondo uscire da Dio per la creazione, a lui tornare, in lui quotarsi: la sapienza lo crea, la Provvidenza il muove, la Giustizia lo compie, in modo che

                    Le cose tutte quante
               Hanno ordine tra loro, e questo è forma
               Che l’universo a Dio fa somigliante;

[p. 46 modifica]unità di fine comune, varietà in ciascuno, e non solo nelle creature fuor d’intelligenza, ma anche in quelle che hanno intelletto ed amore49.

Il primo cielo empireo, immobile, muove tutti gli altri, «quasi un’ordinata civilitade intesa nella speculazione delli motori»50. L’etica consiste nell’operare ordinatamente. Fondamento del diritto è l’ordine51. Nella politica pure è l’unità che armonizza le varie società umane e all’unità le riconduce. Il genere umano si considera come un solo individuo che fa parte dell’ordine della creazione, secondo il quale è suo fine il conoscere la verità. A tale intento è necessaria la tranquilla serenità della mente; e perciò la pace universale è il fine prossimo della società umana, è il mezzo indispensabile onde l’uman genere consegua il suo fine.

Perchè si abbia pace fa mestieri di chi ordini ad unità gli uomini secondo le loro divisioni in nazioni e Stati; un monarca universale, che sia il principio dell’unità del genere umano qual società civile, siccome qual società morale e podestà unificante è il papa. Ma la terrena felicità è ordinata alla beatitudine eterna, vero fine della società; laonde il monarca dee soggiacer al papa, siccome il figlio al padre, e siccome la luna, luminare minore, rileva dal sole, luminare maggiore52.

Non trattasi dunque dell’imperatore dei Ghibellini, bensì del capo che unifica la società civile intera, senza violenza, senza intaccare la condizione dei varj Stati, e rimovendo le cause di perturbazione e gli scandali; rendendo il mondo civile più simile a Dio perchè lo fa uno, superiore alle cupidigie, e perciò dispensiero di giustizia a tutti, a popoli e principi. Questo imperatore universale è continuatore della monarchia de’ Romani, la quale era come una federazione di popoli che, sotto un capo, conservavano le proprie istituzioni; patrocinio anzichè impero53; nè il mondo fu mai nè sarà sì perfettamente disposto come allora che alla voce d’un solo [p. 47 modifica]principe del romano popolo e comandatore fu ordinato, siccome testimonia Luca evangelista54.

Vedendo dunque in Italia non starsi senza guerra nessuna provincia, e combattersi fin quelli che serra la medesima mura, invoca l’imperator romano a venire a frenare questa fiera selvaggia, e unificar l’Italia nella pace dell’ordine, senza togliere le particolari istituzioni di ciascuno. Quest’unità voleva egli che assicurasse la maggior libertà di vita e di movimenti; ben lontano dall’accentramento delle moderne mediocrità, come dalla servilità de’ Ghibellini d’allora. Dai quali viepiù si scostava per la riverenza che mostrava alle somme chiavi.


XV.


Con sì stupendi cominciamenti rivelavasi la nostra lingua. Dante nella Vita nuova avea riprovato coloro «che rimano sopra altra materia che amorosa; conciossiachè cotal modo di parlare (l’italiano) fosse da principio trovato per dire d’amore». Ma nelle trattazioni civili ebbe a riconoscere la forza del vulgar nostro, e come «la lingua dev’essere un servo obbidiente a chi l’adopera, e il latino è piuttosto un padrone, mentre il vulgare a piacimento artificiato si trasmuta»; onde nel Convivio diceva: — Questo sarà luce nuova e sole nuovo, il quale sorgerà ove l’usato (il latino) tramonterà, e darà luce a coloro che son in tenebre e in oscurità per lo usato sole che loro non luce».

Frate Ilario, priore del monastero di Santa Croce del Corvo nella diocesi di Luni, inviando la prima cantica a Uguccione della Fagiuola, così gli scrive: — Qui capitò Dante, o lo movesse la religione del luogo, o altro qualsiasi affetto. Ed avendo io scorto costui, sconosciuto a me ed a tutti i miei frati, il richiesi del suo volere e del suo cercare. Egli non fece motto, ma seguitava silenzioso a contemplare le colonne e le travi del chiostro. Io di nuovo il richiedo che si voglia e chi cerchi; ed egli girando lentamente il capo, e guardando i frati e me, risponde, Pace! Acceso più e più della volontà di conoscerlo e sapere chi mai si fosse, io lo trassi in disparte, e fatte seco alquante parole, il conobbi: chè, quantunque non lo avessi visto mai prima di quell’ora, pure da molto tempo [p. 48 modifica]erane a me giunta la fama. Quando egli vide ch’io pendeva dalla sua vista, e lo ascoltavo con raro affetto, e’ si trasse di seno un libro, con gentilezza lo schiuse, e sì me l’offerse, dicendo: Frate, ecco parte dell’opera mia, forse da voi non vista; questo ricordo vi lascio; non dimenticatemi. Il portomi libro io mi strinsi gratissimo al petto, e, lui presente, vi fissi gli occhi con grande amore. Ma vedendovi le parole vulgari, e mostrando per l’atto della faccia la mia meraviglia, egli me ne richiese. Risposi ch’io stupiva egli avesse cantato in quella lingua, perchè parea cosa difficile e da non credere che quegli altissimi intendimenti si potessero significare per parole di vulgo; nè mi parea convenire che una tanta e sì degna scienza fosse vestita a quel modo plebeo. Ed egli: Avete ragione, ed io medesimo lo pensai; e allorchè da principio i semi di queste cose, infusi forse dal cielo, presero a germogliare, scelsi quel dire che più n’era degno; nè solamente lo scelsi, ma in quello presi di botto a poetare così:

               Ultima regna canam, fluido contermina mundo,
               Spiritibus quæ late patent, quæ præmia solvunt
               Pro meritis cuicumque suis.

Ma quando pensai la condizione dell’età presente, e vidi i canti degl’illustri poeti tenersi abjetti, laonde i generosi uomini, per servigio de’ quali nel buon tempo scrivevansi queste cose, lasciarono, ahi dolore! le arti liberali a’ plebei; allora quella piccioletta lira onde m’era proveduto, gittai, ed un’altra ne temprai conveniente all’orecchio de’ moderni, vano essendo il cibo duro apprestar a bocche di lattanti».

L’Alighieri osò pertanto adoperare l’italiano a «descriver fondo a tutto l’universo»; e vi pose il vigore, la rapidità, la libertà d’una lingua viva. Che se egli non la creò, la eresse al volo più sublime; se non fissolla, la determinò, e mostrò ciò che potea. Togli le voci dottrinali, o quelle ch’egli creava per bisogno o per capriccio (avvegnachè vantavasi di non far mai servire il pensiero alla parola, o la parola alla rima55), le altre sue son quasi tutte vive. Se, [p. 49 modifica]come alcuno fantastica, egli fosse andato ripescandole da questo o quel dialetto, avrebbe formato una mescolanza assurda, pedantesca, senza l’alito popolare che solo può infonder vita. Forse le prose e i versi de’ suoi contemporanei, quanto a parole, differiscono da’ suoi? Nato toscano, non ebbe mestieri che di adoperare l’idioma materno; e le voci d’altri dialetti che per comodo di verso pose qua e là, sono in minor numero che non le latine o provenzali, a cui non per questo pretese conferire la cittadinanza.

Irato però alla sua patria, volle predicar teoriche in perfetto contrasto colla propria pratica; e nel libro Del vulgare eloquio (dettato in latino per una nuova contradizione), dopo aver ragionato dell’origine del parlare56, della divisione dagli idiomi e di quelli usciti dal romano che sono la lingua d’oc, la lingua d’oui e la lingua di , riconosce in quest’ultima quattordici dialetti, simili a piante selvaggie, da cui bisogna diboscare la patria. E prima svelle il romagnuolo, lo spoletino, l’anconitano, indi il ferrarese, il veneto, il bergamasco, il genovese, il lombardo, e gli altri traspadani irsuti ed ispidi, e i crudeli accenti degli Istrioti; dice «il vulgare de’ Romani, o, per dir meglio, il suo tristo parlare, essere il più brutto di tutti i vulgari italiani, e non è meraviglia, sendo ne’ costumi o nelle deformità degli abiti loro sopra tutti puzzolenti»; dice che Ferrara, Modena, Reggio, Parma, [p. 50 modifica]non possono aver poeti, in grazia della loro loquacità57. Insomma lascia trasparire che quel che meno gl’importa è la quistione grammaticale; ma sovratutto condanna i Toscani perchè arrogantemente si attribuiscono il titolo del vulgare illustre, il quale, a dir suo, «è quello che in ciascuna città appare ed in niuna riposa; vulgare cardinale, aulico, il quale è di tutte le città italiane, e non pare che sia in niuna; col quale i vulgari di tutte le città d’Italia si hanno a misurare, ponderare e comparare». Per diservire la sua patria, ne depompa il linguaggio; i dialetti disapprova quanto più s’accostano al fiorentino, eppure insulta ai Sardi perchè dialetto proprio non hanno, ma parlano ancora latino: loda invece il siciliano, dicendo che così si chiama l’italiano e si chiamerà sempre; eppure all’ultimo capitolo mette il parlar nostro, quod totius Italiæ est, latinum vulgare vocatur; e semprechè gli cade menzione del parlar suo o del comune italiano, lo chiama vulgare, o parlar tosco, o latino, e neppur una volta siciliano.

A sostegno del suo sofisma reca poche voci di ciascun dialetto, prova inconcludentissima; e versi di poeti di ciascuna regione, lodando quelli che si applicarono a cotesta lingua aulica, riprovando quelli che tennero la popolare, massimamente i Toscani. Nulla men giusto che tali giudizj, e basta leggere anche solo le poesie da lui addotte, per vedere che le toscane popolesche sono similissime alle cortigiane d’altri paesi: donde deriva che il cortigiano d’altrove, cioè lo studiato, era il naturale vulgato di Firenze58.

Malgrado i commenti degli eruditissimi, o forse in grazia di quelli, nessuno riuscì a cogliere l’assunto preciso di Dante in questo lavoro; tanto spesso si contradice, tanto esce ne’ giudizj più inattesi. «Il vulgare italico, illustre, cortigiano (egli dice) è quello il quale è di tutte le città italiane, e non pare che sia di niuna; al quale i vulgari di tutte le città d’Italia s’hanno a misurare, ponderare e comparare». Sembra voglia dire che la lingua che si scrive è una [p. 51 modifica]che non si parla in nessun luogo. Chi s’adagerebbe a tale sentenza? Rimproverando i Fiorentini perchè «arrogantemente si attribuiscono il titolo del vulgare illustre», rinfaccia loro due vocaboli, introcque e manicare. Or bene, questi due vocaboli egli stesso adopera nella Divina Commedia59.

Chi volesse vedervi qualcosa più che un dispetto di fuoruscito, potrebbe supporre che i dotti avessero mostrato far poco conto della sua Commedia, perchè scritta nella lingua che egli avea dalla balia, senza i pazienti studj che richiedeva il latino; lo perchè egli togliesse a mostrare che nessun dialetto è buono a scrivere, ma da tutti vuolsi scernere il meglio. E qui v’è parte di verità: chè chi voglia formare un mazzo, non coglie tutti i fiori d’un giardino, ma i più belli; e quest’arte del crivellare e dello scriver bene non può impararsi se non da chi bene scrive, nè a questi è prefìsso verun paese. Ma il giardino dove trovar i fiori più abbondevoli e genuini, qual sarà se non la Toscana? E di fatto egli confessa che fin d’allora non solo l’opinione de’ plebei, ma molti uomini famosi attribuivano il titolo di vulgare illustre al fiorentino; nel che dice impazzivano; egli che pur credea necessario dare per fondamento alla lingua scritta un dialetto, benchè lo sdegno gli facesse ai Fiorentini, obtusi in suo turpiloquio, preferire sino il disavvenente bolognese; egli che asseriva il latino scrivesi per grammatica, ma il bello vulgare seguita l’uso.

E di fatto il suo scrivere, quanto alle parole, è identico con quel de’ Toscani suoi contemporanei, sicchè s’egli dice d’aver usato lingua diversa, ciò tanto gli si dovrebbe credere (riflette il Machiavello) quanto ch’ei trovasse Bruto in bocca di Lucifero. Del toscano fa altre volte grandi elogi, e dice essersi valso del vulgare fiorentino, proprio quello che parlavano suo padre e sua madre: «questo vulgare fu congiungitore delli miei parenti che con esso parlavano.... perchè manifesto è lui esser concorso alla mia generazione, e così essere alcuna cagione del mio essere.... e così è palese e per me conosciuto esso essere stato a me grandissimo benefattore.... se l’amistà s’accresce per la consuetudine, manifesto e [p. 52 modifica]in me sommamente cresciuta, che sono con esso vulgare tutto mio tempo usato»60.

Nella scarsa metafìsica d’allora, egli confondeva la lingua collo stile, giacchè è affatto vero che, adottando quella dei Fiorentini, bisognavano poi l’ingegno e l’arte affinchè divenisse colta; e poichè a ciò serve non poco l’usare con chi ben parla e ben pensa, Bologna per la sua Università offriva campo a migliorar lo stile, più che non la mercantesca Firenze. L’appunteremo noi se non seppe far una distinzione, la cui mancanza offusca anche oggi i tanti ragionacchianti in siffatta quistione? Al postutto egli non argomenta della lingua in generale, ma di quella che s’addice alle canzoni: lo che dovrebbero non dimenticare mai coloro che vogliono di Dante fiorentino far un campione contro quel fiorentino parlare, ch’egli pose in trono inconcusso.

Altri versi dettò, e massime canzoni amorose, delle quali poi fece un commento nel Convivio; fatica mediocre, dove maturo tolse a indagar ragioni filosofiche a sentimenti venutigli direttamente da vaghezze giovanili, e vorrebbe che per amore s’intendesse lo studio, per donna la filosofia, per terzo cielo di venere la retorica, terza scienza del trivio; per gli angeli motori di questa sfera, Tullio e Boezio unici suoi consolatori. Ivi professa di valersi dell’italiano «per confondere li suoi accusatori, li quali dispregiano esso, e commendano gli altri, massimamente quello di lingua d’oc, dicendo ch’è più bello e migliore di questo»; eppure altrove soggiunse «molte regioni e città essere più nobili e deliziose che Toscana e Firenze, e molte nazioni e molte genti usare più dilettevole e più utile sermone che gli Italiani». Locchè vedasi se a que’ tempi si potea dire con giustizia.

Quella che l’Alighieri creò veramente, è la lingua poetica, che fin ad oggi s’adopera con più o meno d’arte, ma sempre a stessa, e per la quale sin d’allora egli era cantato fin nelle strade61. La [p. 53 modifica]sua prosa invece è povera d’artifizio, pesante, prolissa, con clausole impaccianti, periodi complicati. Quanto più doveva essere ne’ coetanei suoi, eccetto que’ Toscani che s’accontentassero di usarla nell’ingenuità natia?


XVI.


Del nome di Dante è piena l’età sua; segno dell’importanza che acquistavano le lettere; le quali, mentre tutt’altrove balbettavano, in Italia furono portate a somma altezza da lui, e subito da Petrarca e Boccaccio; insigne triumvirato, che alla nazionale letteratura impresse il carattere che tuttora conserva.

La poesia di Dante e quella del Petrarca furono modificate dall’indole dei tempi e dalla lor propria. L’Alighieri visse cogli ultimi personaggi del medioevo, robusti petti, tutti patria, tutti gelosia del franco stato, cresciuti fra puntaglie di parte, esigli, fughe, uccisioni, in repubbliche dove le passioni personali non conosceano freno di legge o d’opinione, sicchè ciascuno sentiva la potenza propria, concitata alle grandi cose. Bastava dunque guardarsi attorno per trovare tipi poetici da atteggiare nel gran dramma di cui sono scena i tre mondi, i quali allora teneano vicinissimi alla vita, ogni opera facendosi a riflesso di quelli. L’età del Petrarca erasi implicata ne’ viluppi della politica, non più a punta di spade, ma per lungagne d’ambascerie; e per insidie e veleni si consumavano le vendette; a Federico II, a san Luigi, a Sordello, a Giotto, a Farinata, a Bonifazio VIII erano succeduti re Roberto, Stefano Colonna, Simon Memmi, Cola Rienzi, Clemente VI; alla imperturbata unità cattolica il miserabile esiglio avignonese; e preparavasi l’età della colta inerzia, dei fiacchi delitti, delle fiacche virtù, delle sciagure senza gloria nè compassione.

Nelle traversie Dante s’indispettì, e spregiando la fama e ciò che quivi si pispiglia, professava che bell’onore s’acquista a far vendetta62; agli stessi amici ispirò piuttosto riverenza che amore, lo che è la gloria e la punizione de’ caratteri ferrei e degl’ingegni singolari. Il Petrarca, benevolo, dava e ambiva lodi, avea supremo bisogno dell’opinione; e se nel generale mostra scontento degli uomini [p. 54 modifica]o di qualche classe, individualmente godeva di tutti, e tutti lodava; appassionavasi per un mecenate, per un autore, per la famiglia rustica che lo serviva in Valchiusa. Piegando all’aura che spirava, anche quando rimprovera egli s’affretta a dichiarare che il fa per amore della verità, non per odio d’altrui nè per disprezzo. Dante teme di perdere fama presso i tardi nepoti se sia timido amico del vero; che se il suo dire avesse da principio savor di forte agrume, poco gliene caleva, purchè da poi ne venisse vital nutrimento. Petrarca, mille volte prometteasi fuggire i luoghi funesti alla sua pace, e sempre vi tornava: mentre Dante, mal accordandosi colla moglie Gemma, «partitosi da lei una volta, nè volle mai ov’ella fosse tornare, nè ch’ella andasse là dov’ei fosse» (Boccaccio), e di lei nè de’ suoi figliuoli mai lasciò cadersi menzione.

Il primo, se fastidisse l’età sua, raccoglievasi nella solitudine o nello studio degli antichi ch’egli preferiva alle attualità, dalle quali affettavasi alieno63; l’altro spingeva lo sguardo su tutto il mondo per cogliere da per tutto quel che al suo proposito tornasse64, nè notte nè sonno gli furava passo che il secolo facesse in sua via. Entrambi (elezione, o forza, o moda) trovaronsi avvicinati ai signorotti d’Italia; ma il Petrarca s’abbiosciò a chi il carezzava, e i suoi encomj direbbe vili chi non li perdonasse all’indole di lui e all’andazzo retorico; Dante conservò la sua alterezza anche a fronte dei benefattori65; quel che più loda, è nella speranza che ricacci in inferno la lupa per cui Italia si duole.

Ambedue rinfacciano agl’Italiani le ire fraterne: ma Dante sembra attizzarle, cerca togliere alla sua Firenze fin la gloria della lingua, e par si vergogni essere fiorentino d’altro che di nascita; nel Petrarca, Laura ha un solo rincrescimento, quello d’esser nata in troppo umil terreno, e non vicino al fiorito nido di lui. Dante incitava [p. 55 modifica]Enrico VII a recidere Firenze, testa dell’idra; il Petrarca chetava le liberali declamazioni di frà Bussolari, appoggiò gli Scaligeri quando spedirono in Avignone a chiedere la signoria di Parma, e andava gridando pace, pace, pace, senza ricordare che questa ben si muta anche coll’armi quando non sia dignitosa, e quando al decoro nazionale importi respingere il «bavarico inganno» e il «diluvio raccolto di deserti strani per inondare i nostri dolci campi».

Usciti ambidue di gente guelfa, sparlarono della Corte pontifizia; ma Dante pei mali che credea venirne all’Italia ed alla Chiesa, il Petrarca per le dissolutezze di quella e perchè dimorava fuori di Roma; e sebbene per classiche reminiscenze applaudisse a Cola Rienzi che rinnovava il tribunato, ed esortasse Carlo di Boemia a fiaccar le corna della Babilonia, pure continuò a viver caro ai prelati, e morì in odore di santità; mentre l’Alighieri errò sospettato di empio, e poco fallì si turbassero le stanche sue ossa66.

Secondo quest’indole, Dante, malgrado la disapprovazione e la novità, osò in lingua italiana descriver fondo a tutto l’universo; il Petrarca, benchè venuto dopo un tal esempio, non la credette acconcia che alle inezie vulgari, cui bramava dimenticate dagli altri e da sè stesso 67. Questi con dolcissima armonia cantò la più [p. 56 modifica]tenera delle passioni; Dante le robuste, «gittando a tergo eleganza e dignità», come il Tasso gli appone; e rime aspre e chioccie trovò opportune a servir di velame alla dottrina che ascondeva sotto versi strani: se anche tratta d’amore, sì il fa per imparadisare la donna sua. Petrarca verseggia lindo e forbito come parlava e con gioconda abbondanza, sicchè la forma poetica v’è tanto superiore al pensiero; a differenza dell’Alighieri, che ruvido e sprezzante, non lasciasi inceppar dalla rima; per comodo di questa e del ritmo mutando senso alle parole e traendole d’altra favella e dai dialetti.

Quello sfoga talvolta il sentimento sotto un lusso d’ornati e di circostanze minute: questo unifica gli elementi che l’altro decompone, coglie le bellezze segregate, traendole meno dai sensi che dal sentimento, nè mai indugiandosi intorno a particolarità68. La costui lingua tiene della rozza e libera risolutezza repubblicana: quella del Petrarca riflette l’affabilità lusinghiera e l’ingegnosa urbanità delle Corti. Nel primo prevale la dottrina, nell’altro la leggiadria; [p. 57 modifica]nell’uno maggiore profondità di pensieri e potenza creatrice, nell’altro maggiore lindura ed artifizio; quello genio, questo artista; uno finisce come l’Albano, l’altro tocca come Salvator Rosa; uno inonda di melanconia pacata69 come le cavate di notturno liuto, l’altro colpisce come lo schianto della saetta.

L’un e l’altro seppero quanto al loro secolo si poteva, anzi si volle trovarvi divinazioni o presentimenti di scoperte posteriori70, e Dante in astronomia fece uno sfoggio che, quand’anche non erra, costringe a lunghissimo ragionamento per raggiungere il senso delle [p. 58 modifica]frasi con cui designa le ore e i giorni delle sue avventure. Ma egli conosceva appena di nome i classici greci, e poco meglio i latini71; l’altro era il maggior erudito de’ tempi suoi, e spigolava pensieri e frasi da’ forestieri e da’ nostri72, e massime da Dante; sicchè dove credi il linguaggio muover da passione, riconosci la traduzione forbita: benchè coll’arte raffinasse le gemme che scabre traeva dal terreno altrui; laonde que’ Provenzali e Spagnuoli perirono, egli vivrà quanto il nostro idioma.

È naturale che le poesie del Petrarca fossero divulgatissime, per la limpida facilità73 e perchè esprimeano il sentimento più [p. 59 modifica]universale: il poema dell’Alighieri non era cosa del popolo74, ma appena morto si posero cattedre per ispiegarlo; ispiegarlo in chiesa, come voce che predica la dottrina, scuote gl’intelletti, eccita i buoni coll’emulazione, i rei svergogna, ed insinua le idee d’ordine, tanto allora necessarie. Il Petrarca sapeva che il Po, il Tevere, l’Arno bramavano da lui sospiri generosi, ma continua ad esalarne di gracili; e poichè il fondo della vera bellezza, come della virtù vera e del genio, è la forza, e senza di questa la grazia presto avvizzisce, e l’andar sentimentale inciampa facilmente in difetti di gusto, potè, perfino nella sua castigatezza, dare occasione ai traviamenti de’ Secentisti75. Egli ebbe a torme imitatori che palliarono l’imbecillità dell’idee e il gelo del sentimento sotto alla compassata forma del sonetto, e che, mentre la patria cercava conforti o almeno compianti, empirono gli orecchi con isdulcinate querele in vita e in morte76. Lo studiar Dante richiese gravi studj, di filologia per paragonare e ponderare frasi e parole; di storia per trovare le precedenze de’ fatti, di cui egli non porge che le catastrofi; di teologia per conoscere il suo sistema e raffrontarlo coi santi padri, coi mistici, cogli scolastici; di filosofia per librarne le argomentazioni, la precisione [p. 60 modifica]del concetto, gli elementi della scienza: onde aprì una palestra di critica elevata e educatrice; e Benvenuto da Imola e il Boccaccio allargano le ale quando hanno a viaggiare con esso.

Dante è interprete del dogma e della legge morale, come Orfeo e Museo; Petrarca, interprete dell’uomo e dell’intima sua natura, come Alceo, Simonide, Anacreonte: quello, come ogni vero epico, rappresenta una razza e un’epoca intera, e il complesso delle cose di cui consta la vita; l’altro dipinge il sentimento individuale. Perciò questo è inteso in ogni tempo; l’ammirazione dell’altro soffre intermittenze e crisi77; ma vi si torna ogniqualvolta si aspira a quella bellezza vera, che sulla forza diffonde l’eleganza e la delicatezza.

Primo genio delle età moderne, Dante scoperse quanti pensieri profondi e quanta elevata poesia stessero latenti sotto alla scabra scorza del medioevo, rivelò ai concetti popolari la loro grandezza, e costringe a continuamente pensare, persuadendo che la poesia è qualcosa meglio che forme vuote e combinazioni sonore78. Di qui la sua grande efficienza sull’arti belle, giacchè, pur ammirando l’antichità, credea fermamente ai dogmi cattolici, e tra quella e questi colloca una mitologia in parte originale, che poetizzò le tradizioni fin allora conservate fra gli artisti; e il modo ond’egli aveva coordinato i regni invisibili, offrì soggetti nuovi ai pittori, che i santi medesimi improntarono di passioni più profonde, invece di quell’aria di beatitudine soddisfatta o di ascetica compostezza, da cui sin allora non sapeano spogliarsi.

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Note

  1.                     E monna Vanna, e monna Ligia poi
                        Con quella su il numer delle trenta.

    Sonetto.

  2. Sono i pensieri che espresse in questo sonetto, un de’ più belli di nostra lingua:

                        Tanto gentile e tanto onesta pare
                   La donna mia quand’ella altrui saluta,
                   Che ogni lingua divien tremando muta,
                   E gli occhi non l’ardiscon di guardare.
                        Ella sen va sentendosi laudare,
                   Benignamente d’umiltà vestuta;
                   E par che sia una cosa venuta
                   Di cielo in terra a miracol mostrare.
                        Mostrasi sì piacente a chi la mira,
                   Che dà per gli occhi una dolcezza al core,
                   Che intender non la può chi non la prova.
                        E par che dalle sue labbra si muova
                   Uno spirto soave pien d’amore
                   Che va dicendo all’anima: sospira.

  3. Vita nuova, XVIII.
  4. Guglielmo Federico Bergmann professore a Strasburgo, uno de’ più dotti e appassionati illustratori di Dante, nel Bulletin de la Société Litteraire de Strasbourg, vol. IV, pubblicò un articolo sulle pretese amanti di Dante, ove mostra che Beatrice de’ Portinari, la Pietà o la Consolatrice, la Pargoletta, Gentucca di Lucca, la Montanina, Pietra degli Scrovegni, Lisetta o furono sogni de’ commentatori e biografi, o persone allegoriche; perfino la Portinari da personaggio reale diventa per lui simbolo della beatitudine generale, genio del cristianesimo.
    No; Beatrice non è una figura semplicemente allegorica, non un’astrazione personificata in una donna senza vita nè individualità.
  5.                     Ma quel che più ti graverà le spalle
                        Sarà la compagnia malvagia e scempia
                        Con la quale tu cadrai....
                                                                     che
                        Ti si farà per tuo ben far nemica.

  6. Del Vulgare eloquio. E in un congedo:

                        O montanina mia canzon, tu vai;
                   Forse vedrai Fiorenza, la mia terra
                   Che fuor di sè mi serra
                   Vuota d’amor e nuda di pietate.
                   Se dentro v’entri, và’ dicendo, — Ormai
                   Non vi può fare, il mio signor più guerra.

  7. Quest’ignominia era stata subita dal suo compagno di pena, il padre del Petrarca, dispensato però dalla mitera al capo; e la riformagione del 10 febbrajo 1300 stanzia quod præfatus ser Petraccolus, facta de eo oblatione secundun modum prædictum, intelligatur, et sit perpetuo exemptus, liberatus et totaliter absolutus.
  8. Di queste profonde convinzioni sì energicamente espresse dà pruova continua nel poema; e nel Convivio, a proposito d’una proposizione filosofica, dice: — Col coltello, non con argomenti convien rispondere a chi così parla.»
  9.                Digli che il buon col buon non prende guerra
                   Prima che co’ malvagi vincer prove:
                   Digli ch’è folle chi non si rimove,
                   Per tema di vergogna, da follia.
                                                                     Canzone.

  10. Dante, nel Convivio, inveisce contro «coloro, che per malvagia disusanza del mondo, hanno lasciato la letteratura a coloro che l’hanno fatta, di donne, meretrice. A vituperio di loro, dico che non si debbono chiamar letterati; perocchè non acquistano la letteratura per suo uso, ma in quanto per quella guadagnano denari e dignità; siccome non si deve chiamar citarista, chi tiene cetara in casa per prestarla per prezzo e non per usarla per sonare». I, 9.
  11. Sono cento canti in 14,230 versi, ripartiti in modo, che la prima cantica è appena superata di trenta dalla seconda, e di ventiquattro dalla terza. E a chi il supponesse caso, risponde il poeta:

                   Ma perchè piene son tutte le carte
                        Ordite a questa cantica seconda,
                        Non mi lascia più ir lo fren dell’arte.

  12. Jacopo suo figlio nel commento inedito.
  13. Le particolarità che il fanno tanto somigliare a Dante, potrebbero essere state aggiunte dal traduttore italiano, dopo conosciuto la Divina Commedia. Nella Revue dei Deux Mondes, 1 settembre 1842, si enumerano moltissime visioni dell’altro mondo, che precedettero quella di Dante. Meglio Ozanam, nel Correspondant del 1843, espose les sources poétiques de la Divine Comédie. Fra i moltissimi confronti ch’egli reca, particolare questo d’una Saga scandinava: «Catervatim ibant illi ad Plutonis arcem, et gestabant onera e plumbo. Homines vidi illuc qui multos pecunia et vita spoliarunt; pectora raptim pervadebant viris istis validi venenati dracones» (Solar-liod, 63-64). Eccovi la città di Dite, le cappe di piombo degli ipocriti, e, quel che è più particolare, i serpenti che inseguono i masnadieri. Nell’Alphabetum tibetanum il padre Giorgi pubblicò un’immagine dell’inferno secondo gl’Indiani, che ha strana somiglianza con quel di Dante (tav. 11, pag. 487). L’inferno del Corano suppone sette porte, che conducono ciascuna ad un particolare supplizio.
  14. Pensando a capo chino
    Perdei il gran cammino,
    E tenni alla traversa
    D’una selva diversa
    Io v’era sì invescato,
    Che già da nullo lato

    Poteva muover passo.
    Così fui giunto lasso
    E messo in mala parte,
    Ma Ovidio per arte
    Mi diede maestria,
    Sì ch’io trovai tal via.

  15. Geremia, capitolo V, vers. 6: «Percussit eos leo de sylva; lupus ad vesperum vastavit eos; pardus vigilans super civitates eorum; omnis qui egressus fuerit ex eis capietur, quia multiplicatae sunt prœvaricationes eorum, confortatæ sunt ad versiones eorum».
  16. E’ dice esplicitamente che Bice è un 9, cioè un miracolo cui radice è la santissima trinità.
  17. In Ricardo da San Vittore, De præparatione ad contemplationem, la famiglia di Giacobbe raffigura quella delle facoltà umane; Rachele e Elia, l’intelletto e la volontà; Giuseppe e Beniamino figli della prima, la scienza e la contemplazione espressioni principali dell’intelletto; Rachele muore nel partorire Beniamino, come l’intelligenza umana svanisce nell’estasi della contemplazione.
  18. «Primus sensus est qui habetur per literam, alius qui habetur per significata per literam. Et primus dicitur literalis, secundus vero allegoricus, sive moralis. Est subjectum totius operis, literaliter tantum accepti, status animarum post mortem simpliciter sumptus; nam de ilio et circa illum totius operis versatur processus. Si vero accipiatur opus allegorice, subjectum est homo prout merendo et demerendo per arbitrii libertatem justitiae praemiandi et puniendi obnoxius est. Finis totius et partis est removere viventes in hac vita de statu miseriae, et producere ad statum felicitatis». Lettera a Can Grande.
  19.                     Chiede consiglio da persona
                   che vede, e vuol dirittamente, ed ama.

  20.                     Io mi son un, che, quando
                   Amore spira, noto, e in quel modo
                   Ch’ei detta dentro, vo significando.

  21.                     La contingenza, che fuor del quaderno
                   Della vostra memoria non si stende,
                   Tutta è dipinta nel cospetto eterno.
                        Necessità però quindi non prende
                   Se non come dal viso in che si specchia,
                   Nave che per corrente giù discende.

  22. Nella dedica a Can della Scala vuole che il titolo dell’opera sua sia, Incipit Comædia Dantis Aligherii, fiorentini natione non moribus. E soggiunge: — Io chiamo l’opera mia Commedia: perchè scritta in umile modo, e per aver usato il parlar vulgare, in cui comunicano i loro sensi anche le donnicciole». Ov’è a sapere che, nel Vulgare eloquio, distingue tre stili: tragedia, commedia, elegia.
  23. Il Boccaccio in un sonetto gli fa dire:

                   Dante Alighieri son, Minerva oscura
                        D’intelligenza e d’arte.

  24. Par. XVI Baldo d’Aguglione e Morubaldini da Signa erano quelli che proferirono la sentenza capitale contro Dante.
  25. Epistola dedicatoria.
  26. Lettera a Guido Novello da Polenta, che i Veneziani vorrebbero apocrifa.
  27.                Avete il vecchio e il nuovo Testamento
                        E il pastor della Chiesa che vi guida:
                        Questo vi basti a vostro salvamento.

  28.                Veggio il nuovo Pilato sì crudele
                        Che ciò nol sazia, ma senza decreto
                        Porta nel tempio le cupide vele.
                                                                               Purg. XX.

  29. Ep. VII e VI, traduz. del Fraticelli.
  30. Non l’Orgagna, come si dice volgarmente. Vedi Gave, Carteggio 11. La cattedra da spiegar Dante durò lungo tempo; nel 1412 la Signoria paga otto fiorini il mese a Giovanni di Malpaghini ravennate, il quale aveva lungo tempo commentato Dante, e che ancora lo spiegava ogni domenica; sei anni dopo adempiva tale uffizio Giovanni Gherardi da Pistoja, con sei fiorini il mese; alquanto più tardi gli successe Francesco Filelfo.
  31.                     La nobile virtù Beatrice intende
                        Per lo libero arbitrio
                                                                     Pg. XVIII, 75 e Pd. I

  32. Come i Romani... l’anno del giubileo Inf. XVIII, e al Pg. II, parlando di Casella: e del voltosanto.
  33. Nel IX del Pg. parla delle due chiavi, che si erri piuttosto nell’aprire che nel tener serrato, «perchè la gente a’ piedi mi s’atterri»; e quando l’accusa scoppia dalla propria bocca, rivolge la rota contro il taglio. Pg. XXXI.
  34. Purg. III.
  35. Purg. XVI.
  36. Purg. VIII.
  37. Purg. XXVI.
  38. Purg. XI.
  39.                     Questa sorte....
                   Però n’è data perchè fur negletti
                   Li nostri voti, e vuoti in alcun canto.                          Pd. III.

  40. Parad V.
  41.                Tu sè colei che l’umana natura
                   Nobilitasti, sì che il suo Fattore
                   Non disdegnò di farsi sua fattura.                          Pd. ultimo

  42. Parad. XXIV, XXXII, 124.
  43. Nel codice della Ricardiana di Firenze è scritto «Qui comincia il trattato della fede cattolica, composto dallo egregio e famosissimo dottore Dante Alighieri poeta fiorentino, secondo che il detto Dante rispose a messer l’inquisitore di Firenze di quello ch’esso credea». E nel codice Catanese di San Nicola all’Arena: «Questo è il credo di Dante Alighieri che fecie quando e’ fu acqusato a Roma per eretico e chiese quattro dì di tempo, e disse I’ vi mostrerò ch’io non sono eretico.»
  44. Noi ne parlammo a lungo nella Storia Universale, poi negli Eretici d’Italia. Nelle quistioni ultimamente rideste sopra la venuta di san Pietro a Roma si andò a cercare che Dante la credeva: perocchè nel XXIV del Pd. dice a san Pietro,

                   . . . . . . come il verace stilo
                   Ne scrisse, padre, del tuo caro frate (san Paolo)
                   Che mise Roma teco nel buon filo.

    Nella lettera ai cardinali poi parla di «quella Roma, cui, dopo le pompe di tanti trionfi, Cristo colle opere confermò l’imperio del mondo, e Pietro ancora e Paolo, l’apostolo delle genti, consacrarono, qual sede loro, col proprio sangue».

  45. «Dicere quod Ecclesia abutatur patrimonio sibi deputato, est valde inconveniens». De Monarchia II, 12.
  46. Convivio.
  47. Anche Bartolo attribuiva tutti i disordini del tempo alla fiacchezza dell’Impero. «Cum imperium fuit in Statu et tranquillitate (in stato la più nobil monarchia, disse Dante), totus mundus fuit in pace et tranquillitate, ut tempore. Octaviani Augusti: cum autem imperium fuit prostratum, insurrexit dira tyrannis»; soggiunga che ciò fu causa della costituzione di Enrico VII «quomodo in lesse majestatis crimen procedatur».
         Anche Dino Compagni scrive che «vacante l’Impero dopo la morte di Federico II, coloro che a parte d’Impero attendevano erano tenuti sotto gravi pesi, e quasi venuti meno in Toscana e in Sicilia; mutate le signorie, la fama e la ricordanza dell’Impero quasi spente».
         «Cum monarchia maxime diligat homines, vult omnes homines bonos fieri. Quod esse non potest apud oblique politizantes: unde philosophus in suis politicis ait. Quod in politia obliqua bonus homo est malus civis: in recta vero bonus homo et civis bonus convertuntur». De Monarchia I. 14.
  48. Fa espressa riserva degli statuti particolari: «Advertendum sane quod, cum dicitur humanum genus posse regi per unum principem, non sic intelligendum est, ut ab illo uno prodire possint municipia et leges municipales. Habent namque nationes, regna et civitates inter se proprietates, quas legibus differentibus regulari oportet». De Monarchia. Sono le eccezioni, colle quali il buon senso ovvia le illazioni che convincerebbero di erroneo il posato principio.
  49. Parad. I.
  50. Convivio II, 5. Paradiso II.
  51. «Cum inseparabiliter juris fondamentum sit ordini connexum». Monarchia II, 7.
  52. Monarchia III, cap. ultimo. Epistola VI, 2.
  53. «Patrocinium orbis terrarum potius quam imperium poterat nominari» Monarchia L. II, 5.
  54. Convivio IV, 5.
  55. L’anonimo commentatore ha: — Io scrittore udii dire a Dante che mai rima nol trasse a dire quello che aveva in suo proposito, ma ch’elli molte e spesse volte faceva li vocaboli dire nelle sue rime altro che quello che erano appo gli altri dicitori usati di esprimere». Questa è padronanza di genio, non merito, giacchè per essa dice vermo, Giuseppo, gli idolatre, allore, tarde, eresiarche, figliuole per figliuolo, egli stessi, mee, trei, si partine, plaja, strupo, maggi, robbi e fusi e cola e agosta per stupro, maggiori, rossori, fussi, cole, augusta; ha liberamente finito un verso con Oh buon principio, e ai due corrispondenti pone scipio e concipio storpiando questi anzichè modificar quello; e per comodo o di rima o di verso mette nacqui sub Julio, e lome, e fazza, e Cristo abate del collegio, e conti i santi, e cive di Roma, ecc. Sarà sempre pedanteria suprema il volere che ne’ sommi si ammiri ogni cosa.
  56. Crede la prima lingua creata coll’uomo, ed essere stata l’ebraica. Al contrario nel Paradiso l’avea creduta d’origine naturale, e che fosse perita. Egli sosteneva che al primo uomo fosser rivelate tutte le scienze:

                   Tu credi che nel petto, onde la costa
                        Si trasse per formar la bella guancia,
                        Il cui palato tanto al mondo costa,
                   Qualunque alla natura umana lece
                        Aver di lume, lutto fosse infuso.
                                                                          Pd. XIII.

  57. Vulg. eloq. I, 15. Eppure già erano fioriti un Giovanni da Modena, un Anselmo e un Antonio dal Berrettajo ferraresi; e a Reggio diversi della famiglia da Castello, e un Gherardo che corrispose di sonetti con Cino da Pistoja; poi furono ferraresi lo Strozzi, il Cieco d’Adria, il Bojardo, l’Ariosto, il Beccari, il Guarino, il Testi, Cornelio Bentivoglio, il Varano, il Minzoni, il Monti.
  58. La dimostrazione di fatto può vedersi in Galvani, Sulla verità delle dottrine perticariane nel fatto storico della lingua. Milano, 1845, pag. 124 seg.
  59.                Sì mi parlava, ed andavamo introcque.
                                                                     Inf. XX.
                   E quei, pensando ch’io ’l fessi per voglia
                   Di manicar.                              Inf. XXIII.

  60. Convivio I, c. 13.
  61. Non credo cantassero il poema, bensì le poesie amorose, alcune delle quali supremamente soavi, come questa:

                   Quantunque volte, lasso, mi rimembra
                        Ch’io non debbo giammai
                        Veder la donna ond’io vo sì dolente,
                        Tanto dolore intorno al cor mi assembra
                        La dolorosa mente,
                        Ch’io dico, Anima mia, che non ten vai?

  62. Convivio.
  63. «Incubui unice ad notitiam antiquitatis, quoniam mihi semper ætas ista displicuit». Ep. ad posteros.
  64. «Auctor venatus fuit ubique quidquid faciebat ad suum propositum» . Benvenuto da Imola al XIV del Purgatorio.
  65. Il Petrarca narra che Dante fu ripreso da Can Grande qual uomo meno urbano e men cortese che non gli istrioni medesimi e i buffoni della sua Corte. Memorab. II. Avendogli Can Grande domandato: — Perchè mi piace più quel buffone che non te, cotanto lodato?» n’ebbe in risposta: — Non ti maraviglieresti se ricordassi che la somiglianza di costumi stringe gli animi in amicizia».
  66. Guido da Polenta lo ripose in un’urna marmorea, finchè gli ergesse un sarcofago più degno, ma nol potè. Dopo due secoli, Bernardo Bembo, podestà veneto in Ravenna, gliene fece eriger uno dal valente architetto e scultore Pietro Lombardo nel 1483, con marmi scelti. Trovatolo deperito nel 1692, Domenico Corsi fiorentino legato di Romagna lo fe restaurare a pubbliche spese. Poi nel 1780 fu riedificato a disegno di Camillo Morigia e a spese del cardinale Valenti Gonzaga legato a latere della Romagna; Paolo Giabani luganese fece a stucco i quattro medaglioni, che raffigurano Virgilio, Brunetto Latini, Can Grande e Guido da Polenta.
    Le ossa del poeta stanno in un’urna di marmo greca, su cui a mezzo rilievo l’effigie di esso e la nota iscrizione, Jura monarchiae, ecc.; sotto all’urna una cassetta di marmo, contenente medaglie di Pio VI, del cardinal Valenti Gonzaga e una pergamena colla storia di quel sepolcro.
  67. Sonetto 25, II. Nella prefazione alle Epistole famigliari dice avere scritto alcune cose vulgari per dilettar gli orecchi del popolo. Nella VIII di esse soggiunge che, per sollievo dei suoi mali, dettò «le giovanili poesie vulgari», delle quali or prova pentimento e rossore («cantica, quorum hodie pudet ac pænitet»), ma che pur sono accettissime a coloro, i quali dallo stesso male sono compresi.» Nella XIII delle Senili: «Ineptias quas omnibus, et mihi quoque si liceat ignotas velim». E scolpandosi a quei che lo diceano invidioso di Dante: «Non so quanta faccia di vero sia in questo, ch’io abbia invidia a colui che consumò tutta la vita in quelle cose in che io spesi appena il primo fiore degli anni; io che m’ebbi per trastullo e riposo dell’animo e dirozzamento dell’ingegno quello che a lui fa arte, se non la sola, certamente la prima». E nella XI delle Famigliari poco modestamente: «Di chi avrà invidia chi non l’ha di Virgilio?» Altrove dice essersi guardato sempre dal leggere i versi di Dante, e al Boccaccio scrive: — Ho udito cantare e sconciare quei versi su per le piazze.... Gl’invidierò forse gli applausi de’ lanajuoli, tavernieri, macellaj e cotal gentame?» Eppure Jacopo Mazzoni (Difesa di Dante, VI, 29) asserisce che il Petrarca «adornò il suo canzoniere di tanti fiori della Divina Commedia, che può dirsi piuttosto che egli ve li rovesciasse dai canestri che dalle mani». È un’arte dei detrattori senza coraggio il deprimere un sommo col metterlo a pareggio dei minori. Ora il Petrarca due volte menziona Dante come poeta d’amore, ponendolo, in riga con frà Guittone e Cino da Pistoia: Sonetto 257:

                        Ma ben ti prego che in la terza spera
                        Guitton saluti e messer Gino e Dante.
         Trionfo d’amore, IV:
                        Ecco Dante e Beatrice, ecco Selvaggia,
                        Ecco Cin da Pistoia, Guitton d’Arezzo.

  68. Si confronti la descrizione della sera. Dante, Purg. VIII: «Era l’ora che volge il desio, e intenerisce il cuore dei naviganti il dì che dissero addio ai cari amici; e che punge d’amore il nuovo pellegrino se ode squilla da lontano che sembri piangere il giorno che si muore». Petrarca: «Poichè il sole si nasconde, i naviganti gettan le membra in qualche chiusa valle sul duro legno o sotto l’aspre gomone. Ma perchè il sole s’attuffi in mezzo l’onde, e lasci Spagna e Granata e Marocco dietro le spalle, e gli uomini e le donne e ’l mondo e gli animali acquetino i loro mali, pure io non pongo fine al mio ostinato affanno».
  69. Eppure la parola melanconia nè una volta si trova ne’ suoi versi.
  70. Indicò chiaramente gli antipodi e il centro di gravità della terra: fece argute osservazioni sul volo degli uccelli, sulla scintillazione delle stelle, sull’arco baleno, sui vapori che formansi nella combustione (Inf. XIII, 40; Purg. II, 14; XV, 16; Parad. II, 35; XII, 10). Prima di Newton assegnò alla luna la causa del flusso e riflusso (E come ’l volger del ciel della luna Copre e discopre i lidi senza posa. Parad. XVI). Prima di Galileo attribuì il maturar delle frutte alla luce che fa esalare l’ossigeno (Guarda il color del Sol che si fa vino Giunto all’umor che dalla vite cola. Purg. XXV). Prima di Linneo e dei viventi dedusse la classificazione dei vegetali dagli organi sessuali, e asserì nascer da seme le piante anche microscopiche e criptogame (Ch’ogn’erba si conosce per lo seme. Purg. XVI; Quando alcuna pianta Senza seme palese vi s’appiglia. Ivi, XXVIII). Sa che alla luce i fiori aprono i petali e scoprono gli stami e i pistilli per fecondare i germi (Quali i fioretti dal notturno gelo Chinati e chiusi, poichè il Sol gl’imbianca, Si drizzan tutti aperti in loro stelo. Inf. II); e che i succhi circolano nelle piante (Come d’un tizzo verde ch’arso sia Dall’un de’ capi, che dall’altro geme E cigola per vento che va via. Inf. XIII). Prima di Leibniz notò il principio della ragion sufficiente (Intra duo cibi distanti e moventi D’un modo, prima si morrìa di fame Che liber uom l’un si recasse a’ denti. Parad. IV). Prima di Bacone pose l’esperienza per fonte del sapere (Da questa istanzia può deliberarti Esperienza, se giammai la provi, Ch’esser suol fonte a’ rivi di vostr’arti. Parad. II). Anzi l’attrazione universale vi è adombrata, cantando. «Questi ordini di su tutti rimirano, E di giù vincon sì, che verso Dio Tutti tirati sono e tutti tirano» (Parad. XXVIII). Indica pure la circolazione del sangue, dicendo in una canzone: «Il sangue che per le vene disperso Correndo fugge verso Lo cor che il chiama, ond’io rimango bianco.» Il che più circostanziatamente esprime Cecco d’Ascoli nell’Acerba:

                        Nasce dal cuore ciascheduna arteria
                        E l’arteria sempre dov’è vena;
                        Per l’una al core lo sangue si mena,
                        Per l’altra vien lo spirito dal core;
                        Il sangue pian si muove con quiete.

    Michele Baldacchini mostrò la valentia di Dante nella musica, Vincenzo Lomonaco lo considerò qual giureconsulto negli Atti dell’accademia di Napoli, 1871.

  71. Oltre l’argomento dedotto dal suo silenzio, vedi la confusione che ne fa nel IV dell’Inferno. Altrove nomina come autori di altissime prose Tito Livio, Plinio, Frontino, Paolo Orosio; nel Parad. VI, 49, fa venire in Italia gli Arabi con Annibale, ecc.; nel Convivio confessa che stentava a capire Cicerone e Boezio.
  72. Per esempio, Cino da Pistoja scrive degli occhi della sua donna:

                        Poichè veder voi stessi non potete,
                        Vedete in altri amen quel che voi siete;

    e il Petrarca:

                                                                Luci beate e liete,
                        Se non che il veder voi stesse v’è tolto,
                        Ma quante volte a me vi rivolgete,
                        Conoscete in altrui quel che voi siete.

    Cino ha un sonetto:

                        Mille dubbj in un dì, mille querele
                        Al tribunal dell’alta imperatrice, ecc.

    ove figura che egli ed Amore piatiscano avanti alla Ragione, e infine questa conchiude:

                                                                A sì gran piato
                        Convien più tempo a dar sentenza vera.

    Il Petrarca riproduce quest’invenzione nella canzone: «Quell’antico mio dolce empio signore», ove dopo il dibattimento la Ragione sentenzia:

                        Piacemi aver vostre quistioni udite,
                        Ma più tempo bisogna a tanta lite.

    Confronti del Petrarca coi Provenzali fece il Galvani nelle Osservazioni sulla poesia de’ Trovadori. E vedi il Paradosso del Pietropoli.
  73. Però il Bembo, quel gran petrarchista che ognun sa, confessa aver letti per oltre quaranta volte i due primi sonetti del Canzoniere senza intenderli appieno, nè aver incontrato ancora chi gl’intendesse, per quelle contradizioni che pajono essere in loro: Lettera a Felice Trofimo, lib. VI. E Ugo Foscolo, grande studioso del Petrarca, interrogato sul senso della strofa famosa «Voi cui natura, ecc.» la spiega con un «Se non m’inganno» (Epistolario, vol. III, 46). Fin ad ora si disputò sul senso del verso

                        Mille piacer non vagliono un tormento

    e dell’altro

                        Che alzando il dito colla morte scherza,

  74. Gli aneddoti che si raccontano in contrario, e l’asserzione succitata del Petrarca, parmi non si possano riferire che a’ versi amorosi, od altri men conosciuti, che son di forma affatto moderna e di concetto semplice. Vedi la nota 61.
  75. Tali sarebbero i frequenti giocherelli sul nome di Laura; tale la gloriosa colonna a cui s’appoggia nostra speranza, e il vento angoscioso de’ sospiri, e il fuoco de’ martìri, e le chiavi amorose, e il lauro a cui coltivare adopera «vomer di penna con sospir di fuoco»; e la nebbia di sdegni che «rallenta le già stanche sarte della nave sua, fatte d’error con ignoranza attorto»; e i ravvicinamenti fra cose disparate, come fra sè e l’aquila, la cui «vista incontro al Sol pur si difende»; e il dolore che lo fa «d’uom vivo un verde lauro». Nel che talvolta non ha pur rispetto alle cose sacre; come là dove loda il borgo in cui la bella donna nacque, paragonando con Cristo che «sceso in terra a illuminar le carte, fa di sè grazia a Giudea»; e il «vecchierel canuto e bianco, che viene a Roma per rimirar la sembianza di colui che ancor lassù nel ciel vedere spera», confronta a sè «che cerca la forma vera di Laura».
  76. Alessandro Velutello nel 1525 fu il primo che distribuì il Petrarca in rime avanti la morte, dopo la morte di madonna Laura, e rime varie.
  77. Un’elevata definizione della poesia leggiamo pure nel Boccaccio, Genealogia degli Dei, lib. XIV, c. 7, «Poesis, quam negligentes abjiciunt et ignari, est fervor quidam exquisite inveniendi atque discendi seu scribendi quod inveneris, qui ex sinu Dei procedens, paucis mentibus, ut arbitror, in creatione conceditur. Ex quo, quoniam mirabilis est, rarissimi semper fuere poetæ. Hujus enim fervoris sublimes sunt effectus, ut puta mentem in desiderium dicendi compellere, peregrinas et inauditas inventiones excogitare, meditatas ordine certo componere, ornare compositum inusitato quodam verborum atque sententiarum contextu, velamento fabuloso atque decenti veritatem contegere».
  78. La Divina Commedia a La Harpe parve une rapsodie informe, a Voltaire une amplification stupidement barbare. Ebbe essa ventuna edizione nel secolo XV, quarantadue nel XVI, quattro nel XVII, trentasei nel XVIII, più di cencinquanta nella prima metà del nostro; diciannove traduzioni latine, trentacinque francesi, venti inglesi, altrettante tedesche, due spagnuole; cencinquantacinque illustrazioni di disegni o pitture. Vedi Colomb de Batines, Bibliografia dantesca.