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126 illustri italiani


Colà, dopo il dechino di sua fortuna, e solo perchè eragli tolto di operare1, compose alcuni de’ trattati più astrusi della sua filosofia: ma anche queste composizioni risentono l’amor suo pei costumi della città e le abitudini della sua vita politica; gl’interlocutori dei suoi dialoghi sono personaggi che avea lasciati nel senato, nobili amici che poteva imbattere in campagna; se testo non ne sono sempre gli affari del momento, il lettore vi è ricondotto da frequenti allusioni.

Del resto egli s’occupava di filosofia per esercizio dello scrivere, per isfoggiare la propria abilità, e per fare che nella letteratura romana non rimanesse questa lacuna2. I Greci vi mescolavano versi, ed egli fa altrettanto; nonchè aspirare ad originalità, ad Attico che gli domandava come potesse scrivere tanto, non dissimula che le sono traduzioni3, nelle quali talvolta anche s’inganna: ma mediante le quali ci conservò memoria e sunti di molte opere, dappoi perdute. Novità sua vera è l’intento civile, proponendosi d’indirizzare a una nuova operosità scientifica e intellettuale i Romani, quando annullavasi la politica; e preparare ristori alle vicende della fortuna, cui poteano essere esposti. Tanta è l’inclinazione alla pratica, che nell’Ortensio crede dovere scusarsi se si applica alla filosofia, allegando che quella è l’istitutrice della vita e la sola consolazione dei mali.

Si riferiscono alla filosofia teoretica i trattati suoi della Natura degli Dei, della Divinazione e del Fato, delle Leggi, della Repubblica: alla morale, le Quistioni Tusculane, gli Uffizj, i Paradossi, i libri

  1. «Philosophia illustranda et excitanda nobis est, ut, si occupati profuimus aliquid civibus nostris, prosimus etiam, si possumus, otiosi» . Tusc.
  2. «Sic parati ut.... nullum philosophiæ locum esse pateremur, qui non latinis literis illustratus pateret». De divin. II, 2. Nel proemio delle Tusculane professa dolergli che molte opere latine siano scritte neglettamente da valenti uomini, e che molti i quali pensano bene, non sappiano poi disporre elegantemente: il che è abusare del tempo e della parola. Negli Uffizj raccomanda a suo figlio di leggere le sue filosofiche discussioni: — Quanto al fondo, pensa quel che ne vuoi; ma tal lettura non potrà che darti uno stile più fluido e ricco. Umiltà a parte, io la cedo a molti in fatto di scienza filosofica, ma per quel che sia d’oratore, cioè la nettezza e l’eleganza dello stile, io consumai la vita intorno a quest’abilità, onde non fo che usare un mio diritto col reclamarne l’onore».
  3. «Ἀπόγραφα sunt, minore labore fiunt; verba tantum affero, quibus abundo». Ad Attico, XII, 52.