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Cicerone 101

bestia che alla propria». Dando Pompeo la cittadinanza a un disertore gallo, — Che bizzarro! (esclamò) promette una patria ai Galli, e non sa assicurarla a noi».

Pompeo, adontato di sarcasmi che più ferivano quanto più ingegnosi, gli intonò: — Vattene una volta a Cesare, ove comincierai a temermi» . Catone stesso gli mostrò avrebbe meglio servito la causa loro tenendosi di mezzo; alcuni perfino il sospettavano d’intelligenze con Cesare; talchè esso, fedele alla teorica delle evoluzioni opportune che dichiarò più volte con ingenuità, abbandonava il campo, disgustate ambe le parti, e supponendo a Pompeo feroci divisamenti e il proposito d’imitare Silla.

Si sa che nella battaglia di Farsalo i Pompeiani furono vinti; Pompeo fuggendo fu ucciso; Catone si diede morte da sè in Utica; gli ultimi partigiani furono sconfìtti e dispersi. Cesare, arbitro delle cose, non sevì; perdonò a tutti e a Cicerone pel primo, il quale poi adoprò la sua eloquenza a favore di varj, e nominatamente di re Dejòtaro e di Marco Marcello, in un’orazione ove, adulando Cesare come in quella per la legge Manilia aveva adulato Pompeo, ne esaltò la clemenza: esortava i vecchi amici a non fare se non quel che a Cesare gradisse1, e sperava in lui un nuovo Pisistrato, volente il bene della patria per autorità assoluta, non per graduali progressi del popolo. Il suo facile cangiar di parte egli pretendeva rattoppare con belle parole: — S’io vedo una nave col vento in poppa difilarsi non al porto ch’io un tempo desiderai, ma ad altro non men sicuro e tranquillo, vorrò avventurarmi contro la tempesta, anzichè secondandola procacciarmi salute? Nè io credo incostanza il dar volta ad un’opinione, come ad una nave o ad un cammino, secondo le circostanze pubbliche. Ho udito e visto e letto in sapientissimi e chiarissimi personaggi di questa e d’altre città, che non si deve sempre ostinarsi nelle medesime sentenze, ma difendere quello che richiedono

  1. «Adhuc in hac sum sententia, nihil ut faciamus nisi quod maxime Cæsar velle videatur». Epist. lib. IV ad Sulpicium. «Admirari soleo gravitatem et justitiam et sapientiam Cæsaris. Nunquam nisi honorificentissime Pompejum appellat, At in ejus personam multa fecit asperius. Armorum ista et victoriæ sunt facta non Caesaris. At nos quemadmodum complexus! Cassium sibi legavit, Brutum Galliæ præfecit, Sulpicium Græciæ, Marcellum, cui maxime succensebat, cum summa illius dignitate restituit, etc.» Lib. VI ad Cæcinam. — L’orazione pro Marcello pare o non sua o men degna di lui.