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Cicerone | 93 |
mente si opponesse al collega: ma Clodio giurò a Cicerone che nulla imprenderebbe contro di lui, purchè ritraesse Mummio dalla sistematica opposizione. Pompeo e Cesare ne stettero mallevadori, e Cicerone lasciossi cogliere al laccio; ma Clodio, toltosi quel contradditore, fa decretare dal popolo non esser mestieri d’augurj per le leggi proposte ai comizj dai tribuni, mirando con ciò a rimuovere l’ostacolo della religione, che potessero frammettere gli amici del nemico suo.
Allora porta una legge che dichiara reo chi avesse mandato al supplizio un cittadino senza la conferma del popolo. Tullio comprese che era macchina contro di sè, onde vestì a corrotto, lasciò crescersi la barba, supplicava gli amici a difenderlo; anche il senato s’abbrunò, finchè i consoli ordinarono riprendesse la solita porpora; duemila cavalieri in tutto supplicavano per Cicerone, e gli faceano scorta contro i bravacci di Clodio, che insultavano l’umiliato oratore, e dispensavano coltellate.
Da Clodio accusato davanti alle tribù d’avere ucciso Lentulo, Cetego e gli altri cavalieri romani, Cicerone cedette alla procella, e uscì di città nottetempo. Il terrore sparso da Clodio faceva più amari i passi della fuga di lui: si vide chiusa Vibona, città della Lucania da cui era stato eletto patrono; si trovò respinto dalla Sicilia, campo di sua gloria durante la questura, poi sua protetta contro Verre1; ricevette intrepida ospitalità da Lenio Fiacco a Brindisi, ma non vi si credette sicuro, e prese il mare. Approdato a Durazzo, non che dalla cortesia sentisse addolcito il fiele dell’esigilo, fiaccamente sconsolavasi, sempre gli occhi, sempre il parlare vôlti alla patria2; onde quei
- ↑ Oltre le lettere, vedi l’orazione pro Plancio, 40.
- ↑ Le lettere sue ridondano di fiacchi lamenti. — Mi struggo di doglia, Terenzia mia. Io son più misero di te miserissima, perchè, oltre la sciagura comune, mi pesa la colpa. Mio dovere sarebbe stato o colla legazione evitare il pericolo, o colla diligenza e gli armati resistere e cadere da forte. Nulla poteva esser più misero, più turpe, più indegno di questo.... Dì e notte mi sta innanzi la vostra desolazione.... Molti sono nemici, invidiosi quasi tutti. Vi scrivo di rado, perchè, se sono accorato in ogni tempo, quando vi scrivo o leggo lettere vostre vo lutto in lagrime, che non posso reggere. Oh fossi stato men cupido della vita! oh me perduto! oh me desolato! Che ne sarà di Tullietta? pensateci voi, ch’io più non ho testa.... Non posso dire di più, perchè mi impedisce l’angoscia». Onde Asinio Pollione (ap. Seneca) diceva: — Omnium adversorum nihil, ut viro dignum est, tulit præter mortem»: ma soggiunse; «Si quis tamen virtutibus vitia pensarit, vir magnus, acer, memorabilis fuit, et in cujus laudes oratione prosequendas Cicerone laudatore opus fuerit».