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Cicerone 73

coraggio di querelarsi e la forza di fremere1. A malgrado di tanti danni, quell’isola era tuttavia il fiore delle provincie. Il commercio la stringeva agl’Italici: ricchi e industriosi terrazzani prendevano a fitto estesissimi poderi, e v’impiegavano a gran vantaggio grossi capitali: Roma la guardava come suo granajo; talmente fruttava l’un per venti delle merci importate, che dal solo porto di Siracusa in pochi mesi Verre ricavò dodici milioni di sesterzj2. Che ghiotto boccone alla gola de’ magistrati romani! che bell’arricchirsi in provincia tanto ubertosa, e per soprappiù così vicina, da potere considerarsi un suburbano di Roma!

Verre, ottenutone il governo, calpestate e le leggi romane e le paesane consuetudini, in quei tre anni fece traboccare a sua voglia le bilancie della giustizia; egli cavillava ogni testamento finchè nol si satollasse di denaro; egli obbligava i contadini a contribuire più di quello che raccoglievano, talchè molti campi rimasero abbandonati; egli saccheggiava città, o le obbligava a mantenere le sue bagascie; egli assoldava accusatori, citava, esaminava, sentenziava. Possessi aviti furono aggiudicati altrui; cassati testamenti e contratti; alterato il calendario per vantaggiare gli appaltatori3; fedelissimi amici condannati come avversarj; cittadini romani messi alla tortura, o mandati al supplizio; gran ribaldi assolti per denaro; onestissime persone accagionate assenti, o condannate; porte e città dischiuse ai pirati; uccisi i capitani, le cui squadre si erano lasciate

  1. Parmi questo il concetto che ragionevolmente esce dalle ampollose lodi di Marco Tullio: «Sic porro homines nostros diligunt, ut his solis neque publicanus, neque negotiator odio sit. Magistratuum autem nostrorum injurias multorum tulerunt, ut nunquam ante hoc tempus ad aram legum, præsidiumque vestrum publico consilio confugerint. . . . Sic a majoribus suis acceperunt, tanta populi romani in Siculos esse beneficia, ut etiam injurias nostrorum hominum perferendas putarent. In neminem civitates ante hunc (Verrem) testimonium publice dixerunt; hunc denique ipsum pertulissent si, ecc.» In Verrem, II.
  2. Ibidem.
  3. Se Cicerone riferisce il vero, i Siciliani usavano un calendario ben rozzo, giacchè, per mettere in accordo i mesi solari coi lunari, aggiungevano o toglievano uno o due giorni, facendo più breve o più lungo il mese. «Est consuetudo Siculorum, ceterorumque Græcorum quod suos dies mensesque congruere volunt, cum solis lunæque ratione, ut nonnumquam, si quid discrepet, eximant unum aliquem diem, aut summum biduum ex mense, quos illi ἐξαιρεσίμους dies nominant; item nonnumquam uno die longiorem mensem faciunt, aut biduo». Ivi.