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90 | illustri italiani |
lentieri corrono al labbro di chi è vittima dell’ingratitudine cittadina; ma difficilmente ottengono perdono, e Cicerone col ripeter continuo i suoi vanti attizzava l’invidia, quanto più remota diveniva la paura; la libertà s’adombrò dei poteri che aveva dati a costui in un momento di terrore, in cui egli avea disposto di tante vite; le ire provocate e nascose a poco a poco tornarono in campo; vedendolo glorioso d’aver congiunto senatori e cavalieri a comprimere la democrazia, i malevoli lo chiamavano il terzo re stra-
canus fuit, me non multo minorem quam Lælium, facile et in republica et in amicitia adjunctum esse patiare». Ivi.
Già scrivendo contro Verre (v. 14) esclamava: — Dei immortali, qual divario di mente e d’inclinazioni fra gli uomini! Così la stima vostra e del popolo romano approvi la mia volontà o speranza, com’io ricevetti le cariche in modo da credermi legato per religione a tutti i doveri di quelle. Fatto questore, reputai essa dignità non solo attribuitami, ma affidatami. Tenni la questura in Sicilia come se tutti gli occhi credessi in me solo conversi, ed io e la questura mia stessimo s’un teatro a spettacolo di tutto il mondo, onde mi negai ogni cosa che è riputata piacevole, non solo a straordinarj appetiti, ma alla natura stessa ed al bisogno. Ora designato edile, tengo conto del quanto io abbia ricevuto dal popolo romano, e che devo fare santissimi giuochi con somma cerimonia a Cerere, a Libero e Libera; colla solennità degli spettacoli placare Flora madre al popolo e alla plebe romana; compiere colla massima dignità e religione i giuochi antichissimi, che si dicono Romani, ad onore di Giove, di Giunone, di Minerva; che mi è data a difendere la città tutta, a curare i sacri luoghi; che per la fatica e l’attenzione di queste cose sono assegnati, come frutti, un luogo antico in senato dove proferire il suo parere, la toga pretesta, la sedia curale, la giurisdizione, le immagini per conservare la memoria alla posterità».
Thomas, parlando di Cicerone nel Saggio degli elogi, scrive: — Lodò sè medesimo anche fuor dei momenti d’entusiasmo, e ne fu biasimato: io nè lo accuso nè lo giustifico; solo osserverò, che quanto più in un popolo la vanità supera l’orgoglio, più esso tien conto dell’arte importante d’adulare e d’essere adulato, più s’ingegna a farsi stimare con mezzi piccoli in mancanza di grandi, si sente ferito persino dall’altera franchezza e dalla schiettezza naturale d’un animo che conosce la propria lealtà e non teme di menarne vanto. Ho veduto alcuno stomacarsi perchè Montesquieu osò dire Son pittore anch’io: oggi anche l’uomo più guasto, anche nell’atto di concedere la sua stima, vuol conservare il diritto di ricusarla. Fra gli antichi la libertà repubblicana concedeva maggior energia ai sentimenti, e più libera franchezza al discorso; quest’infiacchimento del carattere, che si chiama gentilezza, e che tanto teme di ledere l’amor proprio, cioè la debolezza incerta e vana, era allora men comune; si aspirava mentosto ad esser modesti che grandi. La debolezza conceda pure qualche volta alla forza di conoscere sè stessa; e se ci è possibile, consentiamo ad avere uomini grandi anche a questo prezzo».