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capitolo xiii. | 265 |
lasciate amare. Voi avete rammentato la Panagia; bene; forse si è mai sentito dire che questa abbia dato di un calcio nella faccia al suo devoto, che le stava inginocchiato ai piedi?
— Via, via, principe, noi siamo in età da sapere che l’amore stampa tutte le sue grammatiche a casa del diavolo. Platone e Petrarca hanno perduto più anime che tutti i romanzi francesi. Non crediate, che credereste male, il corpo starsi in potestà dell’anima, come Calibano in quella di Prospero; all’opposto Calibano si tira dietro la meschinella Psiche, a mo’ che il fanciullo costuma l’uccelletto legato per una zampa. Amore, se pure può vincersi, si vince in una maniera sola, fuggendo.
— Ebbene, soggiunse gravemente il principe, quando mi accorgerò che l’amore pigli troppo a riscaldarmi, io me ne andrò a visitare le mie miniere in Siberia, e non ritornerò se prima non mi senta rinfrescato.
Eponina non si potè astenere da far bocca da ridere, e piacevolmente interrogò:
— Ma io, che sono italiana, dove mai mi ricovererò? Nel mio paese, in terra, in mare, sui monti, nelle pianure tutto avvampa; fuoco nel Vesuvio, faoco a Stromboli, nel Mongibello fuoco.
— Diavolo! Non ci aveva pensato: allora andate a Torino; esponete la vostra faccia alla brezza che spira dalle Alpi, e vi sentirete rinfrescata.