I poemi di Esiodo (Pozzuolo)/Discorso preliminare

Discorso preliminare

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Esiodo - I poemi di Esiodo (Antichità)
Traduzione dal greco di Lorenzo Pozzuolo (1873)
Discorso preliminare
I poemi di Esiodo Lavori e Giorni

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I.

Era mio intendimento, qualche anno fa, di pubblicare la traduzione in versi di tutti i poemi d’Esiodo col testo greco a fronte, e con note esplicative a calce. Abbandonata in seguito l’idea d’una traduzione rattrappita, piegantesi alle più rigide esigenze del testo nel solo vantaggio dei pochi studiosi (se pure in ciò era vantaggio per essi), venni nel divisamento di offrire al pubblico una versione, la quale mostrasse una certa larghezza di forma, pur conservando inviolati il pensiero e il colorito del[p. 4 modifica]l’originale, fin dove è possibile. Quanto al testo greco mi pensai di pubblicarlo a parte in altro tempo, con un commento latino in forma di note, frutto dei lunghi studi durati su quel poeta tanto celebrato dall’antichità, e che Leopardi1 lamenta non sia abbastanza letto e studiato dai moderni.

Da questo volumetto volli quindi tener lontano quanto vi ha di disameno nel campo ispido della critica filologica: intesi a questo solo, offrire un libro di poesie antiche vestite, bene o male, alla moderna. In questo discorso pertanto io toccherò solamente di ciò, che può parere necessario a sapersi, cioè della vita d’Esiodo, del tempo in cui visse, della materia ed indole delle sue opere giunte fino a noi, e in modo tutto speciale della sua dottrina cosmogonica, e infine del giudizio degli antichi e dei moderni sovra i suoi poemi. [p. 5 modifica]

II.

VITA.

Della vita d’Esiodo non si hanno che cenni sconnessi e mal sicuri. Le notizie, che più comunemente ce ne danno gli antichi, sono le seguenti.

Un nativo di Cuma d’Eolia, per nome Dio, caduto in estrema povertà e incalzato dai creditori abbandona la patria, e ripara ad Ascra, terra della Beozia, alle falde dell’Elicona. Quivi mena moglie una giovine Ascrea, e frutto di tale unione è Esiodo, che per campare è destinato custode di mandre fin dai primi anni dell’adolescenza. Un giorno, mentre la greggia pasce, Esiodo s’addormenta, ed ecco apparirgli in sogno le nove Muse, che avvicinandogli al labbro un ramo d’alloro gli svegliano in petto la fiamma poetica. Queste notizie ci [p. 6 modifica]sono date da antichi logografi distantissimi di tempo dal poeta, i quali colla mescolanza dei dati storici col meraviglioso ci dispongono già male a prestar loro fede.

Notizie più sicure parrebbero quelle, che ci offrono qua e là i poemi stessi d’Esiodo. Nel poema Lavori e Giorni2 egli si dice nato in Ascra; onde Ascreo è l’aggiunto più comune che gli si dà. Nello stesso poema ci fa cenno della maligna e ladra indole del suo fratello Perse. Nella Teogonia3 ci parla della sua vita di mandriano, dell’apparizione delle Muse e del dono avutone; la qual notizia copiò certo il logografo, da cui io tolsi e arrecai più sopra il cenno biografico.

Ma intorno a siffatte notizie, offerteci dagli scritti del poeta, la critica moderna, la quale tende a ricostruire la scienza ponendo in questione ciò che nell’opinione comune era [p. 7 modifica]risoluto, sollevò il dubbio, se quei versi contenenti quelle notizie appartengano veramente ad Esiodo, o siano interpolazioni di rapsodi o di commentatori, intenti a fissare una patria al gran poeta, e a dare qualche cenno della vita di lui, quale potea desumersi dal contenuto dei suoi poemi. Il conoscere la patria degli uomini grandi è un bisogno, che non può starsene insoddisfatto: dove i fatti e le testimonianze sicure mancano, si creano congetture, le quali attraversando i tempi acquistano carattere di verità, finchè la critica indagatrice di tutto non le colga in falso, o non trovi almeno ragioni per diffidarne.

Tentar d’investigare il vero sarebbe opera d’erudizione vacua. Pensiamo infatti alle condizioni di quei tempi. Lo scrivere o era affatto ignoto, o quasi affatto. Gli uomini più distinti, che furono gran parte della civiltà degli antichissimi, perdevano, per così dire, il carattere locale divenendo un nome nazionale, siccome [p. 8 modifica]quelli che dell’anima d’un popolo intero s’erano fatti interpreti fedeli. Patria loro è quindi ogni borgo, ogni città. Lasciando essi dietro sè un lung’ordine di discepoli e imitatori, loro viene attribuito quanto era opera di questi. Divenendo maestri d’una scuola il loro spirito sorvive al rogo, essi acquistano un carattere sacro, divengono mito. La loro vita si computa non dalla durata naturale, ma dalla durata della loro influenza sull’epoca.

III.

Risolvere la questione non è dunque possibile, e altronde non interessa il lettore. Ma ciò che monta è il sapere circa qual tempo Esiodo fiorisse, sapere quale periodo di civiltà rappresenti esso, come poeta e maestro di sapienza. Di tale questione s’occuparono molto antichi e moderni, ma la somma e il frutto delle loro ricerche non parmi sia tale, che [p. 9 modifica]soddisfaccia. Si chiese se Esiodo sia anteriore a quel ciclo epico, che si riassume in Omero, o se appartenga a quel ciclo, o sia posteriore al padre dell’epopea degli Elleni. L’anteriorità è sostenuta da molti storici, scoliasti e filologi. Fra gli antichi cito Eforo seguito da Filostrato.4 Plutarco, riferendosi all’autorità dello stesso Eforo, che scrisse intorno alle cose di Cuma, dice nel principio d’un suo capitolo intorno ad Omero, come Atela, Meone e Dio fossero fratelli, che dei tre l’ultimo recatosi in Ascra (cenno già fatto più sopra) vi sposasse Picimede, e n’avesse il nostro Esiodo. Ammesso ciò, i nostri due poeti non solo sarebbero contemporanei, ma cugini, poichè Meone è dato quale padre di Omero. Proclo, nella sua vita d’Omero, fa questo nipote di Esiodo, e Suida dice, che molti credeano essere Esiodo avolo di Omero. La [p. 10 modifica]quale opinione avrebbe conferma nell’autorità di Plinio il vecchio ed in quella dei marmi cronologici di Paro, che si conservano ad Oxford, se tali autorità non fossero ora giustamente sospette: perocchè Plinio si fa per lo più l’eco della voce altrui, e i marmi di Paro perdettero quasi ogni importanza dopo le martellate della critica del Boek.

Sorge però naturale la domanda: V’è una ragione, per la quale siffatte tradizioni acquistano a poco a poco carattere di verità nel giudizio degli uomini? Certo v’è. Il primo addentellato ad un edifizio d’errori è sempre l’ignoto. Così al posto del vero sorge la favola, che ne assume la sembianza. La mente ha bisogno di credere: la negazione per essa è uno stato di violenza. Accanto a Omero vide la Grecia sorgere Esiodo, pur grande ed ammirato. Mancando dati precisi del tempo in che egli visse, e della patria in che nacque, era naturalissimo il ravvicinamento, e se ne [p. 11 modifica]fece quindi non pure un precursore, un contemporaneo d’Omero, ma un consanguineo.

L’imaginazione, fatti i primi passi intorno al suo idolo, non s’arresta più, e gli prodiga le sue più fresche creazioni divine. Noi ne ridiamo, come ridiamo delle parole d’un uomo appassionato, perchè in quelle parole noi non vediamo il riverbero d’un cuore infiammato. Quindi si creò un dramma intorno alla sua morte, come una specie di dramma si creò intorno alla morte d’Omero.

Plutarco nel Convito di Diocle5 ci narra, come Esiodo cadesse vittima innocente di alcuni, che credettero vedere in lui l’oltraggiatore d’una loro sorella. L’imaginazione si compiace dei contrasti per dare risalto maggiore al suo obietto. Era perciò naturale sorgesse la fola, che Esiodo nemico di ogni ingiustizia e d’ogni violenza perisse per mano d’uomini iniqui, e fosse [p. 12 modifica]creduto reo d’un delitto, da cui più rifuggiva: così si narra d’Orfeo che fu fatto a brani dalle Ciconi, donne tracie. Ma la vittima ha l’aureola dell’apoteosi: natura arresta il corso delle sue leggi: ecco il prodigio al loro posto. Delfini in torma, quasi chiamati ed uniti dal sentimento d’un ufficio giusto e pietoso, conducono a riva sui loro curvi dorsi il cadavere del poeta, che gli omicidi credettero seppellire per sempre fra i gorghi del mare, insieme coi vestigi del loro delitto. L’innocenza trionfa, gli omicidi son puniti. Il suo corpo è sepolto a Nemea; peregrini a frotte vi traggono: la sua tomba è ricercata e venerata da genti d’Asia e di Grecia.

Quante fole non sorsero per questa via non pure nell’antichità, ma anche nell’evo medio?

L’anteriorità d’Esiodo è pur sostenuta da molti fra i moderni; e cito solo per brevità lo Scaligero, il Lipsio e il Leopardi. Il sommo Recanatese6 sostiene l’anteriorità di Esiodo [p. 13 modifica]arguendola dalla natura stessa dei poemi, dalla semplicità, dal candore, dalla naturalezza dello stile e del verso, tantochè lo considera come uno di quelli, che spianarono la via ad Omero. Altri sostenne la stessa opinione dicendo, essere Esiodo meno colto di Omero, avere un fare più primitivo, più patriarcale.

Ma la grande autorità di Leopardi e d’altri distinti critici non vale a persuadermi, che Esiodo fosse anteriore ad Omero. La semplicità, che è la caratteristica dei poemi esiodici, dipende in massima parte dalla natura dei soggetti, che vi si svolgono. Di che è prova lo elevarsi del pensiero, dello stile d’Esiodo all’altezza del pensiero e dello stile omerico quando la materia il richiegga; come si vede in alcuni passi, per esempio nella lotta fra Giove e i Titani: Omero anzi non ha un brano, che ne pareggi la grandezza veramente titanica. [p. 14 modifica]

Senofane di Elea crede Omero più antico;7 Suida, malgrado l’opinione contraria di molti suoi contemporanei, crede Esiodo posteriore di un secolo a Omero, e Cicerone di quattro.

IV.

Il Centofanti nel suo bel libro: La letteratura greca dalle origini alla caduta di Costantinopoli,8 afferma essere Esiodo contemporaneo, e forse anteriore ad Omero. In un campo così irto di difficoltà congetture siffatte potranno parere legittime. Pur tuttavia parmi, si possano addurre argomenti contro il giudizio affermativo dell’autore. Si vuole Esiodo contemporaneo di Omero? e come? Ma vi si oppongono ragioni profonde. Data come vera la loro contemporaneità, trattasi di due poeti, soggetti a quel com[p. 15 modifica]plesso d’idee di guerre, d’eroiche imprese, subietto costante dell’epopea omerica. Or come avviene, che Esiodo, posta mente all’indole dei suoi poemi, si è così facilmente sottratto al dominio delle idee del suo tempo; non pensò, non sentì come pensò, sentì il popolo, in mezzo al quale nacque e crebbe? Nessun poeta, degno di questo nome, come nessun pensatore, sfugge all’influenza del suo tempo: Omero, Dante, Shakspeare, Racine, Voltaire, Schiller, Manzoni ne sono prova luminosa: nei monumenti dell’ingegno l’epoca s’impronta in tutti i suoi più decisi lineamenti, come un volto nel bronzo. Ora come può supporsi, che mentre Omero ritraeva con colori sì vivi guerre e stragi, Esiodo seguisse una via opposta? mentre Omero è poeta eroico, Esiodo divenisse un poeta teologo, cosmologo e moralista? come il materiale dei canti dei due poeti è così diverso, così diverso n’è l’intento?

Si può opporre, che due poeti contempora[p. 16 modifica]nei ponno inspirarsi a soggetti di natura diversa, ed anche opposta. Rispondo che ciò è possibile in tempi di civiltà molto progredita. Ma i nostri due poeti appartengono a tempi, in cui la poesia è un portato spontaneo, è l’effetto genuino, e dirò necessario, delle cause che le danno alimento, e queste cause sono gli elementi stessi e le varie forme della vita. Col raffinarsi della civiltà ogni forma di letteratura diventa riflessa, diventa arte, piegata dalla volontà a determinati scopi: essa perde il carattere della spontaneità, diventa come un ornamento estrinseco della civiltà, degenera spesso in espediente e balocco retorico. Ma i poeti delle civiltà esordienti sono gl’interpreti fedeli dei sentimenti del popolo, di cui son figli: sono la voce della sua anima. Era quella una poesia tutta obiettiva armonizzante in modo mirabile col subietto, dacchè questo sentivasi parte del gran tutto, la propria epoca. La poesia non era un ornamento estrinseco alla [p. 17 modifica]civiltà, ma era la più schietta, la più vera rappresentazione della civiltà stessa.

Potrebbesi anche opporre, che i due poeti potevano ben essere contemporanei, ed applicar l’ingegno a soggetti di natura disparata, e per l’indole loro diversa, e per l’indole altresì diversa delle popolazioni, delle quali ciascuno di essi era parte e rappresentante. Quindi era naturale, si direbbe, che Omero ritraesse il carattere della gente ionia, ed Esiodo il carattere, meno colto, più religioso e meditabondo, che rivela certo una gente ben diversa d’indole e di costumi.

Che nella poesia esiodica e nella sua semplicità nativa si senta tratto tratto un certo tono austero di gran lunga disforme da quello della poesia ionica, che Esiodo sia come il continuatore o la sintesi delle dottrine morali e cosmogoniche dei sacerdoti Tessali e Traci dei primordii, lo posso ammettere in gran parte. Ma parmi non si ponga mente gran fatto al va[p. 18 modifica]lore immenso del ciclo iliaco, che trasse in un sol concetto, in una sola impresa tutte le genti elleniche e frigie; sicchè in seguito per lungo volger di tempi non si cantò che Ecuba e Priamo, Elena e Paride, Achille ed Ettore; ogni eroe, ogni episodio porse materia ad un poema. S’aggiunga, che le idee di pura morale così spiccate in Esiodo, il culto delle virtù casalinghe, l’alto concetto ch’egli ha del lavoro, e che si studia d’inspirare altrui, sono quasi ignoti al ciclo eroico. V’ha di più: Omero confonde sempre la giustizia divina coll’umana. Esiodo all’incontro distingue la Temi, legge divina, dal nomo, legge umana: la stessa parola nomo è ignota a Omero. Trattasi dunque d’un periodo diverso di civiltà.

V.

Ma la contemporaneità dei due poeti non è affermata da Centofanti in modo assoluto; egli [p. 19 modifica]certo v’inclina molto tratto forse dall’autorità di Erodoto,9 e da cui pare si lasci pur trarre il Göttling;10 ma in quel giudizio affermativo è implicito il dubbio, dacchè egli non esclude la possibilità, che Esiodo fiorisse prima di Omero. Quanto a me, posto a scegliere fra le due congetture, sceglierei quest’ultima. Esiodo allora apparterrebbe all’ordine dei primi civilizzatori delle tribù nomadi e selvagge, di quei che aprono il primo periodo della letteratura greca, nel quale la religione e la morale sono le più potenti inspiratrici dei vati, le domatrici della nativa ferità e selvatichezza umana; nel quale s’operano tutti quei portentosi mutamenti del vivere degli uomini, che Eschilo fa annoverare da Prometeo,11 e che Orazio12 ricorda parlando d’Orfeo e d’Anfione [p. 20 modifica]

Pur tuttavia vi hanno ragioni, che non mi consentono di accettar neppure quest’opinione. Nei poemi esiodici infatti io non vedo riflessa una civiltà affatto esordiente, una forma di vita grezza; ma una civiltà già progredita. Veggo già fondate istituzioni giuridiche, e, ciò che più monta, pieganti a corruzione.

Potrebbonsi addurre ragioni storiche decisive di lingua e di stile; ma promisi di tener lungi i lettori da questo campo.

Io per me credo, che Esiodo appartenga a quel periodo che volge tra il chiudersi del ciclo omerico e il sorgere della filosofia. Esiodo è un poeta teologo, cosmologo, georgico, morale in pari tempo. Abbraccia tutto quello, che costituisce il fondo e la forma del vivere d’allora; riflette un’epoca di quiete interna, ma depravata alquanto nei costumi. È un poeta legista, maestro di sapienza agli uomini, che schiude la via a Talete, ad Anassimandro, ad Anassimene, padri della filosofia. Parmi quindi di vedere nei [p. 21 modifica]poemi d’Esiodo l’anello di congiunzione tra il ciclo poetico ionico che si compie, e il ciclo filosofico ionico che principia. Porrei quindi Esiodo tra il 700 e il 650 a. C.

VI.

opere.

Lavori e Giorni.

L’opera più meritamente stimata, e in cui meglio spicca il carattere del nostro poeta, è quella che porta il titolo Lavori e Giorni. È un poemetto di 828 versi esametri. L’intendimento del poeta nel comporlo pare fosse quello di offrire al suo fratello Perse, uomo di costumi sregolati, un libro che gl’inspirasse amore alla fatica, al vivere onesto e sentimenti pii verso gli Dei. Esiodo è profondamente religioso: dal complesso delle cose contenute in questo poemetto rilevasi, che l’ideale del galantuomo è [p. 22 modifica]per lui chi attivamente lavora, chi vive onesto, chi onora gli Dei: è una dottrina sublime d’altissima importanza sociale.

Questo poemetto abbraccia precetti d’agricoltura, di nautica e di governo domestico, e quanto di più sano e di più puro avesse la dottrina religiosa e morale d’allora. La parte che risguarda l’agricoltura, vuolsi da molti suggerisse a Virgilio il soggetto del suo stupendo poema, le Georgiche.

Molte parti mirabilmente belle di questo poemetto attrassero l’attenzione di molti scrittori e critici antichi; cito fra mille Platone, Senofonte, Aristotile, Cicerone. V’ebbe popolo che gli prestava una specie di culto, come ad un libro sacro. Pausania ci attesta, averne esso veduto in Tebe di Beozia un esemplare scolpito su lamine metalliche.

Numero non minore d’ammiratori di questo poemetto abbiam fra i moderni. Cito Leopardi che ne val molti. I passi, che più colpirono [p. 23 modifica]quest’alunno delle Grazie greche, sono gli indicati da esso nelle seguenti parole:13 «E che cosa è divino in letteratura se nol sono la favoletta dello sparviero e dell’usignuolo, e la pittura del verno?»

VII.

Il titolo del poemetto annunzia doppio soggetto: Lavori e Giorni. Materia del primo è un complesso di precetti risguardanti la cultura dei campi, la navigazione, l’economia domestica, il culto delle virtù morali e certe pratiche religiose. In ciò che riguarda la cultura dei campi spira tra i colori più vivi e soavi la dolcezza la contentezza, premio sicuro delle sostenute fatiche. Al traffico marittimo il poeta non inclina punto; v’insiste assai poco, e pare anzi voglia dissuadere gli uomini dal cimentare [p. 24 modifica]la propria fortuna in mare, quasi dica: «La terra ha un seno inesauribilmente fecondo: coltivatela, e vi sarà nutrice generosa e fedele.»

In ciò che riguarda l’economia domestica spirano le più serene, schiette gioie della famiglia. Delle virtù morali, quelle, su cui principalmente insiste, sono il non frodare altrui, il rispetto, la religione del giuramento.

Da tutti i suoi precetti morali spicca la verità, che gli effetti della frode, della mala fede, della violenza fatta altrui ricadono infine su chi se ne fa reo; che il vero contento non viene da ciò che è estrinseco a noi, ma sorge in noi stessi dalla coscienza d’aver adempito i doveri d’uomo.

Quanto alla dottrina religiosa, al culto e ai riti, che ad esso si attengono, sono d’una natura semplice e primitiva, e riflettono un tempo, in cui religione e vita si compenetravano nella coscienza umana, in cui l’umano e il sovrumano si confondevano in un solo concetto, nè il [p. 25 modifica]dubbio spandeva la minima nube a turbare la fronte e l’anima del credente riposante nella fede dei suoi Dei, come sull’origliere fidato dei suoi sonni.

Del resto i precetti morali contenuti in questo poemetto sono antichissimi. Essi passarono per la tradizione orale attraverso molte generazioni, e costituirono come il fondamento della primitiva filosofia pratica dei Greci. Molti poi di questi precetti, come pure degli altri di natura economica, erano già passati in proverbio, e come tali continuarono per tutto il periodo dei poeti gnomici, dopo il quale divennero sorgente di citazioni a filosofi e moralisti.

La seconda parte di questo poemetto contiene una dottrina sulla scelta dei giorni, nei quali si hanno a intraprendere e compiere determinate operazioni e lavori. Siffatta dottrina è fondata su tradizioni vetustissime, che davano a ciascun giorno un carattere fausto o sinistro, dottrina superstiziosa, che presso ogni [p. 26 modifica]popolo mise profonde radici, e di cui la civiltà moderna stenta ancora a svellere gli ultimi avanzi.

VIII.

Teogonia.

Prima di dare i lineamenti generali della materia intricata contenuta in questo poema, la cortesia del lettore mi permetta di esporre brevemente alcune considerazioni. Nelle quali non pretendo già svolgere una dottrina sui miti, ma sfiorarne solo quel tanto, che si acconci al mio intento. Del resto quel campo è oramai mietuto da ingegni valenti. Restano sì alcune questioni ancor da risolvere in modo decisivo; ma il tentarne la prova, quando pur me ne sentissi lena bastante, mi porterebbe fuori di via: intento mio è solo quello di far conoscere, se pur riesco, la mente di Esiodo. [p. 27 modifica]

Il Simon14 da profondo pensatore disse: «Gli Dei precedono Dio», cioè le creazioni fantastiche precedono il culto dei principii, conquista della ragione umana, che pensa e sottopone a libera disamina, a parte a parte, tutto l’edifizio costrutto nei sogni del suo passato. In un articolo della Revue Britannique dell’agosto di quest’anno vien sostenuta la tesi: Le monotheisme dans le polytheisme. La quale è solo in apparenza opposta a quella di Simon: poichè in tutte le manifestazioni del sentimento religioso è sempre implicito il concetto indeterminato d’un ente primo, come nella forma è implicita l’idea di sostanza, e in ogni effetto l’idea di causa: tutto sta nel sapere, se la mente afferra quel concetto, in che grado l’afferra, e per che modo riesca a districarlo dall’involucro delle sue illusioni e farlo dominare sovr’esse. [p. 28 modifica]

IX.

I varii sistemi religiosi sono come i varii colori d’uno stesso prisma, come le varie forme e parvenze, che ti fan balzare agli occhi i quadretti d’un diamante, cioè sono varie sembianze d’una sola idea. Il fondo è: il sentimento d’un Dio riverberato dalla natura organica e vivente, è sempre sveglio nell’anima dell’uomo. La Genesi mosaica ci dice, che Dio fece l’uomo a imagine propria: ebbene, l’uomo gli rese la pariglia facendo Dio simile a sè. L’idea della potenza che agita, traveste e domina gli elementi s’imprime nella mente dell’uomo, e questo nella varietà dei sistemi religiosi riproduce quell’impressione profonda. Quella potenza non offre agli sguardi, che lo spettacolo dei suoi effetti; essa si rimane ignota. Ora l’uomo accanto all’ignoto non trova requie; sapere è il suo pri[p. 29 modifica]mo istintivo bisogno. Quindi in ciò che gli è ignoto getta un germe di sè, e questo germe egli feconda ed anima, gli dà forma, obiettività, lo rende potenza, che forza di secoli non varrà a distruggere. Questa potenza è fatta ognor più salda dalle tradizioni, che sono il centro onde parte e a cui ritorna ogni movimento intellettuale d’un popolo, che ne forman la tempra, e la cui forza sta tutta nel legamento dell’umano col sovrumano. Il sovrumano da sè non regge, perchè l’uomo non sa concepire sostanze senza forme, e il solo umano non soddisfa il potente bisogno del meraviglioso e dell’arcano. La loro unione fa tutta la vita dell’uomo: perocchè il pensiero rifugge dal concentrarsi tutto nella vita dell’idea: esso è di natura espansivo; si slancia quindi nel mondo esterno, ed esercita tutta la sua attività nella contemplazione dei fenomeni, che la virtù fantastica eleva poi a tipi animati, viventi indipendentemente dal loro principio reale. [p. 30 modifica]

X.

La natura, il Dio dei sistemi panteistici, ha i suoi arcani per l’uomo. Quando meno lo pensi ti senti sotto i piedi mancare il suolo, quasi si siano spezzati i cardini dell’abisso, e un elemento romba sotterra, s’apre un varco nel seno d’un monte, e da un ampia bocca infocata spande intorno torrenti di lava a seppellire città e campagne. Talvolta l’immenso volume delle acque, che poc’anzi solcavi tranquille, pare si capovolga, e nel suo imperversare inghiotte navi e riviere. La scienza oggi spiega in gran parte la natura di tali fenomeni risalendo da essi alle loro cause; ma che dovea avvenire nei popoli antichi, se pur oggi le moltitudini vedono in siffatti fenomeni qualche cosa di arcano e di fatale? Ogni fenomeno era per essi una potenza amica o nemica, cui era mestieri propiziarsi con voti. [p. 31 modifica]

Gli effetti sensibili adunque di cause ignote danno origine alla creazione dei tipi divini. Questi tipi sono un bisogno della natura umana, divengono il fondamento delle istituzioni e del consorzio civile. Tra le abitazioni degli uomini sorgono i templi degli Dei, quasi protettori fra protetti. Così sorge la potenza religiosa, che invadendo tutte le forme della vita imprime il suo movimento, dà la sua sembianza alla letteratura e alle arti.

XI.

Frutto del lavorio del pensiero intorno all’ignoto sono i miti; rivelazioni personificate e lumeggiate delle impressioni lasciate profonde nell’animo dalle forze naturali: sono figli del bisogno di rendere sensibili le idee mercè le forme. I miti in sostanza si risolvono in fatti spogli del velo che li traveste. Come fatti sono il prodotto d’un complesso di fattori, che è [p. 32 modifica]mestieri studiare per entro il movimento delle idee. Il fatto è un semplice dato materiale, che per sè significa nulla, e giova solo quale primo noto per l’acquisto dell’ignoto, cioè quale punto di partenza per salire alle più importanti deduzioni intorno alla natura, alla tendenza ed agli intenti del grande agente che è l’uomo nella vita storica.

I miti sono quindi il portato spontaneo della natura umana. L’uomo vede in tutto diffusa la vita, il moto, l’armonia; vede in ogni cosa una fòrza particolare trasformatrice assidua della materia. L’idea di quella forza gl’imprime il sentimento dell’arcano, i modi, ond’essa si manifesta nei suoi effetti, gli scuotono ed alimentano la fantasia, alla quale spetta l’elaborazione della forma, che dee incarnare quel sentimento. Ed è notevole negli antichi l’accordo mirabile tra il concetto e la sua veste: in essi concetto e forma nascono gemelli; sono due corde, che vibrano insieme all’unisono [p. 33 modifica]perfetto. Da ciò il bisogno delle forme così potentemente sentito, bisogno compreso e assecondato dai riformatori sagaci: Teodosio (per arrecarne un esempio significantissimo) memore, che il colpo troppo crudo dato da Costantino al paganesimo avea prodotto la reazione di Giuliano, pensò di assicurare il trionfo del cristianesimo col vestirlo delle forme pagane. A quelli invece, che vollero riformare astraendo i principii dalle forme, fallì la lena, e nulla conseguendo caddero i più vittima dei loro propositi anche più santi. Nella storia di tutte le religioni vediamo andar congiunte per un tratto di tempo le idee colle forme. Poi coll’affievolirsi del sentimento religioso vediamo lo sforzo delle forme per sopraffare le idee e sostituirsi ad esse, e la vigorosa tenacità loro quando il sentimento religioso è affatto spento. Si sa come la nascente chiesa cristiana facesse supremi sforzi per divezzare le moltitudini neofite dal culto [p. 34 modifica]dei loro sacri luci: la forma era sorvissuta alla sua ragione.

XII.

I miti adunque sono l’apoteosi del naturale e dell’umano. Tali i miti di tutte le religioni panteistiche, di cui la più gaja, la più interessante è la greca, siccome quella che s’immedesima con una storia stupenda per avvenimenti e monumenti di genio. Nè dovea essere altrimenti. Non v’ebbe popolo, che sortisse da natura un’imaginazione sì splendida e feconda come il greco, imaginazione fervida, ma serena come il cielo delle sue isole incantate; non vi ebbe popolo, che godesse d’una più libera e più gioconda espansione di vita. Come la natura universale offre infiniti fenomeni, in ciascuno dei quali vedesi agire una forza speciale; così presso i Greci la divinità dei sistemi monoteistici perdesi frastagliata in una minuta analisi, di cui ciascun elemento costituisce una [p. 35 modifica]personalità distinta. Mari, monti, fiumi, foreste son popolati di numi, i quali giungono a tal numero, che sembrano contrastare lo spazio all’uomo. Nelle creazioni di questi tipi l’uomo assimila tutto a sè stesso. Nè può altrimenti prima di concepire l’idea di un principio preesistente, come sostanza, alle forme. Il sentimento e la fantasia nello stato di natura non possono varcare i limiti del finito e del noto. Quindi non v’è storia d’un nume, che non possa pur essere quella d’un uomo, tranne quel grado di potenza esagerata, attribuita al Dio per fissare qualche differenza fra la natura divina e l’umana. Gli Dei al pari degli uomini si cibano, amano, s’adirano, odiano, si placano. L’uomo imbandisce al Dio la mensa delle membra della vittima perchè si pasca, gli offre l’ostia perchè si plachi. Egli fa i numi partecipi dei cibi, di cui esso si nutre. Gli offre, per restare agli antichissimi riti italici, il popano, l’offa, la mola, il che varrebbe focacce e dolciumi. [p. 36 modifica]La prima sede del Dio è il focolare domestico dell’uomo, il Dio vive colla famiglia e in famiglia, cioè entra interamente nelle abitudini e costumanze di essa: uomini e Dei sono le metà d’un’anima sola. Gli Dei sono coi popoli vincitori o vinti; restano con essi nella prima loro sede, od emigrano con essi. Enea insieme cogli avanzi d’Ilio porta in Italia i vinti Penati,15 ed uno dei patti che Enea propone a Latino è l’introduzione dei riti sacri e il culto dei suoi Dei nel Lazio.16 Gli Dei passando di terra in terra muteranno nome, perderanno qualcheduno dei loro antichi attributi, ne acquisteranno dei nuovi; ma restano in fondo gli stessi: nuova solo n’è la sede e l’ombreggiamento.

Gli Dei e gli uomini hanno origine comune: la terra.17 Gli Dei nascono per la stessa [p. 37 modifica]legge di concepimento, come crescono per la stessa legge di nutrizione. Nascono, perchè ogni mito risale ad un’origine determinata. Al contrario degli uomini gli Dei non muoiono: non muoiono infatti le forze degli elementi nè le passioni umane. Oltrechè l’uomo, come specie, è imperituro al pari della natura. Il suo è un continuo rinnovamento di sembianza; egli ritesse assiduamente la propria vita nella vita dei germogli del suo sangue, perpetuando così l’esistenza umana, che nell’individuo, compiuto un dato periodo, tramonta.

Di tale comunanza fra immortali e mortali l’interprete il più ingenuo è Omero. Nell’Iliade egli ci porta di continuo dalle tende dei guerrieri all’Olimpo, e dall’Olimpo alle tende dei guerrieri. L’Olimpo stesso ha le sue radici nella terra, è figlio della terra, soggiorno dell’uomo; ha caratteri pari a quelli d’altri monti: le sue erte sono dirupate, le sue cime sono nevose, [p. 38 modifica]e ben dice il Bertini:18 «l’Olimpo Omerico è il riflesso del mondo sociale.» Il cielo stesso non è altro che figlio della terra: la storia degli Dei dunque è la storia degli uomini e del cosmo che è loro sede.

XIII.

La mitologia quindi può dirsi la filosofia, e insieme la storia dei primi popoli sotto il velo di fantastiche rappresentazioni. Interpreti, raccoglitori ed espositori principali di quanto le tradizioni ebbero di più capitale e profonda sono: Mosè, Omero ed Esiodo.

Mosè, altissimo intelletto, affine di dare unità e sicuro indirizzo al popolo, che avea a reggere, senti il bisogno di formare una storia della genesi della terra, del cielo e dell’uomo. Perocchè comprendeva, che le tradizioni e la [p. 39 modifica]storia sono la guida fedele d’ogni popolo: che esse fanno all’intelletto e al cuore ciò che il sole alla natura: illumina, scalda, allieta, feconda: popolo senza storia è nave senza timone, è spazio senza luce. I materiali della sua storia sono antichi tipi, ch’ei getta in un nuovo stampo. I problemi, che fanno la disperazione dei più profondi pensatori, sono nella genesi risoluti con una facilità disinvolta, che nulla infine risolve, ma appaga, ricolma il cuore bisognoso di prodigi e di fede. L’uomo non poteva allora capir la storia, e storia tale se non narrata, colorita così, non potea concepire l’idea di una potenza creatrice, invisibile, incorporea; bisognava figurarla, darle sembianze e qualità umane.

XIV.

Omero creò la storia della sua nazione. Raccolse le tradizioni sparse, le ordinò, le scolpì [p. 40 modifica]nei suoi canti sublimi. Egli tratteggia i numi quali se li figurava la fantasia popolare: egli fece di più: diede loro distinta e spiccata personalità. Di dottrina cosmogonica in Omero non si ha che qualche cenno fuggevole, come, per esempio, là dov’egli fa l’Oceano padre degli Dei e Teti loro madre:19 anche Virgilio facendo l’eco, lo dice padre delle cose.20 Tale dottrina ripugnava alla natura eroica dei suoi poemi, e al carattere schiettamente ionico, lieto e gaio.

La parte mitica, ch’entra nei poemi omerici, è un antropomorfismo di natura siffatta, che l’uomo si ravvisa nel Dio: sì trasparente è il velo che lo cuopre. Le deità vi sono quali idealità figurate della virtù e della malvagità umana nelle varie loro forme. Nell’Iliade21 si narra, che i due eserciti greco e troiano avevano con[p. 41 modifica]chiuso una tregua. Giove per contentare l’irosa Giunone manda Pallade a rompere il patto. Costei assume le sembianze d’un guerriero mortale, e induce un Troiano a vibrare una freccia contro il petto d’un Acheo. Si grida al tradimento: un terribile scompiglio rimescola i due campi.

Giunone22 è gelosa; Giove ne teme i sospetti, le sorprese, i rimbrotti. Dopo l’abboccamento ch’egli accorda a Temi interessata pel suo Achille, Giunone assale il marito, gli lancia parole furibonde. Giove minaccia d’afferrarla per le trecce, darle una tentennata o peggio. La gioia pertanto dall’Olimpo è sparita; fortunatamente vi si trova Vulcano, che colle sue forme grottesche, coi suoi stinchi usciti di simmetria, e mescendo da bere ai numi turbati riconduce la serenità nelle fronti, la gioia nei cuori. Che dirò del sogno mandato da Giove [p. 42 modifica]ad Agamennone per dare a Temi la chiestagli soddisfazione per l’offeso suo figlio con una terribile carnificina d’Achei? Insomma nell’Olimpo fra gli Dei, come in terra fra gli uomini, tu vedi guerre partigiane, intrighi, gare, puntigli, corrucci di famiglia.

XV.

Gl’immortali non isfuggono talvolta ai colpi dei poveri mortali. Venere è ferita da Diomede, ed è costretta a ritirarsi tutta dogliosa e sbigottita dalla mischia. Ne sarebbe uscito malconcio anche Apollo, se non faceva conoscere in tempo l’esser suo allo stesso Diomede. Marte volle mantenersi incognito combattendo col medesimo eroe, e ferito gravemente fugge all’Olimpo mugolando di dolore.

Le Dive, al pari delle donne mortali, non vanno immuni dalle doglie del parto: anch’esse [p. 43 modifica]hanno la loro levatrice, ed è Ilitiia, cui si fanno doni pei servigi che presta.

Gli Dei sono spesso dissimulatori scaltrissimi e mentitori. Trasformansi a loro posta, dànnosi a conoscere diversi da quelli che sono, spesso allo scopo d’ingannare; mantengonsi incogniti per le loro libere escursioni e avventure clandestine.

XVI.

Gli Dei promettono grandi cose agli uomini, purchè questi mantengano certe condizioni, che alla loro natura è difficilissimo il mantenere. Proserpina concede a Orfeo di trarsi fuori dall’Orco alla vita la sua amata Euridice, ma a condizione che egli, andandole innanzi, non si volga neppur una sola volta a guardarla prima che sia riuscito alla luce del sole. Qual forza poteva frenare il cuore appassionato, gli occhi bramosi d’un amante sì tenero? Egli dimentica [p. 44 modifica]quella condizione, dimentica lo stesso sentiero infernale che percorre, si volge a mirarla: ciò basta: Euridice gli dispare dagli occhi per sempre.

Talvolta la condizione è sottintesa, la persona favorita la ignora, e la conosce dopochè la condizione non fu adempita, e il favore quindi o si riduce a ben poco, o si dilegua in nulla. Cerere facea immortale Demofoonte: ma Metanira, la madre del bimbo, sospinta da naturale curiosità volle vedere, come facesse la dea, infintasi balia, a renderlo così robusto; ciò bastò, perchè Demofoonte fosse mortale al pari degli altri uomini.

Talvolta al favore non è apposta condizione alcuna; è però di tal natura, che lusinga molto in sulle prime, ma che in seguito fa pentire il favorito d’averlo invocato ed ottenuto. Aurora ottiene da Giove il dono dell’immortalità per l’amante suo Titono. Ma dopo un periodo d’anni Aurora caccia fuori delle sue stanze l’uomo, pel quale avea tanto spasimato. Perchè? [p. 45 modifica]perchè s’era dimenticata di ottenergli da Giove, oltre l’immortalità, una perenne giovinezza. L’infelice immortale divenne vecchio, decrepito, un sacco d’ossa e di pelle grinza: che dovea più fame Aurora? Lo stesso Giove, tutto senno e previdenza, non vide lo sconcio, o fece lo gnorri.

Questi e siffatti miti rivelano da un canto il principio fatalistico, giusta il quale tutto deve avvenire secondo leggi prestabilite, contro cui la volontà può lottare, ma invano; ma rivelano altresì il fatto, che la natura degli Dei è la stessa natura umana, poichè soggetta alle stesse leggi impreteribili del fato, e partecipe delle stesse debolezze.

XVII.

Non tutti i nati del sangue degli Dei sono di forme perfette: conosciamo i tipi di Vulcano e di Pane. Ma tali tipi non poteano essere di[p. 46 modifica]versi: la forma loro è sempre in accordo col principio, coll’ufficio adombrato in essi.

In un essere destinato a starsi entro una fucina sepolta in un antro annerito dalla fuligine, in un essere che martella e suda, nudo le braccia, ispido il petto, arruffata la capigliatura, curvo la schiena, invano cercherebbonsi le forme delicate di Ganimede. Così nel dio Pane, che va per burroni e per greppi, incallito, adusto, che ha barba e testa somiglianti ai pruni della siepe nel verno, non si possono vedere le graziose forme di Apollo.

Di tinte così leggere e trasparenti è l’antropomorfismo omerico, sì che in un Dio può l’uomo, come dissi, vedere sè stesso o alcuno dei fenomeni sensibili in mezzo a cui vive.

XVIII.

Questa verità non isfuggiva neppure agli antichi dotati d’ingegno eletto. Secondo [p. 47 modifica]Senofane di Colofone, fondatore della scuola Eleatica, gli Dei sono rappresentazioni degli attributi della natura umana. Prodico di Chio credeva, gli Dei essere rappresentazioni di quanto è utile alla vita. Secondo Aristotile sono semplici concetti della mente umana nati dalla contemplazione del mondo fenomenico. Secondo Ennio gli Dei sono uomini potenti elevati all’apoteosi. Secondo Macrobio tutti gli Dei metton capo ad un Dio solare, cioè ad un essere fantastico, che simboleggia l’elemento reale: la luce. Sicchè gli Dei altro non sono, che attributi, modi, momenti d’una stessa sostanza: il mondo. Così il Diaus dell’India, il Dies dei Latini e il Zeus dei Greci, che si trovano in perfetto parallelo etimologico e ideologico nelle tre lingue sorelle, dice lo splendente, e accoppiato, come spesso nell’India e in Italia, a pitar padre, cioè diauspitar, diespiter,23 dice il cielo, [p. 48 modifica]il dispensiero della luce. Lo stesso è, per recare ancora un altro esempio, del Varunas dell’India, che corrisponde all’Ouranos dei Greci, e dice il coprente, il velante,24 cioè il cielo stesso considerato quale ampia vôlta, che fa coperchio alla terra intorno ntorno sino all’estremo orizzonte, che pare unirli.

A torto dunque il citato Senofane tratto dal suo punto di vista ontologico, in alcuni versi che ci conservò Sesto Empirico,25 si duole, che

Esïodo ed Omer diero agli Dei
Quanto di turpe e di sfacciato ha l’uomo:
Oscene cose, furti e mutue frodi.

È il sentimento popolare, che segue naturalmente la tendenza a ridurre da prima i fenomeni in tipi ideali, e a ridur poi questi in tipi obiettivi, dando loro forma e personalità disegnata e distinta. Onde Anassagora, che volle sostenere, il sole non essere un Dio, ma un me[p. 49 modifica]tallo incandescente, fu dagli Ateniesi accusato d’empietà.

Fra i moderni, Pietro Charron26 assai male da questo lato giudicava l’antichità, dicendo stravaganti ed orrendi tutti i sistemi religiosi degli antichi. Egli dice, che tutte le religioni degli antichi sono creazioni dell’uomo. È vero infatti; ma giudicando egli le religioni panteistiche dal punto di vista cristiano e col criterio del teologo catolico, dimenticò, che ogni culto nell’antichità ci si presenta tale nei varii suoi momenti, quale è forza di cose che ci si presenti. Il culto è la manifestazione la più schietta, la più immediata delle condizioni fisiche, intellettuali e morali d’ogni popolo: in esso l’anima d’un popolo si mette allo scoperto, nè serba alcun segreto. [p. 50 modifica]

XIX.

Ora veniamo al sistema cosmogonico e antropomorfistico, quale ci è dato rilevarlo dalla Teogonia d’Esiodo.

La Teogonia, o generazion degli Dei, è l’esposizione, o meglio la rappresentazione poetica del sistema cosmogonico degli Elleni, simbolicamente adombrato. Gli Dei quindi vi sono quali idealità dei fenomeni del cosmo e dell’uomo, variamente plasmate secondo l’indole diversa dei fenomeni stessi. Si vede il fondo del principio panteistico, in cui s’imperna la storia e tutte le forme della vita e della civiltà greca. Considerata dal solo lato religioso, la Teogonia è l’esposizione d’un sistema dogmatico, e quindi è un’opera eminentemente teologica. Era quello che diremo noi il catechismo, che fissava i cardini della credenza, e quindi da impararsi da [p. 51 modifica]tutti, e da recitarsi nei dì festivi. Considerata in genere nel complesso delle cognizioni che ne offre è, secondo Gabriele Rosa,27 la compage delle tradizioni storiche e delle nozioni geografiche della Grecia dalle prime generazioni e dai primi culti.

XX.

Il primo punto, onde muove la dottrina cosmogonica d’Esiodo, è il momento, in cui comincia la fervida elaborazione della materia confusa in grembo al Chaos nello spazio indefinito. La materia preesiste agli Dei; nei penetrali di essa è un dinamismo che l’agita, ne disgrega le parti, dà a ciascuna l’ufficio peculiare che le spetta. Il concetto dell’inerzia della materia, che per secoli dominò le scuole, non avea penetrato la mente degli antichi. Quella forza assiduamente operosa è intrinseca alla [p. 52 modifica]materia, è una condizione essenziale di essa, è l’anima stessa del mondo, poichè e uomini e numi, oceano e monti, superficie terrestre e firmamento sono figli generati da lei. E quando Talete28 disse: «Il mondo è fattura d’un Dio,» in questo Dio egli vedeva quella forza, che elaborò la materia e le diè forma; ma quella forza era per lui materia pur essa.

Il Chaos d’Esiodo può trovare qualche riscontro con quello di Anassimandro. Ma v’ha questa notevolissinfe differenza, che pel filosofo il Chaos è una sostanza universale atta ad assumere tutte le forme possibili; è un qualche cosa tutto in potenza e nulla in atto. Pel poeta all’incontro è una congerie confusa di cose, che di fatto vanno mano mano districandosi dai loro inviluppi, e pigliando particolari forme fra loro distinte.

Tale è il principio del sistema cosmogonico [p. 53 modifica]dalle origini fino alla scuola di Anassagora. È escluso ogni principio spirituale quale ordinatore della materia. L’illustre maestro di Pericle e di Tucidide ammette sì un principio intelligente superiore agli elementi, ma non dà a quello il carattere di spiritualità: di guisa che per lui il mondo è un organismo vivente e intelligente per natura sua propria, insomma è un elemento superiore sì, ma materiale pur esso.

XXI.

Il primo nume dunque è il Chaos, donde prima si sviluppa la Terra col Tartaro, che ne fa i tenebrosi recessi, e Amore, agente principale della creazione, potenza fecondatrice di tutto.29 Data la materia e tale agente, che si [p. 54 modifica]sviluppa da essa, e che tutto penetra, scalda ed avviva, le creazioni si succedono con certo ordine e norma, sicchè la loro ragione non può sfuggire all’attenzione del pensatore.

Esse muovono da un concetto confuso della prima elaborazione della materia, e si hanno le formazioni di carattere e di forme immani. Il Chaos nel travaglio del suo primo sviluppo dà gl’ingenti suoi parti: Urano, che si stende ampio sul seno della terra, quindi i Monti, i Centimani, i Ciclopi. È il periodo delle creazioni mostruose degli elementi, che sorgono distinti da un gran tutto, il quale uscendo dalle condizioni caotiche si organizza: elementi sorprendenti in sè stessi, e nella loro lotta: terra ferma ricca di vegetazione, ubertosa, fecondissima nutrice, e salda sede d’uomini e numi; distesa di mare ondeggiante e sterile, tempesta e calma, firmamento luminoso e buio d’abisso. È un pretto naturalismo, da cui nessuna nozione di stabili leggi ancora s’irradia [p. 55 modifica]nella mente umana. È un concetto confuso di tutto: lo scorrere del tempo è senza vicende: l’uomo è osservatore passivo dello spettacolo a cui assiste, nè sa leggere una sola parola nel gran libro della natura.

XXII.

La mente umana comincia a stenebrarsi alquanto allo sparire di Urano e al comparire di Crono.30 Crono riduce Urano all’impotenza coll’evirarlo usando per arma della falce, che la Terra fabbricò del materiale delle sue viscere: il metallo. La falce ci annunzia già la prima cultura dei campi, le prime messi, il passaggio dell’uomo dallo stato ferino all’umano; l’uomo già comincia a dominare, in qualche parte e in qualche modo, gli elementi, e di spettatore passivo a divenire attivo operatore. Crono [p. 56 modifica]ci annuncia, che l’uomo comincia a conoscere le vicende del tempo, a distinguere le stagioni e a regolare secondo queste i lavori della terra. Al concetto dunque dello spazio indefinito sottentra quello del tempo, quale regolatore delle umane operazioni.

XXIII.

Ma se dallo svolgersi progressivo degli elementi, dal Chaos fino alla caduta d’Urano, abbiamo un naturalismo cieco, il naturalismo illuminato dalla nozione della legge di tempo che sorge con Crono non bastava all’uomo, il quale, fatto il primo passo sulla via della civiltà, non s’arresta più qualunque sia l’ostacolo che lo attraversi.

L’uomo non volle lasciare lo scettro dei proprii destini in mano al tempo: il tempo è un signore, che spesso inganna, nè soddisfa da padre ai bisogni tutti dei suoi figli: esso me[p. 57 modifica]desimo è un nume insensato. L’uomo sente il bisogno d’una legge, d’un ordinamento sociale, d’un governo, che stenda il dominio anche sul tempo, di trarre profitto dai suoi benefizi, ripararne sagacemente e prevenirne i danni. Il regno di Crono perciò finisce, comincia quello di Giove.

Queste rivoluzioni non si fanno senza lotta e violenze; ed è naturale, poichè ogni mutamento di sistema senza lotta non si effettua mai, sia nel campo dei fatti, sia in quello delle idee. Nè di siffatte rivoluzioni è arbitro il caso: nulla è figlio del caso; ogni epoca traccia nel suo passaggio un solco, e vi depone fecondati i germi dell’avvenire. Ogni cosa quindi ha la sua ragione efficiente e determinante; v’ha una legge profonda, che dirige ogni lavoro dello spirito umano.

Giove è il tipo più spiccato dell’Olimpo greco. In lui neppur l’ombra di quella natura immane e tetra, onde nei due precedenti periodi [p. 58 modifica]la fantasia degli uomini vestì i suoi tipi divini. La natura umana si svolve grado grado dalla sua nativa aspra selvatichezza, si ammorbidisce, s’ingentilisce. Gli obietti della sua mente van perdendo grado grado quella indeterminatezza ed enormezza paurosa, e vanno acquistando proporzioni ragionevoli e aggraziate. Ora col trasformarsi della natura umana, forza è si trasformi con essa quella dei suoi Dei. Hegel ben disse: «Dimmi qual Dio adora un popolo, e ti dirò che popolo è.»

XXIV.

Giove rappresenta l’insediamento della sovranità legale: la legalità sta, secondo il diritto antico di guerra, nel fatto della vittoria da esso riportata su Crono. Rappresenta il principio d’un ordine stabile di governo. Egli distribuisce i ministeri agli altri Dei: è il monarca as[p. 59 modifica]soluto, che sparge a piene mani i lavori, atterrisce col fulmine e il tuono: egli atterra e solleva secondo che gli talenta,31 e l’Olimpo s’incurva riverente e atterrito al moto del suo ciglio.

Ma con Giove abbiamo ancora una potenza interamente divina. L’uomo adora e trema; Giove è tutto, l’uomo è ancor nulla. L’evoluzione però della mente umana non potea fermarsi neppure a questo stadio. Dal Chaos al trono di Giove si ha il moto ascendente dell’elemento divino; da Giove comincia il moto discendente verso l’elemento umano. Si conobbe, che parecchi degli uomini nascono buoni a compiere grand’imprese, ad emulare gli Dei nel beneficare i mortali. Abbiamo quindi gli Eroi, e tipo n’è Ercole. Ma si credette, che quanto essi operavano di grande varcasse i confini della po[p. 60 modifica]tenza umana; onde l’origine loro fu creduta semidivina. Resta un lungo cammino ancora da percorrere; è percorso pur questo: l’uomo alfine acquista la coscienza della sua potenza, attribuisce alla sua operosità i portenti derivanti dall’uso delle proprie forze, si crede esso solo mallevadore dei suoi atti: ferve l’opera dell’eliminazione degli elementi divini: l’elemento umano a poco a poco li soperchia, sicchè gli Dei mandati in bando trovano un ultimo asilo, come smorte denominazioni, nell’astronomia; diventano quali fossili da museo, è surrogato loro il Dio della legge morale, e alle creazioni fittizie succede la maestà della storia e della scienza, il cui obietto sono la natura e l’uomo, studiati nella realtà dei loro elementi, nelle cause e negli effetti della loro attività incessante.

La mente umana pertanto traversando i secoli costrusse, senza saperlo, uno stupendo poema, o meglio si fece autrice e protagonista insieme d’un dramma, il cui scioglimento è il suo [p. 61 modifica]trionfo, la conquista della sua potenza sugl’idoli stessi ch’essa creò.

XXV.

Spiegare minutamente le ragioni psichiche e storiche di tutto quel viluppo immenso di tradizioni, di cui Esiodo in questo lavoro ci fa la pittura, sarebbe impresa non lieve. Tutto in sostanza si riduce a quello che già fu detto, cioè: la storia degli Dei è la storia degli uomini e della natura fenomenica. Nelle guerre che arsero tra i numi vediamo ombreggiate evoluzioni cosmiche e vere guerre tra popolo e popolo, vediamo il più debole caduto sotto il dominio del più forte, le conseguenze della conquista secondo il concetto del diritto di guerra, che nell’antichità si aveva.32 Era poi naturale, che come facevasi l’apoteosi d’un uomo, si facesse [p. 62 modifica]quella d’un ordine intero d’uomini, e ad una impresa umana fosse dato il carattere di divina, di che ci è prova tutta l’epica antica. Così nel massimo dei poemi indiani, nel Mahabharata, narransi le vicende di una guerra, che cominciata in cielo si continua in terra tra le due genti i Karavas e i Pandavas. Trattasi d’una guerra leggendaria, il cui fondo prettamente storico è una serie di vere lotte per la conquista dei paesi irrigati dal Gange. Così il protagonista del Ramajana è Rama, eroe solare, disceso fra gli uomini a compiere le imprese, che si narrano in quel poema, e che ognuno oramai può conoscere nella traduzione del nostro Gorresio. Trattasi d’una impresa umana trasformata in celeste. Nell’Iliade il protagonista è un mortale, ma figlio della Dea Teti: Achille. La causa della guerra è il rapimento d’Elena: l’affare sin qui è tutto umano. Ma quella causa è estrinseca, o meglio è il fatto speciale che determina la guerra: causa intima n’è l’ira di [p. 63 modifica]Giunone, che vuol vendicare sui Troiani l’oltraggio inflittole da Paride. L’elemento umano è intimamente legato col divino; ma trattasi di secolari odii profondi fra gente e gente, che vestiti del mito nei tempi preistorici e leggendari, ci si presentano disegnati nella loro realtà più spiccata nei tempi storici. Non parlo dell’Eneide e dei poemi classici posteriori, poichè l’elemento divino v’entra come mero espediente letterario, ma è estrinseco alla coscienza dello scrittore e del suo tempo.

XXVI.

Il Wolf ed altri vedono nella Teogonia un ammasso confuso di cose addossate le une alle altre dal capriccio del caso. Io mi attengo al Creutzer, il quale vi vede all’incontro un’esposizione ordinata di dottrine teologiche. Esiodo è un poeta, e un poeta valente, e non potea [p. 64 modifica]darci quindi un’opera d’arida scolastica. Egli è fedele alle credenze religiose del suo tempo. Il suo è un sistema di dogmatica nazionale, ma in forma poetica; è, nel suo genere, una vera epopea. Quindi vi ha una serie di fatti costituenti un’azione epica, e quest’azione ha la sua unità nell’intimo riferimento ideale, se non materiale, di quei fatti.

La natura è l’unità costante, il perno intorno a cui si svolge una varietà ognora crescente; è lo svolgimento progressivo della natura fisica e morale, che ci si presenta tale da offrirci un complesso di leggi supreme, reggitrici immutabili di essa, che senza posa si muta e traveste. Il concetto sintetico della Teogonia è infatti: La natura solamente è eterna, divina: gli Dei sono forme, modi di essa. Tutta l’azione di questa epopea sta nelle relazioni tra questa sostanza divina e le sue manifestazioni, di cui il poeta fa tanti enti distinti, rilevandone, tra sprazzi di poetica luce, carattere e profilo. [p. 65 modifica]

Chi sa dire il numero delle tradizioni, dei simboli che i secoli aveano accumulato in Grecia dalle origini fino ad Esiodo in tutto quel lunghissimo oscuro periodo, in cui genti disparate incrociandosi di continuo confondeano insieme col sangue, colla lingua e coi costumi culto e leggende? Il popolo greco, a preferenza d’ogni altro popolo, avea la virtù di assimilare quanto di peregrino capitava sotto il suo cielo ridente, facendogli subire l’influenza del suo clima molle e dilettoso. Non v’è leggenda mostruosa, non culto, non rito disumano, che immigrando coi barbari in Grecia a poco a poco non s’ingentilisse, deponendo la spoglia della selvatichezza nativa.

Esiodo fuse in un sistema tutte quelle tradizioni. Nel che non ci si mostra già egli quale cieco raccoglitore ma qual poeta d’altissimo intelletto, che penetra e domina il suo soggetto, e fa nella Teogonia quello, che Mosè nella Genesi, cioè vi trasfonde il proprio spirito. [p. 66 modifica]Vi si scorge il concetto della legge del mondo, quella che fu il cardine della scuola filosofica Jonica, il divenire, cioè incessante sviluppo e trasformazione di tutto; vi si scorge che questa legge del cosmo s’applica pure a quella della civiltà. Così i momenti dello sviluppo progressivo della materia e della civiltà umana fanno riscontro colle genesi divine.

XXVII.

La Teogonia, dissi, è un’epopea: può quindi essere considerata nelle seguenti parti. La prima va dal Chaos ad Urano, e vi si rappresenta l’epoca, in cui, come fu detto, la materia principia ad agitarsi, a prender forma per una virtù a sè intrinseca. La seconda va da Urano fino a Crono, il quale dice ad Urano. «Il tuo regno è finito; il re son io.» La terza va da Crono a Giove; e Giove, che è il Dio della luce, [p. 67 modifica]della penetrazione, della comprensione mentale, inizia l’epoca quarta. Giove strappa di mano a Crono lo scettro; e dice: «Chi domina le vicende del tempo, signore del tempo stesso è l’intelligenza: l’intelligenza è con me: il tuo regno è finito.» Da Giove, come pur dissi, comincia il moto discendente dal divino all’umano. L’uomo ardisce porsi in lotta cogli Dei, di gareggiare con essi di senno e di potenza. Sulle prime paga cara la sua audacia, talvolta soccombe; a poco a poco va prevalendo. Giove pare quasi costretto a smettere la sua durezza verso i ribelli, e scende a concessioni, che tolgono gran parte dell’antico prestigio alla maestà dell’Olimpo. Infine la ragione umana comincia l’opera demolitrice dei suoi idoli: gli Dei spariscono, e al loro posto grandeggia il Dio dei popoli d’ogni colore e costume.

Questo medesimo processo possiam vedere spiegarsi più o meno lentamente, sotto questa [p. 68 modifica]o quella forma presso ogni popolo. Tutto è in tutto, diceva Anassagora, cioè ogni periodo precedente ne chiude in germe un futuro, e così di seguito sempre. Presso ogni popolo si ha anzitutto un pretto naturalismo. Le prime percezioni infatti ne vengon dal mondo sensibile; sulle percezioni divenute idee lo spirito fonda le sue creazioni: rappresenta sensibilmente le idee per mezzo di cose, vero simbolismo, la sola forma possibile nei tempi primitivi: tutti i perchè muovono dal mondo fenomenico, che ne è il solo obietto. Succede un periodo teologico: le credenze entrano in un sistema religioso e rituale determinato dai sacerdoti. In un successivo periodo la dottrina teologica si trasforma assumendo carattere e forma più consoni collo sviluppo della mente umana. Insomma dalla materia agli Dei, dagli Dei agli eroi, dagli eroi all’uomo: qui comincia la storia vera: la ragione umana prende lo scettro del mondo. [p. 69 modifica]

XXVIII.

Leopardi33 in questo poema non trova nulla di veramente poetico, tranne la descrizione della battaglia tra Giove e i Titani, della quale esso ci diede una bella versione. Quintiliano fra gli antichi34 dice, che di rado in quel poema Esiodo si mostra poeta. A dir vero le cose, che vi si contengono, non sono in gran parte accessibili alle grazie delle Muse. Tuttavolta non può negarsi che l’introduzione al poema, il racconto della visione notturna, nella quale le Muse consacrano il poeta loro ministro, la nascita di Venere, il mito di Pandora, la descrizione del Tartaro, del palagio della Dea Stige e della morte di Tifeo spicchino per bellezza di concetto, per potenza di fantasia e vivacità di colorito. [p. 70 modifica]Nel resto del poema si vede quel fare alla buona, che par negligenza, ed è all’incontro il chiaro riflesso di quell’arte primitiva, di cui da gran tempo si è perduta la traccia, e che ogni traduttore disperi di ritrar fedelmente senza rischio di cader nel volgare.

XXIX.

Lo Scudo d’Ercole.

Eccone l’argomento. — Alceo figlio di Perseo morendo lasciava erede Elettrione suo figlio a patto, che, come l’altro figlio Anfitrione fosse uscito di minorità, gli desse la parte del retaggio che gli spettava. Ma Elettrione salito sul trono di Tirinto non mantenne la promessa; Anfitrione quindi gli ruppe guerra, e uccisolo ritirossi in Tebe di Beozia. Ora avvenne, che i Tafii e i Teleboi, già suoi alleati in quella guerra, posero [p. 71 modifica]le mani sui beni dei figli di Elettrione, ne li spogliarono e li uccisero. Alcmena, deliberata di vendicare la uccisione dei suoi fratelli, premette la mano di sposa ad Anfitrione, uccisore del padre suo, purchè si faccia ministro della sua vendetta. Anfitrione accetta, e forte di alleati sconfigge i Tafii e i Teleboi, e ne fa strage. Nella medesima prima notte del maritaggio Alcmena divien gravida d’Ercole, frutto dell’amore furtivo con Giove, e d’Ificle frutto dell’amor maritale con Anfitrione.

La narrazione di tutto questo va fino al v. 56. Ma a questo punto il soggetto del canto si muta; continua la forma epica, ma tutto è cangiato, azione, personaggi. Il protagonista diviene Ercole, azione è la lotta di esso con Cigno che resta ucciso nell’arena. — [p. 72 modifica]

XXX.

Qui si hanno, o io m’inganno, due lavori ben distinti, e separati un tempo l’un dall’altro finchè durarono interi. Il primo, come pensano pur altri, è certo un frammento, che faceva parte della Teogonia, e forse n’era l’ultima gherone.

Nella Teogonia infatti, narrata la generazion degli Dei, e in seguito quella degli eroi nati d’una immortale e d’un mortale, vediamo il poeta dar principio al racconto della generazione di quegli eroi, che ebbero genitori un immortale ed una mortale. Ora questa terza parte del poema non appena annunziata s’arresta, e s’arresta in modo crudo, inusato, massime dopo la solenne intonazione, colla quale il poeta chiede inspirazione alle Muse, ciò che per l’epica antica è rituale.

Quanto al racconto dello scontro di Ercole [p. 73 modifica]con Cigno figlio di Marte, parmi di vedere in esso il frammento d’un poema, in cui erano cantate le imprese di questo archetipo degli eroi. Come poi nel giro dei tempi questi due lavori siano stati cuciti insieme, non credo difficile l’imaginarlo. Ridotti a condizioni frammentarie venivano naturalmente a raccostarsi per l’affinità del loro contenuto formando dei loro avanzi un tutto alla meglio, e prendendo il titolo da quello, che nella ragione qualitativa e quantitativa prevale.

XXXI.

L’Agone nel canto.

È una di quelle solite gare poetiche, che accompagnavano le ginnastiche nelle grandi solennità di feste o di funerali appo gli antichi Greci. La gara, della quale si parla qui, [p. 74 modifica]ci è riportata da un logografo, che se ne fa espositore minuzioso.

Questa gara avvenne, secondo lui, nei funerali solenni di Anfidamente re di Calcide d’Eubea perito nella guerra contro Eretria.

Panide figlio dell’estinto e giudice di quella gara, proclamò Esiodo vincitore d’Omero. Lo stesso logografo dice la causa, che determinò il giudizio di Panide a favore del poeta ascreo; e fu l’aver questi cantato le arti della pace, la cultura dei campi e il governo della casa, mentre Omero era corso alle sue idee favorite di schiere guerresche e battaglie. Questa tradizione si radicò negli animi per modo, che passò in proverbio il voto di Panide per significare un voto, un giudizio ingiusto e da insensato, poichè non fu mai conteso ad Omero il primato su tutti quanti i poeti. E di questa tradizione appunto si fecero forti i sostenitori della contemporaneità d’Omero e d’Esiodo, e fra gli antichi Varrone.

Quanto a me credo, che se pure Esiodo ebbe [p. 75 modifica]parte in quella gara, competitore suo non fu certo il cantore dell’ira d’Achille, ma piuttosto un Omeride sull’ultimo chiudersi dell’evo ciclico. Ma l’opinione a cui più inclino è che tutta quella gara poetica altro non sia che lo svolgimento d’un tema scolastico di quell’epoca tarda, in cui la retorica schiuse la tomba al genio greco; perocchè la natura spuria di quei versi, tranne i brani levati di peso dai poemi dei due poeti, vi trapela ad ogni mezzo verso.

XXXII.

Si chiede ora, come potè sorgere e invalere credenza siffatta. Io credo abbia in gran parte contribuito a ciò il passo d’Erodoto35 già citato, nel quale lo storico esprime l’opinione, che i due poeti siano stati veramente contemporanei, [p. 76 modifica]e anteriori a lui non più di quattro secoli. Di più vi si dice, come Omero ed Esiodo siano stati i primi a dare ai Greci una Teogonia, cioè i primi ad attribuire agli Dei denominazioni, onori, arti e figura. Associati i nomi dei due poeti da un’autorità sì grande, avvenne che, come fu facile attribuire ad Erodoto una vita d’Omero, fu così facile attribuire ai due poeti quella gara. Nè si badò, che lo storico, cauto quale è sempre nei suoi giudizj, non fa che esprimere in quel passo un’opinione sua personale, nè esclude quindi la possibilità che egli s’inganni.

Più che legittima sarebbe pur la dimanda, perchè abbia io inserito tra i carmi d’Esiodo quest’Agone nel canto, mentre non v’ha alcuna ragione di credere, che Esiodo vi avesse parte. Ebbi due ragioni: primo l’essersi per tanti secoli e da tanti dottissimi uomini creduto, che Esiodo davvero vi avesse parte: lo stesso Göttling, che pur non vi crede, pone quell’Agone nel volume [p. 77 modifica]della sua edizione dei canni d’Esiodo.36 Secondo, mi v’indusse la natura del componimento, che offre una curiosità letteraria meritevole d’essere conosciuta.

XXXIII.

Frammenti.

Questi sono tratti da scrittori, specialmente grammatici e scoliasti, viventi i quali esisteano le opere, di cui quelli facean parte.

E queste opere erano: I. L’Egimio; II. La Astronomia; III. I Lavori grandi; IV. I Cataloghi delle donne; V. Melampodia; VI. I Consigli di Chirone; VII. Le Nozze di Cëice, di cui tra altri fa menzione, Ateneo37 e Plutarco;38 VIII. I Dattili Idei, che ricorda Plinio39 e [p. 78 modifica]Clemente Alessandrino;40 IX. Il Giro della terra;41 X. La Discesa di Teseo all’inferno; XI. La Divinazione; XII. L’Epitalamio a Teti e Peleo; XIII. Canto in morte di Batraco.

La sconnessione di questi frammenti fra loro, il vederne alcuni, che da soli non danno neppure un senso compiuto, distoglievami in sulle prime dal tradurli, e dal dar loro posto in questa raccolta. Ma prevalse poi il pensiero di non tralasciare alcuna cosa pur minima, che l’antichità attribuisce al gran poeta, il pensiero insomma di offrire tradotto un Esiodo in tutta la sua interezza, il che non so se altri abbia ancor fatto.

XXXIV.

Non è questo il luogo di porre in campo le questioni sull’autenticità delle opere attribuite [p. 79 modifica]ad Esiodo. Per quanto gli si voglia sottrarre, il suo nome vive immortale nel poema Lavori e Giorni, che punto non gli si contende. Ma non posso dispensarmi dall’osservare in genere, che molti versi furono interpolati nelle opere di lui da mani estranee.

Imaginiamo un tempo, in cui la sola memoria serviva di libro: la memoria spesso non è fedele; quindi confondeva talvolta brani d’un autore con quelli d’un altro. Confrontiamo infatti i poemi omerici ed esiodici, e vi troveremo molti passi comuni ad entrambi i poeti. Si pensi al tempo, in cui gli esemplari erano sì rari, e senz’ordine le loro parti diverse, si pensi che fu Pisistrato il primo ordinatore dei poemi di Omero. I rapsodi, o recitatori vaganti, nel declamare un brano d’un poeta eran naturalmente portati a inserirvi qualche cosa di proprio, a fare mutazioni, che loro paressero opportune alle circostanze. Così lo spurio si mescea col genuino: nessun freno era posto [p. 80 modifica]all’arbitrio. Sarà pure di leggeri avvenuto, che nella foga del declamare i rapsodi cucissero insieme brani di autori diversi tratti dal reciproco riferimento di essi, e li recitassero come cosa di quel solo autore, di cui si costituivano rappresentanti.

I rapsodi da un canto, dall’altro i copisti. I quali, o erano ignoranti, e leggendo male copiavano male, saltavano versi lasciando lacune, che gl’interpreti poi si facevan lecito di coprire del proprio; o erano colti e giudiziosi, e difficilmente poteansi astenere dal mutare o dal trasportare emistichii, versi, brani interi da un posto in un altro, o aggiungere addirittura versi di proprio conio, segnatamente là dov’essi vedevano o sognavano alterazioni, trasposizioni e lacune. Sarà pure avvenuto, che un interprete intento a chiarire un dato luogo del suo esemplare n’abbia, per vezzo d’imitazione o d’esercizio, scritto lo schiarimento in versi dandogli posto nel margine. Che avvenne? Dal margine [p. 81 modifica]a poco a poco andò quello schiarimento surrettiziamente prendendo posto nel corpo dell’esemplare, tentando così celare la sua origine spuria.

XXXV.

Che dire quando si sparse lo sciame dei grammatici, degli scoliasti e dei maestri? I monumenti letterari più preziosi dell’antichità vennero in loro balia. Divennero la sorgente, onde i maestri traevano gli argomenti per esercitare i loro allievi nell’arte dello scrivere. Dei più distinti fra questi, quegli, cui venisse fatto di compor versi sullo stampo di quelli d’Omero, o d’Esiodo, o d’altro celebre poeta, ponevali accanto, o sostituivali a quelli del poeta tolto a modello. Ciò era facilissimo in tempi, in cui all’inspirazione succedeva l’imitazione, e al semplice linguaggio del genio l’ammanierato della scuola, in tempi, in cui il sorgere della critica [p. 82 modifica]era ancora così lontano. Ai loro occhi pareva esaurita la fonte del bello, svigorita, impotente la fantasia umana per nuove creazioni, e somma lode essi riponevano nell’accostarsi ai grandi modelli, ritentando, rifacendo, raffazzonando a modo loro quello che ammiravano in questi.

Non è impossibile a un occhio sagace il sorprendere tali perturbamenti e interpolazioni surrettizie: vi ha sempre qualche cosa, sia nel pensiero, sia nella lingua e nello stile, che vi fa dire: Qui non ci è Omero, qui non ci è Esiodo.

Di che non posso prescindere dall’arrecare una prova. Chi leggerà in questo volume lo Scudo d’Ercole, dopo letta la descrizione dello scudo, esclamerà certamente: Se tali e tanto scene erano effigiate sul convessa di quello scudo, quanto enormi ne doveauo essere le dimensioni! E infatti per quanto alti, tarchiati e robusti possiamo imaginare gli eroi, uno scudo siffatto è da noi concepito come sproporzionato [p. 83 modifica]a un braccio umano; tanto più se ci facciamo a confrontarlo con quello di Achille, e del quale Omero ci fa la descrizione.42 Lo scudo d’Achille è immane davvero, ma quello di Ercole ancor più. Nella descrizione di questo più d’uno certo ebbe mano. Che Esiodo vi avesse parte, non ho mai creduto, o almeno se ve l’ebbe, fu soprafatta dalle aggiunzioni altrui.

Leggendo la descrizione dei due Scudi si vede, come l’autore o gli autori di quella dello Scudo d’Ercole si facciano pedissequi, spesso servili troppo, d’Omero, coincidendo non solo nel preciso disegno delle rappresentazioni, ma pur anco nelle frasi e fin nei versi. Qui dunque si mostra un imitatore, non un poeta originale; sarà un esiodide, ma non Esiodo.

Così chi leggerà in seguito la descrizione del duello tra Ercole e Cigno si avverrà in un addensamento inopportuno di similitudini. Parec[p. 84 modifica]chie di queste paionmi eseguite su temi scolastici nel tempo infortunato, in cui comincia il divorzio tra pensiero e parola, tra natura ed arte.

Nulla di più facile, che un retore desse ad un suo discepolo il seguente tema: Sostituire un’altra similitudine a quella dei due macigni dello Scudo d’Ercole. La fantasia del discepolo ricorrerai cinghiale alle prese col cacciatore, a due leoni, che si contendono una cerva, a due avoltoi, che si contendono un capriolo. Dissi male la fantasia del discepolo, doveva dir la memoria, dacchè il fondo di quelle similitudini è tolto ai poemi omerici. La caratteristica di quel periodo letterario è l’esercitare impunemente il diritto di pirateria nelle opere, alla cui altezza l’ingegno spossato non sa elevarsi.

Ma ciò che prova meglio l’interpolazione è quel che segue alle prime due similitudini. Infetti inutile era al poeta il cenno della stagione, in che la lotta avvenne. Il tema scolastico sarà stato: Quando avvenne lo scontro fra Cigno ed [p. 85 modifica]Ercole? E il discepolo naturalmente ricorre a imagini famigliali alla poesia d’Esiodo, imagini di vita campestre, ma qui fuor di luogo. Poteva altronde spicciatamente dire: La lotta avvenne in estate; ma bisognava fare quell’operazione, che i retori chiamavano amplificazione, conglobazione di parti: ecco l’arena dei cimenti e dei trionfi scolastici. Sicchè per dire che è estate non basta il dire che la cicala canta, ma bisogna pur dire, ch’essa si pasce di rugiada, che canta tutto il giorno. E neppur basta: bisogna aggiungere il Sirio che abbronza i volti; e non basta ancora: bisogna aggiungere la spiga; non basta: bisogna aggiungere il dubbio colore che tinge le uve. Era poi molto facile, che tali composizioni venissero dai copisti inserite in quei lavori originali, dai quali se ri era tolto il soggetto, tanto più facile, se autore n’era il copista stesso.

Non può dunque dubitarsi, che gravi alterazioni abbiano patito le opere d’Esiodo. Si pensi, [p. 86 modifica]che in tempi comparativamente vicini le opere di Dante non giunsero a noi in tutta la purezza della loro prima impronta. Benedetta perciò la stampa e la mente di chi la inventò; per essa il pensiero e la parola traversano inalterati i secoli.

XXXVI.

Raccogliere i giudizi sul merito dei poemi di Esiodo, e le lodi che gli scrittori d’ogni tempo tributarono al poeta, sarebbe cosa ben lunga. Non vi fu storico, non filosofo, non critico, che non abbia encomiato la morale della sua dottrina attinta alle fonti più pure, il candore quasi primitivo della forma e dello stile. Cicerone43 consiglia il figlio Lepta a impararne i precetti. Fra i moderni Leopardi compendia ogni lode dicendo: «Tanto è soave che v’inamora.»44 [p. 87 modifica]

Io mi contento di citare, traducendoli alla meglio, alcuni versi d’antichi poeti greci, dai quali rilevasi maggiormente, in che conto Esiodo fosse tenuto.

I. Due versi, che citansi come incisi nel tripode, che si credette riportasse Esiodo in premio in quella tale sfida nel canto, e ch’egli in Calcide consacrasse alle Muse. Rilevasi da ciò il fatto, che nel giudizio degli uomini Esiodo poteva misurarsi con Omero. Ecco il distico:

Esiodo vincitor del divo Omero
In Calci l’offre all’Eliconie Muse.

II. Vaticinio d’una sacerdotessa ad Esiodo riportata la vittoria sopra Omero:

Quest’Esiodo, che viene entro il mio tempio,
È un felice mortale, alle divine
Muse gradito. Il nome suo fia grande
Quanto i regni del sol. — Vanne, t’accolga. [p. 88 modifica]
Or di Giove Nemeo l’alta foresta,
Ed ivi attendi, il dì fatai di morte.

III. Epitafio ad Esiodo:45

La feconda di messi Ascra fu nido
A Esiodo, or Creta di puledri attrice
Chiude il frale di lui, gloria alle genti:
Chè grande, sommo il riputare i saggi.

IV. Altro epitafio:

Della vaga di danze Eliade io serro
L’alt’onore, il sovrano Ascreo cantore.

V. Versi di Cristodoro:

Le Ninfe montanine Esiodo Ascreo.
Cantare udirò, e ai bacchici festini
Il trassero a disciorre un dolce carme. [p. 89 modifica]VI. Di Alceo messenio:
Nell’ombrosa di Locride foresta
Lavâr le Ninfe dei lor fonti all’onda
D’Esiodo il frale, e gl’inalzâr la tomba,
Cui di latte cosparsero i pastori
Misto di flavo miei: tali morendo
Precetti il vate diè: chè l’alme Suore Le
lor dolcezze gli stillàr sui labbri.

VII. Di Pindaro:

Di sapienza immortal sommo maestro,
Esiodo, salve, tu, che ben due volte
Ingiovanisti, e due morte ti colse.46 [p. 90 modifica]

XXXVII.

Somma lode pel nostro poeta fu l’aver avuto, come ogni grande, una schiera di seguaci; e come Omero ebbe gli omeridi, Esiodo ebbe gli esiodidi, fra cui Terpandro47 Mnasea, Acusilao, Eumelo,48 Empedocle, Esopo. Ciò che poi ci rende carissimo questo poeta è l’aver esso, si può dire pel primo, gettato il vituperio sull’inerzia e sulla frode, proclamata la nobiltà del lavoro e il culto delle più belle virtù civili e casalinghe.

Esiodo compie Omero, compie l’enciclopedia del tempo. Entrambi ponno dirsi i principali fondatori della nazionalità greca; perocché, come disse un filosofo illustre,49 l’essenza della nazio[p. 91 modifica]nalità è nella religione, nella lingua e nella letteratura. Essi diedero l’indirizzo a tutto il periodo poetico, che fu il più lungo della civiltà greca. Il loro nome fu pure rispettato e caro per tutto il periodo scientifico che successe a quello. Essi infatti furono i sagaci ordinatori e i pittori ingegnosi di tutta la sapienza tradizionale antichissima involuta nei miti, monumenti preziosi là dove ogni altro monumento tace. Quell’ampio materiale aspettò l’azione sceveratrice della scienza; schiuse la via alla scoperta delle leggi di ciascun elemento che vi si contiene, contribuì in massima parte a creare la linguistica, la critica storica, la scienza moderna insomma, che considera le idee e i fatti non come scopo della cognizione, ma come mezzo di risalire alle supreme loro ragioni. [p. 92 modifica]

XXXVIII.

Ma in tutto ciò parrà al lettore di vedere la solita arte dei traduttori di rendere interessante il proprio lavoro. Sarebbe questa un’ambizione legittima in chi faticò parecchi anni a interpretare la mente d’un suo autore favorito; si dice, che un oggetto diventa più caro in ragione delle fatiche che costa. Ma si pensi, che tale ambizione non è senza rischio. Io non potrei rispondere ciò che rispondeva un cotale ad uno, che gli rimproverava d’aver tradotto un brano originale in brutti versi: «Io sono un traduttore fedele, rispose calmo, io co’ miei versi volli ritrarre anche ciò che v’ha di brutto nei versi del mio autore.»

Non posso por fine a questo discorso senza adempiere pubblicamente a un debito di giustizia e riconoscenza. Io ringrazio dei conforti, [p. 93 modifica]di che mi fu largamente cortese privatamente e pubblicamente per le stampe quell’arguto e simpatico scrittore che è Eugenio Camerini, conservatore geloso del candore di nostra lingua. Ringrazio pure il dottor Paolo Maspero, lodato traduttore dell’Odissea, e il consigliere Felice Cattaneo, uomo dotato di squisitissimo gusto per le nostre lettere, del loro schietto ed amichevole giudizio sul modo di verseggiare da me scelto e seguito in questo lavoro.

Milano, 1 ottobre 1873.


Lorenzo Pozzuolo.




[p. 94 modifica]

In procinto di scrivere il discorso precedente consultai le opere seguenti:

Essai de Mythologie di Max Müller.

Geschichte der griechischen Literatur di Otf MülLer.

Symbolik und Mythologie di Creutzer.

History of Greece di Grote (2.ª ediz.)

La versione fu condotta, per lo più, sul testo edito dal Göttling (2.ª ediz.). Per comodità di chi voglia istituirne un confronto, ogni pagina indicherà in calce il numero, a cui giunge l’ultimo suo verso e accanto quello del verso greco che gli risponde.

Poche e brevi note esplicative seguono a ciascuna opera del poeta.



Note

  1. Studi filolog., pag. 150, ediz. Le Monnier 1845.
  2. V. 650.
  3. V. 23, segg.
  4. A. Gell. Notti Attiche, IV, 2.
  5. Conv. XV.
  6. Stud. filolog., l. c.
  7. A. Gellio, op. cit., IV, 8.
  8. Pag. 46, ediz. Le Monnier, 1870.
  9. II, 53.
  10. Hesiodi, Carm., 3ª ediz., pag. xviii.
  11. Promet., v. 447 e segg.
  12. Ep. ai Pisoni, v. 391 e segg.
  13. Studi filolog., l. c.
  14. L’École, p. iv, c. 1.
  15. Eneide, I, 72.
  16. Eneide, XII, 192.
  17. Esiodo, Lav. e Gior., v. 108. — Pind., Nem., VI, I. — Versi Aurei, 63. — Cic., Leggi, VII.
  18. Filos. gr., III, 23.
  19. Iliade, XIV, v. 201.
  20. Georg., IV, 382.
  21. IV, 70 e segg.
  22. Iliade, I, 540 e segg.
  23. Orazio, Carm. III, 2, v. 29.
  24. Esiodo, Teog., v. 127.
  25. Matem., pag. 341.
  26. Nel Libro dette tre Verità.
  27. Stor. gen. delle Storie, pag. 43, 2ª ediz.
  28. Diog. Laerz., I. l. 9.
  29. Principio rimesso in campo da Empedocle (480 av. C.), capo della scuola sorta conciliatrice fra le opposte, ionica ed eleatica. Egli ammette un Chaos congerie di sostanze prime, e Amore che le compone e trasforma.
  30. Teog., v. 170 e segg.
  31. Esiodo, Lav. e Gior., v. 5 e segg. — Orazio, Carm. I, XXXIV, v. 12. — Diog. Laerzio I.
  32. Senof., Cirop., VII, 5, 73.
  33. Stud. filolog., l. c.
  34. Istituz., X, 1.
  35. II, 53.
  36. Göttling, Carm. Hesiodi, pag. 313, 2ª ediz.
  37. I, 47.
  38. Conv., VIII, 8.
  39. St. Nat., VII, 57.
  40. Strom., I, pag. 362.
  41. Strab., VII.
  42. Il., XVIII, t. 478 e segg.
  43. Fam., VI, 18.
  44. Stud. filol., l, c.
  45. Paus., IX, 38.
  46. Onde l’Esiodica vecchiezza passò in proverbio: Vedi Plut., nel lib. per chi gli oracoli abbiano cessato. II; e Göttling, Introduz. ai Carmi d’Esiodo, pag. 13, 2.ª ediz.
  47. Plut., Della musica, IV, V.
  48. Clem Al., Strom. VI, pag. 629.
  49. Ausonio Franchi.