Di Tacito, della sua vita e delle sue opere
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ATTO VANNUCCI
DI TACITO
DELLA SUA VITA E DELLE SUE OPERE
Lo dicono nato sulla metà del secolo primo dell’era volgare a Terni nell’Umbria ove la tradizione narra essere già sorta la statua e il sepolcro di lui sulla via che conduce a Spoleto. Fosse o non fosse suo quel sepolcro, era creduto tale dagli abitanti del luogo e vi rimase finchè intolleranza di religione non lo distrusse e ne sparse al vento le ceneri. Non si sa nulla degli anni suoi primi che furono quelli dell’immane tirannia di Nerone, e delle guerre civili di Galba, di Ottone, di Vitellio e di Vespasiano. Quintiliano era allora pubblico insegnatore di eloquenza, e quindi fu creduto che Tacito gli fosse discepolo. Questo può esser probabile, ma niuno degli antichi lo disse, e si afferma solo per congettura. Chi erede che sia opera di Tacito il Dialogo degli oratori afferma con più fondamento che a maestri di eloquenza avesse Marco Apro e Giulio Secondo oratori celebrati di quell’età e ornamenti grandi del Foro. Perocchè l’autore del Dialogo dice che li ascoltava studiosamente non solo nei giudizi, ma li frequentava in casa e in pubblico con tale un’avidità e un ardore giovanile di apprendere che ne raccoglieva insino alla favole, e alle dispute e ai segreti colloquii.
In qualunque modo, Tacito studiò ed esercitò fin da giovane l’eloquenza con lode, e illustrò il suo nome colle virtù dell’ingegno. Alla scuola degli stoici che insegnavano soli beni essere le cose oneste, soli mali le brutte, nè male nè bene la potenza e la nobiltà e le altre cose che stanno fuori dell’animo, imparò ad aborrire ogni sentimento servile, e ad armarsi contro ogni sopravveniente sciagura. Fino dalla prima giovanezza divenne amico di Plinio, e si strinse con lui nell’amore degli studi, nel culto della virtù, nell’odio della tirannide. Le onorate qualità e il nobile ingegno presto lo resero rinomato e glorioso, e gli procurarono l’affetto e la parentela d’un uomo de’ più degni di onore. Verso l’anno 78 dell’era volgare Giulio Agricola, cittadino illustre per le esercitate faccende e per l’antica virtù che in lui rinasceva, gli sposava la figlia nell’atto di uscire dal consolato e partire pel governo della Britannia. Così si congiunsero i nomi e gli affetti di due uomini che solennemente doveano attestare ai contemporanei ed ai posteri come la virtù e l’indipendenza dell’animo non muoiono anche nei tempi in cui sembra che tutto cospiri a spiantarle dal mondo. I nobili esempi di Agricola giovarono a rendere più forte il cuore di Tacito, il quale poi in contraccambio del beneficio consacrò le primizie del suo ingegno a rendere immortale il caro padre e il venerato maestro. Forse la potenza di Agricola gli fu aiuto anche a conseguire gli onori. Vespasiano lo amò, e lo messe in dignità facendolo dell’ufficio dei venti per cui salivasi alla questura. Fu poscia promosso da Tito, e sotto Domiziano dice egli stesso che assistè alla celebrazione de’ giuochi secolari come sacerdote de’ quindicemviri, e come pretore. La pretura gli dava facoltà di entrare in senato: ma non pare che godesse a lungo di quell’onore, perocchè troviamo che nell’anno appresso (89 dell’era volgare) fu costretto ad allontanarsi da Roma. È chi crede fosse esiliato per odio del principe nemico di tutti i buoni, o si esiliasse da sè per non contaminarsi in quelle brutture: ma forse queste sono invenzioni dei posteri vaghi di ornare di persecuzioni le vite degli uomini famosi. Forse andò a governo di qualche provincia: ma non apparisce che fosse in Germania e Britannia, ove alcuni lo conducono a visitare i luoghi che poscia descrisse.
Certissima in questo mezzo a lui e alla sua donna diletta fu la sciagura della morte di Agricola che, richiamato dalla pacificata Britannia, andò voce perisse (anno 93) per veleno del principe invido dell’altrui gloria, sospettoso e nemico d’ogni virtù. Al genero e alla figlia pervenne lungi da Roma la trista novella: perciò oltre all’acerbezza di aver perduto il caro parente sentirono più forte il dolore di non avere potuto consolarlo di cure amorose, abbracciarlo morente, saziare in lui i cupidi sguardi, e raccoglierne i detti estremi da serbare in cuore a conforto de’ miseri tempi. L’anno appresso tornarono a Roma, e Tacito rientrato in senato vide gli ultimi furori di Domiziano, il macello de’ consoli, gli esilii e le fughe di nobilissime donne: ed ebbe a dolersi di essere stato spettatore e quasi complice con sua presenza dell’innocente sangue sparso da quel tiranno efferato.
Ma dopo tanta tempesta di pubblici mali venne un momento di calma ai dolori che flagellavano il mondo. Spenta dal ferro vendicatore quella fiera belva di Domiziano, e successigli Nerva e poscia Traiano principi umani, parve che l’umanità respirasse. Tutti i cuori si aprirono a liete speranze, e salutarono l’era novella con acceso entusiasmo. Tornava la libertà del pensiero e della parola, e gli uomini onesti la usavano a sostegno della virtù, e a difesa dell’oltraggiata giustizia. Primi fra tutti furono Tacito e Plinio, i quali con diversa tempra d’ingegno tennero i primi luoghi della letteratura e andarono famosi come per la bella amicizia che li univa così per lo studio concorde e per l’esercizio di ogni opera onesta, e pel santo scopo cui costantemente tennero fisso il pensiero. Per l’avanti il bene non era che un desiderio segreto dei cuori onesti: ora i tempi mutati davano a tutti il destro di farlo. Per l’avanti ogni sentimento di rettitudine smarrito o confuso: i delatori esaltati, il servile talento e le sozze piacenterie dallo sconcissimo principe considerate come eccelse virtù: i buoni puniti di spoliazioni, di esilii, di morti: i sospiri notati come delitto di ribellione. Nerva richiamò gli esiliati, condannò i calunniatori nel capo, restituì le fortune rapite. dismesse il regio fasto per sovvenire alle miserie pubbliche, provvide con leggi alla quiete, alla sicurezza, al costumi, e rese pubblico onore a quelli che aveano fama di cittadini onorevoli. Tra questi andava innanzi a tutti Virginio Rufo, un prode soldato, un magistrato integerrimo, un raro modello dei tempi migliori. Era allora sugli ottantatrè anni, e avea vedute tutte le calamità e le vergogne dei tristi tempi che corsero dal cominciare di Tiberio al finire di Domiziano. Sul cadere di Nerone, quando un alto grido di rivoluzione corse tutte le Gallie, Virginio dalla Germania volò a comprimere il moto, e vinti i nemici di Roma con altissimo animo due volte rifiutò l’impero offertogli dalle legioni, contento di averlo reso alla patria. Poi vivendosi oscuro la scampò dai mali principi che per le sue severe virtù non pur l’avevano in sospetto ma in odio. Ma finalmente venne il giorno pieno della sua gloria, perocchè Nerva che lo aveva in ammirazione e in amore, lo trasse dall’oblio in cui menava la stanca vita, e fattolo suo collega nel consolato gli dette modo a godere i pubblici omaggi della città che tutta con affetto volgevasi a lui e ne celebrava l’onoratissimo nome. Virginio godè pochi giorni della sua gloria, ma fu felice perchè la morte lo colse nel suo migliore momento. Grande fu il lutto pubblico, i funerali solenni e magnifici. Roma disusata a sì commoventi spettacoli corse in folla alla funebre pompa che accresceva onore al principe e al secolo, al Foro e ai rostri. Plinio piangeva il grand’uomo da cui avea ricevuto affetto e cure di padre, e ne annunziava dolorosamente il caso agli amici lontani. Tra quella folla composta a grave mestizia richiamo a sè gli sguardi e l’attenzione un uomo famoso per altezza d’animo e grandezza d’ingegno. Era l’amico di Plinio che veniva a farsi interprete del pubblico dolore onorando di eloquenti lodi e di pianto l’illustre defunto. Tacito eletto da Nerva a entrar console nel luogo lasciato vuoto da Virginio, per dovere di carica ne diceva pubblicamente le lodi. Se l’ammirazione per le forti virtù del grand’uomo eccitò l’eloquenza dell’oratore, anche l’affetto particolare di lui dovea renderne caldo e commovente il discorso, perchè Tacito probabilmente lo avea conosciuto ed amato, e si era trovato con Plinio a quelle conversazioni in cui il severo vecchio raccontava le antiche sciagure vedute e patite, e confortava i cuori dei giovani a sopportare dignitosamente e gagliardamente l’atroce guerra della tirannide. In qualunque modo, l’orazione di Tacito fu molto magnifica, e degna davvero del gran cittadino, perchè Plinio afferma che il colmo della felicità di Virginio fu di avere per lodatore un uomo di tanta eloquenza. Grande e bella fu anche la ventura di Tacito di avere occasione a mostrare il suo ingegno lodando pubblicamente l’uomo che appariva a tutti mirabile per avere, come fu detto, sostenuti più pericoli per liberarsi dalla potenza di quello che altri ne affrontassero per conseguirla.
L’ora delle vendette era sonata: la virtù non più reputavasi a colpa, e la libera parola sonava altamente a difesa dei virtuosi infelici, e a persecuzione dei ribaldi fatti potenti dalla turpe protezione dei principi. Nei primi giorni dell’era nuova ognuno con grida scomposte e turbolente accusava e opprimeva i propri nemici, ma i meno potenti. Plinio e Tacito più coraggiosi degli altri assalirono apertamente i rei più terribili e tuonarono contro di essi in Senato non curando di odii e minaccie. Andò famosa la loro difesa della provincia di Affrica assassinata da Mario Prisco proconsole, il quale per un milione di sesterzi aveva venduta la condanna a morte di otto innocenti, e l’esilio di un altro. Quello fu un grande spettacolo. L’atrocità del delitto, il rumore della causa e la grande aspettativa vi attirarono da ogni parte la gente. Grande fu il concorso dei senatori: l’imperatore da sè stesso presedeva al Senato. Molti presentaronsi anche a difesa dell’accusato e dei complici. In tanta solennità di adunanza, in causa sì grande ed insolita, trepidavano anche i difensori della giustizia: ma incuorati dalla forza della ragione e del vero fecero prova di tutta la loro eloquenza. Plinio parlò più di cinque ore: Tacito orò eloquentissimamente e con la solita sua gravità. Il dibattimento continuò per tre giorni, e alla fine i rei furono condannati e gli oratori ebbero dal Senato pubblica lode di avere degnamente compiuto le parti del loro mandato.
Intorno al medesimo tempo molta lode acquistavasi Plinio anche col libro della Vendetta di Elvidio da lui difeso solennemente in Senato. Questi era figlio dell’altro Elvidio, del forte stoico nemicissimo della tirannide dei principi e dei delatori, al quale Tacito più tardi dette splendidissime lodi. Elvidio fu vittima di Domiziano, nè potè nascondere nel ritiro il gran nome e le grandi virtù. Potentissimi per aderenze e per credito erano ancora i persecutori di lui, quantunque spento il tiranno loro principal protettore: ma Plinio persuaso non esservi più bella occasione di questa a mostrar suo coraggio, e a far prova di sua eloquenza, non dà ascolto ai paurosi prudenti che gli sussurrano all’orecchio di pensare al futuro, e di non comprometter sua quiete. Egli tutto ha presentito e previsto, e non ricusa, se così vuole la sorte, di pagare il fio di una onestissima azione, e difende caldamente in pieno consesso la memoria dell’illustre suo amico, e consacra i suoi persecutori all’infamia. Anche Tacito disse una parola di dolore per Elvidio accusando sè stesso di essere stato colla sua presenza quasi complice della morte del buon cittadino. Questa parola è nella vita di Agricola.
Tacito scriveva allora la vita del suocero: era tutto in questo ufficio pietoso, in questo affettuoso pensiero di famiglia che gli dava modo a consolare il suo privato dolore e a rendere omaggio alla virtù col tramandare ai posteri la cara memoria di un buon cittadino.
La vita di Agricola è la prima delle sue opere storiche. Ci ritrae rapidamente il suo eroe negli studi e nelle relazioni domestiche, nelle magistrature e nei campi di guerra ove gli appariva ardente della sapienza, affettuoso, integerrimo, valoroso, prudente, magnanimo, autorevole senza burbanza, umano senza fiacchezza. Tacito unisce alle pubbliche sorti i suoi affetti privati e fa sì che scambievolmente si aiutino a eccitare la forte compassione, ad accendere l’ira dei generosi, a rendere venerate le grandi sciagure dei popoli e degl’individui. Nel richiamare alla mente le vergogne del passato servaggio e le atroci violenze della tirannide congiurata a spegnere ogni arte buona e ogni fiore d’onestà, e a tentare stoltamente di distruggere la coscienza del genere umano, ha una profondità di pensiero, un accento di sdegno e una severità di eloquenza che annunziano già lo storico immortale di Tiberio e di Nerone. Riempie di raccapriccio collo spettacolo di un popolo ridotto all’estremo dei mali, assediato dalle spie che gli tolsero il commercio di favellare e di udire, e recato al punto di perdere anche la memoria, se in facoltà degli uomini fosse il dimenticare quanto il tacere. Poi quell’abominevole figura di Domiziano spettatore lieto dei comandati delitti, e a sua corte Agricola fatto colpevole dei propri servigi, forzato a rendere ringraziamenti per ingiustizie, e a mettere più arte e studio in far dimenticare sua gloria di quello che non gli fu bisogno affaticarsi per acquistarla sottomettendo e domando orde barbariche. Quando poi non vana affettazione di libertà, nè desiderio di morte ambiziosa, ma le proprie virtù e i vizi altrui precipitarono il prode cittadino, allora lo storico ne consacra gli estremi momenti e la venerata memoria con un tratto di funebre eloquenza che forse non ha patito confronto. È la grave e solenne parola che gli sgorga dal cuore commosso. Non è donnesco lamento, è virile dolore, è dignitoso conforto a sè e a sua famiglia, è onesta speranza di rendere immortali le virtù dell’estinto, e di proporle ad esempio.
Tacito in questo componimento è oratore, e biografo, ed ha il pregio di avere elevata la biografia alla dignità della storia. Oltre ad Agricola fa campeggiare un altro eroe, il popolo britanno, fino allora quasi sconosciuto ai Romani. Quindi novità di colori, e maggiore importanza al racconto dalla descrizione di singolari usi e costumi, di vizi e virtù nuove, dalla ricerca delle origini varie argomentate dalle varie fattezze dei corpi. Molte e preziose notizie di geografia e di storia: le tempeste del pigro e grave mare, il cielo torbido di pioggie e di nebbie frequenti, le produzioni del suolo, l’oro, l’argento, le perle: poi la società nei suoi ordinamenti politici, nelle sue vicende, e nelle sue attinenze di costumi, di religione e di lingua con altri popoli. Quando lo scrittore, lasciato l’individuo, rivolge tutto il suo pensiero alla nazione britanna, allora la sua parola piglia il tono solenne, il movimento e la gravità della storia. Abbiamo consigli e speranze di popoli, fremito di moltitudini, ambascerie di città, allocuzioni di capitani, splendide descrizioni di combattimenti, di battaglie, di stragi, di trionfi, di fughe: da una parte l’industria romana che corrompe per vincere, e fa chiamare incivilimento ciò che è parte di servità: dall’altra i forti Caledoni accorrenti in folla dalle selve native a difesa del sacro suolo della patria, e sublime fra tutti Galgaco lor capitano che con aspre e fiere parole eccita le turbe a scuotere l’aborrito giogo straniero. I popoli ingiuriati e oppressi, finalmente alle ingiurie e ai guai della servitù si risvegliano e protestano contro i ladroni del mondo che dopo aver saccheggiata tutta la terra frugano i mari, e chiamano impero trucidare e rapire. Bello e sublime è questo spettacolo delle genti che, sentendo come le voglie divise e discordi le fecero serve, vengono collegate in campo a purgare l’antica vergogna di vendere il sangue per far signoreggiare stranieri. Al santo grido della nazionale indipendenza alla fine risuonano i monti e le valli: e da questo momento comincia la vera vita della nazione britanna che poi sorgerà a maravigliosa potenza. Tacito questo non dice: ma ammirando quel fiero amore di libertà, e notando qual concetto i Britanni avevano dei Romani e di sè, fa sentire, senza forse volerlo, quali saranno le loro sorti in futuro. Certo è che col tramandare alla posterità tutte le notizie che potè raccogliere sulla vita, sull’indole e sulle geste della nazione britanna, egli rese un gran servigio a quei popoli: e perciò con ragione anche gl’Inglesi di oggidì considerano la vita di Agricola come la prima pagina di loro storia.
Così pure è considerato come l’introduzione degli annali germanici e come il principio della storia moderna d’Europa il discorso sulla Germania che Tacito scrisse subito dopo la vita di Agricola. Se anche l’autore non visitò da sè stesso i paesi germanici come alcuni supposero, egli potè facilmente aver modo a conoscere molte cose dei costumi, delle istituzioni e della vita di quella nazione. Da lungo tempo Roma avea che fare con essa per ragioni di pace e di guerra. Gli ostaggi e i prigioni dall’una parte e dall’altra, le scorrerie frequenti dei Romani tra il Reno e il Danubio, la gioventù germanica militante fra le armi romane, i viaggi dei mercatanti, le negoziazioni, i legami di ospitalità e le ambascerie da Germania a Roma, e da Roma a Germania aveano dato occasione a studiare quel popolo singolarissimo. Livio scrisse dei loro costumi e delle loro guerre con Roma. Plinio il vecchio dopo aver veduto da sè stesso i paesi situati sul Reno scrisse di quelle guerre una storia particolare che è citata più d’una volta da Tacito. Ma questi libri ci furono invidiati dal tempo; e se non rimaneva il discorso di Tacito, non avremmo saputo quasi nulla di ciò che su questo argomento fu a notizia degli antichi. Essi racchiudevano la Germania in arbitrarii confini e la vera estensione e posizione di essa ignoravano: e perciò in questo non si può fidare alle loro parole. Qualche volta sfigurano anche le istituzioni religiose e civili pel solito vezzo di riferire tutto ai propri usi e di appellare con nomi romani le cose straniere: ma anche con questi difetti il discorso di Tacito, che riassume tutte le cognizioni degli antichi, è un monumento prezioso, e ci fa abbastanza conoscere quella forte nazione. Dai fatti che la storia ci ha conservato apparisce in parte chi fossero questi Germani, come si comportassero in guerra, come fossero impavidi nelle sciagure, come da nulla si lasciassero avvilire il fortissimo animo, come sempre protestassero energicamente contro la straniera insolenza. Ma in quei fatti per lo più non si vedono che i capi, e anche questi appariscono solo nei più solenni momenti. Quando in mezzo alle selve germaniche vediamo elevarsi la grande figura di Arminio che corre furiosamente da popolo a popolo, che grida vendetta e libertà, che eccita le genti a liberare dai nemici il sacro suolo della patria, noi naturalmente domandiamo a noi stessi: Come vivea quella moltitudine che il fortissimo eroe conduceva alla vittoria contro i signori del mondo, e chi era quell’energico popolo che dalle sconfitte risorgeva sempre più poderoso? Gli ordini pubblici e lo stato della famiglia possono rispondere alla nostra domanda: e Tacito è il solo scrittore da cui debbonsi ricercare le cause di quei fatti stupendi: e comecchè egli non risponda a tutte le interrogazioni della curiosità dei moderni, molte cose ci rivela sulla natura e sull’essenza della vita germanica, sulle relazioni sociali, sulle costumanze, sugli ordini religiosi, e civili. Molte e varie erano le cose che si narravano di questa nazione ancora selvaggia e non ben conosciuta: e di bene attenta disamina faceva mestieri per separare il vero dal falso. Ma Tacito non fece difetto alla prova e dette saggio di profonda sagacità nel vedere ciò che formava l’indole vera del popolo. E oggi stesso si hanno prove irrefragabili che egli colse nel segno, perocchè anche dopo il volgere di tanti secoli troviamo nel fondo del loro carattere i Germani moderni somigliare agli antichi descritti da Tacito. Egli dapprima ritrae l’universale natura, e i più notevoli istituti dell’intera nazione: poi ci conduce a vederne le sedi, e ad uno ad uno ci pone davanti con le loro differenze tutti i popoli stanziati tra il Reno e il Danubio. È facile a intendersi quella loro prodezza in battaglia dopochè egli ci ha detto che ogni loro istituto, i riti religiosi, i costumi, le leggi, i giornalieri esercizi e perfino i sollazzi erano intesi a rendere animosi e forti quegli uomini dagli occhi cilestri, dalle rosse chiome, dalle grandi persone: che onor primiero di loro gioventù si teneva l’essere in pubblico consiglio dichiarati capaci delle armi, e adornati di esse con rito solenne: che gli onori ai prodi, e le turpi pene ai codardi accendevano la virtù in ogni cuore: che grande eccitamento aveano dal credere che un Dio gli assistesse nelle battaglie, e dall’ascoltare le strida delle madri e delle spose e il pianto de’ loro figliuoli. Fortissime e degne di tali uomini Tacito ci dipinge le donne che accorrevano a recar cibi ai combattenti, a medicar le ferite, e all’uopo cacciavansi dinanzi ai cadenti, e le pieganti battaglie restituivano colle istanti preghiere, col mostrare lor petti, e col ricordare vicina lor servitù. Dall’austera educazione e dal severo costume: veniva questa fortezza al debole sesso, che di buon’ora avvezzavasi a pensare a virtù e a dilettarsi dei casi di guerra. A questo medesimo intendevano i presenti del dì delle nozze nelle quali alla sposa novella si facevano regali non di femminili delizie nè di ornamenti di chiome, ma di armi e cavalli. Le spose stesse portavano in dono armi al marito: e queste erano loro massimo vincolo, loro misteriosi simboli, loro Iddii coniugali che ammonivano la donna entrare essa compagna alle fatiche e ai pericoli, e sì in pace che in guerra dover patire e ardire quanto il marito. Dopo le quali cose s’intende bene come le donne germane nelle discordie tra i fautori della tirannide esterna e i difensori della libertà nazionale non dubitassero un momento sul partito da prendere, e come al padre traditore anteponessero i liberi e generosi mariti. Si comprende come da questa forte educazione si formassero donne simili a quella la cui grandiosa imagine apparisce negli Annali di Tacito. Essa in faccia al nemico che l’ha fatta schiava non piange e non supplica, ma serba contegno quale si conviene alla sposa del liberatore di Germania, d’Arminio.
Tacito vanta la severa castità delle donne, narra le pene che la legge dava ai loro falli, e conclude questa parte dicendo che là non si ride dei vizi e che corrompere ed esser corrotto non chiamasi moda. Colle quali parole è manifesto che egli allude alla corruzione di Roma ove ogni sentimento di pudore erasi affatto smarrito. Da questa allusione chiarissima e da altre che s’incontrano qua e là fu chi dedusse che egli col discorso sui costumi germanici non volle fare altro che un romanzo d’intenzione satirica. Sul che vogliamo notare che qui la parola romanzo è affatto fuori di luogo, perchè Tacito non è uomo da fare romanzi nè da lodare imaginarie virtù. Egli non è romanziere, ma osservatore profondo: non crea il contrasto fra la corruzione romana e gli austeri costumi germanici, ma lo vede e lo nota con isdegnose parole per trarne una conseguenza salutevole ai suoi concittadini. Che l’idea dominante di Tacito sia quella di trarre dal confronto un rimproccio ai Romani, a me pare che apparisca chiarissimo. Che poi si movesse a scrivere questo opuscolo con questo unico fine, non vi sono prove sulle quali si possa affermare per certo. Entrato una volta in materia, venivano naturali le allusioni e i confronti, ed ei li toccò sottilmente, e intese a dare anche qui quei severi insegnamenti morali che sono la prima e più nobile qualità di ogni sua opera. Nella mente di lui i Germani che non curano di scavar preziosi metalli e di farsi ricchi, che aborriscono di dare il denaro ad usura, che usano parchi e semplici cibi, e dalla pompa delle vesti rifuggono e si acconciano le chiome solamente per mostrarsi più tremendi ai nemici, sono un severo rimprovero ai Romani violenti, usurieri, furiosi nell’amore delle ricchezze, dei vietati guadagni, degli stravizi bestiali alle mense, delle ricercatezze e delle morbidezze nei vestimenti, vaghi di portare splendide e odorose le chiome per piacere alle donne, e desiderosi di vedere piuttosto rovinata la Repubblica che la loro pettinatura scomposta. La religione in Germania non è una viltà nè un’adulazione ai potenti: e se tengono profetesse e Dee certe donne e perchè credono essere in esse queste qualità concesse dai loro numi: mentre a Roma per lo contrario il senato con piacenteria codardissima decreta onori divini ai tiranni, a lor figlie e sorelle, e avvi anche chi con suprema impudenza giura di averne veduto volare le anime al cielo. Presso i Germani più vagliono gli onesti costumi che altrove le buone leggi: severi sono i matrimonii, l’adulterio e la prostituzione non si conoscono: le vedove non si rimaritano: le madri allattano da sè i propri figliuoli: reputasi a gloria aver molta prole. A Roma la corruzione cammina in trionfo, e depravatissime sono le donne: alcune coi troppo spessi divorzi si fanno peggio che meretrici: a serve e nutrici affidata la prole: si uccidono i figli nel ventre, o si espongono appena nati, e l’orbità è tenuta in onore.
È superfluo continuare a riferire le allusioni a cui mirava la mente di Tacito. Può facilmente vederle di per sè chiunque legge questa scrittura con un poco di pratica della storia di Roma. Parecchi scrittori confrontarono anche le antiche istituzioni germaniche con quelle dell’Europa moderna, e ne rilevarono le somiglianze. Molte cose notò già il Montesquieu il quale trasse i principii del diritto pubblico di Francia dalla Germania di Tacito. Altri avvertì come la cavalleria, l’amore alle avventure, il culto della donna e molte altre costumanze del medio evo ebbero il loro principio dalle primitive istituzioni dei Germani descritte da Tacito, e fecero vedere come le leggi saliche e ripuarie molto risentono di esse. Noi lasceremo da banda questo confronto che non è del nostro argomento. Diremo solamente che alcune rassomiglianze appariscono, e che nella Germania di Tacito si vedono i germi di alcune istituzioni moderne: ma non crediamo per questo che abbiano ragione coloro che tutto fanno venire di Germania, e che obliando che Roma fu di ogni istituzione insegnatrice alle genti, vogliono ad ogni costo considerare i barbari come i maestri della nostra civiltà.
Appena che Tacito ebbe tentato il suo ingegno con questi scritti minori, sentì che le sue forze eran gagliarde, e cercò un argomento in cui metterle a prova più grande. Dopo aver mostrato a Roma Britanni e Germani prese a mostrare Roma a sè stessa. Dapprima pose mano a scrivere le Storie dalla morte di Nerone a quella di Domiziano: e poscia rifacendosi indietro scrisse gli Annali che dalla fine di Augusto andavano al principio del regno di Galba, e servivano come d’introduzione e di compimento alle Storie: grandioso lavoro che abbracciava circa 80 anni e descriveva la terribile rivoluzione che preparò gli avvenimenti da cui fu mutata la faccia del mondo. È un tempo di avvilimento e di desolazione che stringe il cuore: è un tempo in cui pare che la ragione e il diritto siano scomparsi sotto il flagello della forza brutale e del dispotismo. Lo storico non si spaventa a questo brutto spettacolo: geme, ma del gemito dei forti che è una protesta ed una vendetta: corre arditamente le vie di questa Roma già sì lieta e ridente, e ora ingombra di dolore e di sangue; contempla le crudeltà, ascolta il gemito della miseria, e con la sua eloquentissima voce consola gli sventurati innocenti, impaurisce i felici oppressori.
Narrano che ai tempi di Nerone il filosofo Apollonio venisse a bella posta dall’Asia a Roma per vedere che razza di bestia fosse un tiranno. Se anche a te, o lettore, pigliasse mai siffatta vaghezza, non fa di mestieri che tu soffra la grave fatica, nè la spesa di un lungo viaggio. Per rimanere appagato, basta che tu apra i libri di Tacito: vi troverai senza fatica i ritratti e la storia dei più esecrabili mostri che l’inferno mandasse mai a contristare la terra. Farai conoscenza con Tiberio, con Claudio, con Nerone, con Vitellio, con Ottone, con Domiziano: li vedrai attorniati da un esercito di delatori e di carnefici: sentirai per opera di essi fatto muto e squallido il Foro che già fu sì splendido e sonante della libera eloquenza del popolo re: e salendo sulle vette del Palatino ove in altri tempi abitarono Valerio Publicola, i Gracchi, Ortensio e Marco Tullio, troverai la casa di questi despoti che disonorano l’umana natura, e che ad un cenno fanno tremare l’universo. Di là ascolterai tutta la storia di una tirannide che succede a una Repubblica: la vedrai cominciare quasi timidamente e sotto le apparenze della libertà: poi crescere a poco a poco, farsi gigante, imperversare, e dar di piglio nell’onore, negli averi e nel sangue: e spaventato dall’orribile vista domanderai a te stesso per quale vicenda di obbrobri il genere umano potesse precipitare a tanta abiezione: chiederai come si spengesse ad un tratto tutto lo splendore della romana virtù: come mai l’energia e l’alterezza di un tempo cedessero il luogo alla più bassa viltà, come a un popolo di eroi succedesse un gregge di pecore, come gli uomini avvezzi a comandare al mondo potessero obbedire al vituperoso imperio di un mostro, di un fanciullo, di un imbecille, di un pazzo che uccidono per capriccio e per divertimento, che ricoperti di sangue e contornati di carnefici, di sgherri e di meretrici si fanno adorare e temere da più di cento milioni di uomini. Di per te stesso troverai forse la soluzione di questo brutto problema: e quella indegna servitù e quella brutale tirannide diminuiranno la tua maraviglia allorchè considererai che anche all’età nostra dopo tanto progresso dell’umana ragione, vivono despoti che sebbene meno potenti di quelli di Roma trattano gli uomini come bestie da macello e da soma, e divorano le intere nazioni e il mondo cristiano li tollera, e gli onora quando ad essi prende diletto di recarsi a diporto per le contrade civili d’Europa. Tu, uomo del secolo decimonono, hai da piangere e vergognare della soverchia sofferenza dei moderni uomini quando pensi alle stragi immanissime che desolarono la Galizia, quando ti ricordi delle teste messe a prezzo a Messina, e infitte negli alberi lungo le vie di Calabria, e i prigionieri costretti a portare in mano la testa sanguinosa de’ loro parenti, e quando ti tornano a mente le commissioni militari, i processi economici, le torture, le forche e gli esilii del Duca di Modena, e di Papa Gregorio.
I primi sei libri degli Annali, in cui è rappresentato il cominciare e l’ingrandirsi di quella feroce tirannide, sono tenuti il capolavoro di Tacito, e con ragione furono chiamati tragedia. Il tragico che è nell’imaginazione e nel cuore di Tacito trova modo a manifestarsi energicamente nei fatti tremendi che riescono tutti ad un medesimo fine. Vi è un tiranno de’ più inesplicabili che fossero mai: vi è una reggia piena di delitti, di sangue, e di ministri scelleratissimi: vi è la morte civile di un popolo grande, vi è la paura e la morte violenta di Seiano e di Tiberio. L’ingegno di Tacito che sempre vede addentro nei nascondigli del cuore, e scopre tutto il bene e il male dell’umana natura, non si mostrò mai tanto acuto quanto nel penetrare la chiusa anima di Tiberio e nel rivelarne gli arcani. È una lotta poderosa fra due combattitori fortissimi, tra il genio del bene, e il genio del male, tra la luce e le tenebre. Tiberio pone ogni studio in coprire sè stesso, in nascondere le sue intenzioni, in dare al male nome e apparenze di bene. Tacito fa ogni sforzo per discoprirlo quale è, per costringerlo a levarsi la maschera e a farsi vedere in tutta la bruttura della sua fisonomia. E Tacito vince la prova. Fino dalla prima gioventù lo mostra superbo e crudele, e inteso a simulazioni e soppiatte libidini. Portato all’impero per male arti e intrighi donneschi, fa sembiante di non volere il comando come cosa troppo grave per lui, e fa una commedia di repulse e di sdegni contro chi ne lo prega. Ma mentre vuole apparire svogliato, non trascura nulla di ciò che può rendergli la signoria più sicura. Si cinge di armi e di armati, dà ordini come padrone. Tutti i pretendenti, tutti gli uomini egregi e famosi nel pubblico prende a sospetto e si prepara a levarli di mezzo. Studia gli atti e i volti, nota speranze e timori, e ne prende pretesto a future vendette. Usa nomi antichi a coprire scelleraggini nuove: e mentre dice che dove entra la potenza scema il diritto, e che non si ha ad usare imperio ove si può far colle leggi, ogni legge umana e divina distrugge, ogni buono istituto travolge. Alle parole magnifiche succedono sempre fatti vani o falsi: le apparenze di libertà divengono strumento di più crudele servaggio. Tiberio onora quelli che vuol perdere, e non alterato in viso nè risentito in parole li tiene a sua mensa. La simulazione stima suprema virtù, e tutto l’ingegno adopra a pesar le parole, a essere ambiguo, a nasconder sè stesso, a tramescolare segni d’ira e clemenza. Coll’andare degli anni cresce in scelleratezze, in libidini, in atrocità: e se dapprima fu nefandamente crudele, ma nascostamente libidinoso, alla fine prorompe ad ogni scellerata laidezza, perchè, gettata via ogni vergogna e timore, segue liberamente il suo genio. Dà fieramente di piglio negli averi e nel sangue, odia senza ragione, uccide senz’odio: la madre stessa aborre e perseguita, e tutta la sua famiglia percuote di esilii e di morti crudeli: ma in questo sarà vinto dai suoi successori che uccideranno anche le madri e le mogli, e scioglieranno ogni vincolo di umano consorzio.
Quest’uomo che odia tutti ed è odiato da tutti vive solitario fantasticando in male cure e in tristi veglie: la paura gli fa fuggire i convegni, e lo porta a nascondersi in un’isola ove col sangue e colle atrocità alterna le più inaudite libidini. Solo gli è amica e compagna una mala genia di uomini ritrovata a pubblico danno, le spie, gli assassini, gli avvelenatori. Questo crudelissimo malanno, dice Tacito, introdottosi a poco a poco, da ultimo arse e divorò tutto: quello delle spie divenne un mestiero celebre per la miseria dei tempi e per l’impudenza degli uomini. Ogni morto di fame, ognuno che in lusso avea scialacquato gli aviti retaggi e voleva rifar sua fortuna, ogni uomo marcito nel sonno o in libidinose veglie, volendo salire in favore e potenza, si faceva con la delazione puntello del dispostismo, e serviva alle crudeltà del tiranno. Costoro andavano attorno per piazze e taverne, raccoglievano ogni innocente parola, e tortala a peggio la usavano ad accusa. Il morbo poi diventò contagioso, e la pessima condizione dei tempi portò anche i primi dei senatori ad abbassarsi all’infame mestiero, e a vendere amici e parenti. Tiberio esaltava la loro eloquenza, gli aveva più cari quanto più si mostravano accusatori spietati, gli empiva di ricchezze e d’onori, e li chiamava pubblicamente conservatori dell’ordine e delle leggi. Il che non parrà incredibile a noi che vedemmo sbirri e delatori vituperosissimi onorati di regii sorrisi, di pensioni, di croci e di titoli. Sotto Tiberio non mancò anche l’infamia di quelli che l’età nostra chiamò agenti provocatori che spingevano gl’incauti al delitto per accusarli e farsi ricchi di loro spoglie. Moltiplicandosi siffatte scelleratezze, ne nacque universale terrore, specialmente quando cominciarono a imperversare le accuse di maestà.
Una legge antica dei liberi tempi perseguitava coloro che con tradire l’esercito, sollevare la plebe o male amministrare la Repubblica menomassero la maestà del popolo romano: ma allora si punivano i fatti non le parole. Augusto alterando quella legge a proprio profitto la rivolse contro i libelli famosi per togliere al popolo la libertà della parola che non poteva stare col governo di un solo. Quindi le parole divennero gravi delitti: e ammesso il principio che fossero delitti di stato le parole contro i privati, delitto enorme di lesa maestà a più forte ragione era il dire la propria opinione sui fatti del principe e del suo governo: diveniva sacrilegio il minimo atto d’irriverenza all’imperatore che si avea per un Dio. Con questo nuovo trovato sotto Tiberio e suoi successori la signoria diventò legalmente feroce, e non vi fu più scampo a chiunque avesse l’odio del principe, o colle proprie ricchezze eccitasse la cupidigia dei delatori. L’accusa di maestà fu un universale flagello perchè diveniva compimento di tutte le accuse. Ogni atto più indifferente si accusava come attentato all’autorità imperatoria, come ribellione. La splendida vita, il chiaro nome, l’innocente faceziar tra le mense, il consultar maghi sopra faccende di stato, il tenere amicizia con uno odiato dal principe, il lodar Bruto, il conservare il ritratto di Cassio, trascurare le cerimonie del divo Augusto, il fare un sogno che riguardasse l’imperatore, festeggiare il giorno del proprio natale, e finalmente gli sguardi, la compassione, la tristezza, il silenzio erano delitti di crimenlese che raccolti e portati in giudizio da un delatore esponevano a grave pericolo. Le donne stesse non andavano esenti dalle accuse fatali. Non potendosi accusare di volere occupare lo stato, si accusavano di lacrime: ed una madre fu morta per aver pianto il figliuolo che le avevano ucciso. Per queste accuse giacque immenso macello di ogni sesso ed età, di illustri e d’ignobili: e colmo dei mali era il vedere gl’infelici non difesi da niuno, abbandonati da tutti. Non eravi pianto di parenti o di amici che confortasse le vittime: si fuggiva da essi come da uomini tocchi da contagioso malore, perocchè i carnefici notavano la pietà come delitto. L’accusa di maestà induceva necessità di silenzio: ogni vincolo di umanità per essa era rotto; la grande paura ostava ai soliti uffici. Si procedè anche a più turpi cose. Non solo fuggivasi l’accusato quantunque amico o parente, ma si cercava la propria salvezza coll’aggravarne le accuse, e col precipitare ad adulazioni vilissime lodando la temperanza, la bontà e la pietà dei carnefici. La paura divenne il Dio di questi miserissimi tempi, e si studiò di placarlo con adulazioni e delitti. Fu una gara turpissima di odio e di crudeltà dalla parte dei principi, d’impudenza e di bassezza dalla parte dei cittadini.
Tacito narra coll’anima piena di dolore e di orrore tutti i pericoli e i supplizi che gli altri scrittori tralasciarono, o perchè stanchi della gran quantità, o per non dare ai lettori la malinconia da loro sentita di quelle troppe tristizie. Egli freme a questo sozzo spettacolo di crudeltà e di viltà, a questo universale abbandono d’ogni idea generosa.
Quando si spegne uno di questi mostri schifosi e tremendi che si chiamano imperatori, il mondo non è salvato dal crudele flagello, perchè non si spegne pel potente consenso degli uomini tutti cospiranti in una medesima idea di sottrarsi alla vergogna di un abietto servaggio, e di essere governati con ordinamenti civili. Gli imperatori si uccidono per una cospirazione di corte, per un intrigo di soldati, di liberti, di cortigiane: non si vuol distruggere la tirannide, si vuol mettere sul trono insanguinato un altro tiranno da cui si spera favore e potenza, senza curare se sarà un mostro più vituperoso degli altri.
Non abbiamo in Tacito il regno di Caligola perchè sono periti i libri che narravano la vita e le imprese di questo degenere figlio del prode e generoso Germanico, di questo pazzo che portava nella crudeltà la facezia, e che era per istinto feroce. Pure qualche cenno di lui rimane in più luoghi di Tacito ove è mostrato che compagno a Tiberio, nelle ire e nelle sozzure di Capri, lo imitava negli atti e nelle parole, il feroce animo copriva con maliziosa modestia, niun segno di dolore faceva per l’uccisione della madre e per le sciagure dei fratelli, e bene dava ragione a chi diceva non esservi stato mai nè miglior servo nè peggior signore di lui.
È perduta anche una gran parte del regno di Claudio: ma sugli ultimi tempi ritroviamo lo storico che ci dipinge questo imbecille il quale si diletta a far l’antiquario, e a riformar l’alfabeto. Ogni cosa si vende sotto di lui, le grazie, gli esilii, i supplizi. È schiavo di donne e liberti, e a voglia altrui dà le sentenze, e sceglie la moglie. Qui la debolezza del principe partorisce le medesime sciagure che la crudeltà del tiranno: e le vergogne si accrescono. Claudio attende a esercitar la censura e a riprendere con editti la licenza del popolo, e intanto Messalina infama la reggia con furibonde libidini, corre notturna le vie in cerca di avventure, uccide chi si nega a sue sconce voglie, sprezza le facili turpitudini, si rivolge a non più conosciuti piaceri. La moglie dell’imperatore si sposa solennemente a un suo amatore, e questa grande infamia, dice lo storico, le piacque come ultima voluttà, dopo avere scialacquato tutte le altre. Claudio la uccide per cadere in balìa di un’altra moglie che gli danno i liberti: e allora la casa dei Cesari e l’impero romano cadono sotto la dominazione dell’arrogante e crudele Agrippina che alla fine uccide il marito e mette sul trono Nerone.
Questo nome anche dopo diciotto secoli suona spavento alla stessa imaginazione del volgo non dotto di storie, e raccoglie in sè tutto ciò che di più crudele e di più abietto può cadere in umano pensiero. Non vi è parola che possa qualificare pienamente questa belva che si pasce di voluttà e di sangue, che uccide la madre e due mogli, che brucia Roma per avere la gloria di rifabbricarla più regolare e più bella. In lui la più bestiale ferocia si accoppia alla cultura degli studii e delle arti gentili: è un cannibale che suona la cetra, che canta, e fa versi: è un essere mostruoso nel lusso, negli amori, nella frenesia della gloria, e nella smania delle cose impossibili. Dopo avere ambita la gloria di primo cantore, di primo cocchiere, di primo poeta, di primo oratore del suo secolo, egli non è contento perchè queste cose sono da uomo. Vuole essere adorato sulle are, essere Dio, e crede di aver conseguito l’intento, perchè tutti gli indirizzano preci: perchè i poeti cantano inni al suo nume, il popolo gli uccide vittime, il senato gli decreta onori divini come a colui che ha sorpassata ogni umana grandezza. L’adulazione e la servitù non furono mai più impudentemente codarde: e l’umanità non si disonorò mai tanto, come quando fu ai piedi di un mostro che faceva adorare sul trono e sull’ara la sua frenesia crudelissima.
Qual conforto può sostenere l’anima in mezzo a questa dolente storia di delitti, di sangue e di servitù? Dopo aver pianto sulla carnificina del genere umano, dopo aver sentito tutti gli orrori che opprimono il cuore alla vista della servitù e della tirannide gareggianti a distruggere ogni senso morale, noi non abbiamo neppure la consolazione di sentire la solenne vendetta di Tacito, perchè le sue parole ci mancano appunto quando è per annunziare che il mondo alla fine è stanco di tanto obbrobrio, e abbandona Nerone.
Ma se il tempo ci invidiò la parola di Tacito, giunse a noi quella di altri scrittori che ci narrarono la punizione di tutti i delitti, e le vendette dell’offesa giustizia.
Osservate attentamente e sperate. Non vi è potenza che possa salvare i perversi. La famiglia dei Cesari che riempì il mondo di orrore cadde tutta in brevissimo tempo sotto la mano vendicatrice di Dio e degli uomini. La stessa ferocia che flagellava i popoli distrusse la casa imperiale. Le sfrenate libidini ne impedirono la propagazione; i sospetti di regno uccisero buoni e cattivi di veleno o di ferro. Dove abitarono i Cesari non vi è luogo non infamato da stragi domestiche, e ogni stanza della casa imperiale ha una memoria di orrore. Qui stanno pronti i sicarii, là Locusta prepara potenti veleni. Nella sala del convito alle imperiali mense si avvelenano mariti e fratelli; in una prigione sotto il palazzo un giovane principe muore di stento: le isole deserte sono contaminate di sangue imperiale. Nella casa dei Cesari di quarantrè persone, trentadue perirono di morte violenta; di sedici mogli, sette furono repudiate, sei furono uccise. In cento anni quattro numerose famiglie chiamate all’impero si spensero affatto. Ma la distruzione non era pena bastante a tanta grandezza di delitti. Per chi aveva oppresso e corrotto il mondo ci voleva l’infamia eterna; il silenzio delle tombe sarebbe stato un oltraggio alla morale e alla virtù. I despoti bruciarono i libri, credendo di estinguere, come dice Tacito, la coscienza del genere umano: ma quest’opera di grande stoltezza non servì ad altro che a mostrare più che mai l’impotenza della tirannide e a renderla più abominevole. Qualche storico venduto al dispotismo maledisse alle vittime ed esaltò gli oppressori: Velleio Patercolo lodò Tiberio e Seiano, e non riuscì ad altro che a infamare sè stesso. La verità si può maltrattare, non spegnere, perchè Dio non permette la morte di questa sua figlia diletta. Essa sopravvisse ai delatori e ai tiranni di Roma, e se Velleio Patercolo istoriografo di corte le faceva ingiuria, Tacito storico dei popoli la rimetteva in onore e la consacrava nelle sue pagine eterne.
L’opera di Tacito è altamente morale, altamente confortatrice. Le sue parole sono una prova solenne a sostegno del vero, una difesa eloquentissima della virtù. Dopochè egli ha parlato, non potrete credere un istante che vi sia forza umana che possa dare felicità al delitto. Osservate Nerone agitato dalle furie dopo il più grande di tutti i misfatti. Gli fanno spavento i luoghi dov’ei lo commise: tristi suoni e lamenti gli alterano la fantasia e lo costringono spaventato a fuggire. Tiberio dopo aver contaminato la terra di sangue sente rivolte in suo supplizio le sue medesime vergogne e scelleratezze. Egli non sa più che dire e che fare, giura agli Dèi che si sente ogni giorno perire, e nei recessi di Capri non trova scampo ai tormenti che gli straziano l’anima. Una turba di spettri, un popolo di vittime grondanti sangue gli passano continuamente dinanzi allo sguardo atterrito, e gli rinfacciano i suoi delitti in terribile suono. Invano vorrebbe fuggire: gli spettri gli sono assidui compagni al letto, alle mense, ai diporti. Tiberio che vinse tutti gli uomini, che altraggiò tutte le leggi, ora è vinto dalla propria coscienza: la sua anima come quella di tutti i tiranni è dilaniata dalle sue crudeltà e libidini, dai suoi scellerati voleri.
All’incontro vedete altrove gl’innocenti stare tranquilli in faccia al carnefice, e incontrare con cuore sicuro la morte, perchè sentono sè più grandi dell’uomo che gli uccide, e vedono la posterità benedire alla loro memoria. Non sono molti gli esempi dell’innocenza e della virtù in questi tempi di universale corruzione, ma lo storico li raccoglie tutti e li celebra con amore pari all’indignazione con cui esecra gli scellerati. Di ogni uomo che dalla prigione e dal patibolo maledisse ai suoi oppressori e ne pubblicò le turpitudini, egli raccoglie le parole con cura sollecita. Ogni atto di coraggio, ogni opera di pietà raccomanda amorosamente alla memoria dei posteri. Principale ufficio suo reputa non tacer le virtù, e spaventare gl’iniqui colla paura della posterità e dell’infamia. Se le prostitute imperiali, se le donne della corte e delle case patrizie disonorano sè stesse con atti efferati, e coll’esempio depravano il mondo, egli ha da contrapporre ad esse altre donne che alla vita preferiscono l’onore, che si mostrano pie ai parenti, e per essi affrontano pericoli e morte. In questi tempi di favolosa ferocia e di supremo egoismo ci commuovono alcune donne che conservando intero il sentimento dell’amore e della pietà dimostrano che tutto il mondo non è divenuto un covile di fiere. Una donna visse quarant’anni vestita a bruno e col dolore nell’anima per la sciagura di un’altra donna. Una fanciulla di venti anni pietosa al genitore offrì la vita per salvare quella di lui.
Se il senato è caduto sì basso che i tiranni stessi sentono schifo di tanta abiezione, per salvare la dignità dell’umana natura rimangono alcuni coraggiosi che sanno morire da forti quando non è più permessa una vita onorata. Rimane Trasea Peto che non crede alla divinità di Poppea imperial meretrice, che non fa sacrifizi alla divina voce di Nerone, che abbandona il vile senato, e che accusato di questi delitti si taglia le vene e offre il suo sangue a Giove liberatore. Tutti gli altri che avevano anima grande e sdegnavano il contaminarsi nel fango di corte pagarono il fio del nobile contegno colla prigionia, coll’esilio e colla morte. E allora si fece universale silenzio, non ascoltavasi più che il suono delle catene e della voce dei delatori.
S’imagina quali fossero le idee che gli uomini si erano fatte della giustizia quando per l’esempio dei principi le pene delle leggi erano diventate un assassinio. S’imagina in quale stato dovevano essere i pubblici costumi quando il palazzo imperiale era scuola di avvelenamenti e bordello, e lo governavano istrioni, meretrici, liberti, e una turba di servidorame insolente che in compagnia del padrone correva di notte le vie a insultare i cittadini, a disonorare le donne, e in mezzo alla città si ordinavan conviti in cui le matrone pubblicamente si ricoprivano di vitupero.
Noi sappiamo già quali fossero in questi tempi i patrizi di Roma. I più seguivano gli esempi del male per corruzione di cuore. Alcuni si dolevano che si spengessero i patrii costumi, che s’introducesse in città quanto era corrotto e corrompitore, che principe e senato ne tenessero scuola e fossero, non che conceditori di licenza, sforzatori di vizi. Ma poichè il far mostra di severo costume, e il desiderar fama d’imprese onorate erano cause di persecuzione e di morte, tutti menavano vanto di corruzione e di servilità; si facevano stupidi, e uscivano salvi sopravvivendo non solo agli altri ma anche a sè stessi.
Il popolo è sempre l’ultimo a perdere il sentimento dell’onestà di cui a tutti la natura è insegnatrice: ma in mezzo a tanti esempi di perverso costume, doveva anch’esso corrompersi affatto. Nella lunga vicenda delle guerre civili era stato già guasto dalle male arti dei cittadini, ambiziosi, e avea perduta molta della naturale onestà. E allora divenne possibile la grande rivoluzione che trasformò la libertà in dispotismo. Perduti i buoni costumi, il popolo fu capace di patire la servitù, e divenir cosa comprabile dal maggiore offerente. Pure anche in questa miseria qualche volta si mostrò ricordevole della sua generosità primitiva e si fece sentire giudice severo dei malvagi e de’ suoi stessi oppressori. E Tacito non trascura di notare ogni grido di virtù che esce dal cuore del popolo, ogni simpatia pei buoni infelici, ogni sentimento di affetto verso quella libertà che gli è stata rapita. Lo vediamo volgersi con impeto di affetto a tutti quelli da cui ricevè o sperò beneficii. Ama Druso perchè lo crede fautore di libertà e lo piange quando lo sente estinto per intrighi di corte. Poi mette suoi favori e speranze nel figlio Germanico. Era giovane, bello, prode in battaglia, aveva ingegno civile, si porgeva affabile, generoso, cortese. Perciò lo amavano tutti, e perciò stesso lo odiava Tiberio, che gli precluse ogni via alla gloria di cui era invidioso, e lo fece avvelenare in Oriente. Alla nuova della sua malattia il popolo di Roma scoppiava in dolore, in ira, in lagnanze, e accusava senza nessun timore o riguardo le male arti del principe contro l’infelicissimo giovane, e ricordava pubblicamente gli altri della casa imperiale spenti per aver mostrato animo cittadinesco, e desiderio che il popolo fosse retto con giusta uguaglianza. Quando poi si seppe la nuova della morte, il dolore fu al colmo: si abbandonarono i tribunali, si serrarono le case, fu gemito e silenzio per ogni dove.
Era un correre per la città, un piangere disperatamente, un benedire quella cara memoria, un farle tutti gli onori, che sa trovare amore o ingegno. Come poi ne giungevano le ceneri recate dalla infelicissima moglie, lo spettacolo si faceva più solenne e più commovente; la mesta turba, ingombrava le vie e con affetto gentile domandava a sè stessa se colle parole o colla solennità del silenzio dovesse confortare il dolore della misera vedova. Al passare per le colonie la plebe era a bruno: da tutti i luoghi accorrevano a mostrare con lacrime e compianti il loro dolore. A Roma, la città era pel silenzio come un deserto o desolata per il gran pianto: le vie brulicavano di popolo: Campo Marzio ardeva di fiaccole: tutti gridavano esser con Germanico caduta la Repubblica, morta ogni speranza: e questo dolore manifestavano arditamente e scoperti, quantunque sapessero di far dispiacere a Tiberio. Apertamente chiedevano la morte dell’avvelenatore di lui, e ne traevano le imagini alle gemonie, quantunque lo sapessero caro a Tiberio.
Il popolo protesta energicamente contro ogni bruttura. Quando un figlio snaturato si fa accusatore del padre, il popolo colla sua voce tremenda minaccia all’accusatore il supplizio dei parricidi e lo costringe a fuggire di città. Qualche volta sente pietà anche degli schiavi tenuti a Roma nella condizione di bestie, e minaccia sassi e incendio contro i loro oppressori. Se volete un esempio di forti virtù nelle infime classi, leggete la storia di quella Epicari libertina che dopo avere eccitati i congiurati a toglier di mezzo Nerone, resse con mirabile costanza a tutti gli strazi. Nè verghe, nè fuochi, nè ira di manigoldi non la poterono indurre a confessare: resistè per un giorno intero alla tortura e poi si strozzò da sè stessa dubitando che i tormenti potessero recarla a tradire il segreto. Tanto più memorabile esempio, esclama Tacito, di una donna libertina che in tanta agonia salvava gli strani e pressochè sconosciuti, mentre i nobili, i cavalieri e i senatori non tocchi da tormenti tradivano i loro più cari, e Lucano accusava la madre, e molti che avevan perduti figli, fratelli, parenti e amici rendevano grazie agli Dèi, ornavan la casa di alloro, si gettavano alle ginocchia del principe e ne stancavan la destra coi baci.
Questo popolo stesso fu il difensore ardentissimo dell’innocenza di Ottavia la infelice moglie che Nerone sacrificava ad una meretrice. A questi potrebbero aggiungersi altri fatti che onorano il retto senso del popolo, e che Tacito pone in pienissima luce. Lo storico sebbene sia di pensieri e di affetti aristocratici, sebbene qualche volta usi parole di dispregio pel popolo e lo rappresenti contradicente a sè stesso e chiedente con ugual gara le cose contrarie, pure fa onore alle sue virtù, al suo generoso entusiasmo, e dai fatti che narra apparisce che il popolo non perdeva nulla nel paragone coi grandi. In un caso solo si direbbe che la moltitudine ha perduto affatto il sentimento del bene e del male, che tutti gli uomini sono discesi al livello dei bruti. È un caso che riempie l’anima di spavento. Nerone ha fatto uccider la madre. Pare che la natura con tuoni, con fulmini e con oscuramenti di sole frema dell’orrendo misfatto. Pure tutta Roma plaude a Nerone: gliene inviano congratulazioni i soldati: il filosofo Seneca fa l’apologia del matricidio, e dice pubblica fortuna che sia spenta Agrippina. I grandi ordinano supplicazioni e statue agli Dèi e al principe, e maledicono Agrippina nel solo momento in cui facesse pietà. Tutta la città, popolo e grandi vanno incontro a Nerone; si fanno palchi lungo la via come si usa a veder passare trionfi. Il matricida passa di mezzo applaudito da tutti, e della pubblica servitù vincitore sale al Campidoglio a render grazie agli Dèi del più nefando di tutti i delitti.
A questo punto noi non riconosciamo più gli uomini, e crediamo di trovarci in una mandra di bestie feroci. Uno solo vediamo che fa le parti di uomo: è Peto Trasea che protesta e abbandona il senato: e poco dopo per questo atto di umanità è costretto a tagliarsi le vene.
Chi rialzerà l’umana natura caduta sì basso? Chi ridesterà il sentimento dell’onore e della virtù in una società che applaudisce l’uccisore di sua madre? Uccidete pure i corruttori tiranni; ma la corruzione che ha pervertito i cuori fino a questo segno non riuscirete a torla di mezzo. Il sentimento della virtù e della libertà rigeneratrice del mondo potrà nutrirsi da qualche anima eletta, ma non ridesterà a nuova vita le moltitudini morte a ogni umano pensiero. In questo smarrimento di tutte le idee di giustizia, agli orrori della tirannide si accoppieranno i flagelli dell’anarchia, della guerra civile, dell’usurpazione militare. Non vi sarà fede o amore in nessuno: si menerà vanto di slealtà e di perfidia: si ameranno i vizi dei principi come in altri tempi se ne amò la virtù. I soldati eleggeranno e uccideranno i supremi imperanti. Gli uomini peggiori del mondo per disonestà, dappocaggine e lussuria otterranno l’imperio cercato oramai solamente per aver modo di saziare le grandi libidini. Scomparso dappertutto il diritto, succeduta la violenza alla giustizia, la vittoria sarà sempre del pessimo. Non si saprà per chi pregare, e i voti saranno empi da qualunque parte si volgano. Il popolo obbedirà a tutti e tradirà tutti: plaudirà il principe potente sul trono, e lo schernirà bruttamente allorchè assassinato giace per le vie. Sarà una turpe vicenda di giuramenti e di spergiuri, di adulazioni e di tradimenti, di viltà e di superbie: e il sangue intanto contaminerà le città e le provincie, i fratelli uccideranno i fratelli, e daranno un sozzo spettacolo di scellerate battaglie.
E questo è l’argomento delle Storie di Tacito delle quali non ci è rimasta che una piccolissima parte. Abbiamo solamente la narrazione delle guerre civili di Galba, di Ottone, di Vitellio e di Vespasiano. A mostrarci quale dolorosa impressione avessero fatta sull’animo dello storico che ne era stato testimone oculare, bastano le parole che egli premette al racconto, e che formano in pochi tratti un quadro di stupenda energia. Egli ci mette davanti in iscorcio un tempo, «ricco di casi, d’atroci battaglie, di parti, di sedizioni e di crudeltà anche in mezzo alla pace: quattro principi morti di ferro; tre guerre civili, più straniere e sovente miste: prosperità in Oriente, avversità in Occidente; Illirio turbato, le Gallie vacillanti, Britannia domata e tosto perduta: genti sarmate e sveve insorte contro noi; i Daci fatti gloriosi per isconfitte contraccambiate; e infino i Parti quasi mossi all’armi per la beffa d’un falso Nerone. Che più? Italia afflitta di danni nuovi, o dopo lunga serie di secoli rinnovati; città inghiottite o diroccate nelle più feconde spiaggie di Campania: e Roma devastata da incendii, consumativi antichissimi templi, ed arsovi per mano de’ cittadini il Campidoglio stesso; cerimonie profanate; adulterii grandi; il mare pieno di esilii; gli scogli intrisi di sangue. Più atroci crudeltadi anche in Roma: la nobiltà, le ricchezze, i rifiutati e gli esercitati onori fatti capi di delitti; e le virtù pagate con certissima rovina. Nè meno abominevoli che gli stessi delitti furono i premii dei delatori; riportandone a guisa di spoglie, chi sacerdozi o consolati, chi procuratorie o potenza in palazzo, trattandosi e facendosi per essi ogni cosa: mentre tra l’odio e la paura corrompevansi servi contro signori, liberti contro padroni, e chi mancava di nemici trovavasi perduto dagli amici. Nè fu il secolo tuttavia così sterile di virtù, che non ne uscissero pure alcuni esempi buoni; madri che accompagnarono i figliuoli fuggitivi, mogli che seguirono i mariti nell’esilio, parenti arditi, generi costanti, servi perduranti in fede anche ad onta dei tormenti, ultime prove di chiari uomini e prove tollerate fortemente e morti uguali alle lodate morti degli antichi. Ai molteplici casi umani s’aggiunsero prodigii in cielo e in terra, ammonizioni di fulmini e presagii del futuro, or lieti, or tristi, or dubbi, or manifesti. Nè mai per più atroci calamità del popolo romano nè per più giusti indicii fu provato, come gli Iddii non curino la salute nostra, ma sì bene i castighi.
Tacito mentre faceva il suo doloroso viaggio a traverso a questi miseri tempi, si riserbava una consolazione all’animo lungamente travagliato dallo spettacolo delle guerre civili. Per confortare i suoi stanchi anni avea divisato di scrivere da ultimo la storia dei regni di Nerva e di Traiano, e narrare quei tempi rari e felici in cui fu lecito sentire ciò che volevi ed esprimere liberamente ciò che sentivi. Questo dolce pensiero gli sorrideva al cuore, ma pare che ad eseguirlo gli mancasse la vita. Egli dovea essere solamente lo storico delle sciagure, e lo fu con tutta la severità dell’uomo virtuoso che fa guerra al delitto con la potenza di un genio immortale.
Fu detto che la inflessibile severità con cui Tacito giudica gli uomini lo porta sovente a esagerazioni maligne, e a dipingere ogni umana azione con troppi neri colori. Sul che vuolsi osservare che in tempi brutti d’ogni sozzura, l’austera virtù non può non essere sospettosa e diffidente. Chi vive in mezzo ad uomini come quelli che appariscono negli Annali e nelle Storie di Tacito, vedendosi continuamente attorno anime basse e crudeli si reca facilmente a credere che l’adulazione e la crudeltà siano le cause moventi di ogni opera umana; e quindi è condotto a diffidare di ogni apparenza contraria, e a non persuadersi della virtù se non quando è incontrastabilmente provata. Le triste qualità de’ suoi tempi ispirarono a Tacito quel genio severo che per grande amore del vero diffida qualche volta del bene perchè raramente lo trova negli uomini di cui ascolta le parole e vede le opere, e perchè non vuole che neppure un solo malvagio scampi dall’infamia che si è meritata. Pure se qualche volta per troppa severità e sospettoso, se dà una premeditazione troppo sapiente e quasi un genio poderoso al delitto che viene da cieco furore, se esagera giudicando le intenzioni delle opere umane, noi non dobbiamo esagerare nel giudicar lui, nè ridurre a regola generale certi casi speciali. Se molti uomini altamente vitupera, perchè o sono apertamente malvagi o gli sembrano tali, con affetto ricerca la virtù, e con affetto la celebra appena si mostra. Sono infiniti gli esempi in cui sta alle apparenze del bene e sopra di esse fonda i propri giudizi senza badare alle seconde intenzioni che altri potrebbe mettere in campo. Non è un maligno commissario di polizia, è un giudice terribilmente severo governato dall’amore ardente di rendere a tutti piena giustizia. Se dubita di un’azione virtuosa e perchè non gli apparisce chiara alla mente; se afferma una scelleratezza è perchè il processo gliene dà piene le prove. Nei fatti antichi afferma sempre quando gli autori concordano: se dissentono, sta contento a citarli lasciando al lettore di scegliere la sentenza che gli sembra più vera. Riferendo le interpetazioni triste dei fatti non omette le buone, e si mostra a quelle più inclinato ogni volta che la natura e i costumi degli uomini gliene danno occasione. Nel giudicare gli stessi nemici, anche quando commettono una grande scelleratezza contro i suoi concittadini, egli lascia in dubbio ciò che non è ben provato, e non scaglia la maledizione contro la terribile vendetta che sa meritata. I Batavi oppressi dalle gravezze romane si levano contro i nemici e li vincono: i Romani si arrendono, e sono uccisi a tradimento. Civile capo de’ Batavi li riprende di avere così rotta scelleratamente la fede. Questa poteva essere una sottile malizia: ma lo storico che non vede chiara la verità si contenta di dire che non è bene affermato se fu una finzione o se Civile non potè impedire tale crudeltà.
Nelle cose in cui bastano gli argomenti di ragione egli giudica da sè stesso, e il suo giudizio è severo ma giusto. L’imparzialità è virtù somma in Tacito: e non può dubitarne chi lo abbia attentamente studiato. Ricercò il vero con lunga fatica, consultò le antiche memorie e i giornali, vide gli archivii tutti, gli scrittori che lo aveano preceduto studiò, e si messe in guardia contro ogni affetto che gli potesse far velo alla mente. Sapeva che cessata sotto Augusto la libertà di parlare e di scrivere, l’adulazione guastò gli scrittori, e che poscia le storie di Tiberio, di Caligola, di Claudio e di Nerone furono scritte falsamente quando vivevano e quando furono morti, dapprima per timore, poi per gli odii recenti: perchè e gli adulatori e gli odiatori dei principi intenti ad appagare il loro particolare talento non si davano cura dei posteri. Egli tra gli scrittori teneva più nemici al vero i maligni che gli adulanti, i quali vengono naturalmente a schifo, mentre gli altri si fanno ascoltare a piene orecchie, perchè l’adulazione è brutta colpa di servitù, e la maldicenza si prende falsamente per libertà. Protestò di non aver conosciuto nè per beneficio nè per ingiuria molti dei principi di cui prese a scrivere, e con egual sincerità dichiarò di avere ricevuto benefici dagli altri: ma concludeva che professando fede incorrotta direbbe il vero di tutti senza amore e senz’odio. E alla prova dei fatti si vede come fu severo mantenitore delle promesse. Perocchè dei principi scelleratissimi che per niuna guisa conobbe dice il molto male che fecero, e niuna loro opera virtuosa passa in silenzio: e delle tristizie dei principi che lo beneficarono è giudice severissimo. Di Tiberio stesso sui primi tempi ricorda la vaghezza di spendere il denaro in cose onorate, ne loda i provvedimenti economici, e con ogni maniera di ragioni si studia di discolparlo dalla taccia che gli dava il popolo di avere spento di veleno il figliuolo. Di Claudio e di Nerone riferisce tutti gli ordini buoni, e così di ogni altro ricorda le cose onorevoli al pari delle triste. Questa sua imparzialità risplende ugualmente nei giudizi sulle opere dei cittadini privati. Vitupera le infamie dei despoti, e non risparmia le viltà degli schiavi che baciano la mano che li percuote: ammira il coraggio, e non ne tace l’inutile ostentazione, degli stoici medesimi, di cui seguiva le dottrine, non tace le diserzioni: e se adorna di sublimi lodi Peto Trasea e Labeone, ritrae sdegnosamente quelli che andavano alle cene di Nerone, e si compiacevano di esser contemplati in volto: voce severa tra le delizie e le voluttà della reggia.
Egli sente che ha un doloroso argomento alle mani, e a chi lo riprende di tornare troppo spesso a discorrere delle vergognose miserie e del troppo sangue sparso senza pro della patria, risponde che a ciò non odio lo stringe ma dovere di storico. «Noioso e dispiacevole, egli dice, sarei a me e ad altri a raccontare tanti e simiglianti casi dolenti e continui, quando fossero di guerre forestiere e di morti per la Repubblica, non che di tanta servil pazienza, e di tanto sangue straziato in casa che mi travaglia e mi agghiaccia il cuore. Ma io non addurrò a chi leggerà altra scusa se non che odio alcuno non m’ha mosso contro a morti così vilmente; nè poteasi quell’ira divina contro i Romani dire in una sol volta e passare, come quando sono sconfitti eserciti e sforzate città. Donisi a’ discendenti de’ gran personaggi, che si come hanno sepolcri propri e non con gli altri comuni, così abbiano nella storia memoria particolare di lor fine.»
Così non odio nè altra brutta passione lo muove mai. Nobile sdegno e pietà e ardente amore del vero governano il suo intelletto, e lo portano non a servire a fazioni ma a dispensare con equa lance la lode e il vitupero, a chiamare al suo tribunale i piccoli e i grandi, gli imperatori e i filosofi, le imperiali meretrici e i liberti, i delatori e i ministri, il senato e la plebe, e invocare su tutti il giudizio della posterità che è grande conforto all’innocenza infelice, e terribile minaccia al delitto anche quando tripudia nelle sue scellerate allegrezze.
In tal modo la parola di Tacito o benedica o maledica è sempre parola di virtù e di giustizia. In tal modo compie il sacro dovere dello storico, ed elevando la sua nobile arte ad una sublime moralità si rende benemerito del genere umano a difesa del quale fa risonare la sua potente voce nel mondo cangiato dalla tiranide in vasto e silenzioso deserto. E ogni studio adoprò perchè la sua parola riuscisse efficace. Vide che in quel tempo nè l’ira contro il male nè l’amore del bene potevano produrre nessun effetto sopra uomini corrottissimi se non si rivestivano di una parola energica e di un fiero stile che scotesse le fantasie con terribili imagini. Perchè si dette a cercare e creare le brevi e le forti espressioni che energicamente significassero i suoi vigorosi concetti, e fece dell’arte il suo Dio. Molto meditò ed osservò i casi umani: molto studiò gli storici antichi, gli oratori e i poeti per trovare in essi aiuto a ritrarre la vita e le grandi miserie dei popoli com’ei le sentiva. Nella prima gioventù si era esercitato nell’eloquenza e avea scritto il Dialogo sugli oratori, ove con stile abbondante e sonoro satireggiò i costumi, il gusto e l’educazione del suo tempo piuttostochè discorrere delle particolarità dello stile. Nelle mani di quest’uomo anche le disputazioni rettoriche divenivano questioni morali e politiche. Quando poi applicò l’animo a scrivere le Storie e gli Annali, sulle particolarità dello stile e della dizione fece lunghi e accuratissimi studi. Dopo aver meditato gli scrittori consultava gli amici e sopratutti l’amicissimo Plinio, a cui come discepolo a maestro mandava i suoi scritti, e caldamente il pregava di correggerne ogni difetto, di aggiungervi ciò che mancava e di torne via il superfluo. E Plinio amorosamente porgevasi all’opera e ne faceva un titolo della sua gloria.
Così il genio e l’arte coltivata con lungo e infaticabile amore insegnavano a Tacito quello stile che è tutto suo e che viene dalla sua anima fortemente temprata. Quando la paura, la schiavitù e la tirannide avevano colla morale corrotto anche lo stile degli scrittori, Tacito serbandosi virtuoso preservò anche i suoi scritti dalla corruzione comune. Egli provò splendidamente la verità di quella sentenza, che per essere un buono scrittore, prima di tutto, bisogna essere un uomo onesto. La sua lingua prende qualità dalla forza e dalla virtù del suo cuore: pure non è la lingua elegante e spontanea dei tempi migliori, e non può esserlo. A ciò si opponevano i tempi mutati, il declinare del gusto, e la necessità che stringe gli uomini tutti a risentire l’influenza del secolo in cui sono vissuti. Egli lottò di tutta sua forza contro il vizio e la corruzione, ma questa lotta lo tenne in siffatta violenza che la sua lingua e il suo stile non poterono non averne l’impronta. Pone grande studio nella ricerca delle forme più brevi ed energiche: e questo medesimo studio lo porta sovente ad asprezze, a troppo ricercate espressioni, a modi contorti, a mettere il suo pensiero tanto lontano che non è dato vederlo se non agli sguardi più acuti. Ma per questa medesima via si conduce a virtù splendidissime, e spesso è grande e sublime per quella concisione che forma una delle nobili qualità del suo genio. Concepisce fortemente il suo pensiero e lo disegna a grandi tratti, e lo esprime compiutamente con una brevità senza pari. Con una parola sa fare un ritratto: con una frase ti mette il fremito e il terrore nell’anima. Non si vide mai più felice arditezza nelle espressioni: niuno scrittore conobbe meglio il segreto di avere più pensieri che parole, e di dar coll’espressione novità a pensieri non nuovi. Nel tempo stesso che in alcuni luoghi col soverchio ardimento fa sentire la decadenza del gusto, in altri è creatore di espressioni e di modi che danno alla lingua nuova energia senza allontanarla dalla sua semplicità primitiva. Alla portentosa sua brevità trovò modo di accoppiare lo splendore delle imagini, i colori poetici, la pompa delle espressioni, l’armonia dei periodi e tutte le ricchezze della magniloquenza latina.
Tacito è scrittore profondo, breve ed arguto. La sua ragione sublime gli fa vedere le recondite ragioni delle cose, e la sua imaginazione vivissima gli presenta i colori più propri di tutti gli oggetti. Dice tutto perchè vede tutto: e il suo linguaggio ha precisione e splendore, perchè egli ha intelletto di filosofo e di poeta. Perciò dopo aver trovato l’espressione vera dei segreti pensieri dei tiranni, seppe trovare i colori convenienti alla pittura del mondo esteriore. Fu notato come il sole di oriente sembra riflettere la sua vivida luce sullo stile dello storico quando racconta le favole di Grecia e le meraviglie di Egitto. All’incontro i suoi colori sono malinconici e tetri tra i misteri delle secolari foreste e sotto le nebbie del cielo germanico, e all’aspetto dell’addolorata natura. Il suo stile è terribilmente sonoro quando descrive lo spavento dei popoli alle grandi sciagure, quando ripete il rumore delle battaglie e delle tempeste, o ci pone davanti i campi funestati dalle stragi fraterne. Entrate nei campi ove le legioni di Pannonia e Germania infuriano a sedizione, e troverete fiere imagini e i portentosi effetti del concetto e della parola di Tacito. Voi sentite il fremito e il furore delle turbe che strepitano ferocemente quando rivolgono gli occhi alla loro moltitudine, e sbigottiscono quando rimirano l’imperatore: è un mormorare incerto, un gridare atroce, poi subita quiete: ora la baldanza, ora la superstizione li governa: ora sono timidi, ora tremendi.
Severamente patetico è nel descrivere l’aspetto del campo di Varo e gli estremi onori che le legioni rendono alle ossa insepolte. Le imagini di terrore e di pietà si avvicendano all’entrata della selva funesta. Grave e solenne è la mestizia di ogni parola: mirabile l’arte di porre in breve davanti allo sguardo tutti i tratti più commoventi di questa scena ferale. Il mesto luogo è sozzo alla vista e al pensiero. Il vallo mezzo rovesciato, e la fossa mezza ricolma attestano ove si ricoverarono le già vinte legioni e fecero le ultime prove. La campagna è biancheggiante di ossa disperse, o ammontate: qui membra di cavalli, e dardi rotti, là teschi umani conficcati nei tronchi degli alberi. E ciò che non può dire il muto aspetto del luogo lo narrano i sopravvissuti a quella sanguinosa giornata. Presso agli altari che sorgono nelle selve all’intorno furono spenti centurioni e tribuni: qui caddero i legati, là il duce supremo ebbe la prima ferita, e disperando si uccise di propria mano. In mezzo ai patiboli, al sangue e alle ossa apparisce minaccioso Arminio che parlamenta e superbamente insulta alle imagini dei vinti. Finalmente si vede l’esercito che mosso a pietà de’ parenti e degli amici, e de’ casi di guerra e della sorte degli uomini rende gli estremi uffici alle ossa sparse per la funerea campagna senza distinguere se siano di romani o di barbari: una suprema necessità gli astringe ad esser pietosi anche ai nemici.
Se dalle nere foreste germaniche seguite lo storico nei lieti campi d’Italia, vedrete a un tocco del suo pennello comparire quadri solenni e tremendi. Le pianure dell’Eridano, le contrade di Roma, le magnifiche campagne latine, le vaghe rive del mare di Napoli e i giardini di Miseno e di Baia, che i poeti già celebrarono come stanza della gioia e del canto, vi appariranno pieni di squallore e di dolorose memorie. Tacito popola ogni luogo di lugubri imagini perchè dappertutto trova schiavi e tiranni e delitti. Arrestatevi nei campi che stanno presso a Cremona. La pianura ondeggia di folte schiere di cavalli e di fanti: l’aria risuona di un feroce fragore di spade, di un lungo fremito di guerra civile, di un insano gridare di fratelli che si uccidono a sostegno di due uomini famosi per dappocaggine e per laidi costumi. Poi al rumore di guerra succede un lungo silenzio, e la campagna piena di strage presenta un atroce spettacolo. Corpi laceri, membra tronche, cavalli ed uomini putrefatti, terreno lordo di tabe, alberi e biade atterrate, devastazione e deserto. L’orrore cresce al comparire di un uomo che vuol pascere i feroci occhi della vista del campo di morte. Quest’uomo è il vincitore della scellerata battaglia e si chiama Vitellio. Senza raccapriccio si avanza, e visita lieto i vestigi della recente vittoria. I popoli gli spargono di lauri e di rose le vie, gl’inalzano allori, gli uccidono vittime. I capitani e i soldati che l’accompagnano ricercano lieti i luoghi delle battaglie, esaltano lor geste vere e false, gridano, si rallegrano, guardano ed ammirano i monti di armi e cadaveri. L’osceno tripudio agghiaccia il cuore e atterrisce il pensiero: ma lo storico tempra quell’abominazione con un affetto umano e con un pensiero morale che ti riconforta. Ti ricorda alcuni soldati che versano lacrime a quella vista: e ti mostra prossima la fine obbrobriosa del mostro che lietamente passeggia sulle ossa insepolte di tante migliaia di cittadini. E così l’arte di Tacito mira sempre al medesimo fine di destare nobili sentimenti negli animi: così tutte le riflessioni che far si possono su pregi letterarii di lui vanno a finir sempre a conclusioni morali.
Ugualmente solenne nello stile, ugualmente morale nei pensieri egli è quando descrive Roma spaventata dai supplizi, e ci mostra le vie e le piazze deserte. Si sta in guardia di ogni vicino, si scansa ogni incontro, ogni discorso di noti e di ignoti: anche le cose mute e inanimate sono piene di sospetto: al passaggio di una vittima tutti fuggono, e poi tornano indietro per tema di dar sospetto coll’aver mostrato paura. Ma la voce della verità non può essere estinta dalla paura. Le vittime nell’universale silenzio gridano alto, protestano contro l’ingiustizia, e turbano la quiete ai tiranni.
Tacito rappresenta maravigliosamente il tumultuare degli eserciti che fanno e disfanno gl’imperatori. Si vedono gli ambiziosi che tendono le mani, che adorano il volgo, che lanciano baci, e fanno ogni atto di servilità per aver signoria. Si sente il frastuono delle adulazioni codarde, e il fremito della sedizione che empie di sbigottimento le case e le vie, e fa morire lo zelo di quelli che più menarono vanto di fede e coraggio: e si vedono i cattivi fatti più baldanzosi dall’aspetto dei buoni addolorati del male. Quando poi una grande rivoluzione è prossima a compiersi, e il sangue è per contaminare le vie, Tacito è mirabile nel descrivere lo sgomento e l’incertezza delle turbe che ondeggiano pel Foro, e che empiono templi e basiliche. Poco prima facevano suonare le adulazioni nell’atrio imperiale: ora la servile baldanza si è mutata in grande spavento. Ogni cosa ha lugubre aspetto: senza voce popolo e plebe, attoniti i volti, le orecchie intente ad ogni rumore: non tumulto, non quiete, ma silenzio quale suole nelle grandi ire e paure.
I tempi che Tacito ci pone davanti al pensiero sono tristamente uniformi. Una sola volontà, e quasi sempre: quella del male, sta al governo del mondo, e produce fatti che vanno tutti alla medesima conclusione. Perciò non è maraviglia se lo storico apparisce qualche volta monotono, se i suoi colori sono tetri, se egli non sa fare altro che fremere. Egli non poteva non risentire le difficoltà del suo argomento: non vi era potenza di arte e d’ingegno che valesse a rendere sempre variato ciò che di sua natura è spaventosamente uniforme, a spargere di lieta luce quest’inferno di tenebre e di dolore. Quindi ci sembra ingiusto il rimprovero che altri gli fa di dilettarsi troppo delle pitture tragiche e delle descrizioni terribili. È ingiusto domandare ai personaggi di Tacito il libero movimento degli uomini di altri tempi. Sotto la dominazione del terrore niuno può mostrare spontaneamente il suo genio: la paura stringe tutti alla falsità o al silenzio. Quindi è inutile e peggio cercare la letizia e le libere voci del popolo quando pel Foro echeggiano solamente le grida delle vittime gettate delle gemonie. Tacito sentì da sè stesso che era insuperabile questa difficoltà portata dalla natura del suo argomento, e lo confessò negli Annali, ove paragonandosi agli storici dei tempi della Repubblica, dice: so bene che le più delle cose che ho narrate e che narrerò possono forse parere di poco momento e non degne di memoria. Ma niuno dee paragonare i nostri Annali con gli scritti di quelli che raccontarono gli antichi fatti del popolo romano. Essi memoravano grosse guerre, espugnazioni di città, disfatte e presure di re: e quando volgevansi alle cose interne, con libero andamento descrivevano discordie di consoli e di tribuni, leggi agrarie e frumentarie, contese di ottimati e di plebe. Con descrizioni di paesi, con varietà di battaglie, con chiare morti di capitani trattenevano e dilettavano gli animi dei leggitori. Noi abbiamo angusta e ingloriosa fatica. Pace immobile o lievemente agitata, meste le cose della città, e niun pensiero di allargare l’impero. Abbiamo a raccorre in un fascio comandi atroci, accuse continue, amicizie fallaci. oppressioni d’innocenti, cause medesime riuscite sempre a un medesimo esito: cose tutte per la troppa somiglianza tediose.
Pure se il tristo argomento era tale da sgomentare anche la potenza del genio di Tacito, egli non trascurò studio ed arte per vincere le difficoltà. Messe nella narrazione tutta la varietà che gli era possibile, e usò tutti gli espedienti della composizione storica per rendere meno grave il tedio dei mali. Per conforto delle vergogne e delle scelleratezze presenti ricordò le glorie e le virtù degli antichi. Per posare l’animo dalle sciagure domestiche narrò le guerre esterne: e quando tutto era servitù nella città del popolo re, fece sentire il grido della libertà che risonava nelle selve germaniche, nei deserti di Numidia o sui monti di Tracia. Agli accenti dell’ira accoppiò quelli dell’affetto e della malinconia narrando casi pietosi. Cercò varietà negli episodii, descrisse con la semplicità del narratore, con la gravità del filosofo, con lo splendore del poeta, e quando pose sulla scena i suoi personaggi trovò tutte le forme e tutto il movimento del dramma. Negli Annali tu trovi profondo concetto, e spesso semplicità maravigliosa di stile. Ivi l’imagine dei tempi si svolge naturalmente, e i fatti non hanno altro legame che quello della loro successione. Le Storie all’incontro furono con ragione paragonate a un poema, perocchè solenne ivi è l’andamento, maestoso il complesso, variati gli episodii, e i fatti collegati strettamente tra sè concorrono a un solo ed unico scopo, la pacificazione del mondo, che sotto Vespasiano si compie colla sottomissione di Civile in Germania, e colla vittoria ottenuta sopra Gerusalemme da Tito.
Tacito, come tutti i grandi uomini, esercitò molto l’ingegno dei critici, ed ebbe alte lodi e amare censure. Lasciando le strane dicerie di chi lo chiamava mentitore, adulatore, impostore e cattivo scrittore a noi pare che meno si allontanassero dal vero coloro che lo rimproverarono di cadere nell’oscurità per amore soverchio di concisione, di essere qualche volta più ragionatore che narratore, di amare troppo i concetti, di mettere filosofia e politica dappertutto, e anche nella bocca dei barbari. Pure gli rimane tanta ricchezza di grandi e originali bellezze, che anche dal lato dello stile lo rendono il primo scrittore del suo tempo. Se poi si riguarda dal lato filosofico e morale, egli forse non patisce confronto in tutta l’antichità. Gli altri scrittori possono abbondare più nei pregi esterni, essere più puri, più eleganti, più variati, ma niuno è più profondo e più sottile indagatore delle cause e delle ragioni dei fatti. Egli è l’ultimo grande scrittore di Roma, che fa sentire per l’ultima volta la voce solenne del genio romano: è grave politico e sublime moralista: unisce la profondità al sentimento, e la splendida imaginazione al severo giudizio, e col suo potente pensiero abbraccia il passato e il presente e intravede l’avvenire.
Tacito è un repubblicano che scrive la storia della tirannide, nelle brutture della quale trova conforto solamente volgendo lo sguardo al passato. L’imagine di Roma antica gli sta viva nel cuore: ei ne vagheggia la gloria, la potenza, la libertà. La severità degli antichi costumi, il senno degli ordinamenti civili, la fama delle battaglie e delle rumorose adunanze del Foro, la potenza dei consoli, la gloria e lo splendore del senato sono perpetuo desiderio dell’anima sua. Ma non è uomo da pascersi di vane speranze: vede che la libertà repubblicana non può più tornare, ed accetta questo nuovo ordine come una fatale necessità, come un effetto dell’ira de’ numi contro le umane tristizie. Pure l’anima generosa non può acquietarvisi mai, e in mille modi protesta contro quello stesso che crede irrevocabile. Egli, come bene fu detto, è Bruto che invece di uccidersi, per non vedere la vittoria di Cesare e la morte della Repubblica, ha il coraggio di vivere per consolare i suoi amici sopravvissuti, per ornare di lodi i morti, e per iscoprire tutte le vergogne dei vincitori.
Più considerava le cose del tempo suo, e più aveva ragioni da sospirare il passato e da temere per l’avvenire. Il governo di un solo aveva fatto da ogni lato tristissima prova: aveva spento nell’interno ogni virtù e ogni ordine buono, guasto ogni civile costume, tolta ogni sicurezza, fatto accrescere maravigliosamente i pericoli esterni. E questo gli dava travaglio maggiore: perocchè se non si poteva ricovrare la libertà antica, Tacito voleva almeno che si salvasse l’impero, e si mantenesse la promessa di eternità fatta a Roma dai fati. Ma il suo amore di patria e la sua fede al destino di Roma non erano bastanti a tenerlo tranquillo in faccia alla tempesta che fremeva minacciosa. La fortuna romana era giunta al suo colmo: ma chi doveva sorreggerla? Non più gloria d’armi e di capitani, non più virtù militare, non più senno civile: codardi e crudeli i principi, avviliti i cittadini. E all’incontro tremendi per forti virtù e per animi pronti a libertà e a morte apparivano i nemici di Roma ai limiti dell’impero. Un nuovo spirito di gagliarda vita agitava le nazioni compresse già dalla forza. I popoli cominciando a conoscere se stessi non più volevano dare il fiore di loro gente alla milizia romana, si rivoltavano contro i crudeli gravami. I barbari credevano che l’incendio del Campidoglio accennasse il finire dell’impero: i Druidi cantavano che quel fuoco fatale distruttore del tempio di Giove dava il segno dell’ira celeste, e prometteva alle genti oltramontane il dominio di tutti gli uomini. Le Gallie si sollevavano; i Daci facevano il primo tentativo d’invasione: Britannia levava alto la fronte, e chiamava i popoli a libertà. Più alto gridavano, e più fieramente combattevano i terribili figli delle selve germaniche. Roma da ogni altra parte aveva da opporre memorabili vendette alle patite sciagure: ma non così le era incontrato in Germania ove non avea potuto mai lavarsi dell’onta degli eserciti disfatti. I Germani risorgevano ogni giorno più minacciosi, e la loro libertà si mostrava inespugnabile. Tacito discorrendo di questi non può celare i suoi timori, nè dissimulare il presentimento funesto che lo agita sul fine di quella lotta che durava da due secoli. E poichè non comprende altro ordine di cose che quello stabilito dalla conquista romana, e la libertà e la nazionalità delle altre genti pel suo giudizio non sono sacri diritti, quando teme che Roma non possa resistere all’urto dei popoli correnti a indipendenza, egli invoca la discordia dei nemici come unico mezzo di salute alle sorti latine, chiede la distruzione di ogni popolo che rifiuta il dispotismo romano, e ascrive a grazia speciale degli Dèi che Roma avesse il piacere di vedere i barbari trucidarsi tra loro in guerra civile. Ne perirono, egli dice, sessantamila non pel ferro romano, ma, ciò che è più magnifico, caddero per dare agli occhi nostri dilettoso spettacolo. Deh rimanga e duri nelle nazioni se non l’amore di noi almeno l’odio di sè: poichè in queste minaccie dei destini dell’impero la fortuna non ci può dare maggiore aiuto che la discordia dei nemici.
Questo grido di gioia alla vista di sessantamila uomini caduti in guerra civile rivela tutta l’inumanità dell’egoismo romano. Tacito che in molti altri luoghi fa prova di un sublime senso morale, qui si dimostra in tutto uomo del suo tempo e della sua patria. Al pari degli altri suoi concittadini non vede che Roma; non avvi nè ragione nè giustizia al di fuori di essa: solamente il romano ha una patria, tutti gli altri popoli sono gregge destinato a servire perchè il romano abbia il diletto e l’onore del comando. Un antico sapiente, il divino Socrate morendo avea lasciato per ricordo ai suoi discepoli che le verità le quali non trovavano nè in Atene nè in Grecia, le cercassero tra i barbari. Ora la dottrina della universale fratellanza dalle catacombe cominciava la rigenerazione del mondo. Ma Tacito era troppo romano e non la intendeva: e quindi spregiava i barbari e li voleva distrutti perchè avevano l’orgoglio di aspirare all’indipendenza: e i Cristiani, che pativano martirio a sostegno dell’idea rigeneratrice dei popoli tutti, chiamava odiatori del genere umano e degni di ogni supplizio perchè seguaci di superstizione funesta. Egli non istudiò la loro dottrina, e la condannò, perchè secondava il pregiudizio comune e perchè vedeva che essa era una minaccia agli Dèi del Campidoglio e alla religione che avea partorita la potenza e la grandezza di Roma.
Ma se Tacito in questo sentì come tutti i suoi concittadini, in molte altre cose si distinse da essi elevandosi a sentimenti generosissimi, amando sovranamente la giustizia, e professando fra uomini corrotti la più severa morale, e la più alta filosofia che comportassero le credenze romane. Egli non è scettico, come alcuno lo disse dando mala interpretazione alle sue parole. Nelle sue pagine compariscono ad ogni momento gli Dèi a punire gli umani delitti. Nella vita di Agricola ha il presentimento che vi è un luogo per gli uomini pii e che coi corpi non si estinguono le anime grandi. Mentre i più dei mortali credevano ad una cieca fatalità, egli inchinò a credere alla libertà morale che nobilita l’uomo. Perciò quantunque narrasse sempre le superstizioni del volgo e ricordasse i presagii che erano conseguenza necessaria del fatalismo, e talora mostrasse di prestarvi credenza, altre volte disse chiaro che nell’arte divinatoria non aveva fidanza, e manifestamente dubito dei prodigii affermando che non furono creduti se non dopo il fatto. Fra le dottrine filosofiche si accostò a quella degli stoici che salvavano la dignità dell’umana natura e inalzavano gli oppressi sopra i tiranni insegnando a disprezzare il dolore e la morte. Perciò fu grande ammiratore di Elvidio Prisco e di Trasea, e ne celebrò con affetto le lodi. Ma non accettò le dottrine stoiche fino alle ultime conseguenze: e credè che nella pratica della vita vi fosse una via mezzana e lecita tra la turpe arrendevolezza e l’ardire imprudente. Severo nei suoi eiudizi politici, era umanissimo nella vita privata. Si dilettò di esercizi innocenti e di scherzi, e cercò ricreamento al suo animo coltivando le muse. Nel secolo quinto, al riferire del grammatico Fulgenzio Planciade, esisteva una raccolta di Facezie composte da Tacito. La perdita di esse ne duole, perchè ci avrebbero mostrato sotto un nuovo aspetto quest’uomo singolarissimo. Sarebbe stato bello ascoltare i motti piacevoli del fiero narratore delle crudeltà di Tiberio.
Della semplicità dei costumi di lui ne abbiamo testimonianza nel carteggio di Plinio. Vedemmo come erano amici fino dalla giovanezza, e come poi si strinsero viepiù nell’amore della virtù, del pubblico bene, della libertà, della gloria. Di Tacito non ci pervenne lettera alcuna: ne rimangono dieci di Plinio a lui, che parlano di onesti diletti, di faccende, di studi e sono un bel documento della loro amicizia. Vi è la gaiezza di un giovane amico che scrive a un giovane amico: vi è l’affetto e l’ammirazione alle alte qualità d’un grand’uomo: vi è l’oratore, vi è il cittadino, vi è il critico che ama ardentemente l’arte e la patria: vi è la vita operosa del Romano che avvicenda la meditazione all’azione: vi è amore impetuoso alla gloria di tutte le nobili azioni.
Plinio si diletta di caccia, ma anche nel tempo di essa non intermette i suoi piacevoli studi. Una volta scrive lietamente a Tacito una bella ventura occorsagli di prendere tre cinghiali bellissimi, e gli narra che mentre stava assiso alle reti aspettando la preda meditava e scriveva per riportare almeno piene le pagine se fosse stato costretto a tornarsene colle mani vuote. Tu non devi, dice all’amico, spregiare questa maniera di studio. È mirabile come per l’agitarsi e muoversi del corpo si ecciti l’animo. La solitudine e le selve che ne circondano da ogni parte, e il silenzio che si richiede alla caccia sono di grande aiuto al meditare. Però quando andrai alla caccia porterai teco non pure gli strumenti di essa, ma anche le tavolette da scrivere. Proverai che Minerva non meno che Diana gode di vagare pei monti.
Poi con gravità e amenità i due amici discutono le questioni dello stile e dell’arte. Plinio si dilettava dello stile abbondante, ed era inquieto degli ardimenti del fiero genio di Tacito che dell’avere più pensieri che parole faceva sua gloria. Quindi su questa materia gli scrisse una lunghissima lettera, ove adduceva tutti gli argomenti dei sottili ragionatori. Era d’avviso che l’oratore debba svolgere i suoi pensieri nel modo più largo per recare più facilmente la persuasione nell’animo degli uditori; e spingeva fino all’estremo le lodi dello stile abbondante, del periodo sonoro: e si ingegnava di provare che un buon libro è tanto migliore quanto più largo, e che gli viene autorità e bellezza in grazia della sua mole, in quella guisa che le statue, i busti, i dipinti e le rappresentazioni degli uomini, degli animali e degli alberi stessi ricevono pregio maggiore dalla loro ampiezza quando sia decorosa. Infine concludeva: Questo è fin qui il parer mio che muterò se tu sei di avviso diverso: ma spiegami il perchè di questa diversità di sentire. Perocchè quantunque debba cedere alla tua autorità, credo che in cosa di tanto momento sia meglio esser vinto dalla ragione. Onde se ti pare che io non erri dimmelo in una lettera breve quanto tu vuoi, ma dimmelo per raffermare il mio giudizio. Se poi ti sembra ch’io erri scrivimi una lunghissima lettera. Non abbiamo la risposta di Tacito, ma sappiamo che egli era dell’opinione di quell’oratore, che a Plinio stesso diceva: «Tu credi che in una causa bisogni dir tutto: io prendo di tratto il mio nemico alla gola e lo strangolo.»
Un’altra volta Tacito chiedeva all’amico le particolarità di due grandi fatti, l’eruzione del Vesuvio, e la morte di Plinio il naturalista che vi perì vittima del suo amore per la scienza. Il famoso vecchio che con immensi studi avea mostrato quanto il genio romano fosse atto a raggiungere l’universalità delle scienze e delle arti, che in una vita di 56 anni scrisse opere di mole stupenda e investigò tutti i fenomeni della natura, e da ultimo morì coraggiosamente nel campo della scienza, era argomento carissimo al cuore di Plinio. Gli era nipote e figlio adottivo: ne avea conosciuta la portentosa dottrina: lo amava con affetto di figlio, e lo ammirava con entusiasmo di discepolo capace a giudicare tutto il valore del grande maestro. In un giorno in cui la natura fieramente commossa distrugge col fuoco e ricopre di cenere e di oblio le liete città della Campania felice, quest’uomo con animo intrepido affronta le ire degli elementi per investigare i fenomeni di un imperversante vulcano, e soccombe. Plinio narra a Tacito con animo commosso i particolari di questa scena di spavento, e gli ultimi istanti del venerato padre e del sublime sapiente. E sola questa testimonianza ci resta, perchè perì quella parte delle storie in cui Tacito riproduceva nel suo energico stile le notizie ricevute da Plinio.
Plinio scrive a Tacito dalle sue ville di Como e di Tusculo, si consiglia con lui, gli chiede un maestro per le scuole di Como, gli raccomanda gli amici, gli dà notizia dei propri lavori, accetta le parti di libero critico quando glielo impone l’amico. E Tacito ascolta la verità col piacere con cui Plinio la dice, perocchè niuno più soffre la riprensione di chi più merita la lode. Plinio era incantato di questa cara e dolce vicenda di affetti e di cure, e scriveva. — Oh quanto mi diletta (se pur gli avvenire si cureranno punto di noi), che si narri dappertutto con che concordia, schiettezza e lealtà noi siam vissuti! si reputerà cosa rara ed insigne che due uomini quasi uguali di tempo e di ufficii, di qualche riputazione nelle lettere (poichè bisogna che anche di te io parli modestamente, parlando a un tempo di me), siansi l’un l’altro dato mano negli studii. Io certo fin da giovinetto, essendo già tu rinomato e glorioso, desiderava di seguirti, di essere e di farmi credere prossimo a te, ma prossimo d’un tratto molto lontano. E v’erano molti illustri ingegni: ma tu solo (recatovi dalla somiglianza dell’indole) mi parevi il più facile ad imitarsi, il più degno di essere imitato. Ond’è che viepiù godo, se ragionandosi di studii, noi siamo insieme nominati, se a chi parla di te io corro subito al pensiero. V’ha di que’ che ci son preferiti. Ma purchè ci uniscano, niente mi cale del dove. Poichè quello io stimo il primo, che ti è più vicino. Anzi tu devi altresì avere osservato, che i testatori (salvo il caso di un particolare amico dell’uno o l’altro di noi) ci lasciano gli stessi stessissimi legati. Il che tutto tende a far sì, che ogni di più ci amiamo l’un l’altro; mentre gli studii, i costumi, la fama e le estreme testimonianze degli uomini ci legano con tanti nodi — .
Ad ogni passo di questo prezioso carteggio si trova l’entusiasmo per le nobili virtù dell’ingegno. Plinio si fa una gloria dell’amicizia di Tacito, desidera di essere ricordato negli scritti immortali di lui, e francamente gliene muove preghiera. — Io già predico, nè la mia predizione è fallace, che le tue istorie saranno immortali; ond’io (tel dirò apertamente) tanto più bramo di entrarvi. Che se ci adoperiamo per solito, perchè la nostra imagine sia espressa da qualche illustre artefice, forse desiderar non dobbiamo che tocchi alle nostre azioni uno scrittore e un lodatore tuo pari? — Poscia gli racconta un suo fatto onorevole di cui brama che si faccia memoria e da ultimo conclude. — Queste cose, quali esse siano, tu le renderai più celebri, più illustri, più grandi; benchè io non esigo che tu oltrepassi la misura del fatto. Poichè l’istoria non debbe esagerare la verità, e la sola verità basta alle azioni virtuose — .
Ma il nome di Plinio il giovane non si trova neppure una volta negli scritti di Tacito. O non esaudì la preghiera, o lo fece nelle parti delle sue opere che il tempo ha distrutte.
Non si sa precisamente quando Tacito finisse di vivere. Forse toccò l’impero di Adriano. Il certo si è che morì stimato e amato. Godeva molta fama per la città, e i dotti in folla si raccoglievano intorno a lui per ammirarne l’ingegno. E questa fama durava splendida anche dopochè egli fu morto. Nel secolo terzo l’imperatore Tacito faceva suo vanto di discendere dal nostro storico, e mentre gli rendeva culto di ammirazione studiavasi che ne fossero perpetuate le opere ordinando con decreto ad ambedue del pari glorioso che ogni anno a spese dello stato se ne facessero dieci copie autentiche e che si ponessero in tutte le biblioteche. Nel secolo quinto, Tacito si trova citato nelle storie di Paolo Orosio, e lodato da Sidonio Apollinare pel suo stile maestoso. Poi sotto l’infuriare della tempesta barbarica che distruggeva la civiltà antica anche i manoscritti di Tacito rimasero dispersi, e una parte di essi andò irreparabilmente perduta: ma di quella che scampò all’universale rovina molte copie si fecero anche in quei tempi di folta ignoranza, e rimangono ancora per le biblioteche d’Europa.
Appena fu inventata la stampa, uno dei primi libri a pubblicarsi fu il Tacito. La prima edizione è del 1470, e fu fatta a Venezia da Vindelino di Spira. Essa conteneva solamente la seconda parte degli annali, le storie, la Germania, e il dialogo degli oratori. La vita di Agricola comparve in un’edizione senza data nè di luogo nè di tempo, ma si stima fatta nel 1477 a Milano. La prima parte degli annali non si conosceva, e non fu ritrovata che nel secolo appresso. In questi tempi in cui con affetto singolarissimo si ricercavano tutte le ricchezze letterarie del mondo antico, e si domandava ai popoli di Grecia e di Roma notizia delle loro leggi, della loro storia e di tutta la loro sapienza per rivolgere questi raggi della civiltà antica a illuminare le tenebre della moderna barbarie, non poteva non desiderarsi ardentemenie la scoperta di Tacito. E quindi si ricercò per ogni dove. Angiolo Arcambaldo corse l’Alemagna, frugò tutti i conventi, e alla fine nell’Abbadia di Corwey in Vestfalia scoprì un manoscritto contenente i primi cinque libri degli annali che si credevano perduti. Trovato questo tesoro corse subito a Roma e presentò il manoscritto a Papa Leone X, il quale ne fece gran festa e dopo aver largamente ricompensato il felice scopritore, e dette molte lodi sulla gravità dello storico e sulla bellezza dell’opera, incaricò il suo segretario Filippo Beroaldo di rivedere il testo di Tacito e di riunire in una sola edizione le cose nuovamente scoperte e quelle già conosciute e stampate. Gli dava questa commissione con un breve del 14 novembre 1514: nel quale, per impedire che le opere di Tacito non fossero per imperizia o negligenza sfigurate e guastate nelle edizioni posteriori, si proibiva per dieci anni di ristamparle e di venderle senza il permesso dell’editore. A chi non avesse rispettato il divieto minacciava la scomunica e un’ammenda di ducento scudi se fosse suddito pontificio. E perchè il Beroaldo potesse al bisogno trovare favore e protezione per reprimere l’audacia e la temerità di quelli che osassero spregiare la probizione, Leone ordinava ai suoi legati, ai patriarchi, agli arcivescovi, ai vescovi, agli abbati, ai prelati, ai governatori, ai presidenti, ai commissari, ai capi di truppa e a quelli che esercitavano una funzione qualunque o una commissione in nome del Papa o della sedia apostolica a volere in virtù di santa obbedienza prestar soccorso, aiuto e assistenza all’editore di Tacito per impedire che nulla si facesse contro questi ordini. E quando non mostrassero lo zelo richiesto anche i legati, i patriarchi, gli arcivescovi e tutti gli altri sopraddetti signori erano minacciati della stessa scomunica. Ma la scoperta avea levato tanto rumore e acceso tanto desiderio negli animi che non vi era minaccia valevole a impedire la ristampa del libro. Alessandro Minuzziano prima di ogni altro affrontò la minacciata pena, o che non curasse la scomunica, o che la ignorasse, come egli dice. Trovato modo ad avere separatamente i fogli della stampa romana appena erano composti, ristampò subito i cinque libri nuovamente scoperti. Gli fu intimato tosto di recarsi a Roma per esser giudicato del fallo e patirne la pena. Ei non volle andare a niun patto, ma costretto a difendersi scrisse un’umile supplica ove dichiara che reputerebbe a sua gran fortuna se potesse recarsi a vedere anche per un momento solo Sua Santità, e dirle che stimava una felice colpa quella che gli dava occasione di inginocchiarsele innanzi. Egli protesta che non ha ristampato il Tacito per cupidità, ma per far comodo ai suoi scolari ai quali spiegava in quell’anno la famosa storia dei Cesari; e chiede umilmente perdono a una colpa che ha commessa per non sapere che fosse minacciato di pena sì grande. Anche il Beroaldo intercesse per lui, e il Papa con una lettera del 7 settembre 1516 gli dette perdono, lo liberò dalla scomunica e gli accordò di poter compire e vendere la sua edizione.
Dopo si moltiplicarono le edizioni a Basilea, a Firenze, a Venezia, a Norimberga, a Vittemberga, a Francoforte, a Lione, a Parigi, a Strasburgo, ad Anversa, a Londra e in tutte le principali città d’Europa. Da ogni parte uscirono fuori correzioni, traduzioni e commenti: vi si fecero sopra dissertazioni geografiche, storiche, filosofiche: fu illustrato con figure, con aforismi, con cronologie, con sommarii: si scelsero le sentenze, si fecero florilegi politici, si colsero fiori di ogni sorte dall’orto di Tacito. Alcuni presero a combatterlo, altri a difenderlo: vi fu chi ne ricavò precetti a governare civilmente gli stati, e ad ammaestrare la gioventù nella politica, e chi colle parole di lui insegnò a mutare la libertà in dispotismo. Tutti vi trovavano il conto loro: e il grande storico formò la delizia dei tiranni e degli uomini liberi. Cosimo I dei Medici vi studiava le arti tiberiesche che molto gli andavano a sangue: i principi di casa d’Austria lo consultavano tutti i giorni nelle necessità delle loro faccende, e i filosofi che nel secolo scorso preparavano la rivoluzione francese vi cercavano fatti e argomenti da rivolgere contro il dispotismo per renderlo più continente.
In Italia fino da principio meglio che altrove se ne intese lo spirito: perocchè quivi oltre all’amore ardentissimo per l’antichità avevasi uno stato di cose molto rassomigliante a quello dei tempi descritti da Tacito. Vi erano le ultime agitazioni delle morenti repubbliche e le prime crudeltà dei tiranni: i cittadini più generosi e più liberi lasciavano la testa sui patiboli, languivano nelle prigioni, o trascinavano in penosi esilii la vita. Le ultime rivoluzioni italiane, che erano riuscite alla schiavitù universale, erano pei nostri padri un eloquente commento allo storico che sì solennemente avea narrato il passaggio dalla libertà alla tiranide.
In lingua italiana ne fece la prima traduzione un anonimo e si stampò nel 1544. Poco dopo il Davanzati volgarizzò tutto Tacito con ampio stile e largo, convenevole al suo fine di farlo chiarissimo, e la sua opera in meno di cinquant’anni ebbe cinque edizioni: sul finire del secolo XVI si cominciò a pubblicare la traduzione del Davanzati che faceva per lungo tempo dimenticare tutte le altre. Bernardo Davanzati fiorentino non era uomo di pensieri repubblicani, come fu creduto da alcuno. Un repubblicano non avrebbe scritto che Firenze si accrebbe di gloria e di bellezza per le corone, gli scettri e gli ornamenti reali portativi entro dal Granduca Cosimo I eroe degnissimo, grande e molto amato Signore che merita lode divina per avere aggiustato principato, bene di tutti gli umani il più desiderabile, il più santo e glorioso. Il Davanzati scrisse anche di peggio: del Tiberio toscano disse che fu scelto al trono dal benigno volere del grande Iddio benedetto, perchè piaceva al suo cuore: lo paragonò a Cincinnato, ne lodò il dolce e piacevole impero, la magnanimità, la moderazione e la giustizia, e ne pianse la morte come perdita di grande bene. Queste erano impudenti menzogne; e chi ha letto le storie sa che cosa fossero il dolce e piacevole impero, la magnanimità e la giustizia di Cosimo. Ma quantunque Messer Bernardo si lasciasse andare a queste bruttezze egli avea animo capace a intendere e sentire gli scritti di Tacito, e possedeva grande ricchezza di parole brevi e argute per rappresentarne maravigliosamente il concetto. Quindi la sua traduzione sebbene in qualche luogo pecchi di oscurità, e si accusi di troppi fiorentinismi e di modi triviali non convenevoli all’altezza delle storie romane, è la traduzione che meglio di ogni altra abbia fatto ritratto in italiano del potente stile di Tacito. Egli in tre lettere discorse le ragioni che lo mossero a questo lavoro, e che lo indussero a usare i modi della lingua parlata come più adatti a esprimer breve, vivo e chiaro il concetto. «Conoscendo che il parlar breve stringe più e conclude meglio; innamorato perciò della brevità di Tacito, intraprese a metter la lingua fiorentina a correre a prova con la latina e con la francese al dono della brevità con l’occasione che appresso diremo. Un valent’uomo volle coronare la sua lingua francese sopra l’altre e darle il vanto di brevità, e la nostra disse lunga e languida. Il Davanzati giudicò noi andarne al di sotto: onde, perchè quello ricreduto si avvedesse del suo ardimento, tradusse il primo libro degli Annali di Tacito, dove senza lasciare niun concetto, con tutti i disavvantaggi degli articoli, vicecasi e vicetempi che bisogna replicare ad ogni poco, trovò più scrittura nel latino da otto per centinaio, e nel francese da oltre a sessanta. Ma sentendo che da sì poca scrittura d’un libro solo, che poteva essere uno sforzo, non veniva provato il suo intento, stampò gli altri che narrano il principato di Tiberio, a fine che a veggente occhio si chiarisse lo schernitore, che questi fiorentini libri largheggiano ne’ latini come il nove nel dieci, e ne’ francesi passeggiano come nel quindici. Ricevuta con applauso questa sua fatica, prese a volgarizzarlo tutto, come nuovamente si vede alla stampa, ancorchè l’importuna morte non glielo lasciasse correggere. Opera certamente che non ha mestiero di lode, perchè è di quelle le quali quanto più si mirano, tanto più risplendono, e che quanto più si leggono sempre più piacciono: segno che il bello non è solo nella buccia, ma interno e fondato: onde quando meglio s’assaporano, allora riescono più soavi; dove le cose ordinarie dopo la prima lettura, perduto il condimento della novità riescono dissipite e senza sostanza. A questa traduzione aggiunse alcune postille quasi ricamo a ricca veste, o smalto a finissimo oro, empiendole di precetti politici, economici e morali e di varie erudizioni ed arguzie che fiedono per l’orecchio l’animo dell’uditore.»
Tacito in questi tempi andava molto per le mani degli uomini e perciò, nel mentre che il Davanzati lo recava in volgare, Scipione Ammirato prese a farvi sopra discorsi politici in cui si proponeva di raccogliere il fiore di tutto quello che si trova sparso nei libri delle azioni dei principi e del buono o cattivo loro governo. Dice che vi impiegò molte fatiche e sudori, e che si mosse a intraprendere questo lavoro perchè Tacito avendo discorso del principato era più confacente ai suoi tempi che gli scrittori aveano ragionato di repubblica. In sostanza intese di fare sui libri di Tacito ciò che Niccolò Macchiavelli avea fatto su quelli di Livio. Egli non raggiunse a gran pezza nè la sapienza politica nè le alte speculazioni dell’immortale segretario della Repubblica Fiorentina: ma pure molta è la dottrina ch’ei radunò cogliendo da più luoghi di Tacito pretesto a dispute morali e politiche e ad avvertimenti che tornassero utili ai principi e portassero ai popoli la desiderata felicità. La sua opera ora quasi al tutto obliata ebbe molta fama in quel tempo e fu onorata di parecchie edizioni e di traduzioni in latino e in francese.
Tacito era veramente lo scrittore che più d’ogni altro si conveniva a questi tempi infelici in cui inferociva la barbarie spagnola, e il dispotismo tornava a farsi dottamente crudele. Nelle sue eloquentissime pagine si trovava la descrizione e la satira delle sciagure e dei vizi che tornavano a desolare l’Italia. Perciò tutti correvano a lui come a interpetre dei mali antichi e quasi profeta dei nuovi. Filippo Cavriana gentiluomo mantovano, e professore famoso di medicina all’università di Pisa rivolse anch’esso i suoi studi a quest’argomento, e sulle orme dello storico ragionò della nuova politica. Esaminò Ippocrate e Tacito, paragonò i mali fisici dell’individuo coi disordini morali dei corpi politici, e prendendo a testo alcuni passi degli Annali vi fece sopra dotte e lodevoli considerazioni. Lavori consimili si fecero anche a Bologna, a Genova, a Milano, a Venezia, e l’uso incominciato di prendere le scritture di Tacito ad argomento di meditazioni politiche trovava seguaci in ogni parte d’Italia.
Nei tempi appresso si continuò dagl’Italiani a studiare profondamente il grande storico, e la nostra lingua fu messa spesso e felicemente alla prova per renderne con forza e con eleganza i grandi concetti.
In questo studio anche i Tedeschi non rimasero indietro. In Germania il genio di Tacito fu tenuto in pregio e onore. Le opere di lui furono commentate e tradotte, esercitarono i critici e dettero argomento alle più alte questioni della morale e della politica. E ben era ragione che i Germani ammirassero Tacito, perchè a lui specialmente dovevasi se sapevano qualche cosa dei loro antichissimi padri. Nel libro della Germania trovavano la storia delle loro istituzioni e dei loro costumi: di più col tornare a vita i primi cinque libri degli Annali essi videro risorgere il loro eroe più famoso, e sentirono rivelarsi le glorie più splendide della antica nazione. La memoria di Arminio era perita coi canti in cui i popoli maravigliati ne celebraron le geste. Ora Tacito lo faceva risorgere in tutta la sua stupenda grandezza, lo esaltava sopra ogni altro eroe e gli dava la gloria di liberatore di Germania e di combattitore felice contro la potenza dell’impero romano nei suoi più splendidi giorni. Quindi tutti gli amatori della libertà nazionale si volsero ad esso con grande affetto di cuore e con culto di lodi magnifiche.
L’uomo che fra gli antichi levò più rumore pei suoi studi su Tacito nacque tra i Belgi verso la metà del secolo XVI e si chiamò Giusto Lipsio. Era un grande erudito, e uno scrittore ameno e piacevole. Egli inalzò fra i primi la fiaccola della critica, fu scopritore ardito e felice nei campi della filologia e dell’erudizione, e sparse gran luce per la via che poscia dovevano percorrere i critici delle antiche dottrine. Sotto il rispetto morale poi fu uomo stranissimo: aveva indole debolissima e mobilissima, e celebrava sempre la costanza e la forza dell’animo: della libertà si professava caldo amatore e fu schiavo sempre dell’opinione dei più forti. Nato cattolico, si rese luterano a Jena perchè si trovò circondato dai protestanti: a Colonia si rifece cattolico, e in Olanda professò il calvinismo, e mentre si vantava seguace dei forti e schietti costumi antichi agì da uomo sleale e codardo. Egli ammiratore della libertà romana non fu tocco punto dal sublime spettacolo che davano di sè al mondo le provincie unite di Olanda scuotendo il giogo di Filippo II e dell’inquisizione spagnuola: pare anzi che si unisse con quelli che facevano pratiche per distruggere la libertà conquistata con tanti sforzi. È certo che egli fu loro amico e che nei suoi scritti predicava ai popoli obbedienza e rassegnazione, e ai principi insegnava l’intolleranza religiosa in un paese che avea sostenuta persecuzione e guerra durissima per professare la religione che più gli piaceva, e che avea stabilito le sue leggi sulla libertà di coscienza. E con ragione ne ebbe carico di grande ingratitudine perchè da questo popolo che voleva rimettere sotto i furori dell’inquisizione spagnuola egli aveva ricevuto ospitalità, onori e danaro. Ma se altri gli voleva male del suo amore all’intolleranza e al dispotismo, i Gesuiti vennero in soccorso di lui e lo colmarono di elogi per queste stesse ragioni. Allora egli fu loro schiavo in perpetuo, lasciò gli antichi errori e si rifece cattolico. O fosse questa conversione sincera, o nuova commedia, certo è che i Gesuiti ne menarono gran vanto, e si adoprarono molto perchè facesse la pace anche con la dolcissima maestà di Filippo II e salisse all’onore di regio istoriografo. Ma gli fecero pagar cara la loro protezione: lo resero ridicolo al mondo costringendolo a scriver libri ove più che credente si mostrava imbecille, e si tirava addosso dagli stessi cattolici l’accusa di richiamare l’idolatria dall’inferno.
Parrà a molti ed è veramente grande stranezza che un uomo cosiffatto s’innamorasse di Tacito. Pure la cosa si spiega col gusto letterario del tempo, col gusto particolare del Lipsio e colle particolarità della sua vita. Vissuto tra agitazioni religiose e politiche, costretto dalla sua stessa debolezza e dalle sue contradizioni a fughe, ad esilii, ed espiazioni umilianti, e contrastato in tutte le sue ambizioni, si trovò esacerbato fieramente e fatto cupo lo spirito. E allora andò in cerca di quiete e la chiese ai libri che più erano adatti ad alimentare e consolare i suoi dolori. Prescelse Tacito e Seneca come quelli che gli destavano più forti impressioni. Nel primo gli piaceva la frase concisa e sentenziosa e quell’asprezza di colori con cui dipinse i vizi e le sciagure di Roma: nel secondo trovava la filosofia stoica, antidoto a tutti i mali possibili del corpo e dell’animo.
Egli era fornito dell’acume necessario a intendere libri siffatti, e avea la dottrina che si richiede a bene illustrarli. Fino dai primi anni di sua gioventù si era dato con ardore a cercare i monumenti dell’antichità, a confrontare i testi dei classici, a correggere i commentatori. Poi venuto in Italia e recatosi a Roma, ove i vecchi dotti facevano festa grande a lui giovanetto, vi trovò modo a studi più profondi. Ebbe agio a vedere altri manoscritti, visitò con entusiasmo i monumenti della città eterna, studiò le iscrizioni e le medaglie, e ne trasse materia a nuovi e più grandi lavori. Tutti i suoi pensieri erano alle cose e agli scritti dell’antichità: dottamente ragionò della milizia e delle guerre dei Romani, della loro amministrazione interna ed esterna, delle imposte, della popolazione, dell’indole, dei costumi, degli edifizi, dei templi, degli anfiteatri e di tutta la romana grandezza. E in tutto mostrava acume di critica, spirito filosofico, e stile conveniente all’altezza dell’argomento. Questi studi gli fecero intendere il popolo re, e gli dettero modo a illustrare gli scritti di Tacito. Egli era talmente padrone di questo scrittore che narrano si offrisse di recitarne qualunque passo col pugnale alla gola e permettendo di immergerlo se la memoria gli facesse fallo. I suoi commenti comparvero la prima volta nel 1574 ad Anversa e si ripeterono poscia in molte edizioni arricchiti e corretti. Ebbero da ogni parte lodi grandissime, si celebrarono come la migliore opera sua, ed erano quanto di meglio allora potevasi avere per sagacità, e per cognizione della proprietà e delle squisitezze della lingua latina. Molto egli avea lavorato sull’emendazione del testo, e in questa opera fu sì felice che le sue correzioni spesso si prenderebbero per ispirazioni di un indovino. È vero anche, come fu notato benissimo, che queste correzioni, comecchè ispirate da una perspicacia e finezza grande di giudizio, non possono lasciar sempre sicuro il lettore: è vero che il Lipsio fu in qualche modo il cominciatore del non piacevole metodo di riempire di varianti la metà e anche due terzi della pagina di uno scrittore, e di indurre così i lettori a dubitare della integrità e anche della latinità dei classici: ma è vero altresì che egli non è responsabile di tutte le varianti introdotte nel testo o indicate nelle sue note, perchè la più parte è tratta dagli esemplari stampati o manoscritti su cui lavorava. Se poi molte delle sue osservazioni non sono nulla di più di quello che potrebbesi attendere da un esercitato grammatico, ogni tanto s’incontrano luoghi nei quali egli si fece conoscere per uomo di grande dottrina, e per critico valentissimo e superiore a tutti quelli dell’età sua.
Anche questo lavoro, come tutti gli altri suoi, nel mentre che avea molti ammiratori, gli levò contro accanitissime guerre. Gli eruditi e i grammatici erano allora come in ogni tempo pettegoli e riottosi e si assaltavano furiosamente. Dapprima un tale sulla fede di un manoscritto di Tacito che diceva essere stato recentemente scoperto stampò che il Lipsio avea preso grossi abbagli nei suoi commentarii su questo storico. Il Lipsio accettò la sfida: dimostrò al suo avversario che il manoscritto allegato non esisteva, e con ogni maniera di argomenti gli provò che era un asino o un impostore. Anche da Roma insorse un avversario contro di lui. Antonio Mureto era uno dei grandi ammiratori di Tacito, e dalla cattedra lo difese contro quelli che lo accusavano di non pura fede e di non elegante dettato. Egli avea anche in animo di commentarne le opere quando uscirono in luce i commenti del Lipsio. Ciò gli fece gran dispiacere, e dolente di essere stato prevenuto nel recare ad effetto l’idea accusò il Lipsio di plagio. Alla quale accusa ridicola questi rispose burlandosi piacevolmente del suo avversario.
Noi non vogliamo far la storia di tutti quelli che illustrarono Tacito, ma non possiamo non volgere una rapida occhiata alla Francia, ove egli ebbe molti e intelligenti cultori specialmente negli ultimi tempi. Dapprima quantunque molto si traducesse e si commentasse, per giudizio degli stessi Francesi non ne fu compreso colà il genio sublime. Fatte poche eccezioni, lo storico fu quasi obliato anche dagli scrittori dei tempi di Luigi XIV. E ciò s’intende benissimo. Allora tutto sentiva odore di corte: si adoravano le debolezze, le turpitudini, i vizi tutti del principe, e niuno pensava alla libertà romana, nè agli ammaestramenti che potevano ritrarsi dalle severe storie che descrissero le atrocità e le infamie dei principi antichi. Ma al comparire del secolo XVIII gli spiriti si rivolsero a meditazioni più gravi e più libere, e allora venne, il tempo di Tacito. I filosofi che miravano a distruggere gli errori della barbarie e le immanità della tirannide, e a fare rinascere il regno della verità, della libertà e della giustizia, si volsero con affetto a Tacito come a un amico grande dell’umanità, come a pensatore profondo, come a scrittore liberissimo, e come a sovrano maestro pel vigore e per la concisione dello stile. Nelle memorie del passato trovavano l’imagine del presente, e Tacito insegnava loro a vituperare energicamente i nuovi disordini: quindi lo traducevano, lo commentavano, lo messero in moda, lo fecero leggere e studiare di preferenza ad ogni altro scrittore. Quando poi scoppiò la grande rivoluzione preparata da essi, lo storico fu compreso anche meglio. Lo spettacolo di un popolo che dopo tanta servitù si rialzava per riconquistare l’egualità, l’indipendenza, il regno delle leggi e la sovranità nazionale era un commento eloquentissimo ai concetti di Tacito. I fatti della rivoluzione presente facevano intendere quelli delle rivoluzioni antiche, e con esse il genio dello storico che le narrò meglio di ogni altro. Egli somministrò in abbondanza i forti e i neri colori per dipingere la faccia ai nuovi tiranni. E in quei giorni, in cui il più sublime amore di patria andava compagno ai più grandi furori, il repubblicano Daunou si consolava dei mali della prigione meditando lo storico di Tiberio.
Quando poi compressa la rivoluzione, Napoleone imperatore si assise sulle rovine di essa, e vi rifabbricò il dispotismo, era naturale che si mutassero amori, e che tutti gli amanti delle libertà nuove e antiche cadessero in odio al novello signore. E Napoleone tutti li odiava: i presenti perseguitava, e gli antichi si studiava di fare apparire spregevoli. Egli che non avea paura di nessuno, ebbe paura di Tacito. Credeva che fosse irreverenza citare al tribunale della storia i padroni del mondo: si sdegnava che Tacito avesse detto male degli imperatori romani dei quali credevasi successore, e temeva che sull’esempio di Tacito vituperatore dei despoti antichi, altri prendesse a vituperar lui nuovo imperatore di Francia, e uccisore della libertà. Perciò si studiò di screditarlo e di farlo passare da mentitore. Si sdegnava coi traduttori, perseguitava gl’imitatori. Più di ogni altro provò gli effetti di questi sdegni imperiali Maria Giuseppe Chenier, il poeta della rivoluzione. Egli in ogni scritto avea dato sfogo al suo fiero odio contro il potere assoluto, e al suo amore ardentissimo di libertà: avea satireggiato i titoli e le vecchie cose che si rimettevano in credito; avea imitato eloquentemente Tacito nella tragedia intitolata Tiberio; e quello che più aveva contribuito ad eccitare contro di lui gli sdegni imperiali erano i versi in cui dicevasi che il nome di Tacito pronunziato fa impallidire i tiranni. Chenier fu dimesso dalla sua carica di ispettore degli studi, e non valsero interposizioni di amici. Il nome di Tacito portava a tutti sventura, e per esso fu proibito anche il Mercurio che aveva stampato un articolo di Chateaubriand. Ma non contento a punire i lodatori di Tacito, Napoleone cercava uomini che lo screditassero. Nel 1806 poco dopo la vittoria di Austerlitz si rivolse al Suard segretario perpetuo dell’Istituto e lo pregò di fare un commento su Tacito per rettificarne gli errori e i falsi giudizi. Grandi premii sarebbero stati riserbati a chi facesse quest’opera piacevole all’imperatore: ma il vecchio segretario liberamente rispose che la fama di Tacito era sì grande che sarebbe stata cosa vana il pensare a menomarla. Napoleone fu colpito da queste parole come lo sarebbe stato da una sentenza di Tacito stesso: e non che deporre il nemico pensiero si accese in esso di più. Cercò di altri che si prestassero a servire al suo sdegno e trovò chi con tutta compiacenza si fece l’eco del pensiero imperiale. Pochi giorni dopo il giornale dei Debats dichiarava la guerra allo storico odiato dall’imperatore. Nei numeri dell’11 e del 21 febbraio del 1806 comparvero due articoli contro lo storico e contro i filosofi suoi ammiratori. Si faceva loro carico di avere rimesso in onore Tacito odiatore dei tiranni e pittore energico della corte e dei delitti imperiali, e si vituperavano come nemici di ogni autorità e di ogni freno. Questi poveri filosofi, diceva il giornale, erano tormentati da uno spirito di fazione e di rivolta che trovava continuamente negli scritti di Tacito nuovi alimenti.
Così tentavasi di far comparire cattivo e spregevole tutto ciò che poco prima era stato celebrato con ogni guisa di lodi. Ma ad onta di questi sforzi, nè le libere idee nè Tacito caddero di pregio. Tacito si studiò e si tradusse durante l’impero anche ad onta degli sdegni di Napoleone: poscia l’amore e il culto per lui si accrebbe all’amore della libertà. Meglio e più gravemente furono apprezzati i suoi alti concetti, e più convenientemente furono tradotti. Fra tutti i traduttori ai tempi nostri in Francia ottennero la palma il Burnouf e il Panckoucke. Il Burnouf era grecista e latinista valente, e professò per molti anni l’eloquenza latina al Collegio di Francia. La sua traduzione di Tacito corredata di note filologiche e storiche cominciò a comparire nel 1827 e fu molto applaudita. Quella del Panckoucke comparve tre anni più tardi. Egli ne avea fatto lo studio di molti anni e da questo lavoro cercava tutta la sua gloria letteraria. Considerò Tacito da un alto punto di vista, e mostrò come questo scrittore poco compreso dagli antichi è precisamente l’uomo che l’età nostra è chiamata a meglio comprendere e che deve farci meglio comprendere le rivoluzioni moderne. Si rivolse a Tacito con culto di amore e di entusiasmo: fu portato a questo studio dagli avvenimenti contemporanei, e da esso imparò a conoscere i legami misteriosi che uniscono il passato al presente. Il Panckoucke nel suo entusiasmo per Tacito percorse i luoghi che furono il teatro dei fatti narrati dallo storico, e dappertutto cercò indicazioni e memorie, domandò agli antichi monumenti, alle rovine, ai fiumi e agli elementi la spiegazione di certi passi che senza vedere i luoghi non si possono intendere pienamente. Ho voluto seguire, egli dice, Agricola nella sua spedizione in Britannia, e passeggiare sul campo di battaglia di Galgaco. Ho visitato l’Inghilterra e la Scozia: ho veduto quelle contrade di cui l’aspetto generale non è punto mutato dopo la conquista romana: vi sono le medesime montagne, i medesimi laghi di acqua salsa: io ho raccolto le perle di Caledonia descritte da Tacito. Poi percorse l’Italia: volle riconoscere il palazzo dei Cesari, salì sul Campidoglio, percorse il Foro, e con Tacito alla mano lesse ivi le scene che il grand’uomo descrive con tanto effetto. Visitò con amore tutti i monumenti che Tacito ricorda, e che ancora rimangono ad attestare dell’antica grandezza: ricercò nei musei le statue e i busti dei contemporanei dello storico, e ne fece la conoscenza nei ritratti che l’artista ha maravigliosamente animati.
Con tutti questi preparativi si dispose a lottare col grande scrittore: poi venuto alle prove riuscì bene nella sua impresa e fece lavoro notevolissimo per la proprietà dello stile e per l’intelligenza del testo. Sebbene la lingua francese non giunga alla forza, alla bellezza e allo splendore dell’espressione latina e tacitesca, egli riuscì a ottenere tutto quello che era possibile con uno strumento più debole. Se non potè esprimere tutto, egli comprese e sentì tutto, e tentò ogni sforzo per far gustare ai Francesi il profondo pensiero, l’imaginazione poetica e il giro pittoresco di Tacito.
Noi abbiamo accennato alcuni dei molti lavori che in ogni tempo si fecero su Tacito, e abbiamo ricordato l’entusiasmo che ebbero per lui le più colte nazioni: e ciò facemmo perchè i giovani fossero maggiormente compresi di reverenza per il sommo storico, e perchè sull’esempio degli altri imparassero a cercarvi il nobile amore di libertà con cui nutrire il cuore, e la severità dei principii e l’indipendenza dell’animo di cui armarsi contro ogni tristo caso della fortuna. Per renderli viepiù reverenti e affezionati a quel severissimo genio finiremo col riferire i giudizi che non ha guari due valentissimi Italiani dettero dei pregi morali e letterari di lui.
Carlo Botta nel suo giudizio sui principali storici latini e italiani così si esprimeva. «Venendo ora a Tacito dico che il suo fare fu necessità dell’età in cui visse. Era spenta la repubblica, spenta la libertà: di loro vivevano solamente alcune forme, ma per derisione, o per servire d’aiuto ai principi tiranni: vizi infami in chi comandava, vizi vili in chi obbediva: la romana attività volta del tutto a straziare la patria. In questa condizione di tempi lo scrittore ha dovuto essere piuttosto morale che patrio: poichè essendo la patria perduta del tutto, non restava altra pianta da coltivarsi che la virtù con esaltar lei e con fulminare il vizio. Ciò fece Tacito, e fecelo in grado eminente che nissun altro istorico in quella parte a lui, non che pareggiarsi, approssimarsi un po’ da vicino si potrebbe. Pure l’anima sua forte e per così dire indomita e sdegnosa, amò la libertà e la pinse: ma la pinse come perduta e solo come memoria. L’anima sua fu ancora tenera ed affettuosa, ma non a modo delle debolezze moderne, bensì di resto d’anima romana. Di ciò serva di prova la vita di Agricola». Poscia il Botta ne celebra la forza e conclude «ch’ei fu un esempio vivo di quanto possa uno scrittor generoso in un’età corrotta.»
Cesare Balbo che è stato l’ultimo traduttore italiano di Tacito così ne ragiona. «Tacito è di quegli uomini di stato che credono accordabili pratica e giustizia: e di quegli storici che non lasciano indifferentemente giudicarne i leggitori. Ma i suoi giudicii brevi ed assoluti, non fanno inciampare il leggitore, come le dissertazioni diffuse di quegli storici che mal si dissero filosofici: e mal contarono Tacito quasi primo di essi, dietro all’uso delle sette che cercano vanto dall’antichità. Ma irreprensibile, anzi sommo così nelle qualità essenziali e virtuose, in quelle poi quasi esterne e formali dello stile è accusato di due gravi difetti: men pura latinità; ed affettata brevità, onde oscurità. Ma della latinità quand’io ne sapessi discorrer bene, non sarebbe il luogo qui a capo d’una traduzione. Della brevità, senza volernelo assolvere forse del tutto, parmi pure poter dire; ch’ella è men sovente affettata che naturale; che fra gli scrittori antichi, quasi tutti come accennammo, anche quelli dell’aureo secolo non sono molto diversi. E se la oscurità è maggiore in Tacito, ella vien forse meno dalla maggior brevità che da quelle più numerose allusioni a cose ed usi noti a sua età, ignoti a noi. Nè poteva egli scansare tale inciampo scrivendo di tempi più avanzati, e di usi più lontani da loro origini. E del resto, non s’appongano a niuno autore buono i suoi cattivi imitatori. Tali ne furono certo molti di Tacito in Italia: ma fatta la somma totale de’ nostri scrittori, temo ne siano stati anche più di parolai che di stringati. E certo poi a quasi tutti avrebbe giovato studiare ed imitare da lui quel modo suo di raccogliere in sè i pensieri prima di esprimerli; di esprimerli compiuti e giusti per tutti i versi; di non istemperarli negli epiteti, e ne’ superlativi; di non istorcerli nelle inversioni; di non invertirli per una vana risonanza; di non sospenderli con tante proposizioni incidenti; di non abbassarli colle parole vili, nè colle straniere, nè colle antiquate; di non gonfiarli colle poetiche. E ad ogni modo quando mi si negasse l’opportunità di studiar Tacito ad uso di lettere, io mi rivolgerei a’ non letterati, raccomandandolo ad uso di pratica: come scrittore in cui fu, più che in niuno, santo amore a virtù, santo odio a vizi, cuore e moderazione in segnalar l’une e gli altri: onde si dee dire chè niuno esercitò mai più degnamente l’altissima magistratura della storia».