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181 ATTO VANNUCCI - DISCORSO SU TACITO

nuova commedia, certo è che i Gesuiti ne menarono gran vanto, e si adoprarono molto perchè facesse la pace anche con la dolcissima maestà di Filippo II e salisse all’onore di regio istoriografo. Ma gli fecero pagar cara la loro protezione: lo resero ridicolo al mondo costringendolo a scriver libri ove più che credente si mostrava imbecille, e si tirava addosso dagli stessi cattolici l’accusa di richiamare l’idolatria dall’inferno.

Parrà a molti ed è veramente grande stranezza che un uomo cosiffatto s’innamorasse di Tacito. Pure la cosa si spiega col gusto letterario del tempo, col gusto particolare del Lipsio e colle particolarità della sua vita. Vissuto tra agitazioni religiose e politiche, costretto dalla sua stessa debolezza e dalle sue contradizioni a fughe, ad esilii, ed espiazioni umilianti, e contrastato in tutte le sue amibizioni, si trovò esacerbato fieramente e fatto cupo lo spirito. E allora andò in cerca di quiete e la chiese ai libri che più erano adatti ad alimentare e consolare i suoi dolori. Prescelse Tacito e Seneca come quelli che gli destavano più forti impressioni. Nel primo gli piaceva la frase concisa e sentenziosa e quell’asprezza di colori con cui dipinse i vizi e le sciagure di Roma: nel secondo trovava la filosofia stoica, antidoto a tutti i mali possibili del corpo e dell’animo.

Egli era fornito dell’acume necessario a intendere libri siffatti, e avea la dottrina che si richiede a bene illustrarli. Fino dai primi anni di sua gioventù si era dato con ardore a cercare i monumenti dell’antichità, a confrontare i testi dei classici, a correggere i commentatori. Poi venuto in Italia e recatosi a Roma, ove i vecchi dotti facevano festa grande a lui giovanetto, vi trovò modo a studi più profondi. Ebbe agio a vedere altri manoscritti, visitò con entusiasmo i monumenti della città eterna, stu-