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190 ATTO VANNUCCI - DISCORSO SU TACITO

d’io ne sapessi discorrer bene, non sarebbe il luogo qui a capo d’una traduzione. Della brevità, senza volernelo assolvere forse del tutto, parmi pure poter dire; ch’ella è men sovente affettata che naturale; che fra gli scrittori antichi, quasi tutti come accennammo, anche quelli dell’aureo secolo non sono molto diversi. E se la oscurità è maggiore in Tacito, ella vien forse meno dalla maggior brevità che da quelle più numerose allusioni a cose ed usi noti a sua età, ignoti a noi. Nè poteva egli scansare tale inciampo scrivendo di tempi più avanzati, e di usi più lontani da loro origini. E del resto, non s’appongano a niuno autore buono i suoi cattivi imitatori. Tali ne furono certo molti di Tacito in Italia: ma fatta la somma totale de’ nostri scrittori, temo ne siano stati anche più di parolai che di stringati. E certo poi a quasi tutti avrebbe giovato studiare ed imitare da lui quel modo suo di raccogliere in sè i pensieri prima di esprimerli; di esprimerli compiuti e giusti per tutti i versi; di non istemperarli negli epiteti, e ne’ superlativi; di non istorcerli nelle inversioni; di non invertirli per una vana risonanza; di non sospenderli con tante proposizioni incidenti; di non abbassarli colle parole vili, nè colle straniere, nè colle antiquate; di non gonfiarli colle poetiche. E ad ogni modo quando mi si negasse l’opportunità di studiar Tacito ad uso di lettere, io mi rivolgerei a’ non letterati, raccomandandolo ad uso di pratica: come scrittore in cui fu, più che in niuno, santo amore a virtù, santo odio a vizi, cuore e moderazione in segnalar l’une e gli altri: onde si dee dire chè niuno esercitò mai più degnamente l’altissima magistratura della storia».