Delle Frascherie di Antonio Abati fasci tre/Fascio I

FASCIO PRIMO.

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Lettore Fascio II
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DELLE


FRASCHERIE


FASCIO PRIMO.




PP
ENAVA l’Asia in un secolo, che facea dubbio, s’era il tirannico, in cui regnava Caligola, ò ’l calamitoso, in cui egli1 anhelava d’essere. I flagelli del Cielo crescevano di pari grado con l’humane ingordigie, come ne’ corpi infermi con l’ardore d’una febre s’avanza anche la sete. E perche, à parer di Solone,2 l’egualità non fà mai guerra, la disuguaglianza de gli humori havea cagionata sì bellicosa intemperie alla tranquillità dell’Asia, che parevano rinovare a’ suoi irreparabili esterminij le rivali oppressioni d’un Mitridate e d’un Silla. A molti grandi, a’ quali pareva tolto l’essere, perche mancava loro la potenza di fare, altri alimenti non rimanevano, che sù i rimasugli de’ Sudditi. & à molti Sudditi, le cui faticose industrie erano cotidiani sacrificij [p. 16 modifica]a’ Padroni, non restava altra cagione di viver lieti, che il non haver più da perdere, nè più da temere. In tanto, perch’è natura de’ mortali l’osservar con occhio torvo le prosperità imperiose, sembrava à prima fronte un refrigerio del travagliato Vulgo poter vantare co’ suoi maggiori una consimile proportione nelle disavventure: mentre la Fortuna avezza a balestrar i privati qualificava con le percosse, da lei segnalate sù i grandi, la vilipesa conditione de’ suoi colpi volgari. Era un solazzo de’ miseri, il veder depressi, ed avvallati, quei Monti, che poco dianzi nella penosa vallea degl’infimi aduggiavano con l’ombre loro tiranniche i semi delle virtù humane: e ponderavano i Savij, ch’essendo la fortuna una esecutrice dei divini decreti, non convenivale, il farsi vincere di gloria da quei tali, che delle Deità si fanno emuli: ma più tosto insegnar con colpi di maestrevole ferza questo gran dogma ai Principi: che non per altro si fè cieca Fortuna, che per non distinguere dal volgo l’imaginate franchigie dei Potenti, ferendo con ugual sinistra chi vive. E perche reputavasi comunemente, che i maggiori Tiranni dell’universo si fussero scelti per fato a disperder i Regni Asiatici, vivevano in dubbio i popoli, com’avveniva ai Romani ne le contese d’Othone, e di Vitellio3

[p. 17 modifica]per qual d’essi dovevano ricorrere ai Tempij, sacrar le preci, ò detestar i voti, mentr’era certo, che saria stato sempre il peggiore, chi havesse vinto.

Havevano antichi, & onorati affari per l’Ionia alcuni ben agiati Patritij Europei, che per esser dei beni d’una straniera fortuna corredati, men de gl’altri i mali dell’intestine calamità sentivano. Eran costoro dimoranti in Efeso; e quantunque di famiglie distinti, uniti però di volere, ne menavano per lo più frà inseparabili consortij la vita.

Godeva frà questi un vanto di privilegiata Rinomea Stamperme Cavaliero d’alto legnaggio, il qual haveva in se stesso quelle due prerogative congiunte, che frà i nobili individui di quel secolo trovavansi malagevolmente divise, cioè a dire divino Ingegno nelle scienze, & humanissima Idea nei costumi.

S’erano a casa di Stamperme trasferiti in un giorno estivo alcuni de’ praticati Amici, per divertir quivi col sollievo di qualche esemplare ragionamento la noia d’un sonnacchioso meriggio, ma parendo all’hospite, che gl’animi loro fussero anche da un insolito stupore ingombrati, vago di scuotere dalla mesta taciturnità i loro vivaci talenti, prese a favellar ai medesimi in cotal guisa.

Amici. Non sò se vi facciano più [p. 18 modifica]guerra i pensieri, ò vi diano più pensieri le guerre. Di gratia ponderate alquanto, qual sia hoggi l’havere, e il saper vostro. I danni, che dalle militie, e dai Grandi si tragono, son communi per l’Asia; mà la natura hà fatto commune quel ch’è gravissimo; accioche l’egualità nella fierezza del fatto ci riconsoli. I Cieli sono inesorabili; nè per ingiurie si placano; è però, se la volontà non termina il pianto col consiglio della ragione, non attendete, che le stelle ad istanza de’ nostri arbitrij dian fine. La volontà che à suo talento si sa alleviar gl’infortunij; ed architettar le letitie, hà forza di convertir ogni cosa, se non in oro, in quello almeno, che con l’oro non si compra. E maggior ventura questa di quella di Mida, che

In pena sol de l’avide preghiere
Tratte havea sù le dita auree miniere.

Perdeste, e vero, una gran parte delle sostanze vostre; mà se ponderate, che la maggior ancora ne ritenete, voi acquistate molto. Consistono solo le vostre perdite, in dimenticar quel che vi rimane, quel che il Cielo non vi tolse. La fortuna vi fe’ sobrij, ma non digiuni; anzi hà corpi digiuni l’Ionia, che si riempirebbono con le vostre reliquie. Ricordatevi ch’è satio quel volere, che hà quel che vuole, quando non vuole, se non quel che può. Avvampano di martiali incendij le Provincie d’Asia, nol nego; mà se la Terra non [p. 19 modifica]sa cessare gli alimenti alle fiamme, havrà ben humore da estinguirle il Cielo.

Non sempre gli Aquiloni
     De l’aereo sentier volubil onde,
     Squassan fremendo à l’ampia Hircinia i legni,
     Bruma d’Olenij segni
     Non mandan sempre i gelidi Trioni,
     I tronchi adulti à vedovar di fronde,
     Virtù, che ’l suolo asconde,
     Spunta in aprico al variar d’un Cielo:
     E à chi sofferse il gelo,
     Da l’Arabiche vie
     Porta un April l’Autumedon del Die.

Pitagora comandò à i suoi discepoli, che nè il cuore, nè il cerebro divorassero, cioè che non fusse da loro con le fisse apprensioni distemperato il cervello, nè il cuore con ismoderate cure trafitto.

Meglio è haver ne la sete Alma, che rida,
     Ch’a rivo d’or mover Tantalee fauci,
     Ne la lieta penuria è satia Bauci,
     Ne la copia penosa è voto Mida.

È così natura dell’amicitie palesare i cuori, come delle mestitie l’asconderli: gli animi turbati son come l’acque torbide, le quali non fanno scernere ne’ fondi de’ Fiumi quelle arenne, che nelle limpidezze traspaiono. Nelle aperte chiarezze de’ discorsi nostri si scoprano da noi à vicenda i più occulti penetrali dell’anime, e si [p. 20 modifica]soffrano con lieta toleranza le meste trafitture del Cielo. La patienza è un Nume tutelare de’ miseri, un Custode della nostra conditione. Diceva un faceto ingegno,

Ho sempre intesa dir questa sentenza,
     Borsa de’ Letterati è la Penuria,
     Moneta de la borsa è la Patienza.

Quì sogghignarono in vicendevoli risposte gl’Amici, e Stamperme vedendoli alla letitia, & all’attentione avviati, così proseguì.

È vero, che la secura hilarità d’un fiorito secolo, come quello d’Augusto era, nudrisce gli ardori delle emulationi, e’ pruriti della Gloria.4 Certamen virtutis, & ambitio gloriae felicium hominum affectus, disse Tacito. Come in contrario i moti fatali de’ Regni scuotono ogni valorosa costanza de gl’ingegni humani; il che avvenne ne’ tempi della espeditione di Xerse contro la Grecia, ma che vogliamo far noi de’ talenti nostri, ò Amici, mentre così girano i Cieli? Aspettiamo che ’l Satirico ci sgridi, che5 ne paratas quidem artes audemus cognoscere? Quell’ammassare in sè stesso senza uso le dottrine de libri, è un vitio tanto peggiore dell’Avaritia, quanto che un dotto Capo in morte non benefica i posteri come un Erario colmo. Sia dunque il mio Albergo in avvenire un erudita Palestra delle vostre [p. 21 modifica]menti, e se le lettere furon parti in voi d’un’industriosa fatica non vi venga humore di dar loro entro un neghittoso otio la tomba. Non v’è il più povero d’un ricco avaro, nè il più ignorante d’un dotto torpido; ma dirò meglio. È così vergognoso perdere il posseduto, quando si trascura, com’è difficile il ritinere quel che s’hà quando non esercita. I segreti studij non così vagliono a i profitti, come l’uso d’una palese reminiscenza,6 Plus si separes, usus sive doctrina, quam citra usum doctrina valet, disse Quintiliano. Se ’l moto di ruinose guerre ci toglie hoggi il concorso d’una compotenza emula, l’otio d’una privata pace non ci negherà almeno d’un compagnevole riscuotimento la mossa; nè sarà poco a chi non può appagare i desiderij del sapere, il grattarne i pruriti. È vero che

7Tunc bene fortis equus reserando carcere currit,
          Cum quos preatereat quosque sequatur, habet:

Mà se l’esempio dell’altrui carriere non sarà sporone a’ progressi nostri, potrà ciascuno di noi conchiudere con Luciano, che 8facillimum est iuxta proverbium solum currentem vincere.

Mentre con iscambievoli ragionamenti giva Stamperme disponendo a’ [p. 22 modifica]virtuosi passatempi gli animi de’ suoi Amici, et essi co’ loro voti concordi a’ suoi profitevoli consigli accorrevano, ecco d’improviso sopravegnendo Ticleve, il filo de’ loro cominciati discorsi interruppe.

Era costui per le agitationi d’una trascorsa vita sopranomato lo scherno di fortuna. Com’huomo di versatile natura, nel biasmo de’ pravi huomini, e nella emendatione de’ buoni.

Quel Satiro parea, che in doppia banda,
     Si vantava saper con un sol fiato
     Riscaldar, raffreddar mano, e vivanda.

Seguì un tempo le Corti, per guadagnarvi; ma le fuggì poi, per non perdersi. Le stelle l’havean formato miglior Poeta, che Corteggiano: perche appena sapeva più fingere conversando in carte, che traversando in Corte: e però era solito dire, che le nature Corteggiane ammorbano, od impoveriscono. Quelle Vergini Muse, le quali il vitioso secolo, ò non ama, perche non può violarle, ò non sà honorare, perche a vergogna furono con suo decoro traportate da lui una volta alla Reggia d’un imperiale Personaggio, la cui accreditata Pietà ò tracciava miserie da soccorrere, ò meritava facondie: che lo decantassero.

9Et spes, & ratio studiorum in Caesare tantum

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Solus enim tristes hac tempestate Camoenas
Respexit, cum iam celebres, notique Poetae
Balneolum Gabijs, Romae conducere furnos
Tentarent.

Tratto al fine dal genio d’una placida speculativa ritolse alle attività cortegiane l’arbitrio: e diessi frà le contratte amicitie all’ingenuo godimento d’una privata quiete. La vera Filosofia, diceva egli, tutte le cose insegna, fuor che il viver coi Prencipi: perche ella, nel trovar l’amore della verità, vuol riposo, e libertà di vita.

Entrò con ridente viso Ticleve nelle stanze di Stamperme: & à gli Amici, che della cagione delle sue improvise letitie il richiesero, così incontinente rispose.

Vengo, Amici di Corte, ove spettatore mi trovai d’un bell’atto. La Padrona i dì passati intimò à Cavalieri più ricchi della Città, che gissero a giocar seco in Palazzo: & hoggi appunto si è appiccata la mischia. Hor è un leggiadro spettacolo, il vedere da un lato un Donatore, che vuol esser rubato dalla Volontà, per obligar la Fortuna, e dall’altro un’Avara, che vuol doni dalla Fortuna, per non haver oblighi alla Volontà. Voi già intendeste la Cifra. I denari di quei Giocatori son come gli Animali, che [p. 24 modifica]visitarono il Leone infermo, niuno ne torna indietro. Si portano borsoni pieni, mà si fanno voti, perche i voti non si fanno, che per ricever gratie. Pensar di vincere è caso da processo, il vincere è corpo del delitto. Il Giuoco è di Primiera, ma le regole son disordinate; chi non fà sempre passo, non può far passata: chi non getta al monte, stà sempre basso, e mostra molta puntualità, chi mostra pochi punti. Insomma chi non asconde le Primiere, si fa veder fra gli ultimi: e chi vince col Flusso è tenuto in quel luogo, onde i flussi hanno esito. Hor che dite di questo secoletto, Amici? Dov’è quel tempo d’Augusto, il quale si vantò in una lettera a Tiberio, di non haver maggiore, e più comoda occasione di donare, che in giuoco? Hoggi il Giuoco vale d’occasione alle Dame nostre, per giustificare i lor furti. O sæcula, ò mores!

Io ragionava poc’anzi, replicò Stamperme, dal modo da tranquillare i nostri animi nelle turbolenze belliche: e come il Boccaio, ne i rischi della Pestilenza, prese occasione da sollevar con novelle i cuori delle sue foresane: così parevami opportuno, già che a noi: — 10Arte benigna, Et meliore luto finxit praecordia Titan. Che in questi giorni estivi, ne i quali le militie, per far lavori in campagna, [p. 25 modifica]danno serie a i quartieri, con varie FRASCHERIE, ò sodi ragionamenti di lettere si ristorassero in gran parte gl’animi nostri da le militari calamità abbattuti.

Non meno de i già disposti Amici appagossi Ticleue del savio consiglio di Stamperme, e piacqueli sopra tutto l’esclusiva, che si diè in comune à passatempi di giuoco, per contraporsi ne i casi delle mestizie, non solo al costume gl’idioti Cittadini di quei tempi, mà etiandio alla natura d’un certo Prencipe Italiano, che vedendosi astretto à celebrar con le ritiratezze il lutto cagionatoli dalla morte del Padre, non seppe trovar miglior mezo, per additare alla Corte la necessità, che haveva di temperare le sue cupe doglie con qualche honesto sollevamento, che ’l trastullarsi fra i suoi confidenti al giuoco delle carte; onde poteva dirsi di lui, quel che d’un simil caso esagera Seneca. 11 Proh pudor Imperij, Principis Romani lugentis sororem Alea solacium animi fuit.

Si rinuntij il Palatino passatempo, disse Ticleue à quel Romanesco, à cui, perchè era tutto il dì assiso à giuocare, & à vincere, solevano i curiosi di Corte addattare quell’antico detto Romanus sedendo vincit. Lascisi la dottrina di queste carte, a chi và indotto delle nostre; [p. 26 modifica]e particolarmente à quei Grandi, ne’ quali il mondo non fà vitio il giuoco, nè l’adulterio, come ne’ mediocri farebbe.

12 — — — — — — — Alea turpis,
Turpe, & adulterium mediocribus,

disse il Satirico.

Il giuoco è trà le cose honeste compreso, e ben savij possono additarsi coloro, che di lui honestamente, e con fine anche d’arrischiar venture si vagliono; mà dirò bene che in esso per lo più il miglior Artefice è il peggior huomo; e di quei buoni huomini, che ne i suoi esercitij consumano indiscretamente l’hore, eccovi le praticate sciocchezze. Logorare in mistiero da giuoco il suo senno, aspettare con le saviezze d’un Arte le discrettioni d’una stolta fortuna, mercare da sè medesimo a prezzo di timori le fallacie d’una speranza, avventurare nell’incerto di frivola carta il sicuro de’ suoi tesori, rimettere à gli arbitrij d’un caso l’arte d’un arbitrio; invitare l’Avversario ai rischi, & al rischio d’un avversario invito attenersi; e finalmente per un punto in un punto impoverire, perder il tempo & in breve tempo quelle sostanze, che con longhezza di tempo s’adunano. Pur troppo è giuoco l’humana vita, senza che la vita ne i giuochi medesimi l’esperimenti. Diceva un faceto Poeta. [p. 27 modifica]

Gioco siam noi di quest’avara etade,
     Quanti provar vid’io dagli avversari
     Infrà Coppe di mensa arme di Spade,
     Et a quanti i Baston tolser Denari,
     E se ciò non vi basta, udite questo,
     Quanti pochi in buon Punto han fatto Passo,
     Quanti in mal Punto hanno perduto il Resto,
     E quantividi restarne in Asso.

Passiamo dunque in più valevoli esercitij quest’hore; già che ad altri acquisti si indrizzano le industrie nostre. A passaggi dell’erudite Carte non assiste Fortuna; nè sono ivi in arbitrio di Nume cieco i discapiti delle nostre vedute: non pugniamo noi con Avversarij mà godiamo frà concordie amichevoli, non ergiamo alle Deità, spergiuri, mà sacrificij: consumiamo in somma con vantaggio il tempo, per disporci in un tempo à quei beni, che per opera di tempo non si dileguano.

Quì replicarono i loro uniformi voti gli astanti Amici, e Stamperme sentendo, che s’eran tutti dell’anteposto partito confermati, ordinò à tre suoi Servi, i quali ne la bell’Arte del Canto sapevano così ben intonare, com’andar malamente intonati, che alcuna delle loro moderne, e più poetiche canzonette cantassero. Ponderò, che la Musica meglio di qualunque [p. 28 modifica]Arte poteva richiamar all’orecchio un animo profondato nelle mestitie; perche sollevato in tal parte, si rendesse poi più disposto al salutare ricevimento di quei discorsi, che all’Intelletto tramandansi. Assisi intanto gli Amici, posti i musicali instrumenti in assetto, indi a poco alzarono concordemente i Cantori all’armonia della seguente Canzonetta i concetti loro, e così cominciarono.

P
arte il Verno, e già fioriscono

     Colli, Prati,
     Nuovi fiati
     L’aria gelida addolciscono:
     Tributari
     De’ suoi liquidi Diamanti,
     Sciolto il piè, sen vanno à i mari
     D’un immobile Madre i Figli erranti.
     Mà, se torce il Verno il piede,
     Tosto il riede,
     Al rotar di poche Lune;
     Se di Morte armi importune
     Troncan al miser huom l’Alma, e la Pace,
     Torna polve, ombre resta, un nulla giace.
Parte April, e più non spirano
     Le fresch’aure,
     Piagge Maure
     Calda vampa al sen cospirano,
     Verde Faggio
     Secco langue à i soli estivi,
     Che nel suol chinando il raggio,

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A la sete comun furano i rivi.
     Mà se torce Aprile il piede,
     Tosto riede,
     A rotar di poche Lune;
     Se di morte armi importune
     Troncan al miser huom l’Alma, e la Pace,
     Torna polve, ombra resta, un nulla giace.
Parte il Luglio, e già s’infrondano
     Secchi arbusti,
     Prati adusti,
     Piaggie nove homai fecondano;
     Ecco abbonda
     Di bei pomi il curvo legno;
     E di prole hor nera, hor bionda
     Già la sposa de l’Olmo il seno hà pregno.
          Mà, se torce un Luglio il piede,
          Tosto riede,
          Al rotar di poche Lune;
          Se di Morte armi importune
          Troncan al miser huom l’Alma, e la Pace
          Torna polve, ombra resta, un nulla giace.
Parte Autunno, e ‘l giorno adombrano
     Nubi grevi,
     Sparge nevi
     L’erte cime a’ monti ingombrano:
     Ecco fende
     Tronchi alpini Africo fosco,
     E se il foco i tronchi accende,
     Del Verno reo vendicatore è il Bosco.
          Mà, se torce Autunno il piede,
          Tosto riede,

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     Al rotar di poche Lune;
     Se di Morte armi importune
     Troncan al miser huom l’Alma, e la Pace,
     Torna polve, ombre resta, un nulla giace.

Grata al sommo riuscì la testura di questa Canzonetta, e gli uditori, ravvisandosi in essa i motivi, tratti dal Lirico in quei versi.

13Frigora mittescunt zephyris, ver proterit æstas
     Interritura, simul
Pomifer autumnus fruges effuderit, & mox
     Bruma recurret iners.
Damna tamen celeres reparant cælestia Lunæ;
     Nos ubi decidimus,
Quo pius Æneas, quo Tullus dives, & Ancus
     Pulvis, & umbra sumus.

Quantunque l’Intercalare della Canzone paresse per le rimembranze di morte più atto à concitar mestitia, ch’à dissiparla, disse però Stamperme, che miglior cominciamento non poteva darsi a’ loro arbitrarij esercitij, che con la ponderatione d’un sì necessario fine. Goderono tutti, oltre questo, di non veder quivi imitata l’inferma maniera de’ moderni Musici, [p. 31 modifica]che non d’altra morte cantano tutt’hora nelle loro Canzoni, che di quella d’Amore. non hanno tanti occhi le scuole de’ Pittori, nè tanti ohimè gli Speciali, e quanti begli occhi, e quanti ohimè d’amorose agonie disegnano, & esalano hoggi nelle loro musicali Canzonette i Verseggiatori discepoli, e Poetastri storpiati, che servendo all’idiotismo d’una Musica, con la fanciullaggine de’ loro metri, son certi di non meritar ne’ medesimi altro nome, che d’Abbecedarij di Poesia. V’è di peggio, che le loro amorose cantilene, ò destano ne gli uditori i sopiti rimorsi di libidine, ò ne rinovano gl’irritamenti.

14— — — — Quod non excitas inguen
          Vox blanda, cantò il Satirico. Ridicolo però parmi, che Agamennone trovasse colà un Citaredo, che con un suono Dorico conservar sapesse Clitennestra in pudicitia. Se Clitennestra fusse hoggi, ò vedrebbe cangiata l’arte ne’ Musici, od in sè stessa la natura.

Erano già tornati all’attentione gli Amici, quando un Musico, come che presago fusse de loro sentimenti, prese à cantar contra Amore le facetie di questa Canzonetta.

A
Mor vattene via:

     Perche il Ciel m’hà concesso,

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     Che fuor di tè mi stia,
     Per non esser un dì fuor di mè stesso,
     Già mai non sarà vero,
     Che m’alletti il seren di due pupille,
     Naufragato Nocchiero
     Fugge l’aspetto ancor d’acque tranquille.
     Amor ferma la man, muovi il tuo piè,
     Via, via, non fai per me.
Lo sguardo rilucente
     Più non m’arde il cervello;
     Non hò più chiodi in mente,
     La tenaglia à la borsa, ò al cor martello,
     Quest’animata cera
     Al sol degl’occhi altrui più non consumo
     A la bellezza altera
     Più non porta il mio foco orma di fumo.
     Amor ferma la man, muovi il tuo piè,
     Via, via, non fai per mè.
Vinco fuggendo un volto,
     Sano fuggendo un guardo,
     A mirar non mi volto,
     Ch’à la nave d’amor remora un guardo,
     Rete di belle chiome
     L’amorosa mia fè più non allaccia,
     De la femina il nome
     Par che dica al mio cor LA FE’ MINAccia.
     Amor ferma la man, muovi il tuo piè,
     Via, via, non fai per me.

A pena havevano terminate gli Amici quelle lodi, che giudicarono alla canora Poesia convenirsi, che uno de Cantori con voce di Basso fè Pompa del seguente componimento, in persona d’Amante, il [p. 33 modifica]quale spinto da un amorosa politica, s’arrollò alla militia; mà prima di far transito all’ire della morte, volle pretendere da una Donnicciuola, ch’egli amava come sua vita, i congedi estremi.

U
N politico humore,

     Nina mia, m’hà forzato,
     A diventar Soldato.
     E questa forza in me nacque d’Amore;
     Che se la guerra, e Amore
     Son due mali gemelli,
     E se i mali novelli
     Disacerban tal’hor vecchio dolore,
     Per tua cagion gira alla terra deggio:
     Perche d’Amore al tedio,
     Ond’io meschin vaneggio,
     L’incontrar di morir solo è il rimedio.
Parto à la guerra, ò Nina,
     Corro a i rimedi ardito:
     Mà pria che feritor, parto ferito.
     Dal tuo leggiadro viso
     Sù questo fragil muro
     Minacciano ruina
     La scorreria del riso,
     Lo stral del guardo, e del parlar la mina:
     Onde, cor mio, ti giuro,
     Che fin ad hor non mi son bene accorto
     Se vò dietro à la Guerra, ò se la porto.
Mà sia, che vuol la spada
     M’hà posta à la cintura.
     Giudica tù, Ben mio, dove mi vada,
     Già che l’empia sciagura
     Vuol che un Campo guerrier sia la mia strada,

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     Tù di campar nella Città procura.
Fatti pur buone spese;
     E se in battaglia il mio valor compensa,
     Qualche ferro inhumano,
     O facendo difese,
     In Trinciera di muro io resto morto,
     Tù per vital conforto
     Potrai col ferro in mano,
     Fin che havrai provision nella Dispensa
     Far trinciare la carne à la tua mensa.
     Così da tè lontano,
     Mentre tù magni piano,
     Et io forte combatto,
     Morrò di Punta, e tù vivrai di Piatto.
Mà s’egli avvien, ch’io viva,
     O cada giù di Flegetonte a riva,
     Giuro per lo tremendo
     Spiritaccio d’Orlando,
     Ch’io t’amerò marciando,
     Ch’io t’amerò marcendo:
     E s’avverrà, che in perigliosa squadra,
     Io campi, amando tè,
     Questo mio Rè, che di servir mi quadra,
     Et hà quadrini assai,
     Sarà de’ Quadri il ,
     E tù Donna de’ Fior, Nina, sarai:
     Mentr’io per tè ne l’arme, e ne l’amore
     Sarò Fante di Picche, Asso di Core.
Già che il destino vuole,
     Che sian di tè le luci mie digiune,
     Resta in pace, ò mio Sole,
     Ecco vado à veder le meze Lune.
I tuoi focosi guardi

[p. 35 modifica]

     Son cagion, Nina mia, ch’io cangi loco,
     Parto, perche tù m’ardi,
     Non disconviene il mio camino al foco.
Così diceva un dì Drudo assoldato,
     Che da l’Idolo amato
     Al fin si distaccò,
     E nel sentir Tarapatà, marciò.
     Misero, mà che prò?
     Tosto, ch’egli hebbe il piede
     Da l’Idol suo diviso,
     Comparve in guerra, e ne rimase ucciso.
     Ahi, come ben si vede,
     Che in martial tenzone
     Ogni Amante è poltrone,
     Nel mestiero d’Amore
     Sempre si perde il core:
     Et io mi son per questo esempio accorto,
     Che in guerra ancor, chi non hà core, è morto.

Le facetie non insulse del cantato componimento allettarono non meno dell’altro l’orecchie de gli ascoltanti; mà perche diceva il Petrarca.

Stamperme diè congedo a’ Musici, come a quelli a chi poteva adattarsi quel moto del Spartano, intorno al Rusignuolo magro: Vox tu es: præterea nihil. Termini, disse all’hora l’ingenuo Ticleue, non dirò il concerto musico, perche dalle Muse hebbe nome; mà ben sì lo spettacolo de [p. 36 modifica]gli sconcertati musi di questi Artefici; Rammentiamoci, che Pallade, di cui siamo seguaci, per non vedersi in volto quella deformata enfiatura di gote, mentre sonava il flauto, lo franse. Più tosto, se dobbiamo talvolta aditarci de’ vitij, vagliamoci del suono, come far soleva16 Tiberio Graco. Questi, quando in orare sentivasi soverchiamente concitato da sdegno, voleva che un suo Servo, che dietro la Bigoncia assistevali, sonasse un istromento musico, e con esso ammolisse l’asprezze della sua vocale alterigia. Ridevasi dell’erudita facetia di Ticleue; quando Stamperme voltosi a’ circostanti Uditori, favellò loro in tal guisa.

Hor dunque, Valorosi, poiche vaghi vi veggio di dar principio a qualche ingegnoso gareggiamento, godrei, che mi scioglieste un dubbio, natomi, che hà molto, dalla ponderatione del corrente secolo; ed è.

Chi dovrebbe imitarsi hoggi ne i sentimenti dell’animo, od Heraclito, col piangere le attioni humane, come miserie, ò Democrito, col ridersi d’esse, come inettie.

Trovavasi qui Rorazalfe, soggetto per chiarezza d’Avi riguardevole, e per [p. 37 modifica]habiti acquistati, e naturali di commendabili prerogative; nè meno eloquente nel difender i Rei nel Foro, che severo nel fare esuli dal Foro della propria coscienza le colpe. Fattosi questi in gioventù Settario di quell’Elvidio Prisco Protettore appresso Tacito, impiegò l’ingegno in Filosofia, non come i più, per viver disutile sotto questo nume ampio; ma per servir la Republica sicuro da’ colpi di Fortuna. Seguitò i Mastri, che tengono esser beni le sole cose honeste, e mali le brutte. Potenze, e nobiltà, e ciò ch’è fuor del nostro animo, nè beni, nè mali.

Rorazalfe fù il primo ad esser richiesto di parere sopra il proposto quesito, come quegli, che più di qualunque altro credevasi nell’Arte declamatoria versato; onde promosso più tosto da un impulso d’ingegnoso capriccio, che da un’arbitraria elettione di Natura; espose indi a poco alla difesa d’Heraclito i suoi eloquenti motivi in tal guisa.

I
N prigioniere fasce

     Sgorga il Mortal, che nasce,
     Lagrime elette à presagir tormenti,
     E d’obortino dì piagne i momenti,
     Così ne l’Oriente,
     Perche ’l suo Dì nascente
     D’un folgor fuggitivo hà le facelle
     Co’ mesti rai di moribonde Stelle.
     Su l’aperte campagne
     In rugiadoso duol l’Alba lo piagne.

[p. 38 modifica]Il Pianto è precursore dell’humana peregrinatione. La sua cura è d’appianare, e d’additarci la via, che menar suole alla Valle delle moderne miserie l’età ventura. Egli è il primo atto dell’humanità nostra espresso da bambini con virilità, impresso dalla natura con artificio. Lagrimiamo i danni prima, che ne avvengano, acciò, che improviso non ne sopprima il dolore. Piagniamo i falli prima di commetterli, perche non paia malagevole il pentimento. Così le lagrime in noi, come pravi humori, sono inditij de’ morbi, e come atti di penitenze, son pronostico de’ misfatti futuri. Hor ecco premuta l’Asia frà i Colpi del Cielo, frà le colpe dei Grandi; e sarà huomo sì barbaro in essa, che sotto le pressure di questo torchio non distilli una lagrimosa pietà da’ suoi lumi?

Flere iubet pietas, cantò il Poeta,

I giusti Giudici non condannano chi piagne; mà chi fa piangere, come i dotti non incolpano delle tempeste i Mari, mà i venti. Chi è savio, piagne i miseri, perche piangono i mali; non piagne i mali, perche siamo lagrimati da miseri, e così non lagrima l’ingiurie della Fortuna, mà l’infirmità humana.

Gran providenza di natura. Il pianto è un humore, amassato da piaga di miserie, che spremuto mitiga delle miserie la piaga, e quando pur talvolta sia inutile il suo sfogamento, si può dir con quel Savio. [p. 39 modifica]Piango perche nulla giova. E non è lagrimevole il vedere; che sul terreno d’un volto cada così infecondo un humore, di cui habbiamo sì prodighe cagioni?

Molti furono, che mai non risero; niuno che non piangesse mai. Democrito stesso, c’hebbe, disse Persio17, sì petulante la milza nel ridere, è certo, che piangendo nacque; e se rise poi, fù ridicolo; perche il ridere dell’humane miserie è un imitare i mentecati, che i suoi obbrobrij non conoscono; è un deridere il Cielo stesso il quale, se impiaga i mortali, gode etiandio, che ne piangano; perche le lagrime de’ feriti son risi de’ feritori, e perchè il pianto è il sangue delle nostre piaghe.

Il pianto, come più malagevole è simularsi del riso, porta seco più sembianza di veritiero, più attrattiva di compatimento. Piangendo, le passioni si sfogano, le necessità s’additano, i rimedij s’avventurano. Non v’è maggior argomento di stupidezza, che il non commoversi a quei mali, in cui concorre la forza del dolor privato, e la ragione del compatimento commune.

Anche il riso s’ammanta alle volte di lagrime. Cesare perche era lieto in veder la testa di Pompeo, mascherò le vergognose letitie co’ pianti. Lo stesso fe’ anche Xerse in quel giorno, in cui mirando da [p. 40 modifica]un eminente poggio il transito della sua poderosa Armata, hebbe a dire a se stesso.

Uno stuol furibondo,
     Qual Vicario di Morte
     Te segue, ò Xerse, e par che seco porte
     Di Grecia à i danni epilogato un Mondo.
A far satollo il seno
     Di tante turbe al provido Bifolco
     Mancan spatij di glebe, e già vien meno
     A la Cerere Greca esca di solco.

Credesi però da Savij, che Xerse fatto anch’esso imitatore d’Heraclito, lacrimasse nelle sue indomite potenze la caducità humana; ponderando, che in numero d’armati, che haver parevano d’innumerabili la sembianza, nel gir d’un Secolo, non ne sarebbe per reliquia del tempo, rimasto vivo un suol huomo. Nell’esempio dunque della ferità impietosita d’un Xerse.

Ponderate, o mortali,
     Come di Morte à l’orrido pensiero,
     In un volto guerriero,
     Ove nati a fierezza arma i suoi vanti,
     Forestiera pietà celebra i pianti.

Appagati haveva, e compunti gli animi de’ suoi compagni il saggio discorso di Rorazalfe; quando ecco Stamperme si rivoltò con un piacevole ghigno ad Egideargo; come che ravvisasse nella sua lieta, e pratticata natura una ingegnosa dispositione di contraporsi con le difese del riso alle commendate lagrime di Rorazalfe. [p. 41 modifica]Era Egideargo un Cavaliero di sì placidi, & amorosi costumi, di sì ameno, e disciplinato ingegno, che da chiunque conversava seco poteva ragionevolmente appellarsi con quell’attributo di Tito: La delitia dell’human genere. Il suo amico era alieno dal nudrir rancori, dal meditar vendette; e se pur un necessario risentimento ad una di queste passioni traheva, reputava; come quell’Agricola di Tacito,18 più honorato il vendicarsi, che il portar odio. Ambiva i beni di Fortuna, per occasioni da collocar in altrui i beneficij; stimava beneficio un inchiesta da recar altrui le fortune. Era in somma una incomparabile Idea dell’Amicitia in quel secolo. Col giovare, sapeva obligar gl’ingrati; con l’amare, disciplinar i maligni; e con tutti il suo generoso animo non di fumosa, mà di chiara gloria era colmo.

Eletto al succedente Discorso Egideargo da gl’Inviti del giudicioso Stamperme, ornò i suoi avversarij sentimenti d’una scaltra, & aspettata eloquenza; e così a favellar s’espose.

È
più atto d’humanità, a mio credere, il deridere le mondane miserie, che il deplorarle. Se niuna cosa è più convenevole ad un Savio d’un grand’animo, tale non può additarsi quello, che [p. 42 modifica]dalle mestitie è debilitato, e confuso. V’è forse alcuno fra noi, che ambitioso d’apparir sensitivo; nell’altrui duello, ami d’accompagnare i communi danni con la pompa delle sue fievolezze; Et in un tempo in cui è non meno necessario il patire, che immedicabile il male, tenti di palesare le sue privationi, e di solennizare la vanità de’ suoi voti con le lagrime? Troppo infermi havremo gli occhi, se alla vista dell’altrui lippitudine piangono; e mali interpreti saremo de’ beneficij del Cielo, se querelandoci d’esso, non compensiamo la presente perdita di quanto tolse col passato godimento di quanto diede. Contra Fortuna dobbiamo ridendo mostrar le fronti intrepide, e non additar la codardia co’ singhiozzi. Non può meglio il Savio dominar le stelle che in negar di sentir offese dall’influenze, che in disprezzar ridendo i suoi colpi. Se le vere lagrime non cagiono mai senza le fisse apprensioni di chi le sgorga, chi è quello, che piangendo non s’abbandoni, e meditando solo le sue perdite, non trascuri i ripari? E non dirassi stolto colui, che dal suo hospitio bandito, ami meglio di lagrime l’esiglio, che d’ire investigando i ricovri? I voleri del Cielo, i capricci de gli huomini ne scemarono gli agi, nol nego; mà soridendo possiamo sollevarci da quei mali, che in noi dalle concepute mestitie derivano, non [p. 43 modifica]saremo di noi stessi Tiranni a disanimarci, od a negare un salutifero coraggio alle nostr’alme? E s’egli è vero, che a’ mali porta per lo più il tempo le vicissitudini del miglioramento, chi n’assicura, ch’estenuati dalle nostre arbitrarie mestitie possiamo haver agio di riveder cambiate le scene, e migliorati gli atti alla Vita? È pur meglio licentiar vivendo il dolore, che nudrirci in seno alle sue licentiose frodi, perche n’uccidano. Il tempo del piangere termina ne’ suoi stessi principij, cioè nell’età di fanciullo. Chi ne i progressi della vita il ripiglia, altro non fà che rimbambire, per invecchiar più tosto. Non v’è cosa più nemica della natura ch’un dolor lungo; poiche per esso gli attributi di natura s’abbreviano.

Heraclito non meritò il titolo d’huomo, perchè l’huomo ch’è ragionevole, hebbe di risibile il titolo. Quella cosa, ch’eccita il riso, pur ch’esso dal labro d’un mentecato non isgorgi, è per lo più in noi un giudicio dell’intelletto, che oltre il senso, che l’imaginatione commune conosce esser quella deforme, amirabile, ò dilettevole. Ciò non è dato a’ Brutti, i quali non hanno attione di ridere, perchè manca loro la potenza.

Son morbi di predominante Natura le lagrime dei fanciulli; e però Zoroastro, che nascendo rise, fè pronostico d’haver a riuscir un Mago, cioè un operante sopra [p. 44 modifica]le facultà di Natura. Mà ponderiamo i pianti dell’Età virile. Altro non son questi, che vergogna de gli spiriti humani, i quali restringendosi dentro per non farsi vedere infelici in qualche avvenuto male, mandan fuori l’acqua, che sopra la membrana del cerebro si genera da’ vapori, che non ponno esalare dalla calvaria; onde in contrario argomentando, se gli spiriti per l’accennato conoscimento s’allegrano, e per rifarsi della passata contritione, si dilatano, e ridono, sarà gloria de i medesimi nel corpo nostro, doppo haver capite le stravaganze dell’Asia, il giudicarle inettie, e ‘l dilatarsi in risate.

Il vero riso del moderno secolo è il finto; e questo può anche apparir sul volto di persona, che nasconda lo sdegno, e che ami di far piangere altrui. Tale fù quello19 d’Ulisse, appresso Homero, che voleva uccidere i Proci, ò quello di20 Giove, appresso Hesiodo, ch’era irato con Prometeo.

È nudo invero quell’animo, che palesa in aperto le sue passioni, mà non si loda questo nel corrente secolo, che non distinguendo i corpi dall’animo, chiama vergognoso chi è nudo. Anibale, quando vidde farsi molesta Fortuna al suo Imperio anhelato, per isfogare i suoi cupi [p. 45 modifica]dispetti sorrise fra lagrimose turbe; onde soggiunse il Petrarca.

E così avvien, che l’animo ciascuna
     Sua passion sotto il contrario manto
     Ricopra con la vista hor chiara, hor bruna
Però s’alcuna volta io rido, ò canto
     Facciol perche non hò se non quest’una
     Via da celare il mio angoscioso pianto.

Hor sentite, come i mondani disastri d’una ridente beffa sian degni. [p. 46 modifica]


I RIDICOLI


SATIRA.


S
Erse un giorno versò pianto ridicolo:

     Perche pensò, che in centinaio d’anni
     Si corresse di morte un gran pericolo,
Desiderij di vita assai Tiranni
     Nutria l’ingordo, imaginando, havesse
     Un corso secolar rapidi i vanni.
Oh se i morbi moderni hoggi vedesse,
     Diria ridendo. A gran ragion da’ Numi
     Per purga de gli humor Morte s’elesse.
Chi per titolo alteri hebbe i costumi,
     Hoggi l’entrate sue trova sotterra:
     Ch’una cenere al fin fine è de’ fumi.
Lutta di Morte hoggi i superbi atterra:
     Perch’à i mortal, che de l’Anteo non hanno:
     Le fortezze natie toglie una Terra.
D’un’acqua Acherontea specchio si fanno
     Vaneggianti Narcisi, e i Midi avari,
     Drudi già di ricchezze, à Pluto vanno.
Quel che vivo chiudea morti denari,
     Per traghettar là già l’onda che stagna
     Soldi non hà da vedovili Erari.
Quel corpo, che vestia serica ragna,
     Hoggi si mira ad altra ragna colto,
     E s’un Verme il coprì, l’altro lo magna.
Così per tutto opre di morte ascolto,
     Veggio ombrate chiarezze, ombre chiarite,

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     Avvallate eminenze, e regno tolto.
Santo citarsi al Tribunal di Dite
     Le perfide Alme, e ne la Curia negra
     Scriver sentenze à processate vite.
Chi dunque non havria l’anima allegra,
     Se morte al fin d’humane piaghe è impiastro,
     Se trasforma in pigmee l’arti di Flegra?
Spento fia l’egro Mondo, e influsso d’astro
     Non gli addita il morir, mà la Natura
     Perche di morte architettollo il Mastro.
Spento fia l’egro Mondo, e la fattura
     D’un momento leggier si darà vanto,
     Disfare a i prischi Secoli le mura.
La buccata del cor faccia fra tanto
     Il lagrimoso Heraclito, e congiunga
     Con cener di Cartago acqua di pianto.
Pria ch’a porto di gaudio il mesto giunga,
     Havrà da fare un pezzo, e la corrente
     De le lagrime sue molto fia lunga.
Mutin le Reggie pur sembianza, e mente,
     Si trasformino in bestie i Rè Nabuchi
     Regga scettro, e corona Orso e Serpente
Ventosità di sotterranei buchi
     Cagioni al sen de la gran Madre antica
     Paralitichi morbi, e mal caduchi.
Cadan le Torri al piano, e la formica,
     Frà le ruine altrui colonie s’erga,
     E ’l suol rivesta una spontanea ortica.
Gorgo Deucalioneo gli huomini immerga,
     E con l’humor, che ’l suo Padron non beve,

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     Il Coppier Giovial l’ale sommerga.
Una fame gravosa in messe lieve,
     Tiranneggi i mortali, e sia di state,
     Con penuria di Vin coppia di Neve.
Sian d’influssi pestiferi ammorbate
     Le Cune d’Asia; e sian da Morte al fine
     Co i parti feminil Tombe impregnate.
Non degg’io lagrimar l’altrui ruine,
     Pur che ’l Cielo da mè colpi allontani,
     Le fuggite letitie havrò vicine.
Qual di Strimonie Grù l’alate mani
     Scrivon lettre ne l’aria, all’hor che vanno
     Ad intimar pendula guerra à i Nani.
Tal sù i Campi de l’Asia à nostro danno
     S’intimin guerre, e de Campion schierati
     Tendano i Corni un honorato inganno
S’intoni ancor da gli Avversari armati
     L’horrida mischia, e le sonore Trombe,
     Il foco martial soffin coi fiati.
Fra la Sorte, e ’l coraggio il suon rimbombe
     D’alterne morti, e a le cadute schiere
     Neghin crudi Guerrier pace di tombe.
Trionfante ardimento alzi bandiere,
     E ’n città minacciata i ricchi Dari
     Temano i giorni, e i Menelai le sere.
Contro irate incursion neghi i ripari,
     Natura, e ’l Ciel provino il buono, e ’l reo,
     Fochi Senoni, e Mariani acciari.
Pugni anco un Giove, e se da Inferno Etneo
     Ergon scale sù l’Etra Alme Giganti,
     Faccian tomboli poi di Capaneo.

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Dev’io pianger per questo? ohibò, sian franti
     I Cardini del Cielo, & io sia vivo,
     Piangono gl’altri, io riderò de i pianti.
Già che un mare è la Vita, in mar nocivo,
     A che giova il sospiro? à crescer vento,
     Che vale il pianto? à dar a l’onde un rivo.
Segua norme celesti human talento,
     Sereno Ciel nega le nevi al suolo,
     Sereno cor nega le nevi al mento.
Date, prego, l’orecchie à questo solo,
     Per saper, se da l’Alma ancorche Madre,
     Esser mai può legittimato un duolo.
Venne hieri un Corriero, e cose ladre
     Contò di Lidia, il caso principale
     Fù, ch’era morto à i Poveretti il Padre.
Era morto un Signor sì liberale,
     Che la manco Virtù c’havesse adosso
     Era il crescere i letti à lo Spedale.
Facea dar per un soldo un pane grosso
     Di questa posta, anzi volea con pena,
     Che dasse il Macellar carne senz’osso,
La Giustitia abondar, come un arena
     Facea per tutto ogni cantone urbano
     Dispensava Ragione à Borsa piena.
Solea dir Vuoi Giustitia? Caccia mano,
     Ma però intendiamoci à scritture:
     E fia la tua Ragion fatta de plano.
Era colui ne le litterature,
     Chi, un Plato? ohibò, più grande, un animato
     Credenzone parea pien di scritture.
De le Muse il valor sempre hà stimato
     Al par del sangue, e sento dir ch’à queste
     Dava per ogni verso un Marchesato

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E pur s’odon di lui nuove funeste:
     E pur l’occhio di lui chiuso in oblio,
     Più vigile non hà, non hà più feste.
Dunque, perch’huomo tal cadde, e morio
     Per ragion di pietà pianger bisogna?
     Nè lagrimate voi? No, nè men io.
Egli è morto, e non piagne, & io vergogna
     Dirò, non lagrimar la sua ruina?
     Ohibò, si gratti lui, s’egli hà la rogna.
Sian mesti quei, che per goder pedina,
     Son scacchi matti, e passano con guai
     Le lor Vitelle in carne di Vacinna.
Sian mesti quei, che per amor due rai
     Non chiudon gli occhi; e con più strano fato
     Vivon corrivi, e non arrivan mai.
Malinconico sia quell’affamato,
     Che senza morbo haver fà la Dieta,
     Senza merito haver hà digiunato.
Voi che del viver lieto havete l’arti,
     E nel cervel, c’hà le lascivie escluse
     Imprimete concetti, e fate parti.
Voi, che fate stupir l’empie Meduse
     Con lo scudo di Palla, e che non siete
     Qual Pireneo svergognator di Muse.
Date gli animi vostri à l’hore liete,
     Se bramate la vita, e darà palma
     A letitia di cor corsa di Lethe,
Procelloso dolor sempre d’un’Alma
     Agita il legno, e poi lo tira al fondo;
     Che in mar di vita un’allegrezza è calma.
Se bramate d’haver tempo giocondo,
     Fate conto veder Turba di mesti,
     Mover corsa di Palio in questo Mondo.

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Fate conto, ch’un caschi, un dietro resti,
     Un passi avanti, uno in sudor si stempre;
     Chi vuol haver gusto maggior di questi
Lassi correr il Mondo, e rida sempre.

Sollevò al sommo gli animi de gli Uditori il giocondissimo componimento d’Egideargo; ma parendo a Stamperme non dover escludere dalle sue favorevoli decisioni i motivi di Rorazalfe, che haveva saputo, qual novello Simonide, favoreggiar le lagrime, decretò in sodisfattione d’ambidue, doversi con placido sentimento soffrire le calamità communi; nè commoversi per esse a diletti di riso, nè a dolori di lagrime. Il tormentarsi per gl’altrui mali è una humanità inutile; il dilettarne è un piacere inhumano.21 Tam mollis evadit, disse Platone, qui in lacrymas risu profusiore resolvitur, quam qui dolore lacrymare compellitur.

Terminata questa ingegnosa gara, varie cose si motivarono in giro, intorno alle cagioni delle correnti Guerre, & alle necessità, od a capricci de’ potenti nel suscitarle. Si fè da principio una riflessione di encomij, e di compatimento sopra gli Europei Monarchi, che contra l’uso de gli Asiatici, armando eserciti alle diffese de i loro Stati, anzi che alle rapine d’altrui si additavano non meno incorrotti [p. 52 modifica]nelle sozzure d’un pacifico lusso, che moderati nell’ambitione d’una potenza bellica. Si commendarono parimente i Grandi d’un Europeo Senato, che animati più da forza di non estorte divitie, che da soccorsi d’una pietà colleggata, contra l’ingiurie d’una poderosa barbarie, le ragioni della loro sfidata libertà gloriosamente schermivano.

D’altri Prencipi, le Chimere del cui capo empievano di mostri l’Asia, si borbottarono confusamente da i curiosi Dicitori i seguenti pensieri.

Alcun di loro, diceva Stamperme, difendeva con l’arme un popolo, con pretesto di sottrarlo da l’altrui Tirrannide; mà se gli veniva in acconcio di domar gl’offensori, di dominar gl’offesi, havrebbe anch’esso havuto il zelo di Silla, ò di quel Lupo d’Esopo, che s’offerse per guardiano del parto alla Scrofa.

In altri, soggiungeva Ticleue, il lusso tirannico haveva quasi distrutte le proprie divitie, e gli agi de’ Sudditi, e perche i Signori di questa sciatta stimano più vergognosa la povertà dell’infamia, come che la povertà vieti l’essere a’ Grandi, e l’infamia non habbia in essi Tribunale che la giudichi, v’era alcuno, che con l’avanzo di pochi armati tentava la sorpresa di mura non custodite. La necessità, ch’è un gran patrocinio delle miserie humane, spezza ogni ritegno di legge; e come [p. 53 modifica]diceva Filopemene22, à chi vuol lassare la robba d’altri, fà mistieri haver del suo.

Alcun’altro bisbigliava Egideargo, non contento delle naturali fortune, guerreggiava per cupidigia di potenze nuove. I desiderij son come i Numeri, ne’ quali all’uno succede l’altro. Con l’esempio della nascente ingordigia d’Alessandro credevasi, esser miseria ne’ Grandi haver molto da bramare, nè ponderavasi esser più miserabile, haver cagione di temer molto, mentr’è più facile ad un povero fuggir il disprezzo, ch’ad un ricco l’invidia:

V’era alcuno, rammentava Rorazalfe, che accendevasi a’ martiali sdegni col vicino, per vendetta di ricevute offese, e forse anche per bestiali occasioni, come fu la guerra frà gl’Etoli, e gl’Arcadi, ò frà i Rutuli, e Latini. I Prencipi23, disse Euripide, non cangiano con facilità gli sdegni. Ritengono costantemente il primo impeto, per non parer concitati senza cagione. Era però curioso il vedere, chi per vendicarsi d’una lieve ingiuria, poneva a ripentaglio il suo Stato. Grandi sono alle volte come i fanciulli, che se di molte noci c’hanno in seno, una ne vien loro tolta, per isdegno, ne dispergono tutte l’altre. Non vogliono il tutto, quando si nega loro una parte. [p. 54 modifica]

Si ponderò in commune il fasto di qualche Potente, che tratto da ambitioso prurito di Gloria, univa armate, e dissipava leggi. Esortavalo l’ambitione ad esercitar più tosto le pene d’un ferro, che a vivere trà le colpe d’un otio. La vita humana, dicevano i Consiglieri Catoni, al ferro è simile. Si esercita, si logora con suo splendore: se vive torpida, si consuma da rugine. Brama l’huomo talvolta le glorie della calamità; perche il male è spesso più noto del bene; & una cruda tempesta è più famosa d’una serenità tranquilla. Pur che apparecchi i titoli al suo cadavero, & al vulgo una favola, non cura, che l’impeto d’un cuore si diffonda in più mali.

Con riso della Brigata tutta motteggiavasi, che alcun altro non havendo regola di Governo, faceva i Latini per li Passivi, perche non sapeva mantenersi frà i Neutri, ch’altri vendeva le sue adherenze per tema, altri vendevali per bisogno, ch’altri rivoltava casacca; perche dal lato apparente era frusta; & in questa poi, come incapace di rivolta nuova, riceveva il politico con sua vergogna inemendabili rotte dal tempo.

Molte riflessioni si fecero confusamente intorno alla meritata grandezza, & alla seditiosa potenza de’ Ministri, fra i quali alcuno, quasi ramo, s’inalzava drittamente sul Tronco; & altri, che di traverso si scorgeva carco di molti frutti, con [p. 55 modifica]danno del Tronco medesimo frangevasi. Le disuguaglianze loro rendevano mostruosi i membri di qualche Imperio, nella guisa, che in un corpo all’hora nasce il mostro; quando un membro trascende in grandezza la proportione dovutali. Parevano però da più parti rinovati gli esempi di Cecina, e di Valente24 Ministri di Vitellio, ambo potenti, ambo emuli, ambo rapaci, ambo ruinosi25. Il comodo privato, il consiglio de’ Giovani, e l’odio nascosto fè perder l’Imperio Romano.

Chi si faceva arbitro di qualche Regno, additava, che nel Monarca non regnasse l’arbitrio. Il Ministro vegghiava sul Rè, mentre il Rè dormiva sul Ministro. Il Rè faceva lume al ministro, perchè studiasse la sua causa, e questi dava la mano al Rè, perchè scrivesse la sentenza.

Nel ponderar le gravezze, si motteggiò che assai meglio odorasse l’oro, tratto da Vespasiano dall’orina, di quello ch’estorse Nerone dalle lagrime de’ Vassalli. S’attestò, che alcun Ufficiale imitasse26 Temistocle, il quale volendo riscuoter denari in Andro, disse d’haver menati due Dei, la Forza, e la Persuasione: e poco valeva a’ Sudditi il rispondere d’haver due altre Dee, la Povertà, e l’Impossibilità. Almeno già che riscuotevansi doppiamente i tributi, havessero havuto arbitrio [p. 56 modifica]i Magnati, di far venir due volte l’anno la State, e l’Autunno, come disse l’Hibrea à Marcantonio. Mà il fatto era, che alcuni non esigevano per lo Rè le Gabelle, che erano loro pagate, mà pagavano al Re le gabelle di quel ch’esigevano per essi.

Si narrò in ristretto, che da una parte un popolo teneva Consiglio, per tradir un Rè, dall’altra un Rè faceva consulte, per aggravar un Popolo.

Là era un seme di sepolta discordia, non facile a conoscersi; qui un germoglio di cresciuta congiura, difficile à sbarbicarsi. Le seditioni intestine, che per lo più, ò dal bisogno, per tirannia cagionato, ò dal tedio delle presenti cose derivano, sono appunto come la febbre ethica, che nel principio è difficile à conoscersi, facile à curarsi: ma se si trascura, col tempo si fà difficile à curarsi, facile a conoscersi.

Là vedevasi un pedestre popolo far testa contra le braccia lunghe de’ Nobili, qui le braccia dei Nobili haver cuore di porsi a i piedi una Regia testa.

Là udivasi una Follia tiranneggiar un Rè, per dar inditio di senno; qui pareva, un Rè aspettar il senno, per disciplinar la Follia.

Là tentò una imperiosa Fortuna d’elevare a premio di comando l’industrie di chi obediva; quì osò una servile invidia dannare à pena d’Ostracismo il merito di chi imperava.

[p. 57 modifica]E perche27 in Civitate discordi, & ob crebras Principum mutationes inter libertatem, ac licentiam incerta parva quoque res magnis motibus agebatur, vedevasi una Natione, hor penosa di vivere in libertà da ribellarsi, hor in atto di tentar ribellioni per esser libera; mentre la stessa volubile ne’ consigli, impetuosa nelle risolutioni, falsa ne’ giuditij, facendo peggiori i rimedij de’ mali, pareva peccare, per pentirsi, e pentirsi per peccar di nuovo.

Esageravansi finalmente il pazzo abuso del secolo, in render gratie al Cielo delle stragi, fatte non de’ nemici di Dio, ma de gli huomini: mentre i Monarchi Asiatici dando titolo di predatore ad un Giove, sacrificavangli una portione de’ furti, come de ciechi Romani era l’uso.

28— — — — — Ipsumque vocamus
— — — — — In predam partemque Iovem. cantò il Poeta. Motteggia29 Tacito di Ga. Pisone, che all’udita della morte di Germanico ammazza vittime, e corre a’ Tempij, e detestando l’Historico i tempi di Nerone, ne’ quali si rendevan gratie al Cielo de gl’homicidij, si maraviglia, che i sacrificij, soliti a farsi anticamente per prosperità ricevute, s’offrissero all’hora per diletto di calamità lagrimevoli.

Si conchiude, che il maggior disordine per cui l’Asia era inferma, s’originava da [p. 58 modifica]Capi, in quali non alla Fama, ch’esser deve l’interesse de’ Grandi, mà all’interesse per cui tentano la Fama i Privati, con somma cura attendevano; e pur si sa, disse30 Tiberio a Seiano: caeteris mortalibus in eo stare consilia, quod sibi conducere putent: Principum diversam esse sortem, quibus praecipua rerum ad Famam dirigenda.

E perche i corpi muoiono, ò per interne indispositioni di qualità homogenee, ò per estrinseche cagioni di sregolata vita, credevasi da alcuno, esser l’Asia ad un mortifero rischio vicina; mentr’è destino d’ogni Città, diceva Anibale31, se non le nascono inimici fuor di casa, produrli di dentro.

Si decretò in somma, tutti i Regni haver gli Orti, i Meriggi, e gl’Occasi: e’32 periodi d’ogni Imperio esser fatali, come disse Cratippo a Pompeo.

33Platone organizò con la sua Idea una ben ordinata Republica: e pur non seppe assicurarla dalle alterationi, e dal fine, conchiudendo: quod nihil in statu maneat; sed ambitu quoddam temporis mutaretur.

Mà perche ne gli estremi discorsi motivò Stanperme, che le corruttioni de’ Regni nascevano per lo più da’ Grandi, come che i pesci dal Capo a putrefar comincino, recitò a gli Amici una morale Oda a Capi de gli Eserciti Asiatici, in questo tenore. [p. 59 modifica]


T
Antalo infido entro i martiri inferni

     Move a cibo fugace orma di fame:
     E al grave duol di flagellate brame
     Negan dolce momento Arbitri eterni.
E voi, cui diede il Ciel gioia di pace,
     Gite penando in bellica baldanza
     E pascendo co’ rischi una speranza,
     Pescate à l’hamo d’oro esca rapace.
Chiedon pace le stelle, e par che crei,
     Per punir gli uccisor fulmini un Giove:
     E voi superbi entro fulminee prove
     Fate nuovi Salmonei onta à gli Dei.
Forse al cadaver d’Avversario esangue
     Erger credete a vostra Fama i vanni:
     Folle ardir vi lusinga, a gli altrui danni
     Le potenze infierir, gloria è d’un Angue.
Già del Foro venal sopra la selce
     Stride Penuria à l’affamate schiere,
     Mentre i covil di fuggitive Fere
     Sopra i campi negletti erge una felce.

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Già, già di Morte a l’orrida licenza
     Mesto rinuncia il Mietitor la falce;
     Mentre, di Spica il suol voto, e di tralce,
     Fertile appar d’una Cadmea semenza.
Scoppino pur, qual pria, Nubi tonanti
     L’armi del giel, nudo Cultor non pave,
     Manca al Nume la messe, e più non have
     La riverita Enea l’are fumanti.
De le provide glebe à la coltura,
     Gli empi Cacchi di Marte i Tauri ha tolti
     E in van d’intorno i desti lumi hà volti
     Contro stuol Briareo d’Argeo la cura.
D’ingorda man miseri avanzi estremi
     Restan le marre à queruli Bifolchi.
     Anzi immoti Cadaveri de’ Solchi
     Giaccion gli Aratri, ov’hebber tomba i semi.
Gli heredi altier di terren culti, e vasti,
     Nutre i confin di bassa Valle angusta;
     E chi l’origin trahe d’Arbor vetusta.
     In rozza Casa humiliati hà i fasti.
Quel ch’affisso in quadriga, e d’auro grave
     Parv’il Sol ch’in suo carro esca dal lido
     Hor sembra nudo il Giovane d’Abido,
     Ch’à sè medesmo è rematore, e nave.
Misero honor degli Avi, Aure di Corte,
     Indarno homai fasto di sangue attende,
     Ch’ove Fortuna prospera non spende,
     Lo splendor de’ Natali ombra è di morte.
Già de’ vostri Guerrier gli empi appetiti,
     A i casti seni altrui tendon rapina;
     Nè più raccoglie homai l’aurea Lucina
     Prole simile à i Genitor mariti,

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E se indarno tentò l’egra Consorte,
     Contra l’armi di Sesto, oprar gli schermi
     In van trà i ferri hoggi le Spose inermi
     D’un inferma honestà fuggon la morte.
S’à fuga Martial chiusi ripari
     Tesser di Fabro adamantini ordigni,
     Temprano à Marte homai Fabri maligni
     Per assalir le Veneri, gli acciari.
Oh, di legge natia nato al disprezzo,
     Temerario piacer di Marte insano,
     Movi à prede d’Amor forza di mano;
     Mentre à merce d’Amor, Amor è prezzo.
M’udiste, ò Duci, à l’Innocenze offese,
     Son le colpe di voi sferze d’Aiaci.
     Folli, ove gite? Ah che le vie rapaci
     Sono à meta d’Honor rupi scoscese.
Ah, se ’l dolor d’un popolo caduto
     Pietà non v’erge, il vostro mal la mova,
     Erme son le Cittadi, e che vi giova
     Votarvi un Regno, e riempirlo a Pluto?
Habbiate pur sù trionfali Sogli
     D’una Delia corona i crin recinti,
     A vostra man che i Vincitor hà vinti,
     S’offra il ramo di Cuma, e vi germogli.
Pugni in prò di vostr’ire arte di Stelle,
     Ampio il Regno a voi fia quanto circonda
     Fra il sen d’Arabia, ò d’Anian la sponda,
     Fra l’Indica Malacca, e i flutti d’Helle.
D’Alcide i fini, e di Lieo le mete
     Varcar faccia vostr’arme amico Cielo
     Scithia, temendo voi, tremi di gelo,
     Libia, bramando voi, ferva di sete.

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Miseri, e che fia poi? di spatio molto
    Crescerete à Fortuna il vostro Regno,
     È cieca sì, mà vanno i dardi al segno,
     E gran bersaglio anco da ciechi è colto.



Quì terminò il suo nobile componimento Stamperme, al cui merito si bisbigliarono tosto encomij da gli Amici, come ad Ingegno, che nella moral Poesia godeva in quel tempo il Candidato della Gloria. Ticleue in tanto irritato dalla bellicosa Idea di Stamperme a più impatiente furore, trasse fuori una Satira contra le Guerre d’Asia, composta già da lui in Europa, in casa del generoso Egideargo in cui vantavasi di haver sempre havuto alle sue naufraghe forme, ò il porto, ò la merce: e dando saggio con la lettura di questa Satira di un nuovo, mà regolato stile in tal genere, così a dire incominciò. [p. 63 modifica]

LA


GUERRA.


SATIRA.


T
Utt’Arme è il Mondo, Arma virumque cano,

     Le Donne, i Cavalier, l’Arme e gl’Amori,
     Canto l’Arme pietose e ’l Capitano.
Ogn’un s’odia, ogn’un s’arma, ogn’un và fuori:
     E indarno à i Campi il buon Caton rimbomba,
     Torna, torna poltron, fuggi i rumori.
Suona à morir più ch’à svegliar la Tromba
     E al soldo di Pluton spirti arrollati
     Mandan le salme à quartierarsi in tomba.
Son di barbara bile hoggi amalati
     I Regij petti e de la bile i mali
     Son hoggi da’ Re barbari purgati.
Agl’infiammati cor sangui venali
     Ordina il Fato in bellica licenza,
     E à pienezza d’humor purghe borsali
Già de’ lussi nativi in astinenza
     Vivono i Grandi, e de gl’altrui metalli
     Provan gl’egri svogliati un appetenza.
Quì deliran le Corti; e perche i falli
     Del pazzo Aiace addolorar l’ovile,
     Son le Reggie follie doglie a i Vassalli.

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Tutt’Arme è il Mondo, il Fantaccin più vile
     Col famelico sdegno, e mercenario
     Vuol far de’ Regni una frittata hostile.
Anco il Sol, che ne crea, par sanguinario:
     Poiche fatto sensal d’Alme à Caronte,
     Tutto l’anno si trova in Sagittario.
Nudo stuolo colà sul Thermedonte
     Sviscera il ferro; e à fabricarne i dardi,
     Sudano à gara, e Piracmone, e Bronte.
Tutt’Arme è il Mondo, à incoraggiar codardi
     Sudan le Muse, e de la gloria insana
     Un prurito febril stimola i dardi.
Ogn’un vuol Brigliador, vuol Durindana,
     E segue ogn’un ne l’attaccar tenzoni
     L’esempio altier de l’Albagia Romana
E pur furo i Roman grandi, e poltroni,
     Se la guerra di Canne uccise tanti,
     Considerate s’era di Bastoni.
Tutt’Arme è il Mondo. Il Mar legni hà notanti,
     Che se in bosco natio vissero immoti,
     Mostran morti sù l’onde i piè vaganti.
Questi à Navale Enio passan remoti,
     E di sopita, e tacita tempesta
     I sonni forestier turba co i moti.
Non fan classe avversarie orma men presta
     Col piè de i remi, onde inalzar fà spume
     Di flutti adulterati onda modesta.
Già la schiera di Phorco, e ’l patrio Nume
     Stanno a mirar sù placida marina,
     Qual foco estingua à tante vite il lume.
Tutt’Arme è il Mondo, à fabricar ruina
     Contra il patricio stuolo armasi il Gracco
     E la man contra i Capi ardon la mina.

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A stuol plebeo, che per gravezza è fiacco,
     Negan pane i Ministri: ond’ei ribello
     Dona à i ladron de la farina il sacco.
Così doppia le straggi un sol macello,
     Che ’l sangue altier di scorticato Gregge
     Mostra contra i Pastor core, e cervello
Fassi intanto lo scettro à chi lo regge,
     Sferza più, che sostegno, e più non s’ode
     Fra i rumor de’ Tamburi un son di lege
E pur dansi hoggidì glorie à la frode:
     E al nudo sen d’iniquità diverse
     Forman le penne altrui manto di lode.
Canta il Poeta ogn’hor l’arme di Serse,
     Che tinse in rosso mar di Salamina,
     E ’l mascherò sotto le navi Perse.
Che un varco aprì ne la durezza alpina,
     E per passar sù la Cecropia Terra
     Erse oltraggio di ponti a la marina.
Canta quel, che Giugurta, e’ Cimbri atterra,
     Quel che corse da Pella à l’Indiano
     Per trionfar, più che portar la guerra.
Canta quel lusco ancor de l’Africano,
     Che fe ne l’aria sua tanti castelli,
     Ne capì da l’Egitto al Mauritano.
Canta ch’à i Pirenei ruppe i cancelli,
     E dove tien la nostra Europa Occaso
     Un Orto soggiogò di Ravanelli.
Canta che per valor, più chè per caso
     Diè di morso à l’Italia, e mangiò poco,
     Ch’anco non dasse il Culiseo di naso.
Canta chi diede à l’Anti Roma il foco,
     Quel che sprezzò de l’Epirota i doni,
     E ’l nemico a Roman magno Antioco.

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Canta color, che pisciano à i Cantoni,
     E ’l ferro, uso à far solchi, à franger glebe,
     Cangiamo in Scimitarre, e ‘n Morioni.
Canta de’ Gothi, e Vandali la plebe,
     Gli Umbri, i Volsci, i Sabin, gli Hetrusci, e’ Marsi,
     E Cartago, et Athene, e Sparta, e Thebe.
Contra popoli immensi, e popolarsi
     Canta il Valor di Vinitiane Armate,
     Per cui la Rinomea voli n’hà sparsi.
Canta colui, che da febril giornate
     Sanò i Roman, quando il suo dito intinse
     Dentro il rotto Vascel di Mitridate,
Quel, che ’n malinconie Perseo costrinse,
     Quel che i Sanniti in collera hà distrutti
     Quel, ch’à flemme Romane Africa vinse.
Canta colui che fece dar da i Putti
     Un buon cavallo à l’Asino pedante,
     E Horatio sol contra i Pi... tutti,
M’han rotto il capo hormai tant’arme, e tante
     De la Schiatta Febea voci sonore,
     Le cui piene Trombette alzano un Fante
Hanno lingua i Poeti, e non han core,
     Core non han, da far morir chi vive,
     Vita non han da ravvivar chi more.
Chiaman Palla una Dea grata à chi scrive,
     E rimirano poi con guardo bieco
     Le Palle de i Cannon, come nocive.
Nel periglio guerrier Serse fù cieco,
     Che s’asciugar tante sue Turbe i fiumi
     Godè ne l’acque, e gli fè danno il Greco.
E quai del gran Pelleo furo i costumi?
     Mancò nel mezo un ch’anhelava il tutto
     E fu mortal, chi si ponea frà i Numi.

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Qual de le guerre sue Cesare hà il frutto?
     Che prima un huom, e poi fù Dio chiamato
     Da un Bruto; ò un brutto termin’è condutto.
Che fa Pompeo, quell’inclito Soldato?
     In mano al fin del Traditor rimane
     Mal capitato, e ben decapitato.
Che n’è di Mario? Entro palustre tane
     Di Minturnia palude, ove hà paura,
     Trombe de’ suoi disnor stridon le rane.
Mesto fin finalmente hà la bravura,
     Chi la dura à la corte è vincitore:
     Mà ne la guerra al fin perde chi dura.
Quel, che insegna à temer sol col rigore
     D’Arme Tiranne i tradimenti insegna;
     Che d’ossequio infedel, Mastro è ’l timore.
Quel che visse homicida in van si sdegna
     S’ucciso muore. Hoggi l’instabil Diva
     Fà vicende servili anco in chi regna.
E pur s’armano i Mari, e pur l’Argiva,
     Benche ’n flutti d’Euboa Nave sdruscita
     Gli urti arrischiar vuol di Capharea riva.
E pur s’armano i Campi, e la crinita
     Discordia i dubbi Regni, agita, e turba
     E l’altrui Morte à i Regi arme è di Vita.
Sotto il manto d’Astrea copron la furba
     Collera i Grandi anzi col voto solo
     D’un Feccial capriccio arman la Turba.
Ne’ manifesti lor piangono il duolo
     Delle fiamme attaccate, e pur son tutti,
     O l’acciaio, ò la pietra, ò ’l solfaiolo.
L’haver più Stati in sua balia ridutti,
     Chiaman novi Nembrotti, arie da caccia,
     E private letitie i comun lutti.

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Hoggi il Mondo è comun, di Fera hà faccia
     Ogn’un è Cacciator di sua ruina,
     O con rete, ò con ferro; ò con la traccia.
S’empia d’oro la cassa, e sia rapina:
     Ogn’un cerca se n’hai, mà non già donde,
     Buon odore è il guadagno, e sia d’orina.
Così al Tiranno il reo pensier risponde,
     E intanto il furto altrui più che Spartano
     Perchè lecito sia, non si nasconde.
Fà guerra hoggi a ragion forza di mano,
     Pur che in Erario AURelian sia vivo,
     Moia ne’ Tribunali GIUSTiniano.
Morbò de’ Regni un dominar furtivo,
     Fine del Greco fù, Sete d’Imperio,
     Fallo fù del Latino, un Ablativo.
L’human desio, per dirvela sul serio,
     Sempre il Mondo sconvolse; e non sapete,
     Quanto nocque à l’Italia un desiderio?
Formar leggi infernal, guastar divine,
     Son de l’horrida Guerra atti leggiadri
     E son fabriche sue l’altrui ruine,
Oh quanti, oh quanti in frà i coscritti Padri
     Tentar con l’armi altrui farsi Padroni,
     E del Trono Roman diventar Ladri!
Dimmi Cesare tù, per quai cagioni
     La libertà che in tanti membri havesti,
     Nel tuo capo Tirannico riponi?
E in guerra tu Vespasian che festi?
     Quando in pelle di Volpe, e di Leone
     Al porco d’un Vitel guerra movesti.
Tù, che armato ti specchi, al tuo ladrone
     Valor, perche non guardi? Haver ti vanti
     L’oro col ferro, e pur nascesti Ottone.

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Ladri de’ Regni altrui fur tutti quanti,
     Ladri fur gli stranier, ladri i Romani,
     Ladri fur Capitan, ladri fur Fanti.
E se furano in guerra i Capitani,
     Che faran gli altri in guerra capitati?
     Se fura il Capo, hor che faran le mani?
Sono al Capo regal mano i Soldati,
     Sono à l’Inferno altrui spirti infelici,
     Sempre nati à dannar sempre dannati.
Rassomigliano il Gatto, il qual nemici
     Topi combatte, e in caso d’appetito,
     Più de’ Topi ladron, ruba à gl’Amici.
Oh numa tù, che intento al sacro rito,
     Mai per rubar, nè per pugnar con l’Hoste
     Da l’Hostia d’un Altar non sei partito.
Mira, com’hoggi à soggiogar disposte
     Son le destre de l’Asia, e ne l’inganno
     Le saluti, e le leggi altri hà riposte.
O Terzi, ò Compagnie pagansi ogn’anno,
     Perche continue a noi sian le Terzane,
     Perche frà noi la compagnia sia danno.
Voglion d’Asia i Padron, che si dia pane
     A chi squarta le carne, hoggi chi regna
     Senza pelle intaccar, non tosa lane.
Con la scusa de l’armi hoggi s’assegna
     Al Vassallo pacifico una tassa,
     Mà ch’ella gabba, una Gabella insegna.
Per dar nervo a la Guerra, hoggi si lassa
     Smagrato affatto il popolo di un sangue
     Che i lombi poi di porca Pace ingrassa.
Così contempla il Tributario, esangue
     Ricchi i Ministri, e ’l popolo tradito,
     Un nemico, che ride, un Rè, che langue.

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O buon secolo d’oro, ove sei gito?
     Le tue colpe, i tuoi colpi eran di ciancie,
     Marte stava prigion per Fuoruscito.
Reggeva Astrea con le due man Bilance,
     Spada ancor non s’udia, nè Capitano,
     Eran tele di ragno infrà le lance.
La Bottega di Lenno havea Vulcano
     Sempre rinchiusa, e non leggeasi in carte,
     Ch’aprisse uscio di guerra il vecchio Giano.
De le fortune altrui godea la parte
     Senza risse il vicin, nè parea nato
     A dar martiri, à far Martini un Marte.
Dormia sotto un sol tetto un vicinato,
     I Conti e i Contadini eran Cognati;
     E in tutti apria spirti conformi un fiato.
Cauta Sobrietà tendea gli aguati
     A chiusi morbi, e in faccia à Galateo
     Facean da Trombe, e da Bombarde i flati.
Nessun fea da Procuste, ò da Tifeo,
     E s’usciva una brusca parolina,
     Era il cenno d’un guardo un Caduceo.
La pace era una Serva, ella in cantina
     Spillava i vasi, e fea le celle nette
     Con la scopa d’olive ogni mattina.
Il capo non rompean tante Trombette,
     Il braccio non movean tanti tamburi,
     Il cor non accendean tante vendette.
Non si fea porta, ò chiave à gli habituri,
     Meze Lune havea ’l Cielo, e non la Terra
     Le Fortezze eran d’alme, e non di muri.
Non reggea Pluto ancor Regni sotterra,
     E non patia di terren pondo scarca
     Ripresaglie di furie, anima ch’erra:

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Forbici sfacendate havea la Parca,
     Nè traheva Caronte alle sue rive
     Reggimenti di spirti in sù la barca.
Processi non facea d’opre furtive
     Eaco sù i Reggi, onde vestia l’Inferno
     Senza i lavor penosi ombre festive.
Altra natura hà il secolo moderno,
     Sol frà l’ire del ferro è l’amor d’oro,
     Sol di sangue là giù nero è il quinterno.
Sol co’ furti sostiensi hoggi il decoro,
     Che meglio è il dir, de l’altrui robba io vivo
     Che ’l dir altrui, senza mia robba io moro.
Vanti pur con beltà sangue atrattivo
     Frine trà i Greci suoi, d’oro il sembiante
     Più di Frine hoggidì volto hà lascivo.
Di man d’ingegno education cotante,
     Dal nascer del Bigatto al far calzette
     Non posa mai l’Italian Mercante.
Quanti in vivande, in habiti, in ricette;
     Perch’habbia il figlio suo scola di culto
     Scolamenti di borsa un Padre mette.
E pur l’affretta al tumulo un tumulto;
     E per belliche vie movendo l’orma,
     Stima la sera il suo meriggio adulto.
Porge al Fanciullo il Precettor la norma
     Per trarlo da le man d’un Ignoranza,
     Che prima del saper l’Anime informa.
Mà in pochissimi dì torna à vacanza;
     Che ’l voto Padre suo pensa che sia
     L’empir la testa, un crapular di panza.
Son le lettere in noi Pedanteria,
     Beffe di Corte, e morbo de le menti,
     Fatiche da poltron, mal di pazzia.

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Un’huomo Elementar sol gli Elementi
     Basta che sappia, e perche stia fondato
     Bastan sol de le Scole i fondamenti.
Sì dice il Padre; e ’l figlio sregolato,
     De le regole altrui lascia il precetto,
     E col furto guerrier cangia il Donato
Hor brando impugna, hor s’impugnala il petto
     Hor dà colpi à credenza, hor li riscote,
     Guerriero in sestodecimo ristretto.
Al fin move à la Guerra armi idiote,
     Più atto à rivoltar spalle a l’...
     Ch’al nemico Guerrier mostrar le gote.
Là nel vitio rapace, & impudico
     S’ammaestra il Garzon, finche flagella
     Un colpo nuovo il suo col pare antico.
La guerra è un’arte, in cui la vita ancella.
     Stassi in lezzo de’ vitij, e ’n cui si desta
     Più sentina di mal, che sentinella.
Ecco in carriera Anibale s’arresta
     Sù le Campane vie tanto è sfrenato,
     Che in terra di lavor sonangli a festa
Trà i fomenti di Bacco effeminato,
     A Roma, che ’l desia, l’ebro non passa,
     E l’opre d’una man vince un palato.
Seco si stringa un Marcantonio a lassa,
     Che per tracciar Madonna Cleopatra
     La Signora Vittoria à dietro lassa.
A la Lupa di Roma il reo non latra,
     Perche corre d’Amor dietro una Troia
     E pria, che Vincitor, fassi idolatra.
Fonda le gioie sue dentro una foia,
     E pur mentre bevea, vide il lascivo,
     Ch’altro non è, ch’un sol boccon la Gioia.

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Per non parer ne l’ammazzar cattivo
     Vuol far veder, ch’a generar è buono,
     E che gradi di bene hoggi ha Gradivo.
Già fu cagion un bellicoso tuono
     Il ratto di bellezza fulminante,
     Hoggi effetti di guerra irati sono.
.          .          .          .          .
     Fa scolare i Bicchier, Bacco a la sete,
     E di doppio Scolar Marte è il Pedante
Voi, che d’ira venal l’Alma accendete,
     E con la man che doppio sangue fura,
     Per dar le piaghe altrui piaghe volete
Voi ch’osate atterrar de la Natura
     Vostra il vigor, per rinforzar con Arte
     Di posticcio Padron l’armi, e le mura.
Voi ch’ad altri acquistate, e havete parte
     Ne l’altrui danno, e di sembianti ignoti
     Fate uccisor, pria che nemico un Marte.
Dite infelici voi, dite idioti,
     Perch’amate un rigor? perche vi piace
     Da i Penati a penar torcere i moti?
Quando parte a la Guerra un huom audace
     Non credo già, che la sua Madre dica,
     Hor sì Figliuolo mio vattene in pace.
Ma dirà bene. Il Ciel ti benedica,
     E vuoi lasciar questa tua Madre nuova
     Per gir nel sen de la tua Madre antica?
Hoggi Hippolito alcun non si rinova:
     E a ravvivar quel che di vita è casso,
     Altro vi vuol Fratel, che chiara d’ova
Movea l’Asino un dì mesto il suo passo
     Portando invidia à un bel Destrier robusto
     Ch’a l’occhio del Padron si facea grasso

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Ma visto poi d’arme il Cavallo onusto,
     Ch’à suon di trombe infra il Canon marciava
     Sonò il Trombon, sparò il Canon di gusto.
O son pur io, dicea, viso di fava,
     Hoggi han fortuna gli Asini par miei;
     Et io sciocco Asinon mi lamentava.
Dir sanità l’Asinità potrei,
     Non vuò à morir, perch’Asino son nato
     E se v’andassi, Arcasino sarei.
A Guerre andrò quando non hò più fiato:
     Che de la pelle mia fatto un Tamburo,
     Darò morto poltron core al Soldato.
Meglio, Amici, è il campar ne l’habituro,
     Che habitar campi, i cori human consola
     Non la norma Pelea, mà d’Epicuro.
L’otio è Maestro del mal, la Pace è scola,
     Ove imparano ogn’or le Turbe tenere
     Il mal de la Lussuria, e de la Gola.
Meglio è Marte seguir, che star con Venere,
     È valor ne la Guerra incenerire,
     È viltà ne la Pace il covar cenere.
Le fortune à i meschin porta un ardire,
     Le fortezze ne i cor crea la sciagura,
     È dei nostri dolor gloria il soffrire.
Cede a Forza Ragione. Una bravura
     Regge il Mondo, e coregge, e ’n lui si gloria
     Non gir soggetta l’ordin di Natura.
Hoggi in battaglia è un’opra meritoria,
     Tolto honor, tolta vita, e Regno tolto
     Quel ch’in pace è vergogna, in guerra è gloria.

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Cercar venture al vento opra è da stolto
     Di Marte al Venturier spesso il Destino
     Dà col poco patire un goder molto.
Anzi questo è un pensier da Palladino,
     Campar la vita, ove la Morte accampa,
     E una botta arrischiar per un bottino.
Queste ragion ne la sua mente stampa,
     Chi trà fere d’Esopo hà d’huom la lingua
     Chi fatti hà di Leon, se non hà zampa.
Ma pria che voi fiamma del Cielo estingua
     Bravi Tifei, deh non vi sia di sdegno,
     Che contra voi le mie ragion distingua.
Per la Fe’, per la Patria, e per lo Regno
     Son l’ire honeste, e voi mostrate ardire
     Per una paga ohibò, vender lo sdegno.
Nè sarebbe vergogna il vender l’ire,
     Per comprare alla vita un’allegrezza;
     Ma voi per soldi, ohibò, gite à morire.
Soffrir caso di morte è gran fortezza;
     Mà il tracciar lei fuor de la patria tana
     Al giudicio de’ Savi è debolezza.
Colui che tien frà la delitia urbana
     Incrustati i suoi giorni, e muore poi,
     Degno esser può di compassione humana
Ma di che lode siete degni voi,
     Che v’offrite à un morire, il qual vi leva
     Dal viver aspro, e dal peccare in noi?
Nè state a dir, che il vostro honor riceva
     Da caduta di membri una salita,
     Quasi Pallon, cui l’atterrar solleva.
Perche il voler con perdita di vita
     Perder senno maturo; ò etade acerba,
     Sol per haver Resurrettion mentita.

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Seppellirsi morendo in tomba d’herba,
     E sperar poi di quella Diva i ratti,
     Che trahe l’huom dal sepolcro, e in vita il serba.
Morti immortali miei cosa è da matti,
     Provaste Inferno, et anhelate a gloria
     Sperate un nome, e disperaste i fatti.
Sapete voi quel che dirà l’Historia?
     Ch’osaste haver la Volontà cattiva,
     Sol per farvi chiamar, Buona Memoria.
Chi può viver in pace, in pace viva,
     Non fa torbido inchiostro i nomi chiari
     Con l’altrui pena in Ciel mai non s’arriva.
La Guerra al Gioco de le Carte è pari:
     Dove si perde, e vincesi tal volta,
     Dove assistono Rè, Fanti, e Denari.
Ma più la Guerra de le Carte è stolta,
     Che da Spada dipinta a Spada vera,
     Da Punto a Punta è differenza molta.
Dove in van non si spara, in van si spera
     Anzi del colpo, onde un Guerrier è morto
     La colpa del morir spesso è Mogliera.
Non si tronchi da vuoi con spatio corto,
     Lungo sperar: perche nel Campo andate
     Non è mica la via d’andare a l’Horto.
Pur se in Campagna piacevi di stare,
     E quì vibrar ne gli altrui membri il ferro
     Huom fia tra voi, che dalle Fere impare
E quando mai, dove fà mensa il Cerro,
     A l’obliquo ferir d’irto Cinghiale,
     Sperar si vide in suo svantaggio il Verro?

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Al più fiacco Leon colpo mortale
     L’Herculeon Nemeo mai non avventa,
     Nè al compagno Rigor Tigre fà male
Sol di sua stirpe estirpator diventa
     L’huom ch’a turbar tutt’i mondan conforti,
     Varcar l’Alpe, e l’Atlante, e il Tauro tenta
Mira in un giorno suo Febo più morti,
     Che in un anno non crea Turbe nascenti,
     Nè sembra pari i nostri Occasi a gli Orti.
Dal costume Ferin Pace imparate:
     E udite mè, se d’opere guerriere
     Vera saper la quidità bramate.
Son le Guerre de l’Asia Hidre, e Chimere
     Per delitto di Rè son Cacciagioni,
     Per inferno de’ Popoli Megere.
Lecite Mercantie son di Ladroni,
     Che per tirar a sè corpi d’entrata,
     Fan de l’Anime altrui cambio a i Demoni.
Ma che? da voi soldati hoggi è formata
     L’onta Infernal, la Mercantia, la Caccia
     Fiamma nudrite voi, che in altri è nata
Voi d’un Capo regal siete le braccia,
     Chi far guerra in persona il cor non have
     Di farla poi con vostra mano ha faccia
Schiavi, e Remi voi siete a l’altrui Nave
     Siete Vigilie voi de l’altrui Feste,
     Voi d’altrui Porte, e sentinella, e Chiave
S’a pugnar per altrui voi non correste,
     O i Rè frà lor s’aggiusteriano i guai,
     O i Rè frà lor si romperian le teste.
Haver, senza pagar, debiti assai,
     Perder, e sempre haver vitto, e vestito,
     Far guerra ad altri, e non combatter mai.

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Uso è de’ Grandi, ma il Soldato ardito
     Stenta, se vive, serve, se hà comando;
     Se perde, hà male; se deve è spedito.
Non sà il meschin, perche maneggi un brando:
     Corre incontro a la morte, e non sà dove,
     Aspetta la Vittoria, e non sà quando.
Sotto il fervido Marte, e ’l freddo Giove,
     Dai Penati domestici lontano,
     Vero timor, falsa speranza il muove.
Se fa Gradasso il piè, l’Astolfo ha in mano;
     Vestito di Guidon, non di Zerbino;
     E ’n mezo a Ferraù sempr’è Tristano
Sempre in facende sudagli Frontino;
     È sempre un Rodomonte ne la fame;
     È sempre al companatico un Sobrino.
E sapete perche vote ha le brame?
     Se de la Fame la Guerra è sorella,
     È dover ch’una Suora un altra chiame.
Però disse in battaglia il Rè di Pella,
     Se d’Alessandro hò stabile il sembiante,
     Manca il mobil di Magno a la mascella.
E che direm del riposar d’un Fante?
     Hà il suol per piume, e ’l molle Ciel per tetto,
     Posa la testa, ove vagar le piante.
Marito de la Morte è stato detto,
     Più che Fratello il Sonno de la Guerra;
     Perc’han pari frà lor la Tromba, e ’l Letto.
Anzi tal’hor chi per dormir s’atterra,
     Gli aperti lumi suoi non serra mai:
     O non gl’apre giamai quando li serra.

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Dunque a i sonni sicuri i vostri rai
     Ritorcete, ò Compagni: e del Compagno
     Sembrino al vostro mal medici i guai.
Achille infra i Guerrieri hebbe un guadagno
     Che invulnerabil fè stigio Pantano,
     Tutte le membra sue, fuor che il calcagno,
Passar volete Achille? e haver lontano
     Ogni rischio guerrier da i membri vostri?
     Date in fuga il calcagno, e anch’ei sia sano
Siate i più bravi voi de i Tempi nostri,
     Più soldati dei Fabij, e dei Marcelli,
     Più potenti di Dario, e di Sesostri.
Siate pur quei Smargiassi, ò Farinelli,
     Che spaccan Guglie, e spiccan Promontori,
     Sbeffan Giganti, e sbuffan Mongibelli.
De i Decori la perdita, e dei cori
     Un dì farete, e col cervello insano
     Non sani havrete i radicali humori.
Al ferreo colpo ogni corpaccio humano
     Divien crivello al fin, mà non da biade;
     Ch’un bel morir non fà magnar più grano.
Rimettete ne i foderi le Spade;
     E nel corso vital, che v’è rimaso
     Posate il piè su le natie contrade.
E già che ’l Verbo mio v’ha persuaso
     Concordanza da huomo, e non da Putto
     Concluderò, che de la Guerra il Caso
Sempre il Genere, e il Numero hà distrutto.

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Vera, benche poetica, reputassi la descrittione dell’Asiatiche guerre, e di quei folli huomini, ch’alla malitia arrolati le fomentavano: e però fù così commendata la nuova forma del Satirico stile, che nel detestarle hebbe arte, come detestava l’antica barbarie de gli Asiarchi, che di commendarle hebbero natura.

Si ponderò, che i buoni Poeti di niuna cosa più agramente si risentono, che delle Guerre, le cui turbolenze struggono in essi quella serenità di mente, cotanto alla poetica facultà convenevole. Non piagneva così Ovidio le miserie della sua relegatione, come il vedersi frà belliche scorrerie mal sicuro; ond’hebbe à dire.

34Precor ut possim tutius esse miser,

& altrove più chiaramente.

35Terra velim propior, nullique obnoxia bello
Detur, erit nostris pars bona dempta malis.

A tal proposito recitò Ticleue le seguenti facetie, composte già da lui in Europa, mentre vedevasi, con genio avversario all’Armata, costretto a seguire in essa d’un suo bellicoso, mà giustissimo Prencipe le vestigia.


[p. 81 modifica]
S
On chiamato alla Guerra, & ecco porto,

     Pria ch’io giunga a ferire, una ferita;
     L’Alma pria d’ammazzare è fuoruscita
     E pria d’immortalar, faccia hò di morto.
Io non son’huom di spirito sì grosso,
     Che pensi un dì, frà gl’impeti di Marte,
     Trar la pelle a nemici, e farne carte,
     Far inchiostro di sangue, e penna d’osso.
Tuon di Bombarda, e fulmine di spada
     Gelar farà ne la mia vena il sangue,
     Forz’è che ’l verso ancor languido cada
Nè avverrà mai, che ’l Martial lavoro
     Gioviale Poesia mi faccia fare;
     Anzi sempre farà l’intercalare
     De la mia Canzonetta. Ohimè, ch’io moro.
De’ bronzi i Tuoni, e de le spade i Lampi
     Cantan le Muse entro Castalie mura
     Che sol conviensi à Femine la cura
     Di domestico tetto, e non di Campi.
Aman quiete i versi, in solitari
     Boschi il dì Filomena erge i suoi canti:
     E stansi muti i popoli guizzanti,
     Perch’è sua cuna il fremito de’ mari.
È ver, se il braccio mio gl’huomini atterra,
     Che le Lettere, e l’Armi havran tenzone
     Mà sento dir, che simile questione
     Si decide alle Scole, e non in Guerra.
Da i perigli guerrier fuggir lontano
     Sempre fui vago, e di combatter schivo;
     Perche i miei versi, in cui versato io vivo
     Son formati di piede, e non di mano.

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Come dunque cantar le consonanze
     Poss’io di Rime al rimenar de l’Armi?
     E come uscir puon da la stanza i carmi,
     S’ogni nostra Canzon fatta è di Stanze?



Era una Fame nella Provincia di Menteseli; sorda, mà che sentivasi; muta; ma che faceva favellar de’ suoi mali. Tornarono i Dicitori alla narrativa delle calamità Asiatiche, e giudicandosi, che la fame non doveva distinguersi col silenzio della bellicosa Sorella, di cui l’antecedente Satira haveva rumoreggiato tanto, Rorazalfe recitò la seguente Satira, in persona d’un Poeta, che provando nella Città di Side un’insolita penuria di pane, prende partito di licentiar da sè la sua Musa, per potere trà le fameliche gravezze, da cotidiani dispendij alleggerirsi.


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LA FAME


SATIRA.



T
Orna, ò Musa, di Phocide al Paese;

     E sù i Nomi avanzati al secol d’oro,
     Filando Eternità, campa à tue spese.
Io mi pasco di spiche, e non d’alloro;
     E mal potrei ne l’immortal tuo Chiostro
     Viver di fama, hor che di fame io moro.
Non ammette due cure il petto nostro,
     Ne la compra del pan spender moneta,
     Nel crear poesie sparger inchiostro.
È legge inalterabil di Pianeta,
     Che stia sempre sfornito il nostro Forno,
     Fin che tù sei Zitella, & io Poeta,
Lessi già di Parnaso al Protocollo.
     Che fra ’l Poeta e ’l Pan nata è disfida,
     Perche fecer rumor Pane, & Apollo.
E dai Ricchi un poeta in van si fida
     Trovar hoggi del Pan le cortesie
     Tenea da Pane, e non da Febo un Mida.
V’è peggio ancor, l’antiche carestie
     Di natura eran morbi, e le moderne
     Posticcio mal son di rapaci Arpie.

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Già la Figlia di Cerere da inferne
     Forse fù tolta, e da infernali brame
     Rapita hoggi una Cerere si scerne.
Drudi ladron con le sensali trame
     Di Cerere i granar gravidi fanno;
     E in casa altrui fan seminar la fame.
Già promiser penurie al tragic’Anno
     Le Stelle: et hoggi à l’osservar dei patti
     Quel che ’l ciel ha promesso, i Ladri danno.
Dai Campi stessi hanno i frumenti estratti
     Certi ingordi Campion; ladri da fune,
     Degni d’haver più che le tratte, i tratti
Voglion costor, che le plebee fortune
     Orfane sian d’argento, e per un pezzo
     Adottive penurie habbia il Comune.
Al buon Mercato il mal Mercante avvezzo
     Estrahe, per guadagnar, compri frumenti,
     E fa salir nel pan calato il prezzo.
Quindi è che nasce poi Sicarie genti,
     Perché giunte si vedono a l’estremo,
     Ferman la man sù i peregrini argenti.
Nè sgomenta i Ladron la Forza, ò il Remo
     Che le panze de l’huom non han cervelli:
     Nè si pasce à consigli un ventre scemo.
Per gli altrui falli hoggi proviam flagelli,
     Non vi è Farina, e Farinaccio è morto
     Mancan Farine, e crescon Farinelli.
Se non vedo Trittolemo risorto,
     Prestar semenze à Carestie Villane,
     Veggio nei pianti ogni appetito assorto.

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Hecate, & Iro in sù le strade urbane
     Chiedon piangendo a l’imbriaca sorte
     Di un Mida avaro, un vomito di Pane.
Ma quei non apre, à chi non porta porte:
     E se pur getta un tozzo al Pellegrino,
     Lunghe non son le Carità di Corte.
Muore intanto, anhelando un sol quattrino,
     La Turba, e in Corte poi vive al perdente
     De poveri palati il Palatino.
Musa mia così và. Se nel rodente
     Digiun mordo gli Avari, ha gran ragione
     Morder la lingua, hor che non rode il dente.
Habbi dunque di mè compassione,
     Se siam forzati in secolo perverso,
     Io cangiar esercitio, e tù Padrone.
È ver, che il cibo è da Virtù diverso:
     Ma per girar di Poesia lo spatio,
     Non han forza digiuni i piè del verso.
Quando di Lira il Sonatore Horatio,
     Canta Evohè d’Ottavian ne l’Horto,
     Credemi Musa mia, che ’l Ventre ha satio.
Non fa immortal la Povertà, fa morto,
     La Vita è un navigar, porto la Gloria;
     Mà non si và senza biscotti al porto.
Voler gran nome entro l’altrui memoria
     Pria d’inalzar le sue sostanze nane,
     È una vera follia di Vanagloria.
Son già da mè le Poesie lontane,
     E sol nei Panegirici ho concetti,
     Perche Giro ogni giorno a trovar Pane.

[p. 86 modifica]

S’Epicuro, che d’Atomi ristretti
     Compose il Mondo nostro Pan guardasse
     D’Atomi nol faria, ma di Panetti.
E s’Euclide fra noi Vita menasse,
     Direi, che il Pan perche s’inghiotte intiero
     Un Punto indivisibile chiamasse.
Vuoi tù sentir con altra frase il vero?
     Pan significa tutto in parlar Greco,
     Mà in lingua nostra hoggi ogni Pan è un zero.
Nè vale il dir, ch’Eternitade hai teco,
     I giorni tuoi fian da la Parca guasti,
     Mentre la Mensa mia la Parca hà seco.
La mensa mia Siracusani hà i fasti,
     Se di Pan, che non manchi, hoggi è composta.
     Pan fù Dio de’ Pastor, hoggi è de’ Pasti.
S’al tempo antico una Pagnota tosta
     D’una Fame dentata era il rifiuto,
     Delitia da sdentati hoggi è la crosta.
Sparte molliche homai, rozzo caduto,
     Non trascuran le mense, e non si vede
     Con la muffa cerulea il Pan barbuto.
Muovi dunque da me, Musa, il tuo piede,
     E credi ai detti miei, già che la bocca,
     Se non s’apre a magnar, s’apre à la Fede.
Chi sdegno caricò, Satire scocca,
     Anco l’Ocche affamate havean baldanza
     A i Galli sbraveggiar dentro una Rocca.

[p. 87 modifica]

Mentre dunque è di Pan tanta mancanza,
     Che sol ci resta in supplicar Fiorenza,
     Che de la Crusca sua c’empia la panza.
Habbi Musa mia bella, habbi patienza,
     La gran Penuria hoggi à penar t’esorta.
     Hoggi, che manca il merto à l’astinenza
E il viver caro, e Caritade è morta.

Famosa, non meno che famelica riuscì communemente la Satira, recitata da Rorazalfe; e quasi che la Fame del Componimento havesse hauto vigore d’imprimere contagio della medesima ne gli stomachi de gli Uditori Amici, passarono tutti indi a poco alle lor Case, per adempirvene i voti. E quì parve alla curiosa Brigata d’havere impiegati in profitto d’opere gli esercitij delle sue solazzevoli parole in quel Giorno.




Fine del primo Fascio.