Hecate, & Iro in sù le strade urbane
Chiedon piangendo a l’imbriaca sorte
Di un Mida avaro, un vomito di Pane.
Ma quei non apre, à chi non porta porte:
E se pur getta un tozzo al Pellegrino,
Lunghe non son le Carità di Corte.
Muore intanto, anhelando un sol quattrino,
La Turba, e in Corte poi vive al perdente
De poveri palati il Palatino.
Musa mia così và. Se nel rodente
Digiun mordo gli Avari, ha gran ragione
Morder la lingua, hor che non rode il dente.
Habbi dunque di mè compassione,
Se siam forzati in secolo perverso,
Io cangiar esercitio, e tù Padrone.
È ver, che il cibo è da Virtù diverso:
Ma per girar di Poesia lo spatio,
Non han forza digiuni i piè del verso.
Quando di Lira il Sonatore Horatio,
Canta Evohè d’Ottavian ne l’Horto,
Credemi Musa mia, che ’l Ventre ha satio.
Non fa immortal la Povertà, fa morto,
La Vita è un navigar, porto la Gloria;
Mà non si và senza biscotti al porto.
Voler gran nome entro l’altrui memoria
Pria d’inalzar le sue sostanze nane,
È una vera follia di Vanagloria.
Son già da mè le Poesie lontane,
E sol nei Panegirici ho concetti,
Perche Giro ogni giorno a trovar Pane.