Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
16 | Delle Frascherie |
a’ Padroni, non restava altra cagione di viver lieti, che il non haver più da perdere, nè più da temere. In tanto, perch’è natura de’ mortali l’osservar con occhio torvo le prosperità imperiose, sembrava à prima fronte un refrigerio del travagliato Vulgo poter vantare co’ suoi maggiori una consimile proportione nelle disavventure: mentre la Fortuna avezza a balestrar i privati qualificava con le percosse, da lei segnalate sù i grandi, la vilipesa conditione de’ suoi colpi volgari. Era un solazzo de’ miseri, il veder depressi, ed avvallati, quei Monti, che poco dianzi nella penosa vallea degl’infimi aduggiavano con l’ombre loro tiranniche i semi delle virtù humane: e ponderavano i Savij, ch’essendo la fortuna una esecutrice dei divini decreti, non convenivale, il farsi vincere di gloria da quei tali, che delle Deità si fanno emuli: ma più tosto insegnar con colpi di maestrevole ferza questo gran dogma ai Principi: che non per altro si fè cieca Fortuna, che per non distinguere dal volgo l’imaginate franchigie dei Potenti, ferendo con ugual sinistra chi vive. E perche reputavasi comunemente, che i maggiori Tiranni dell’universo si fussero scelti per fato a disperder i Regni Asiatici, vivevano in dubbio i popoli, com’avveniva ai Romani ne le contese d’Othone, e di Vitellio1