Ciceruacchio e Don Pirlone/Capitolo V

Capitolo V

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Capitolo IV Capitolo VI
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Capitolo Quinto.


La dimostrazione del capo d’anno 1848 vietata. — Documenti nuovi — Commovimento popolare. — Il principe Corsini e Ciceruacchio. — Pio IX esce per il Corso. — Santo padre, fidatevi del popolo. — Ciceruacchio re di Roma. — I primi urti della contraddizione storica cominciano a farsi palesi. — Intuizioni popolari. — Pio IX, reluttante alle riforme, è costretto a procedere a balzi. — Due sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli. — Come un grande artista possa essere nemico della logrica. ~ Movimento irresistibile della coscienza popolare. — Ugo Basville e il generale Duphot. — Un libello contro monsignor Morandi. — Documenti nuovi. — I massacri di Milano. — Esequie e proteste a Roma. — Il dottrinarismo di Luigi Carlo Farini. — Petizione del Circolo romano pel riordinamento dell’esercito. — La Consulta di Stato propone gli armamenti. — La rivoluzione siciliana. — Il principe Pompeo Gabrielli ministro delle armi — Ferdinando II e la costituzione napoletana. — Il dottrinarismo del Guizot. — Le chiaroveggenze di un cieco. — Il patriottismo di Pellegrino Rossi. — Il conte Pasolini e il cardinale Bofondi. — Il tumulto dell’8 febbraio. — Ciceruacchio e il principe Corsini. — L’allocuzione del 10 febbraio. — Gran Dio, benedite l’Italia. — La contraddizione si avvolge di nubi rosee e continua a giganteggiare. — Patria e religione. — Pericoloso equivoco. — Patriottismo ed energia della Guardia civica. — Documenti nuovi. — La paura del Pontefice. — Il nuovo Ministero misto presieduto dal cardinale Bofondi. — Motu-propri costituzionali di Carlo Alberto e di Leopoldo II. — La Pallade in caratteri rossi. — Malafede e stoltezza della Curia romana attestata dal conte Pasolini. — Il carnevale sbiadito. — Mene reazionarie e gesuitesche. — La rivoluzione di febbraio a Parigi. — Effetti irresistibili di questo avvenimento. — 11 Ministero laico. — Giuseppe Galletti e Luigi Carlo Farini. — Proclamazione della costituzione politica per lo Stato romano. — La contraddizione impera in questa costituzione. — Breve di Pio IX in difesa dei gesuiti. — La rivoluzione di Vienna. — Le gloriose cinque giornate -di Milano. — Manifestazioni popolari a Roma. — Gli stemmi austriaci abbattuti. — Comizio popolare al Colosseo. — Il P. Alessandro Gavazzi. — Il poeta pastore e Luigi Masi. — Arruolamenti volontari. — Le ordinanze del ministro delle armi e Pio IX. — Guerra! guerra! — Il cardinale Giacomo Antonelli e Ciceruacchio. — Il Circolo romano e la Dieta italiana. — Partenza dei volontari romani. — Benedizioni papali. — Adamo Mickiewicz e Pio IX. — Allocuzione pontificia ai popoli d’Italia. — Il cozzo della contraddizione è imminente.

Pel primo giorno dell’anno 1848 il Circolo romano, d’accordo con Ciceruacchio, aveva deliberato di promuovere una solenne dimostrazione popolare, la quale, mentre recherebbe al Papa [p. 262 modifica]gli auguri della cittadinanza, esprimerebbe anche i voti della popolazione, desiderosa di veder posti nella impossibilità di più nuocere al movimento di riforma i reazionari, che accerchiavano il Pontefice, desiderosa di veder questo inoltrarsi vigorosamente sulla via del progresso. E perchè non sembri che il popolo romano chiedesse troppo e fosse soverchiamente esigente - come pur si affaticano a voler far credere, non già con prove e documenti, ma con slombati arzigogoli e con gratuite asserzioni, parecchi fra gli storici papalini - io produrrò qui quattro documenti nuovi 1 dai quali, se il lettore avrà la pazienza di esaminarli, vedrà come, per esempio, i monsignori preposti al governo centrale e al reggimento delle provincia intendessero e interpretassero e volessero, nel gennaio del 1848, interpretata la legge sulla stampa del 15 marzo 1847; in quali pastoie pretendessero che fosse ancora avvolta la già assai limitata libertà concessa, a proposito di giornali, da quella legge.

Eppure a monsignor Amici, a monsignor Savelli, al maestro dei Sacri Palazzi quella legge sembrava troppo liberale; e mentre l’uno si acconciava a consentire al Casino civico di Rimini la lettura dei giornali francesi le Siècle e le Constitutionnel, purchè, però, fossero sottoposti, prima di essere distribuiti al Casino civico riminese, all’esame della censura politica, l’altro avvisava il prelato che trovavasi Delegato apostolico a Frosinone, che era onninamente — l’avverbio è di monsignor Savelli — proibita la introduzione nello Stato pontificio del giornale toscano Rivista di finanze; e gli imponeva di fare esaminare accuratamente tutti gli altri giornali toscani prima della distribuzione, in special maniera in ciò che riguarda la parte religiosa.

Da questi documenti risultano le tenebrose e insostenibili opposizioni che, nell’interno del palazzo del Quirinale, si levavano, in onta a quella modesta e temperatissima legge sulla stampa pubblicata l’anno innanzi, contro la pubblicazione del giornale francese le Capitole e quelle capricciose che lo stesso [p. 263 modifica]Pio IX, in onta alla legge da lui emanata il 15 marzo 1847, lui stesso, personalmente, metteva fuori per impedire all’avvocato Francesco Mayr di pubblicare un giornale intitolato la Riforma a Ferrara.

Da questi quattro documenti apparisce chiaro l’animo ostile dei Prelati ai provvedimenti liberali che, spinto e sospinto, a tozzi e a bocconi, veniva porgendo ai suoi sudditi il Pontefice; essi chiaramente ammoniscono se ragionevoli o irragionevoli fossero le domande del partito liberale al l° gennaio 1848.

Ma i reazionari, dal canto loro, già spaventati dall’aspetto un po’ più risoluto delle manifestazioni popolari del 3 dicembre a proposito della sconfitta del Sonderbund, e del 27 dello stesso mese per l’onomastico di Pio IX e nelle quali si era già cominciato dai liberali, stanchi di ulteriori indugi, a chiedere qualche cosa, avevano atterrito il pauroso Pontefice e lo avevano persuaso a non tollerare più siffatte dimostrazioni.

A ciò lo avevano piegato anche il cardinale Ferretti, segretario di Stato, e monsignor Savelli, che era succeduto nell’ufficio di governatore di Roma, e monsignor Morandi, richiamato fin dal 20 di novembre al suo ufficio di fiscale generale; ad ogni modo pel córso monsignor Savelli, reazionarlo malamente mascherato da liberale, la cosa era assai verosimile; per ciò che riguarda il cardinale Ferretti il suo opporsi alla dimostrazione fu creduto giustificato dalle sue dimissioni da presidente del Consiglio dei ministri, presentate proprio di quei giorni.

È certo poi che l’impedimento alle dimostrazioni era stato suggerito al Papa dal partito reazionario e dagli ambasciatori delle nazioni che avevano stretto, nel 1815, il trattato della Santa Alleanza. Infatti lo Spada si lasciò sfuggire una grave confessione: «Il Governo pertanto, sia per convinzione propria, sia perchè ammonito da estere Corti a stare in guardia, volle far la prova d’impedire», ecc.2 Ma più apertamente e limpidamente parla il Grandoni della congiura - lui la chiama cosi - ordita dai reazionari per atterrire il Papa, dandogli ad intendere che una congiura stesse invece ascosa nella popolare manifestazione che si preparava per la sera del 1° gennaio. «Tali [p. 264 modifica]mezzi — esclama, dopo parecchie considerazioni, il Grandoni — credono costoro bastanti, onde alienare affatto il cuore del principe dall’amore dei sudditi; e così risolvono di inventare una congiura del popolo, od altro di consimile. E qual cosa più spiacevole all’animo di Pio, che nella sua candida coscienza ben conosceva il diritto che aveva alla fedeltà e all’attaccamento del suo popolo? Un attentato sì calunnioso però andò a vuoto, ed i nemici stessi procurarono, in questo loro detiramento, alla causa del progresso un trionfo luminosissimo»3.

Il che è confermato dal Saffi, il quale scrive che «il Papa e il segretario di Stato confessavano, qualche giorno dopo, a lord Minto di essere stati ingannati, e si mostravano persuasi che una influenza retrograda forestiera e domestica si adoperava a disunire popolo e governo»4.

Il fatto vero si fu che nelle ore pomeridiane del 1° gennaio, mentre a piazza del Popolo si adunava gran folla con emblemi e bandiere per andare al Quirinale, si diffuse in un baleno la notizia che il palazzo pontificio era cinto di milizie stanziali armate, che chiusi ne erano gli accessi, che l’ordine era stato dato di respingere il popolo. E allorché si seppe che quelle novelle avevano fondamento nella realtà, grande fu la esasperazione degli animi, clamorose le grida della folla, che trasse, tumultuando, al palazzo del senatore Corsini, presso il quale Ciceruacchio si fece interprete dello sdegno e del dolore del popolo, ed espresse il generale convincimento che soltanto i nemici delle riforme e della libertà avevano potuto inspirar dubbi e sospetti nell’animo del Papa, intorno ai sentimenti della popolazione verso ramato sovrano e fece, perciò, considerare al senatore quanto fosse necessario che egli, capo della rappresentanza municipale romana, si recasse immediatamente dal Papa, facendosi presso di lui interprete del dolore e dei desiderii della cittadinanza.

Il senatore Corsini concionò dalla loggia del suo palazzo la [p. 265 modifica]moltitudine, rassicurandola: egli si condurrebbe subito presso il Papa e manifesterebbe i sentimenti del popolo romano; stessero quieti; le cose si racconcerebbero.

E difatti, accompagnato da Ciceruacchio, egli si recò al Quirinale, dove potè penetrare e persuadere il Papa come in inganno egli fosse stato condotto e come nessuna ombra di cospirazione o di tumulto vi fosse in città.

E su questo particolare, è importante notare che se Ciceruacchio non penetrò di persona fino al trono del Pontefice, vi giunse in ispirito; avvegnachè in quel momento, egli, amato, stimato, temuto, fosse il vero arbitro delle moltitudini e, per conseguenza, il vero arbitro della situazione; e avvegnachè al principe Corsini, mentre egli lo accompagnava al Quirinale, con energia e schiettezza popolana ripetutamente esprimesse illegittimo risentimento cittadino per quelle mene dei sanfedisti e dei gesuiti, per mezzo delle quali si procurava di fare sorgere dissidio fra il Ponteflce, da tutti venerato, e il suo popolo5.

Allorchè il principe Corsini tornò dalla sua ambasceria e assicurò, in piazza Madama, dove il popolo era più affollato, la moltitudine che, all’indomani il Papa sarebbe uscito dal Quirinale e avrebbe percorso, senza guardie, le vie principali della città, per dimostrare che egli aveva piena fiducia nel suo popolo, [p. 266 modifica]Ciceruacchio dovette, con energiche parole, persuadere la folla ad aver fede nel principe Corsini e in Pio IX.

Allora soltanto la moltitudine si sciolse gridando: Viva Pio IX solo! e acclamando al senatore e al tribuno e imprecando ai nemici della patria e della libertà.

E quando, all’indomani, nelle ore pomeridiane, il Papa uscì in carrozza a girare per Roma e fu accolto, dappertutto, con il più vivo entusiasmo e fra gli applausi e le grida frenetiche di viva Pio IX, viva Pio IX solo! susseguite dalle altre abbasso z reazionari! ... abbasso i gesuiti, Ciceruacchio, messosi sopra una vettura al seguito delle carrozze pontificie, secondo alcuni, salito addirittura sulla vettura di Corte che immediatamente seguiva quella entro la quale era il Papa, secondo altri, fece sventolare una bandiera, bianca e gialla, sulla quale era scritto a grossi caratteri: Coraggio, Santo Padre, fidatevi del popolo6.

Quell’atto di Ciceruacchio sollevò il più vivo entusiasmo nella moltitudine, la quale fece al popolano una continua e vera [p. 267 modifica]ovazione7 lungo tutto il cammino percorso dal Papa, la cui vettura dovette procedere lentamente, tanta era la folla che l’attorniava e la seguiva, fino al ritorno di lui al palazzo del Quirinale.

Il Papa era profondamente commosso, forse turbato, forse anche atterrito; perché varie ed opposte sono le narrazioni e le opinioni in proposito - probabilmente commozione, sgomento e dolore, per le grida che udiva contro la polizia e contro i gesuiti, si urtavano e confondevano nell’animo suo; onde fu preso da un deliquio che gl’impedì, poi, di impartire al popolo la solita benedizione dalla loggia del palazzo pontificio.

Il Montanelli chiude la sua narrazione, intorno agli avvenimenti di queste due famose giornate, con le seguenti notevoli parole: «E tutti a voler baciar la mano e le vesti di Pio IX. A un tratto di bocca in bocca corre una voce: — Il Papa si sente male. — E fu silenzio instantaneo, profondo. Pio IX rientrò nel Quirinale in cadaverica vista. Pioveva a dirotto. Il popolo aspettava la benedizione. Dopo un pezzo, il balcone s’apri . . . per annunziare che il Papa era malato.

«Lo idillio democratico-papale finiva con quello svenimento; e la verità della rivoluzione si sbrogliava dal poetico bailamme dell’entusiasmo piano»8.

E il Perrens finisce il suo racconto con queste parole: «Da quel momento Ciceruacchio fu il Re di Roma: era il regno di Mazzini che cominciava per delegazione e, per il momento, senza esclusione delle influenze rivali»9.

E, francamente, il Perrens esagerava il vero stato delle cose a danno della realtà storica.

[p. 268 modifica]Più esatto e più nel vero è lo Zeller, quando afferma che il primo dell’anno 1848 «fu l’ultimo giorno d’accordo fra il Papa, in preda all’inquietudine e agli scrupoli, e il popolo malcontento che l’accusava di ricadere nelle mani dei retrogradi e dei birboni»10.

E la verità vera della situazione è nettamente segnata in quelle parole dello Zeller; gli eventi precipitavano: l’esempio di Pio IX aveva spinto sulla via delle riforme Leopoldo II e Carlo Alberto; l’agitazione del popolo romano si era propagata a tutta Italia: fremevano e si agitavano i Lombardo-Veneti, e la dominazione austriaca vacillava; fremevano e si agitavano i popoli meridionali di qua e di là del Faro, e il trono dei Borboni traballava; un alito di vita nuova spirava da un capo all’altro della penisola e rinvigoriva le speranze degl’Italiani; il sogno, che, per tre secoli, avevano carezzato, nel loro sonno e nel loro servaggio, tante generazioni, stava per divenire realtà; la visione patriottica di tanti martiri stava per mutarsi in fatto: il pensiero e il desiderio della guerra contro lo straniero era in tutte le animo, la parola guerra già correva su tutte le bocche. . . . e la contraddizione, nella quale si era spensieratamente — inebriato dai plausi — adagiato Pio IX, precipitosamente si avvicinava a quel terribile cozzo, che doveva esserne l’ultima conseguenza. Per dieciotto mesi, fra tentennamenti ed oscillazioni, le punte acuminate di quella ferrea contraddizione si erano evitate o non si erano incontrate; ma i fatti che si venivano succedendo - e che erano le legittime premesse dei fatti che dovevano inevitabilmente e per logica necessità susseguire - rappresentavano i congegni che, sempre più venivano stringendo quel meccanismo e che frenandone i tentennamenti e le oscillazioni, ne venivano fermando e determinando, con coerente precisione, la vigorosa azione: il cozzo era imminente.

La politica di un passo avanti e un passo indietro, seguita fin qui dal Papa, aveva ormai esauriti tutti i suoi espedienti; le riforme concesse a rilento, a spizzico, a bricciole, non soddisfacendo le smisurate speranze e le grandi aspettazioni, [p. 269 modifica]avevano acuito i desiderii delle popolazioni, e avevano queste rese esigenti.

Colla chiaroveggenza istintiva che illumina - quando si tratti dei più vitali interessi, dei più alti bisogni morali e materiali delle nazioni - la coscienza dei popoli, e che fa a questi intuire le necessità storiche di un dato momento, anche quando essi non ne abbiano una completa e limpida consapevolezza, il popolo romano aveva sentito e compreso che da quella politica dell’altalena bisognava uscire. Caldo di desiderii e di speranze, illuso anch’esso sulla possibilità che al Papa fosse dato porsi a capo del movimento nazionale, impedito, dai suoi interessi e dalla sua passione, di vedere che la duplicità dell’ufficio di cui Pio IX era investito, non avrebbe ad esso quell’atto energico consentito, il popolo romano, che vedeva e sapeva chi fossero coloro che rattenevano il Papa, e gli vietavano di seguire gl’impulsi del suo cuore d’italiano, voleva rimuovere, dando il governo e la polizia in mano ai laici ed espellendo da Roma i gesuiti, gli ostacoli che si opponevano all’attuazione dei suoi desiderii e alla soddisfazione di quel bisogno urgente di cacciare d’Italia lo straniero.

Certo pochi erano allora i veggenti, ai quali fosse dato scorgere l’inconciliabilità dei due uffici di Pontefice e di principe nello stesso uomo e la potenza della contraddizione personificata e lottante in Pio IX; il popolo quella contraddizione e quella inconciliabilità non vedeva e non poteva vedere; perchè il popolo non era e non è teologo, non era e non è dogmatico, e non si metteva e non si poteva mettere, neppure col pensiero, nel posto tenuto dal Papa: il popolo non si preoccupava e non poteva preoccuparsi dei doveri che. a Pio IX incombevano nella sua qualità di Pontefice; il popolo, che era ed è composto di uomini e di italiani, e non di preti e di ecclesiastici, non vedeva e non poteva vedere in Pio IX che il principe; e mosso e commosso dall’impulso de’ suoi desiderii e dalla necessità di realizzare il suo ideale politico - dietro il quale e sotto il quale si ascondevano grandi e complessivi interessi morali e materiali il popolo voleva ed esigeva che egli, agendo da principe, tutto si consacrasse alla causa de’ suoi sudditi.

E ben notava questa opposta diversità di apprezzamenti, [p. 270 modifica]rivante dai diversi ed opposti punti da cui si vedeva e si giudicava la situazione, lo storico La Farina quando, parlando della occupazione di Ferrara per opera degli Austriaci, nota che «i famigliari del Pontefice affermavano avere egli detto: Il popolo mi ama e marcierà con me contro i barbari. Le quali parole - osserva l’acutissimo e illustre storico siciliano - se furono vere, provano come Pio IX vivesse in un grandissimo errore; imperocchè il popolo non l’avrebbe seguito contro i barbari perchè lo amava; ma l’amava perchè credea che egli contro i barbari l’avrebbe guidato; il che è cosa ben diversa e nel principio e nelle conseguenze»11.

E tutto il nodo della contraddizione stava perciò in questo fatto: che il popolo voleva - ed era logico e naturale che volesse - che Pio IX subordinasse i suoi doveri di Pontefice a quelli di principe; e Pio IX, invece, voleva - e doveva di necessità - subordinare gl’interessi de’ suoi sudditi a quelli più complessi della cattolicità.

Dopo aver narrato come Pio IX, in quelle perplessità, avesse un giorno esclamato: «Mi vogliono un Napoleone mentre io non sono che un povero curato di campagna, l’illustre Nicomede Bianchi saviamente osserva che l’illusione degl’Italiani sul conto di Pio IX era stata troppo grande perchè avesse potuto durare»12.

E lo Zeller nota che «spaventato dalle proporzioni che prendeva il movimento che egli non poteva trattenere, scoraggiato per raccordo dell’Austria e della Francia, che volevano mantenuti i trattati del 1815, benchè esse fossero discordi sulle concessioni da fare al partito liberale, più spaventato ancora della parte - di Alessandro III o di Giulio II che gli voleva affibbiare la folla. Pio IX — sul finire del 1847 — cominciava ad essere più disposto a retrocedere che ad avanzare»13.

E, a dimostrare come fosse vera, quanto fosse vera e sentita questa situazione, credo opportuno riferire qui due sonetti di [p. 271 modifica]quel grande poeta, di quel sommo artista e inespertissimo e fiacchissimo uomo politico che fu Giuseppe Gioacchino Belli14, i quali, a quei giorni, correvano sulle labbra di tutti e rispecchiavano fedelmente le condizioni di quell’ambiente:

ER PAPA BONO.

 Pe’ bono è bono assai; ma er troppo è troppo;
E cusì, fra l’incudine e er martello,
Se lassa persuadè a annà ber bello
E quer ch’ha da fa prima a fallo doppo.

 Lo sapemo che or curre de galoppo
Porta spesso a la strada der macello,
Ma neppure er curriero ch’à cervello
Nun monta in sella a un cavallaccio zoppo.

 Per antro noi che stamo a casa nostra
E ciancicamo quer boccone in pace.
Noi nun capimo che lassù è la griostra.

 Fra chi tira e chi allenta, poveretto,
Io vorria vedè chi saria capace
D’accordà la chitarra e er ciufoletto.

LA TOR DE BABELE.

 Inzin che ar Papa je staranno addosso
De qua li giacubbini a fà l’abisso
E de là quelle pecore de Visso
Ammascherate cor zucchetto rosso

 E invece de ajutallo a sartà er fosso,
Chi vorrà baccalà, chi stoccafisso,
Staremo sempre cor tibicommisso
De la miseria che ce arriva addosso.

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 Sin ch’uno strilla arrosto e l’antro allesso
E tutti in compagnia fanno fracasso
Dureranno li guai che ce so adesso.

 Che tra Erode e Pilato, Anna e Caifasso
Io, er Papa dirà, me chiamo gesso;
Cor una mano scrivo e Tantra scasso15.

Di quei dieciotto mesi di tentennamenti cosi ragiona il Bianchi-Giovini: «Dopo il perdono, le ulteriori riforme di Pio IX furono piuttosto l’opera degli avvenimenti che della sua volontà. Trascinato da abituali pregiudizi e da una timorata coscienza, ei resistè più di una volta al progresso sociale del suo popolo, ma le circostanze lo spinsero avanti e cedette. Si volle la libertà della stampa, la diede: poi si pentì, ricalcitrò: ma fa spinto avanti e cedette. Si volle una Consulta: ei titubò, esitò, ma fu spinto avanti e cedette. La Consulta volle render pubblici i suoi atti: ei protestò, si oppose, ma fu spinto avanti e cedette. La Consulta volle anco deliberare: nuove opposizioni, nuove proteste, ma fu spinto avanti e cedette. Non si volevano più gesuiti: ci reclamò, protestò, ma fu spinto avanti e cedette. Insomma, animata e mossa una volta la circolante materia, essa obbedì alle leggi della natura, e percorse da sè medesima la propria orbita»16.

Onde era naturale ciò che altri affermò, e cioè che «attraverso a tutte queste cose, in mezzo a questi continui contrasti, in mezzo a queste esitazioni, a queste contraddizioni, a queste promesse tradite, a queste speranze ingannevoli, Pio IX avanzava, mx avanzava per salti, per cosi dire, di concessione in concessione»17.

[p. 273 modifica]E cosi doveva essere e cosi fu: «e per tal modo il povero Pio IX senza volerlo, e forse senza nemmeno saperlo, si trovò involto in un imprevisto travolgimento di cose, e mentre era trascinato egli stesso dall’impeto della bufera, i suoi Romani ebbero il talento di farlo credere al mondo volontario e magnanimo moderatore dei destini italiani. Una volta, poi, dato moto all’onda provvidenziale, nessuna forza può farla retrocedere, come nemmeno Dio è padrone di far tornare indietro il tempo» 18.

E, se ho parlato di popolo romano, pensatamente l’ho fatto; perchè, allora, chi dava impulso irresistibile a tutto quel movimento non era lo Sterbini, nè il Canino, nè Ciceruacchio, era il popolo, proprio il popolo, il solo popolo, cioè la grande maggioranza dei pensieri e delle coscienze unito istintivamente» io un solo intendimento, intuitivamente trascinate verso un comune ideale. Che le son tutte fole da contare a voglia le sofistiche analisi, che sulle parole e sui fatti di quei giorni, con postumi contorcimenti del vero, van facendo gli sfegatati papalini, come il Balan e lo Spada, il Cantù e il Lubienscki, o i moderati dottrinari, quali il Farini, il Balbo e il Minghetti, con l’intendimento di dare ad intendere a sè e agli altri che quel sommovimento - logica e necessaria conseguenza di tante e legittime premesse - fosse l’effetto delle istigazioni, delle trame messe in opera dai settari, dai rivoluzionari, dai mazziniani; nè lo Sterbini, nè il Masi, nè Ciceruacchio, nè il Mazzini avrebbero potuto esercitare quella influenza, nè trarsi dietro le moltitudini se non avessero trovato già profondati e maturi nelle coscienze e negl’intelletti delle moltitudini quei sentimenti e quei pensieri, che erano anche i loro.

Gli stessi Circoli romano e popolare, quantunque fossero, complessivamente, composti di oltre settecento soci, il fior fiore del patriziato, dei censiti, degli scienziati, il fior fiore della cittadinanza, non avrebbero potuto esercitare quell’ascendente che esercitarono, se non avessero trovato in tutti i substrati sociali quella preparazione, quelle disposizioni, quella rispondenza che trovarono nell’affermazione e nella esplicazione dei loro [p. 274 modifica]ideali, che essi avevano comuni con la maggioranza della popolazione.

Anche i giornali, il Contemporaneo, la Bilancia, la Pallade, la Speranza e, più tardi, l’Epoca e il Don Pirlone, anche i giornali, che allora costavano molto - la Pallade, che era il più piccolo e aveva un formato di 28 centimetri di lunghezza su 20 di larghezza, costava due baiocchi e mezzo al foglio, pari a 14 centesimi - e che, nondimeno, vissero, tranne uno, di vita propria e alcuni ottennero anche lauti guadagni, anche i giornali non soltanto non avrebbero prosperato, ma non avrebbero esercitato nessuna influenza se avessero predicato ai sordi, se non avessero fedelmente rispecchiato la pubblica opinione, la coscienza della maggioranza, se non avessero detto ciò che la grande maggioranza pensava e sentiva.

La mirabile condotta della guardia civica, i cui diecimila uomini dai luglio ’47 al luglio ’49 prestarono un servizio militare lungo e gravissimo come vecchi e veri soldati19; il numero straordinario dei volontari — più di tremila sopra una popolazione di centosettantamila abitanti, da tre secoli completamente dissuefatta dalle armi — i quali, pochi mesi dopo, corsero a combattere contro lo straniero nel Veneto; la fermezza, lo spirito di sacrificio e di devozione alla patria dimostrati dalla popolazione romana in tutti i successivi avvenimenti e durante la lotta ineguale sostenuta contro gli eserciti collegati di mezza Europa; tutti i posteriori fatti dal 1850 al 1870, per effetto dei quali a oltre diecimila ascesero i Romani condannati alle galere, raminganti sulle vie dell’esilio, combattenti nelle file dell’esercito italiano sono la prova irrefiutabile che, nella coscienza e nella mente di quel popolo, stava profondamente [p. 275 modifica]presso quel grande ideale della indipendenza e unità nazionale al quale lo Sterbini, il Meucci, il Checchetelli e anche l’Orioli andavano inneggiando, di cui Ciceruacchìo favellava, con la maschia parola dialettale, nei popolari ritrovi, e nelle assemblee dei Circoli gli uomini per ingegno e per studi più autorevoli favellavano, e ad esaltazione del quale il Mazzini, da Londra, mandava fuori i suoi scritti, ma che, se non fosse stato scolpito ormai indelebilmente negli animi, non avrebbe, unicamente per le parole e per gli scritti di quei valentuomini, acceso i cuori e trascinate le moltitudini alle prove durissime dei sacrifizi d’ogni maniera che, per amore di quell’ideale, spontaneamente e eroicamente sopportarono.

La storia ci ammaestra che, quando i credenti in qualche nuovo ideale tentano di far proseliti fra le maggioranze, devote ancora agli ordini antichi, avviene quasi sempre che quei •credenti, anziché trovare, come essi sperano, seguaci, trovano la morte. E nella storia moderna di Roma stessa, scrittori papalini e dottrinari avrebbero potuto rinvenirne parecchie prove, se soltanto avessero ricordato la sanguinosa fine di Ugo Basville, nel 1793, e quella del generale Duphot, nel 1797; e soltanto che avessero rammentato in quale modo infelice abortissero i due tentativi di ribellione, avvenuti in Roma nel dicembre del 1830 e nel febbraio del 1831, e come, in quella circostanza, il cardinale Bernetti trovasse improvvisate milizie negli esaltati Trasteverini, che, a quei tempi, erano in maggioranza clericali e gregoriani davvero.

E, se ciò avessero gli storici papalini e dottrinari rammentato, avrebbero compreso come i Romani del 1848 non fossero più i Romani del 1831, e come i sentimenti della maggioranza di essi fossero, nel 1848, completamente tramutati, e, anzi, sol che avessero tenuto presente la storia e gli avvenimenti di quei dieciotto anni, avrebbero anche inteso le ragioni di quel completo mutamento, e non avrebbero riempite le loro storie di bizantine sottigliezze e di inutili postumi rimpianti, per alterare la verità e per seguire gl’impulsi del loro spirito fazioso.

Ma, per tornare alla narrazione degli avvenimenti di quei tempi, ricorderò come l’effervescenza degli animi nel Lombardo-Veneto e specialmente a Milano avesse raggiunto il massimo [p. 276 modifica]punto a cui poteva salire, e come già nell’ottobre, nel novembre e nel dicembre molte manifestazioni popolari, assai significative e chiaramente esprimenti la devozione a Pio IX, l’amore all’Italia e l’odio contro lo straniero, fossero avvenute in parecchie città e a Milano stessa. Ma il 3 e il 4 gennaio avvenne una brutale e ingiustificata aggressione per parte dei soldati austriaci contro gli inermi cittadini, sei dei quali rimasero uccisi, fra cui un vecchio consigliere d’appello di settantaquattro anni, e cinquantatre furono più o meno gravemente feriti, fra cui una donna, una bambina di quattro anni, tre ragazzi di quattordici anni e due di tredici anni. E a Pavia il giorno 8 dello stesso mese una sanguinosa collisione avveniva fra soldati austriaci e studenti20.

Grandi clamori si levarono in tutta Italia contro quella nuova efferatezza dell’odiato straniero a danno degli oppressi Lombardi: e a Roma funebri solenni furono celebrati l’11 e il 12 per cura ed a spese degli studenti dell’Università romana in suffragio delle anime dei trucidati lombardi. Alla messa di requie, celebrata il giorno 12 nella chiesa di san Carlo dei Milanesi, intervennero quasi tutti i Consultori di Stato, quasi tutti gli ufficiali della guardia civica e un numero grandissimo di cittadini di ogni ceto21.

E, quantunque storici papalini e storici dottrinari si affatichino ad attribuire ciascuna delle manifestazioni, le quali, a quei giorni - naturalmente e per spontaneo impeto di passione popolare avvenivano - agli eccitamenti dei settari e degli arruffapopoli, pur tuttavia, siccome la logica e la verità finiscono per imporsi a tutti, cosi anche a quegli storici sfuggono, talvolta, preziose confessioni di verità, che importa rilevare. «I fatti di Milano [p. 277 modifica]del 3 di cui demmo un semplice cenno afferma uno degli storici papalini - eccitarono tale un sentimento di tristezza e di sdegno in presso che tutti i romani da non potersi descrivere»22.

E uno degli storici dottrinari aggiunge: «Erano rimpianti i lutti di Lombardia che Massimo D’Azeglio descrisse con parole più generose che prudenti. E la gioventù romana pomposamente suffragava l’11 e il i2 di gennaio all’anima dei morti per ferro austriaco: ufficio di pietà e di covata vendetta insieme. Vi assistevano i militi cittadini, i Consultori di Stato, il ministro di Sardegna e quanti erano Lombardi in Roma. Un frate barnabita, Gavazzi, in occasione di una di quelle feste funeree (che non fu una sola, perchè a funeree feste l’Austria dava frequente materia, e volevasi, quando in piazza non v’era di che, fare ragunata in chiesa), fu, dissi, in una di quelle occasioni che padre Gavazzi montò improvviso sul pulpito, e nel tempio del Dio di pace parlò parole di guerra: del che fu ammonito poi e punito, e gli agitatori presero disdegno della pena, perchè piaceva anche la indisciplina dei fidati, e la chiamavano libertà»23 .

Ma, a mostrare come il subiettivismo dei giudizi e la passione di parte traggano uno storico, per molti altri rispetti, [p. 278 modifica]insigne quale è il Farini, lungi dalla verità, riferirò, sulla scorta di un altro storico, ingenuo diarista e espositore alla buona dei fatti, di cui era testimone oculare, chi fossero gli agitatori che presero disdegno della pena, e ai quali piaceva anche la indisciplina dei frati: è bene guardarli in viso questi terribili agitatori.

«Saputasi appena tale notizia - cioè la relegazione del padre Gavazzi nel convento di san Bonaventura - una continua frequenza di persone va a salutare il novello ospite del Palatino. Lettere di condoglianza riceve dal casino dei nobili, dalla società artistica, dal Circolo romano e da altri. Dopo qualche giorno esso è mandato altrove: ma ben presto è consentito il ritorno in Roma ad un uomo sì rinomato, e degno cotanto della stima e premura de suoi ammiratori»24.

E, contemporaneamente, per cura del Circolo romano, veniva dettato un foglio di vive condoglianze e di attestati di [p. 279 modifica]fratellanza pei Milanesi da indirizzarsi al podestà di Milano conte Gabrio Casati, cui, in quel foglio, si rivolgevano caldissime espressioni di stima e di ammirazione pel virile contegno da lui tenuto di fronte alle autorità austriache in quella dolorosa contingenza. Il foglio fu sottoscritto da quattrocentoventiquattro cittadini - e fra essi tutti i pochi lombardi residenti in Roma - alla testa dei quali apparivano firmati Massimo D'Azeglio, Angelo Brunetti detto Ciceruacchio, Marco Minghetti, Cristina Trivulzio di Belgioioso, ecc.25.

E già, fin dalla sera del 10 gennaio, nello stesso Circolo romano era stata deliberata la presentazione di una petizione al Papa, da trasmettersi per mezzo della Consulta di Stato, nella quale, dopo breve esordio, era detto: «Quando l’indipendenza di uno Stato è minacciata da un possente nemico, la suprema legge, il sacro diritto d’un popolo si è di preparare i mezzi della propria salvezza. I disegni invasori dell’Austria sull’Italia non sono più un segreto per alcuno. Arrogandosi il diritto d’occupare militarmente quegli Stati ne’ quali è chiamata senza domandare il consenso degli altri Governi italiani, senza che un forte motivo serva almeno di pretesto all’occupazione, l’Austria vuol farsi padrona dei nostri destini. Modena è già invasa; il popolo di Parma, minacciato dalle armi austriache pronte ad accorrere ad ogni cenno di quel duca, è ridotto al silenzio; il Governo di Napoli risponde colle carceri e coi supplizi alle preghiere ed agli evviva del popolo, perchè sa che le baionette tedesche stanno con lui; Ferrara, dopo tante promesse, non è libera ancora dai Croati; Vienna invia sempre nuovi reggimenti verso l’Italia, e pone l’armata sul piede di guerra, crescendo il soldo d’un terzo, e prepara le artiglierie d’assedio, ed ordina gli apparati di guerra necessari per entrare in campagna.

«In mezzo a tanti segni precursori d’una invasione, quando i pubblici fogli di Germania parlano apertamente di guerra, quando i partigiani dell’antico sistema d’oppressione rialzano il capo e congiurano contro il popolo, quei Governi [p. 280 modifica]italiani, che con mirabile accordo si unirono per seguire la aia delle riforme, debbono oggi abbandonare ogni altra cura, non pensarle ad altro che alla difesa della patria comune e del l’indipendenza italiana. Oggi è stoltezza riposare sulla fede dei trattati, è ignoranza della storia appoggiarsi alla forza della ragione, è vanità fidarsi al potere delle proteste. L’Italia svegliata al suono delle armi straniere si accorge del suo pericolo, e già da ogni lato sorge un grido che chiama i principi a proteggere la minacciata indipendenza colle armi. Già la Toscana riordina le sue truppe, arma in fretta la guardia civica, e si prepara alla difesa; il Piemonte rifiuta il congedo ai suoi soldati, chiama i contingenti e fa armare le sue fortezze; e noi, segno primo all’ira dei nemici del nostro paese, perchè fummo i primi a dare il segnale del suo risorgimento, non dobbiamo oggi restare gli ultimi a prepararci per difendere il principe, le leggi e la patria».

E il Farini osserva - sempre col savio intendimento di far procedere la storia secondo le sue intenzioni e non secondo le necessità logiche della storia stessa: - «Queste non temperate parole facevano ritratto della concitazione degli animi». Bravo! Ma appunto perchè gli animi erano concitati - ed erano concitati per un complesso di fatti immediati e mediati che non dipendevano dalla volontà individuale dello Sterbini o del Farini, del Brunetti o del Minghetti, di Pio IX o del Mazzini - appunto per questo le parole non potevano essere temperate: esse erano tali quali le doveva suggerire la concitazione, che è commovimento d’animo e perturbazione d’intelletto.

Ad ogni modo la petizione fu scritta, come che essa si fosse, e sottoscritta dai principali cittadini e inviata alla Consulta di Stato, la quale, frattanto, non ostante l’opposizione sotterranea che le movevano il Governo e la Curia prelatizia, che la guardavano con sospetto26, spinta dall’opinione pubblica, aveva impreso a disimpegnare il proprio ufficio sul serio; e, dopo aver decretata la pubblicità de’ suoi atti, contro gli espressi desiderii di Pio IX, con diecinove voti contro cinque, ora prendeva l’iniziativa di proposte di legge, e domandava i resoconti [p. 281 modifica]consuntivi delle precedenti amministrazioni, e si adoperava, per quanto le era consentito dal suo organismo, di sostituire quella rappresentanza popolare con poteri legislativi, che mancava nello Stato romano.

Ed è tanto vero che, in quella petizione del popolo romano, chiedevasi ciò che era giusto e ragionevole, e ciò che naturalmente a tutti consigliavano e suggerivano le condizioni dell’ambiente, che la Consulta di Stato, già da circa un mese, aveva impreso a studiare quella grave questione delle milizie e degli armamenti, e ne aveva affidato V esame speciale alla sezione IV, la quale, sopra un rapporto del conte di Campello, rapporto che metteva in rilievo rinsufl3cienza delle milizie e la deficienza degli ordinamenti militari dell’esercito pontificio, ritenendo urgente necessità il provvedere, presentò alla Consulta riunita, che la approvò, con venti voti contro tre, il 15 gennaio, cioè cinque giorni dopo la presentazione della petizione popolare, la seguente proposta:

«La Consulta di Stato, valendosi delle facoltà accordate dall’articolo 26 del motu-proprio, esprime il voto che il Governo chiami senza indugio alcuni ufficiali superiori, distinti per opere e per fama, a dirigere ed organizzare la truppa pontificia. Questi in pari tempo serviranno a coadiuvare la sezione IV della Consulta nella (ordinazione del piano militare che le è affidato, e che è urgentissimo condurre a termine »27.

E quale, infatti, più naturale, logico e spontaneo provvedimento doveva e poteva presentarsi al pensiero del popolo romano e della Consulta di Stato che quello di preparare capitani, armi ed armati dal momento che — è lo stesso Farini che lo scrive — «l’indipendenza della Toscana pareva minacciata, perchè in causa delle questioni territoriali con Modena per Fivizzano, con Parma per Pontremoli, si levavano rumori, si muovevano armati, ed Austria proteggeva — e sarebbe stata stolta a non proteggere, aggiungo io — i suoi famuli principeschi? [p. 282 modifica]E sapevasi che il maresciallo Radetscky volgeva arditi pensieri nella mente e consigliava Vienna a rompere gli indugi, e proponeva correre addosso al centro d’Italia, dettar legge a Firenze ed a Roma, accampare forsanco sulla Sesia ed occupare Alessandria?»28.

E, se sapevasi tutto ciò che il Farini afferma - e con lui parecchi altri storici - non era naturale lo impulso dell’istinto dì conservazione che traeva il popolo romano a pensare alle difese e a chiedere ad alta voce buone armi e sperimentati capitani?

Frattanto a dare soddisfazione al popolo, o anche a una parte del popolo, ancora irritata per la diffidenza mostrata dal Pontefice il primo dell’anno, era stato invitato a dimettersi l’assessore di polizia Ferdinando Dandini, le cui opinioni reazionarie erano ben note e gli fu sostituito in quell’ufficio Francesco Perfetti di Pesaro, che era stato investito di consimile carica durante il regno italico ed era, poi, stato condannato a perpetuo ergastolo pei moti rivoluzionari del 1831.

Ma ad accrescere l’agitazione di quell’ambiente, in istato di ebollizione, giunsero il 17 gennaio in Roma le prime notizie della rivoluzione, avvenuta il 12 a Palermo e diffusasi poi per tutta la Sicilia.

Già da molto tempo i Siciliani si agitavano; due partiti, ugualmente potenti nell’isola, quello che voleva la divisione dal continente napoletano e la costituzione della Sicilia in regno separato, e quello unitario della Giovine Italia andavano preparando un sommovimento, tanto più facile a seguire quanto minore era il numero dei proseliti del Borbone fra le popolazioni sicule. Il perchè il giorno 12, dopo replicati avvisi mandati al Governo borbonico affinchè volesse evitare effusione di sangue, ristabilendo la costituzione, già data, nel 1812, e poi ritolta ai Siciliani, visto inutile ogni tentativo di pacifico componimento, una mano di audaci giovani trasse per le vie con bandiere e [p. 283 modifica]chiamando il popolo a libertà: donde la prima zuffa, che si mutò nei giorni successivi, in rivoluzione.

«E parve esempio nuovo vedere città sprovveduta di armi e di vettovaglie, e senza soccorsi di fuori, ribellarsi, dopo averne anticipatamente e replicatamente avvisato il principe, armato e deliberato a usar forza: indicandogli il giorno, l’ora il luogo, quasi a singolar tenzone lo disfidasse. Nè a tanto ardimento mancò splendida vittoria: e il di 12 parve davvero che sonassero un’altra volta le campane del vespro, e il grido di morte alla mala signoria rimbombasse da capo»29.

Mentre circoli, e giornali, e popolo del moto siciliano si allietavano in Roma, essendo morto il cardinale Francesco Saverio Massimo, ministro dei lavori pubblici, fu a questo ministero trasferito monsignor Rusconi, che fino a quel momento, aveva diretto il ministero delie armi, a presiedere al quale fu chiamato il principe Pompeo Gabrielli, che «era stato soldato in sua gioventù, ma ignaro di militare amministrazione, il quale null’altro di nuovo recava nel dicastero della guerra che la sua qualità di laico; avara anticipazione fatta dalla paura dell’aristocrazia clericale all’impaziente aspettativa di un paese, sazio e infastidito dei preti per modo, che in nessuna parte di Governo li poteva più sopportare»30.

La rivoluzione di Sicilia, per effetto della quale, dopo sanguinosi combattimenti e inutili bombardamenti, l’esercito borbonico, espulso da ogni angolo dell’isola, fu costretto a rifugiarsi e ad asserragliarsi nella cittadella di Messina, ebbe il suo seguito in tutto il reame di qua dallo stretto e a Napoli stessa ove, dopo varie popolari manifestazioni, il 29 gennaio il tremebondo tiranno fu costretto a concedere a’ suoi popoli la costituzione da elaborarsi sul fondamento di quella del 1820 e a scegliere frattanto un ministero liberale a capo del quale era messo il duca di Serra Capriola e di cui sarebbe anima Francesco Paolo Bozzelli, antico esule, uomo di profonda cultura politica e allievo della scuola dottrinaria del Guizot.

[p. 284 modifica]Nè è a credere - come altri ingenuamente ha opinato31 che Ferdinando II mostrasse docilità in quella concessione di liberali riforme e che sinceramente la facesse: egli vi fu tratto suo malgrado, anche nella speranza di potersi conservare il dominio della Sicilia: ma, fraudolentemente e da quel basso simulatore che egli era, si inoltrò per quella via col preconcetto disegno di ritrarsene, appena se ne offrisse il destro, come più che evidentemente dimostrarono tutti gli ulteriori atti del suo Governo, nei quali mancatore di fede, vassallo dell’Austria, devotissimo alla reazione chiaramente si palesò32.

[p. 285 modifica] Comunque, gli avvenimenti di Napoli produssero grande allegrezza in Roma, dove la sera del 31 gennaio una illuminazione spontanea e improvvisa fu fatta e una popolare dimostrazione sotto le finestre del ministro sardo, con auguri al re Carlo Alberto di imitare l’esempio del re Ferdinando; e i Napolitani residenti in Roma, esultanti di gioia, uniti ai Romani percorsero la città festeggianti; e sebbene cadesse dir ottissiìna pioggia, non si arrestarono punto, né venne meno il loro entusiasmo»33.

Il Municipio stesso, composto di elementi moderatissimi, incita, pel 3 febbraio, «i cittadini a far festa — tanta era la forza della pubblica opinione! — e la fanno nel modo solito: moltitudine in giro, bandiere, faci, concerti musicali, grida che vanno alle stelle: le bandiere tricolori si frammischiano alle pontificie: da piazza del Popolo si va al Campidoglio: il cardinale Altieri arringa il popolo dal balcone del suo palazzo: il popolare suffragio cominciava a tentare anche i cardinali; buon pro se per ottenerlo bisognava salire in bigoncia!»34.

Frattanto al cardinale Ferretti, dimessosi da segretario di Stato, succedeva in questo alto ufficio il cardinale Giuseppe Bofondi forlivese, «uomo di buona fede, di eccellente morale, profondo teologo e sacerdote di esemplarissima vita. È per ogni riguardo adunque un ottimo soggetto: ma reta grave e C esser poco assuefatto al maneggio dei grandi affari di Stato, non che la debole sua salute, ci fan ritenere che ben presto vorrà dimettersi da questa laboriosissima carica»35. Così un diarista moderatissimo. [p. 286 modifica]A chi legga attentamente il libro, da me più volte citato, del D’Haussonville, Histoire de la politiqìie extèrieure du gouvernement français (1830-1848) e l’altro del D’Ideville sul conte Pellegrino Rossi, più volte parimente citato, apparirà chiaro ed evidente come l’illustre statista carrarese, mosso dal suo grande affetto per l’Italia e dalla conoscenza che egli aveva, più esatta di quello che non l’avesse il primo ministro del re Luigi Filippo, signor Guizot, dell’ambiente italiano di quei giorni e, specialmente dell’ambiente romano, esercitasse a Roma, dalla elevazione di Pio IX al pontificato fino alla caduta della dinastia orleanese, un’azione energica ed utilissima su tutta la Curia, ma segnatamente sull’animo del nuovo Papa per strappare a questo e alla Curia tutte quelle riforme che a lui sembravano necessarie a prevenire l’azione della rivoluzione. Nel far tutto ciò il conte Pellegrino Rossi oltrepassò di molto le intenzioni e le istruzioni del Guizot: e si può affermare solennemente che, in tutta quell’azione sua, il grande economista si mostrò assai più cittadino italiano che ambasciatore francese, assai più tenero degli interessi della sua patria che dei ghirigori della ambigua politica italiana del signor Guizot36.

Ora, seguendo la corrispondenza sia officiale, sia privata, scambiata fra il Rossi e il Guizot, si vede nettamente come l’ambasciatore francese si affaticasse, con ardore grandissimo, ad ottenere dal Papa che la concessione delle riforme apparisse spontanea, che fosse fatta in tempo opportuno e non a stento, a bricciole e troppo tardi come, pur troppo, non, ostante le sue premure vivissime, si veniva facendo; e da quella corrispondenza risulta pure evidentissimo come il conte Rossi stimasse suprema necessità l’introduzione dell’elemento laico ~ le parole son sue ed egli si scusa del gallicismo elemento laico da lui adoperato - nel Ministero37.

Il conte Rossi aveva ripetutamente manifestata l’avversione profonda che egli nutriva per l’elemento ecclesiastico, da lui reputato corrotto ed inetto. Ma come gli era intravenuto per tutte [p. 287 modifica]le altre riforme, da lui suggerite a tempo e concesse sempre troppo tardi, cosi gli avvenne anche per questa della nomina di alcuni laici a ministri.

Appena il conte Pasolini aveva appreso la nomina del cardinale Bofondi, legato di Ravenna e romagnolo e perciò a lui legato di amicizia, a segretario di Stato e presidente del Consiglio dei ministri, gli aveva scritto per dargli opportuni consigli, perché «trovandosi il paese diviso fra le fazioni dei retrogradi, dei moderati e degli esagerati, era di somma importanza che il Governo si attenesse ai moderati. E, toccati molti errori del Governo, si lamentava della inerzia della Consulta e del Governo, stolto, e, meno la personale potenza del Papa, di malafede e del vedere dall’altra parte pericolose effervescenze, ed è la strada inetta per l’anarchia e per la invasione straniera»38.

E, allorché, il 7 febbraio, il cardinale Bofondi giunse in Roma il Pasolini ebbe un lungo colloquio con lui, nel quale rinnovò quei consigli e quelle lamentanze e suggerì «qualche concessione venisse data tosto e con sincerità e con fiducia - il che significa che la sincerità e la fiducia, anche a confessione del conte Pasolini, fin lì non erano state usate - e si cessasse una volta dal blandire, dall’obbedire al popolo tumultuante. Questo suggerimento così chiaro e risoluto - prosegue il conte Pier Desiderio Pasolini, che è il narratore dei consigli dati dal conte Giuseppe, suo padre — veniva inspirato da ciò, che il Pontefice tutto concedeva alle dimostrazioni di piazza e nulla ai suoi più fidati e più devoti consiglieri»39.

Confessioni preziose che, provenendo da fonti non sospetto di radicalismo, attestano due fatti: in primo luogo come la contraddizione imperante, e della quale nessuno si accorgeva, o alla quale, almeno, nessuno riferiva quelle oscillazioni e debolezze, comandasse a tutti e mettesse il Papa ogni giorno, ogni ora, nella condiziono di essere tirato di qua e di là, da un lato dal Rossi, dal Pasolini, dal Minghetti, dal Ventura, dal Corboli Bussi, dall’altro lato dal Lambruschini, dal Della Genga, dal [p. 288 modifica]Mattei, dal Patrizi, dal Bernetti e dai gesuiti, e lo costringesse a esitare e a non concedere, se non quando dalla paura del popolo tumultuante vi venisse spinto; e in secondo luogo come ragione avessero il popolo e gli agitatori del partito esagerato — userò il linguaggio del Pasolini — quando diffidavano non del Papa, ma de’ suoi ministri e dei prelati che lo attorniavano, i quali erano stolti e in malafede — è il conte Giuseppe Pasolini che lo afferma.

E come sempre era avvenuto per le precedenti riforme, cosi naturalmente avvenne - e naturalmente e inesorabilmente doveva avvenire - per questa dell’ammissione dei laici al ministero: essa non fu accordata se non dopo che l’8 febbraio, un tumulto fierissimo di popolo ebbe empito di spavento l’animo del Papa e dei reazionari.

Imperocchè, sparsasi la voce che il Consiglio dei ministri avesse respinta la proposta approvata dalla Consulta di Stato per gl’immediati provvedimenti di armamento40, gli spiriti eccitatissimi, per l’atteggiamento minaccioso dell’Austria, per gli armamenti del Piemonte e della Toscana, per i fatti luttuosi di Lombardia, per la costituzione accordata ai Napolitani e per l’insurrezione di Sicilia, proruppero in una generale agitazione e in pubblico fermento.

Si formavano per le vie e per le piazze capannelli di civici e di cittadini; si chiedevano e si davano novelle, si mormorava, si brontolava, si gridava al tradimento dei ministri di Pio IX, si tornava a parlare della necessità che i preti stessero in chiesa e lasciassero le cose dell’amministrazione ai laici. I capannelli ingrossavano, divenivano assembramenti in meno d’un ora, mentre un foglietto a stampa circolava tra la folla — un foglietto a stampa che fa inorridire, come un vero e proprio sacrilego attentato, l’ottimo Spada — nel quale, messe in luce la situazione pericolosa e le condizioni gravi del paese e quella malafede e stoltezza dei governanti — di cui pare fosse lecito parlare al conte [p. 289 modifica]Pasolini e non alla moltitudine - per effetto delle quali riuscivano frustranee le riforme largite dal Pontefice, altamente lodato in quello scritto, si gridava: abbasso i ministri sacerdoti e si designavano i nomi degli uomini fra cui il Papa avrebbe potuto opportunamente scegliere i propri ministri.

I nomi designati in quel foglietto stimo opportuno riferire anche io, perchè mi sembra che quei nomi, tutti di uomini di opinioni temperatissime, esprimano la moderanza, anzichè l’intemperanza delle domande della moltitudine, la quale altro non chiedeva, in quel giorno 8 febbraio, se non ciò che, da molti mesi, andavano chiedendo il conte Pellegrino Rossi, il conte Pasolini, il padre Ventura e gli altri consiglieri di Pio IX, che, pure essendo liberali, appartenevano a quella prediletta schiera di moderati nei quali soltanto era raccolta - secondo il Farini - l’onestà, la apienza, il vero amor di patria e tutte le virtù teologali e carlinali.

Ecco i nomi contenuti nel sacrilego foglietto:

«Ministro degli affari stranieri e presidente del Consiglio, principe Corsini, o figlio, don Neri Corsini;

«Ministro dell’interno, conte Pietro Ferretti, o Marco Minghetti;

«Finanze, principe Simonetti, o Zanolini di Bologna;

«Istruzione, Carlo Pepoli, o Terenzio Mamiani;

«Commercio e agricoltura, deputato Recchi, o principe Doria;

«Lavori pubblici, conte Massei, o principe Aldobrandini;

«Polizia (da abolirsi), intanto marchese Constabili;

«Giustizia, avvocati Sturbinetti, o Armellini, o Piacentini;

«Presidente del Sacro Collegio per gli affari ecclesiastici, cardinali Antonelli, o Ciacchi».

È una lista di nomi cosi ortodossa che migliore non avrebbe potuto dettarla il conte Pellegrino Rossi, o il conte Giuseppe Pasolini.

A quel tumulto accorrono alcuni fra i più autorevoli cittadini, alcuni fra i più autorevoli consultori a piazza Colonna, ove la ressa della gente è maggiore; si delibera di inviare al Papa una deputazione che è, lì per lì, composta del principe Aldobrandini e dei consultori di Stato conte Pasolini e avvocato [p. 290 modifica]Benedetti, i quali vanno al Quirinale ad esporre 1 desideri della moltitudine.

Frattanto una compatta falange di popolo, capitanata da Ciceruacchio, va alla Lungara al palazzo del senatore principe Corsini, che è pregato a recarsi egli pure dal Papa.

Torna la deputazione e riporta «dal sovrano certezza di utili cangiamenti nel Ministero, di novella ordinazione di questo con uomini di pubblica fede, di armamento di truppe, di lega politica col Piemonte e la Toscana; cose, cui il benefico Pio IX, volgendo in mente i bisogni del popolo e le condizioni dei tempi, aveva già impreso a trattare. Una potenza guerriera amica ed italiana darà cinque ufficiali per riordinare la nostra truppa, per armarci a forte difesa: fra questi crediamo Durando di sperimentata fede e valore: egli è già qui, egli affretterebbe l’opera. Il senatore era andato con quegli stessi deputati e il principe Borghese al sovrano, e questi essendo uscito di palazzo, si dirigevan quegli ad incontrarlo. Intanto ferveva il popolo ignaro della cagion del ritardo: la piazza che dal popolo ha nome, fatta già centro de convegni popolari, la via del Corso gremivansi di accorrenti: era un richiedersi con le parole, con gli atti, col volto: si fondono i gruppi in una sola massa che si distende dalla piazza del Popolo alla piazza di Venezia. Una voce si ascolta: "Forti, abbiamo un Pio IX: vinceremo i suoi e nostri nemici". Trabocca allora il sentimento della immensa moltitudine in un grido: "Evviva Pio IX solo! - Armamento! - Ed altre voci che indicavano ai ministri che per conoscere i bisogni del popolo, per assicurarlo, è mestieri conciliarsene la fiducia, agire in buona fede, udire i consigli di coloro che veramente sentono il bene e la sicurtà della patria ed accoglierli. Così come mare fremente commovevasi la grande massa, gridando, strepitando: "Giù gli uomini di mala fede, abbasso, abbasso!" Viva l’indipendenza d’Italia, armi, armi!

«E che eran grida da esser seguite da azione lo diceva il volto, lo sguardo di ognuno, se il popolo non avesse avuto fiducia intera nel suo sovrano e nel proprio rappresentante, il senatore Corsini. Cadeva la notte e la ressa cresceva e le voci crescevano e la commozione cresceva. Alla piazza del Popolo! [p. 291 modifica]— si grida; e là si accalca il popolo intero. — Ecco il senatore. — Egli parla fra il plauso popolare: egli arreca i sovrani conforti. Parla il rappresentante del popolo, del suo dire chiama testimonio il principe Borghese: e il popolo grida: - il principe Corsini non ha d’uopo di testimoni. Il dottor Masi ripete le parole del senatore di Roma. Questi assicura che la domanda del popolo sarà adempita: nella settimana il Ministero sarà rinnovato, riorganizzato: uomini secolari, di pubblica fede vi saranno: verranno ufficiali di potenza amica, cui già son richiesti, a riorganizzare la truppa, e da potenza italiana, guerriera: essere il nostro Stato in perfetto accordo politico con la Toscana e il Piemonte. È meraviglioso come il popolo nostro si pieghi al parlare di un uomo di sperimentata fede: egli all’istante percepisce, tuttochè sia in grande commozione, che all’adempimento de’ suoi voti vuolsi qualche dì. La settimana! Si grida: "Viva Pio IX, viva il senatore di Roma, i principi Aldobrandini, Borghese!" e giù si mette per la via del Corso, festeggiando il suo rappresentante, che nella sua carrozza incede nel mezzo la grande massa. Questa lo accompagna al suo palazzo, lo saluta con evviva: quegli appare sulla loggia con Ciceruacchio al fianco: ringrazia il popolo della fiducia che ha posto in lui - dice ad alta voce: - "fidate in Pio IX che è con voi. I segreti dei principi non possono sempre svelarsi: egli ha d’uopo di consigliarsi sopratutto col suo cuore." Lungo spontaneo plauso di gratitudine interrompe le parole del senatore egregio: - si, col suo cuore - si ripete da tutti. - Ciceruacchio leva alta la voce: - Non strapazziamo più il nostro principe. - E l’idea del bravo, dell’onesto popolano è intesa da tutti: rispettiamo una salute sì cara: alle nostre case, alle nostre case. - Viva Pio IX! - Viva il principe Corsini! - E la grande massa tacitamente si allontanò.

«Perchè i calunniatori del popolo si vergognino con sè stessi, diciamo noi che esso, anche nella sua, commozione, mentre si vede tradito da maligni non tradisce mai l’indole sua generosa. — Tolga il Cielo che noi aduliamo: questa vile passione la lasciamo a chi è nemico del popolo; ma la generosità di esso è conosciuta da’ suoi calunniatori per prova, se voglion essi domandarne la propria coscienza. - Valgan ora a [p. 292 modifica]fermarla questi particolari. — Circa l’avemaria rompeva i gruppi del popolo un carretto sopra cui era un pover’uomo. — Stranita la massa da quell’incidente mandava alcun fischio, allorchè un giovane ardente di patria carità, grida: - Egli è povero, rispettatelo, è nostro fratello. — Bravo, bravo — gridan tutti e tutti a contornare il carretto, a chiedere scusa al carettiere di qualche fischio sconsiderato. — Giunto il popolo alla fine del Corso, in mezzo a fragorose voci uno grida: rispetto ai moribondi41 - e tutti passaron dal clamore al silenzio, Quindi riprendono gli evviva a Pio IX solo! Viva papa Ganganelli! Viva Corsini! Viva Gioberti! l’indipendenza d’Italia, i Siciliani e la Costituzione!

«Il fermento popolare non è cessato però: si parla di aspettare la settimana, fidare in Pio IX, nel senatore, si parla dell’attività patria spiegata dall’Aldobrandini; ma doversi stare all’erta perchè i nemici comuni non tentino un qualche colpo di mano. A questo stato sono le cose alle sei pomeridiane, ora in cui scriviamo»42.

E il fermento popolare e l’attitudine minacciosa della folla durò anche il giorno successivo 9 febbraio e 1 rivoluzionari, gli agitatori, gli esagerati e, primo fra questi, Ciceruacchio, ebbero a durare una grande fatica a temperare, qua e là, fra i più focosi assembramenti, le impazienze della folla con le loro arringhe e concioni; arduo e pericoloso ufficio in quel giorno43.

Anche da altre città dello Stato, e specialmente da Bologna, pervenivano al Governo deliberazioni di Circoli, di Consigli comunali, di battaglioni civici, con le quali si sottomettevano domande simili a quelle fatte presentare al Papa dal popolo romano.

Frattanto la sera del 9 si riuniva il Consiglio dei ministri, presieduto dal Papa e al quale questi aveva voluto fossero invitati il principe Corsini senatore di Roma, il principe Rospigliosi generale comandante della guardia civica, il principe Massimo [p. 293 modifica]di Rignano, generale di brigata capo dello Stato Maggiore della civica stessa e il duca Michelangelo Caetani di Teano, il quale era presidente del Circolo romano.

Il principe Corsini ebbe il lodevole coraggio di parlare alto ed aperto a sostegno delle popolari domande e specialmente sulla necessità di dare l’amministrazione della cosa pubblica in mano ai laici e sulla urgenza di provvedere subito ed efficacemente agli armamenti.

E pare certo che le sue parole trovassero valevole sostegno da parte del principe di Teano e del duca di Rignano44.

La guardia civica, in questi tumulti, diede nuova prova del suo patriottismo, poichè molti civici corsero in armi a mescersi alla folla e, nel tempo stesso, nuova prova diede della sua disciplina; poichè, battuta la generale dai tamburi per chiamare i militi a raccolta, accorsero essi numerosissimi ai respettivi quartieri e prestarono lodevolissimo servizio pel mantenimento della tranquillità e dell’ordine pubblico; tanto che la guardia stessa ottenne dal Papa, cinque giorni dopo, l’autorizzazione di prestare servizio nella propria anticamera45.

In seguito a questi fatti, la sera del 10 il Ministero presieduto dal cardinale Bofondi diede le sue dimissioni, mentre il Papa mandava fuori la famosa allocuzione, nella quale, riaffermando il suo vivo desiderio di formare la felicità de’ suoi popoli, dichiarava che egli era sempre sul meditare, salvi i suoi doveri verso la Chiesa, circa il modo di allargare le istituzioni date, e ad accrescere nel Consiglio de’ suoi ministri la parte laicale. Affermava aver pensato al riordinamento delle milizie prima ancora che la voce pubblica lo richiedesse; coltivare lui amichevoli relazioni con gli altri principi d’Italia; nulla che giovar possa alla tranquillità e dignità dello Stato sarà mai da lui negletto; ma esser pronto a resistere agl’impeti disordinati e alle domande non conformi a’ suoi doveri. «Ascoltate dunque — l’allocuzione è indirizzata ai Romani — la voce paterna che v’assicura: e non vi [p. 294 modifica]commuova questo grido che esce da ignote bocche ad agitare i popoli d’Italia con lo spavento di una guerra straniera, aiutata e preparata da interne congiure o da malevola inerzia di governanti». Non veder lui qual pericolo possa soprastare all’Italia, finchè congiunte da un vincolo di gratitudine siano la forza dei popoli e la sapienza dei principi, con la santità del diritto. Poi, con impeto di sublime retorica e con logica forraidar bile, dal punto di vista della sua autorità di Pontefice della Chiesa cattolica, con logica formidabile, di cui quattordici mesi appresso i suoi sudditi sperimenterebbero tutta la terribile verità. Pio IX, il quale in tutta questa allocuzione, ha dimenticato e sorpassato una cosa sola, una cosa da nulla: le popolazioni lombardo-venete, gementi sotto il giogo straniero e imploranti il riscatto, chiude con le famose parole: «Ma Noi massimamente, Noi capo e Pontefice supremo della santissima cattolica religione, forsechè non avremmo a Nostra difesa, quando fossimo ingiustamente assaliti, innumerevoli Figliuoli che sosterrebbero come la casa del padre il centro della cattolica unità? Gran dono del Cielo è questo fra tanti doni con cui ha prediletto l’Italia: che tre milioni appena di sudditi Nostri abbiano dugento milioni di fratelli di ogni nazione e d’ogni lingua. Questa fu in ben altri tempi e nello scompiglio di tutto il mondo romano, la salute di Roma. Per questo non fu mai intera la rovina dell’Italia. Questa sarà sempre la sua tutela, finchè nel suo centro starà questa Apostolica Sede. Oh! perciò benedite, gran Dio, l’Italia e conservatele sempre questo dono di tutti preziosissimo, la fede. Beneditela con la benedizione che umilmente vi domanda, posta la fronte per terra, il vostro Vicario» ecc. 46.

Questa allocuzione, affissa agli angoli delle vie, fece andare il popolo romano in visibilio; ma non il romano solo, letta all’indomani, il doman l’altro, cinque giorni dopo, pubblicata nei giornali fece andare in visibilio tutti i popoli della penisola. E perchè? E di che tanto si allietavano gl’Italiani che fosse scritto in quella allocuzione? A queste domande risponde l’insigne storico Giuseppe La Farina.

[p. 295 modifica]«Lette queste parole, Roma va sossopra per letizia, e cosi tutto lo Stato, e cosi tutta l’Italia; ma di che si rallegrano i popoli, onde viene la loro esultanza? Da fatalissima e universale cecità, che parrà inesplicabile agli avvenire! Pio IX parla da Pontefice, ed il popolo crede che egli parli da Principe italiano; Pio IX si dichiara deliberato a difendere il Pontificato ed il popolo lo crede apparecchiato a liberare l’Italia; gl’Italiani non vogliono più sopportare i forestieri dentro i loro confini, ed il Pontefice proclama lo solidarietà di tutti i popoli cattolici nella difesa del Papato, E gl’Italiani si rallegrano alla proclamazione di questa dottrina, gioiscono di avere dugento milioni di fratelli di ogni nazione e di ogni lingua, pronti ad accorrere in difesa della Sede Apostolica da oltr’Alpi e oltremare, di quella Roma, ch’e’ sperano centro della nazionatila italiana ed il Papa dice centro della cattolica unità!»47.

È vero: anche il popolo era acciecato dalla passione e non vedeva, neppure qui, dove l’eloquenza di monsignor Corboli-Bussi, autore dell’allocuzione, l’aveva cosi chiaramente manifestata, la contraddizione che rigida, severa, irremovibile, agghiadava, con la lunga ombra della sua gigantesca e spettrale figura, tutti gli entusiasmi di quella situazione. Ma le moltitudini si soffermavano alle frasi che più le commovevano e che meglio sembravano corrispondere e collimare con i propri desiderii, con le proprie aspirazioni e coi propri ideali. Il Pontefice che, in nome della religione, benediceva la patria era cosa cosi singolare, cosi inusitata!... Da tanto tempo i popoli erano avvezzi a vedere divise ed avverse fra loro le due idee che quelle due parole rappresentavano, che il vedere ora quelle due parole associate in una benedizione del Papa traeva all’entusiasmo e impediva di soffermarsi sul concetto fondamentale a cui si inspirava l’allocuzione. La benedizione papale pareva — e doveva parere, a quei giorni ai nostri padri — cosi gran cosa da non permettere loro di sottilizzare soverchiamente sul recondito senso di essa, né di esaminare troppo con la lente dell’avaro le parole da cui era preceduta. Quella gente viveva sotto l’influenza del Primato del Gioberti e vedeva in Pio IX il papa preconizzato dal [p. 296 modifica]filosofo torinese: era naturale dunque che, con quella benedizione, Pio IX apparisse, agli occhi dei contemporanei, l’atteso Alessandro III. Il fatto morale che derivava dalle parole benedite, gran Dio, l’Italia era tale, era cosi grande il beneficio che, in quel momento, da quelle parole derivava alla causa nazionale, che nessuno aveva tempo, nè volontà di portare sull’allocuzione papale l’indagine critica con cui l’ha potuta esaminare il postero, dotto della sapienza del poi.

E che cosi fosse, oltre all’entusiasmo generale di tutti gli Italiani valga a provarlo un singolo fatto, piccolo per sè stesso, ma importante pel suo valore morale. La Pallade - cioè il più spigliato e scapigliato fra i giornali che allora si pubblicavano in Roma - a datare dal suo foglio del 10 febbraio, n. 164, pose sotto al suo titolo la frase: Benedite gran Dio l’Italia in caratteri maiuscoli e ve la mantenne fino al foglio del 29 dicembre 1848, n. 432: e, soltanto nel numero successivo 433 del 30 dicembre, la cancellò per sostituirvi l’altra: Viva la Costituente italiana, che conservò fino all’ultimo suo numero.

Si spiega, adunque, e sino a un certo punto si giustifica l’entusiasmo che suscitò in Roma l’allocuzione: la quale produsse per conseguenza immediata una imponente manifestazione popolare, che lo Spada chiama un’agglomerazione di popolo e che egli stesso, fieramente avverso a quella dimostrazione, è costretto a confessare essere composta di circa cinquemila persone.

Mosse il popolo festante alle quattro pomeridiane da piazza del Popolo. «Ad onta dell’ordine recentissimo del comando civico, che vieta le riunioni dei militi col popolo, procedono dodici pelottoni di essi armati di daga, seguono di poi il battaglione carissimo Speranza e moltissime sezioni di popolo, miste a soldati di ogni arma; quindi quattro pelottoni di ecclesiastici con alla testa tre bandiere, la pontificia in mezzo, e ai lati due tricolori d’Italia, tutti con nastri italiani al petto; i cori, le sinfonie, i vessilli erano in grandissimo numero,

«Giunto sì straordinario corteggio alla piazza del Quirinale, non tarda Pio IX a presentarsi al peristilio del pontificio palazzo, e fa cenno di voler parlare: la piazza è, fuori del consueto, sgombra di carrozze, e da cavalli de’ dragoni; la gran fontana non getta acqua: tutto accenna ad una quiete [p. 297 modifica]a bella posta procurata. Il popolo silenzioso attende avidamente la parola del Principe, che con fedel precisione qui riportiamo. "Prima che la benedizione di Dio scenda su di voi, sul resto del mio Stato e, lo ripeto ancora, su tutta l’Italia... " A tali accenti il popolo piange per gratitudine e contentezza; tanto era grande l’affetto con cui parlava Pio IX, "... prego che siate tutti concordi, manteniate quella fede che avete promessa al Pontefice ". Il grido universale - sì, giuro, - imita il fragore del tuono, e questa interruzione naturalissima ha durato per qualche tempo: quindi Pio IX continua: "Avverto però, che non si levino più quelle grida, che non sono del popolo, ma di pochi; e che non mi si facciano alcune domande contrarie alla santità della Chiesa, che non posso, non debbo, e non voglio ammettere. A questa condizione con tutta l’anima mia vi benedico48.

Ho voluto riportare, nella sua ingenua e barocca semplicità, la narrazione del Grandoni, come quella che più è in armonia col racconto che di quell’avvenimento mi ha ripetuto più volte l’amatissimo padre mio, testimone oculare ed auricolare, il quale aggiungeva un particolare, non rammentato dal Grandoni, ma notato dallo Spada e cioè che le tre frasi, non posso, non debbo e non voglio, furono pronunciate dal Papa con veemente concitazione di voce.

Già, nello stesso giorno, il Pontefice aveva ricevuto in udienza i colonnelli della civica e gli ufficiali superiori delle milizie regolari residenti in Roma, e aveva loro detto: — appellarsi esso alla loro lealtà, affidare alla civica la tutela dell’ordine, delle vite dei cardinali, delle vite e delle sostanze dei cittadini: aver nominato una Commissione ad esaminare fin dove e in quanto si potessero estendere le riforme iniziate: voler mantenere ciò che aveva promesso; non volere accettare e subire coercizioni; non voler consentire mai in cose contrarie alla Chiesa e alla [p. 298 modifica]religione; stessero in guardia «contro i male intenzionati che, sotto vari pretesti, desideravano sconvolgere l’ordine pubblico, per potersi più facilmente appropriare le altrui sostanze».

E aveva conchiuso: «La Costituzione non è nome nuovo nel nostro Stato e quegli Stati che attualmente l’hanno la copiarono da noi. Noi avemmo la Cambra dei deputati nel Collegio degli avvocati concistoriali e la Camera dei pari nel Sacro Collegio dei cardinali fino dall’epoca di Sisto V»49.

Nelle quali parole del Pontefice sono da notare parecchie cose: e primieramente come egli fosse mosso a tutte quelle promesse da una altrettanto grande quanto ingiustificabile e insensata paura; in secondo luogo come egli evidentemente fosse, da lungo tempo, ingannato dai prelati, che io circondavano e i quali gli andavano persuadendo i movimenti della moltitudine logicamente prodotti dal complesso delle cause cui più volte ho accennato - essere suscitati da comunisti e sovvertitori che non avendo nulla da perdere50, sotto vani pretesti, desideravano sconvolgere l’ordine pubblico; per potersi più facilmente appropriare le altrui sostanze51, opinione erronea e priva di qualsiasi fondamento e che pure erano riusciti a fargli credere verità; e in terzo luogo, finalmente, quanto grande fosse l’ignoranza del Pontefice intorno al diritto costituzionale, quando paragonava alle Camere elettive e legislative moderne il Collegio degli avvocati concistoriali, tanto per le sue origini, quanto per le sue attribuzioni cosi dissimile da quelle.

Ad ogni modo questa è la storia genuina e vera dei narrati avvenimenti, spogliata di tutte le favole e le calunnie onde hanno cercato di adulterarla, per ignoranza o per malizia, il Balan, il Balleydier, il Croce, il D’Amelio, il De Saint-Albin, il D’Arlincourt ed il Lubienscki.

E il giorno 12 febbraio il Ministero Bofondi fu ricostituito cosi:

[p. 299 modifica] Cardinale Giuseppe Bofondi, segretario di Stato per gli affari eteri e presidente del Consiglio;

Monsignore Francesco Pentini, ministro dell’interno;

Cardinale Mezzofanti, ministro dell’istruzione pubblica;

Monsignor Roberti, ministro di grazia e giustizia;

Monsignor Morichini, ministro delle finanze;

Duca Caetani di Teano, ministro di polizia;

Avvocato Francesco Sturbinetti, ministro dei lavori pubblici;

Conte Giuseppe Pasolini, ministro di agricoltura e commercio;

Principe Pompeo Gabrielli, ministro delle armi.

Così nel Ministero entravano quattro laici, ciò che faceva legittimamente sperare ai liberali che, ben presto, al Governo siederebbero i laici soltanto; ma questo fatto doveva più che mai aizzare le ire dei clericali e specialmente dei cardinali e dei prelati, i quali si vedevano, cosi da vicino, minacciati nei loro privilegi, e che, perciò, nulla lascerebbero di intentato per rovesciare tutti quei nuovi liberi ordinamenti.

Cosi la contraddizione, che cominciava a manifestarsi al principio dell’anno, rimaneva nuovamente avvolta fra le rosee nuvolette che l’allocuzione del 10 febbraio e le concessioni liberali, onde essa era stata seguita, le avevano nuovamente sollevate attorno; e cosi il rinnovato e rinfocolato entusiasmo popolare manteneva vivo e immanente l’equivoco, che, dalla contraddizione scaturiva, e che tutta coinvolgeva e dominava quella situazione.

E che l’entusiasmo fosse reale e non fittizio, e che fosse meramente popolare lo provano ad evidenza quei quattro pelotoni di ecclesiastici che salivano, insieme al popolo, sulla vetta lei Quirinale la sera dell’11 febbraio, portatori del vessillo pontificio, ma anche portatori di due bandiere nazionali dai tre colori.

Il giorno 14 il Papa nominò una Commissione composta dei cardinali Altieri, Antonelli, Bofondi, Castracane, Orioli, Ostini e Vizzardelli, e dei monsignori Barnabò, Corboli-Bussi e Mertel per involgere e meglio coordinare le istituzioni già date, e proporre quei sistemi governativi che fossero compatibili con la autorità del Pontefice e con i bisogni dei tempi; il che, in lingua volgare, significava che quella Commissione era nominata per [p. 300 modifica]esaminare se e fino a qual punto una Costituzione fosse possibile nello Stato pontificio.

Ma, frattanto, il popolo romano festeggiava, nello stesso giorno, 14 febbraio, il motu-proprio di Carlo Alberto, dato da Torino l’8 di quello stesso mese, e col quale egli prometteva ai popoli subalpini lo Statuto fondamentale di cui tracciava le linee principali, e il motu-proprio di Leopoldo II, dell’11 di quel mese stesso, con cui egli pure annunciava l’imminente pubblicazione della Costituzione.

Dimostrazioni festanti furono fatte al rappresentante del re di Sardegna in Roma, marchese Pareto, la sera del 14, e la sera del 19 al rappresentante di Toscana, e la Pallade del giorno 14 uscì tutta stampata in caratteri rossi. Essa conteneva un primo articolo intitolato: Viva Italia! in cui si faceva risalire sino a Pio IX il merito delle tre Costituzioni ormai assicurate a tre Stati italiani: nel secondo articolo pubblicava il motu-proprio di Carlo Alberto: nel terzo quello di Leopoldo II, e nel quarto una corrispondenza intitolata: Le feste di Napoli, ecc.52.

E, nel numero successivo, il giornaletto popolare, fustigando vigorosamente il Guizot, cattivo profeta e creatore di cattivi metodi storici, rendeva ragione del perchè fosse uscito il giorno innanzi in caratteri rossi col seguente articoletto:

«Pallade» perché rossa?


«Vi siete fatta rossa? — dicevano ieri alcuni a Pallade — Sfido io. Dopo che M.r Guizot aveva detto che a nominare Costituzioni in Italia vi volevano anni ed anni ed anni, e vedere quella di Napoli e udire che aveva echeggiato in Piemonte e prometterla Leopoldo alla Toscana e sfido io che una buona italiana non siasi intesa ribollire il sangue nel cuore, e che, per la gioia del cuore le sia salito alla testa e apparso sul volto! Mr Guizot, un ministro del re de’ Francesi, politico che osservava sottilmente le cose d’Italia, prendere un [p. 301 modifica]marrone di quella fatta I ... Che dirà Mr Ouizot? meglio che diranno a lui qicei che, secondo il suo givulizio, davano in coledine? (sic). Vi par ella gioia comune codesta? da non diventar rossi, verdi, bianchi ad un punto? E se si verifica presto quel che Pallade pensa, vedrete come diventa! Ella, lo sapete, ha nel volto quello che ha in cuore»53.

E se ho riferito questo articoletto si è perchè esso è una delle cento manifestazioni delle condizioni di sovraeccitazione degli animi a quei giorni, in cui il desiderio di una Costituzione era universale: essa non era invocata ormai più, ma imposta dalla comune volontà della grande maggioranza della popolazione dello Stato romano. Non erano soltanto il D’Azeglio, il Mamiani, il Canino, lo Sterbini, Ciceruacchio, il Masi, il Meucci, il Zauli-Sajani, il Mattey, il Checchetelli, il Dragonetti ed altri siffatti esagerati che la volevano, ma, con pari ardore e tenacità di propositi, la volevano l’Orioli, il Minghetti, il Recchi, il Farini, l’Armandi, il Corsini, il Rignano, il Pantaleoni, il Benedetti, il Ferretti, il Pasolini, tutto il fiore dei moderati più puri.

Basterà leggere due lettere scritte, di quei giorni, da quell’onestissimo uomo che fu il Pasolini, l’una indirizzata a Gerolamo Rota e l’altra a Giacinto di Collegno, per vedere quale opinione egli avesse del Ministero di cui era chiamato - a sua insaputa, senza essere stato preventivamente interpellato - a far parte. «Un uomo politico - egli scrive al Rota - non entra in un Ministero composto di elementi affatto opposti, dove anzi predomina il principio contrario al proprio: un uomo di cuore pub subire la durezza di una tal posiziona, sacrificando così la sua considerazione politica, ma satinando il paese da un disaccordo fatale nel momento che è incerta la soluzione di una delle più grandi questioni dello Stato e del cattolicismo». Egli dichiara che non desiderava di «dare il suo nome ad un Ministero sotto il quale sono state fatte arbitrarie carcerazioni, ecc.»54.

In ambo le lettere egli afferma con candore pari all’energia che il «suo scopo è la Costituzione: e quale ci bisogna: [p. 302 modifica]italiana», fine che egli vuol raggiungere «con ogni sforzo, fosse anche con la vita»55.

Col Collegno poi fa uno sfogo confidenziale: «Credetemi, qui non si ha ancora l’idea di ciò che deve essere un ministro, ma voi pure non potete immaginare che cosa sia un ministro qui»56.

Non pare che le delizie del Governo pontificio, anco dopo che per venti mesi vi si erano introdotte riforme parecchie, fossero tali quali si piace dipingerle l’ottimo Spada.

Il Papa, sobillato continuamente dai gesuiti e dai gregoriani57, viveva sempre in paura, onde il giorno 20 febbraio volle passare in rivista le sei legioni della guardia civica nel gran cortile del Belvedere al Vaticano. I civici accorsi nelle file dei battaglioni sommavano ad ottomila, in bell’ordine e in ottimo arnese, proprio come vecchi soldati.

E, al solito, volle arringarli per dir loro che «egli vedeva in essi i nemici dell’anarchia, gli amici della Santa Sede e del Pontefice, Mio Dio! Benedite - conchiuse il Papa - questo corpo, e si conservi fedele a voi ed alla Chiesa; e chiuda gli orecchi ai pochi nemici insidiatori del bene». E benediceva i degni capi, i militi e le famiglie dei militi.

Sempre con quella fissazione dell’anarchia inchiodata nel cervello. Pio IX era dominato da una maledetta paura. Il poveretto ne aveva ben donde! Gli parlavano d’anarchia giorno e notte!

Frattanto si avvicinava il carnevale e la preoccupazione febbrile delle cose politiche - perchè il popolo istintivamente sentiva che in quel momento si trattava delle sorti e dell’avvenire della patria italiana - allontanava la gente dal parteciparvi con la consueta spensieratezza e col solito ardore. I giornali liberali procuravano, è vero, di alimentare quell’avversione al carnevale e ai divertimenti - cosa che fa andare su tutte le furie lo storico Spada - coi loro articoli, nei quali [p. 303 modifica]mostravano come, mentre a Milano, a Pavia, a Padova, a Messina — che era stata bombardata dai Borbonici — si piangeva, non si poteva sollazzarsi e ridere a Roma. Cosi, un po’ pel sentimento verace di molti, un po’ per la scimiottica mania imitatrice di altri, il carnevale effettivamente passò scialbo e sbiadito, e l’ultima sera alla famosa festa dei moccoletti non ne fu acceso pur uno. Dimostrazione di unanimità che alcuni vogliono esclusivamente attribuire alla potente organizzazione del partito esagerato, ma che deve essere invece riconosciuta precipuamente come risultato della onnipotenza della pubblica opinione.

A dimostrare intanto quella parte che trapelava al pubblico delle tenebrose mene del partito reazionario per attraversare in tutti i modi l’opera di riforma del Pontefice - mene spesso negate dallo Spada e dagli altri storici-romanzieri-favoleggiatori papalini - noterò due fatti che - quando si consideri come l’azione gesuitica si esercitasse nelle tenebre * potranno dare, da quel poco che è dato vedere, la misura di tutto ciò che si operava in segreto, e che non era e non è concesso più scorgere.

Mentre il Pontefice, per gli eccitamenti della Consulta e più per quelli dei nuovi ministri, specie dello Sturbinetti e del Pasolini, si era rivolto al re Carlo Alberto per chiedergli l’invio di sperimentati ufficiali superiori che riordinassero le demoralizzate milizie papali, il partito reazionario osava proporre per tale ufficio senza bisogno - si diceva - di ricorrere a ufficiali stranieri il generale svizzero, pensionato — per ragioni di prevaricazione — fin dal 1841 dal Governo pontificio stesso, De Kalbermatten58.

E che la cosa sia vera lo prova il fatto che la Gazzetta di Roma, giornale ufficiale, assunse, nella sua parte non ufficiale, la difesa della proposta del generale De Kalbermatten, sostenendo in proposito una viva polemica col Contemporaneo, il quale segnalò, fra le altre cose, che il De Kalbermatten aveva «rapporti di affinità con S. A. il principe De Metternich e [p. 304 modifica]con S. E. il generale conte Ausperg»59. La causa d’Italia sarebbe stata, come si vede, bene affidata!

L’altro fatto, «che sembrerà incredibile, perchè accaduto in un tempo in cui non potea essere più inopportuno e più pericoloso»60, fu questo che il gesuita padre Rossi, predicando, nella chiesa del Gesù, levò dal «pergamo un grido contro la Costituzione, asserendo non desiderarsi da tutti tal forma di Governo, e principalmente da coloro che vivono nella moderazione»61.

L’onesto Spada, cosi scrupoloso razzolatore dei più sciocchi pettegolezzi che possano in qualsiasi modo tornare contrari al partito liberale, non fece motto affatto della proposta relativa al generale De Kalbermatten; e parlò soltanto dello scandalo del padre Rossi, cercando di attenuare la cosa per quanto gli era possibile, sebbene non osasse negarla assolutamente.

E il bello poi si è che, dopo tali provocazioni, le quali - lo ripeto - non manifestavano alla luce del giorno che una centesima parte di ciò che si operava nelle tenebre, gli storici papalini e i dottrinari van sulle furie perchè il popolo gridava: Abbasso i gesuiti! Morte ai gesuiti! Ma se i reverendi padri seminavano vento come dovevano non raccogliere tempesta?

Il giorno 4 marzo giunsero in Roma le prime confuse notizie della rivoluzione parigina del 24 febbraio, e subito ne fu un grande fermento; non fu che il 5 successivo che la novella fu accertata per i dispacci pervenuti all’ambasciatore francese conte Rossi.

Non descriverò i festeggiamenti e le manifestazioni popolari a cui quel gravissimo avvenimento diede luogo in Roma. La repubblica, sostituita alla dinastia orleanese in Francia, era un fatto che sopravveniva a mutare completamente l’indirizzo che, fino a quel momento, avevano avuto le cose italiane, anzi era un fatto che influirebbe a determinare un immediato mutamento [p. 305 modifica]nella situazione europea: era il segnale della rivoluzione generale di tutto il grande partito liberale contro il vecchio edificio feudale, chiesastico e reazionario, con tanta fatica ricostruito dai vincitori del grande Napoleone, nel trattato di Vienna del 1815. E della indiscutibile influenza di quel fatto sulle cose italiane non tennero e non vollero mai tener conto - e anche oggi non vogliono - gli storici dottrinari e subiettivi: eppure la verità impone allo storico imparziale ed obiettivo di notare che quel fatto gettò la costernazione e lo sgomento nel campo dei reazionari italiani, e costrinse i principi, anche i più reluttanti — come Pio IX — ad affrettare quelle concessioni a cui, senza quel fatto, non si sarebbero mai adattati; che quel fatto turbò e sconcertò i disegni e le speranze del partito moderato nei vari Stati italiani; che quel fatto inanimi e rese fiducioso ed audace il partito repubblicano.

Mentre la Commissione dei sette cardinali e dei tre monsignori, nominata dal Papa per istudiare il disegno di Costituzione da darsi ai popoli dello Stato romano, lavorava - e Dio solo sa con qual cuore e con qual lena - attorno a quel progetto; mentre Vincenzo Gioberti scriveva da Parigi lettere confortatrici e piene di entusiasmo a Pier Silvestro Leopardi, a Roberto D’Azeglio, al Montanelli, al Massari - lettere pubblicate dai giornali per eccitare gl’Italiani a concordia fra di loro e coi loro principi, e li dissuadeva «dall’imitare stoltamente la Francia, perchè tanto sarebbe il parteggiare per la repubblica, quanto il rompere la lega italiana e precipitare i nostri principi in grembo all’Austria» e mentre il Mazzini costituiva il 5 marzo a Parigi «l’associazione nazionale italiana» con intendimenti repubblicani ed unitari — e perché e come egli avrebbe potuto, unitario e repubblicano, costituirne una con intendimenti monarchici e federativi? — il Consiglio comunale di Roma, non eletto dal voto popolare, ma dalla sola volontà del Pontefice, il Consiglio comunale di Roma, composto nella sua grandissima maggioranza di uomini a Pio IX e come principe e come Pontefice devotissimi, deliberava all’unanimità un indirizzo al Papa con cui gli chiedeva «un Governo a forma rappresentativa, e perfettamente convenevole alla presente civiltà, e durabile quanto non pur la vita, ma il nome e la [p. 306 modifica]gloria di Pio IX»62. L’indirizzo, pieno di laudi pel Pontefice e pieno di proteste di gratitudine e di devozione, conchiudeva coll’invocare che per opera di Pio IX «le genti italiane si colleghino prontamente a mantenere e propugnare la interna sicurezza e la nazionale dignità».

E poi l’onesto Spada e l’illustre Farini verranno a parlare delle agitazioni degli esagerati e dei sommovimenti di piazza!

L’indirizzo fu solennemente presentato al Papa dal senatore, dai Conservatori e da una Commissione del Consiglio: Pio IX rispose trovar giustificata la domanda dal succedersi, anzi dal precipitare degli avvenimenti: lui essere indefessamente inteso a cercar modo di soddisfare il pubblico voto; difficile essere, in chi riunisce due grandi dignità, tracciare la linea precisa che deve distinguere l’uno dall’altro potere, e ciò che in un Governo secolare era facile a farsi in una notte, nel Governo pontificio richiedere maturo esame63.

Il 10 marzo Pio IX, spinto dalla paura, che era divenuta grandissima, anche fra i più reazionari suoi consiglieri, dopo gli ultimi avvenimenti di Francia, ad evitare avarie alla navicella in quel mare burrascoso, gettò via una parte della zavorra, togliendo i portafogli a quasi tutti i ministri ecclesiastici, e li affidò ad altrettanti laici. «Oh il pericolo della rivoluzione fa capace della bontà della riforma! - esclama, arrivato a questo punto, il Farini - La paura prossima dei partiti eccessivi fa carezzare un partito moderato!» sebbene egli sia costretto a confessare che quella risoluzione di affidare ai laici il Governo era stata presa in ritardo64. Onde il nuovo Ministero rimase cosi composto:

Cardinale Giacomo Antonelli, presidente, del Consiglio e ministro degli affari esteri;

Conte Gaetano Recchi, ministro dell’interno;

Avvocato Francesco Sturbinetti, ministro di grazia e giustizia;

Monsignore Carlo Luigi Monchini, ministro delle finanze;

Marco Minghetti, ministro dei lavori pubblici;

[p. 307 modifica]Conte Giuseppe Pasolini, ministro di agricoltura e commercio

Cardinale Giuseppe Mezzofanti, ministro dell’istruzione pubblica;

Principe Camillo Aldobrandini, ministro delle armi;

Avvocato Giuseppe Galletti, ministro di polizia.

Al ministro dell’interno Recchi fu dato a collaboratore un sostituto, o, come oggi si direbbe, un sottosegretario di Stato, nella persona del dottor Luigi Carlo Farini, al Minghetti, preposto ai lavori pubblici, fu aggiunto come sostituto il professore Niccola Cavalieri, al cardinale Antonelli fu aggiunto quale sostituto monsignore Gaetano Bedini.

Dell’Aldobrandini il Farini afferma - e con verità - che egli era «generosa e nobile figura di cavaliero, inchinevole a tutto ciò che è nobile e generoso65; ma dell’avvocato Galletti parla con mal dissimulato rancore, negandogli meriti e titoli che potessero giustificare la elevazione di lui al Ministero; e in ciò, siccome quegli che è mosso, forse inconsapevolmente, da spirito di parte, non è giusto. Il Galletti, di cui loda assai le doti e le qualità il Grandoni66, aveva, per lo meno, gli stessi titoli politici che aveva il Farini: aveva, come il Farini, cospirato contro il Governo pontificio, con questa differenza che al Farini era venuto fatto di esulare, allorché fu scoperto complice dei moti di Rimini nel 1845, mentre al Galletti, condannato nel 1844 a galera a vita, era toccata la brutta ventura di rimanere in carcere fino al 17 luglio 1846, cioè fino alla pubblicazione del decreto d’amnistia.

Quanto a doti d’ingegno e di cultura se il Farini era, a quei giorni, noto come medico valoroso - e non poteva essere ancora noto come insigne storico e insigne uomo di Stato - il Galletti godeva a Bologna fama di valoroso giurista ed era dotato di molta acutezza di mente, di larga cultura, di serena fermezza e di grande vigore d’animo, doti delle quali diede ampia riprova, durante gli anni 1848 e 1849, in gravi uffici e in difficili, momenti, onde - lasciando da banda, che qui non [p. 308 modifica]c’entra, la quistione se egli sia stato e, nel caso, fino a qual punto, ingrato verso Pio IX — il severo giudizio del Farini è parziale e non equo, tanto più che la nomina del Galletti fu imposta da un moderato, dal Recchi67.

Quanto al Farini, egli portava al ministro dell’interno Recchi il concorso sagace ed operoso di un forte ed equilibrato intelletto, di una larga cultura scientifica e politica, di un animo fermo, risoluto, tenacemente energico, degli ordini costituzionali e della patria amantissimo, di grandissimo coraggio civile dotato e, forse per esuberanza di forza e di sentimento, verso gli avversari politici, sovente intollerante e stemperato.

Intorno a quell’onorando gentiluomo che fu Michelangelo Caetani principe di Teano, il quale rimaneva spodestato del Ministero di polizia, per cui non era nato e stato educato, mi piace riferire le parole che la Pallade usò ad annunciarne il congedo: «Il principe di Teano si ritirò dalla polizia; i fondi destinati alle spie si convertirono in pane pel povero, pel pupillo e la vedova, il suo onorario servì a sussidii caritatevoli: i misteri del palazzo Madama non trovarono più l’oracolo che li proteggesse. La polizia andrà confondendosi fra le rovine di un orrido passato, cui vien calpestando un lucido presente, foriero di un franco, giusto, indomabile avvenire»68.

E, intanto che giornali e popolo festeggiavano la nomina del Ministero laico, la Commissione dei sette cardinali e dei tre [p. 309 modifica]monsignori, dopo abborracciati vari progetti di statuto, manipolava una costituzione, la quale essendo di per sé, arduo e insolubile problema in uno Stato teocratico quale era il romano, diveniva più che mai imbrogliata matassa, lasciata maneggiare da prelati, ignari affatto di diritto costituzionale e alle libere e rappresentative forme di governo, necessariamente, avversissimi69.

Quello statuto, approvato dal Papa il 14 marzo e pubblicato il 15 era in molte parti simile agli altri, se non che aveva alcuni suoi propri difetti, che quasi ne annullavano affatto l’efficacia. Il Sacro Collegio era dichiarato partecipe alla sovranità e tutte le leggi gli dovevano essere proposte per l’approvazione in concistoro segreto, cosi che non due, ma tre erano le assemblee deliberanti; e la suprema, nella quale riassumevasi il chericato, discuteva e deliberava in segreto, potea contrastare al Parlamento, senza darne, non che ragione, notizia; contraltare al Papa, e fare a lui sopportare il carico delle sue deliberazioni. La censura ecclesiastica rimanea. I Consigli non poteano proporre alcuna legge riguardante affari ecclesiastici, o misti, o che fosse contraria a’ canoni e alle discipline della Chiesa; or in Roma gli sponsali, il matrimonio, gli atti di morte, l’insegnamento, la pubblica beneficenza, i tribunali ecclesiastici, le corporazioni religiose, i beni ecclesiastici e cento altre materie sono tutte o ecclesiastiche, miste, cosi che sottilizzando un po’ come i curiali romani sogliono, non v’era legge civile possibile, che non cadesse nei termini del divieto»70.

Nè questi errino i soli difetti che rendevano irrisoria e nulla quella Costituzione: l’illustre storico, di cui ho riferito lo parole, continua a rilevare altre manifestissime contraddizioni in essa esistenti. Un altro insigne scrittore afferma che lo statuto concesso da Pio IX se ne aveva le parvenze non ne aveva il midollo71. Un altro - che ebbe poscia ufficio di ministro nel [p. 310 modifica]governo repubblicano - scrive su quella Costituzione: «uno statuto dove regnavano i papi? Non doveva proprio essere il caso dell’Humano capite di Orazio? E, in effetto, qual mirabile mostro non ne scaturì ì Due governi in un governo; dm aziende in una azienda; dite diplomazie in una diplomazia, una occulta, una palese, e quella su questa prevalente. L’ibrida creazione nacque morta e come cosa morta fu accettata»72; un terzo assevera che quello statuto «era un simulacro di Costituzione»73; un quarto che esso era «uno statuto ermafrodito»74; e uno storico-favoleggiatore papalino confessa che in quella Costituzione «Pio IX aveva ceduto meno di ciascuno degli altri sovrani»75.

Ma, comunque, quella Costituzione segnava un passo avanti e fu accolta da tutti con gioia: dal Sacro Collegio dei cardinali, che era mosso dalla paura che in esso suscitava il crescere della marea popolare in Roma e nelle provincie, fu accolto come parafulmine in quella bufera; dal partito moderato come espediente che ad esso darebbe agio di capitanare e dirigere tutto quel movimento; dal partito radicale come mezzo per trascinare il Pontefice a partecipare alla imminente guerra nazionale; e finalmente da parecchi uomini autorevoli del partito mazziniano come gradino per salire alla più ampia attuazione dei loro ideali.

Di che grandi feste furono fatte in tutto lo Stato e più specialmente a Roma e pubbliche dimostrazioni di letizia; e in quelle di Roma primeggiava sempre Ciceruacchio, innamorato sempre, in pienissima buona fede, del suo Pio IX; il quale Pio IX - secondo ciò che afferma, con un po’ di esagerazione, [p. 311 modifica]un illustre storico tedesco — era, a questi tempi, già sceso ad essere il protetto dell’eroe popolare Ciceruacchio76.

Ma quattro giorni prima di sottoscrivere la Costituzione, che ora una concessione politica fatta a’ suoi sudditi quale principe, Pio IX compieva un altro atto importantissimo come Pontefice o pubblicava, in data del 10 marzo, un breve indirizzato «ai Romani e a quanti erano figli e sudditi pontifici», con cui esortava tutti al rispetto delle corporazioni religiose e, s’intende, che, sebbene non indicata specialmente, alludeva alla sola minacciata dalla indignazione popolare, cioè la Compagnia di Gesù, e minacciava lo folgori di Dio e i flagelli della celeste vendetta sui trasigressori e dichiarava che, a reprimere qualunque attentato e a mantener l’ordine, si sarebbe valso della guardia civica e di tutte le forze che erano a sua disposizione.

Io mi guarderò bene dal biasimare, come pur fanno taluni degli storici della romana rivoluzione, questo breve papale che trovo logica, naturale, necessaria conseguenza della autorità spirituale di cui Pio IX era investito: e sarebbe assolutamente ridicolo non che pretendere, immaginare soltanto che il Papa avesse potuto pensare, scrivere od agire altrimenti; ma vorrei che questa equità di giudizio obiettiva fosse stata adoperata da tutti e verso tutti e che, perciò, anche gli storici papalini e dottrinari l’avessero usata allorché si trattava di giudicare i desideri, i divisamenti e gli atti dei liberali e dei patrioti; vorrei soltanto che la colpa di alcuni fatti sventurati di quel tempo anziché farla ricadere sul Papa, o sul Mazzini, o su Ciceruacchio si fosse fatta risalire sino alle vere sue cause genetiche, e cioè sino alla contraddizione e alla inconciliabilità delle due personalità di principe e di pontefice onde trovavasi investito Pio IX e all’equivoca situazione che, da quella contraddizione e da quella inconciliabilità, derivava. Avrei voluto che, con uguale obiettiva imparzialità, si fossero giudicate le successive dimostrazioni ostili ai gesuiti fatte dal partito liberale romano, il quale, logicamente e necessariamente, i gesuiti doveva detestare per ragioni opposte, ma altrettanto legittime a quelle per cui li amava Pio IX; avrei voluto...... ma che?..... a furia di esprimere desideri [p. 312 modifica]subiettivi uscirei anche io dal campo obiettivo della realtà storica: onde riconosco che anche gli scrittori partigiani e papalini, quali il Balan e il Balleydier, il Croce e il D’Arlincourt, il De SaintAlbin e il Lubienscki dovevano necessariamente esservi, come dovevano esservi, i dottrinari moderati quali il Balbo, il Parini, il Minghetti, il Pantaleoni, come dovevano esservi i parziali per i repubblicani quali il Vecchi, il Gabussi, il Miraglia, il Rusconi.

Importante è la confessione che fa lo Spada a questo punto e cioè che una parte del basso clero, eccitata dai libri del Gioberti, odiasse i gesuiti e fomentasse in mezzo al popolo le ire contro di essi77. Come importante è qui una confessione del Grandoni. Una lettera autografa fu indirizzata dal Papa - sempre perseguitato dal fantasma, ad arte suscitato continuamente dinanzi a’ suoi occhi sbigottiti, del saccheggio e delle rapine cui eran presti, secondo i paurosi suoi sogni, i facinorosi - al generale della guardia civica perchè eccitasse i militi a vegliare alla tutela dell’ordine pericolante; e quella lettera, in tante copie conformi, controfirmate dal tenente colonnello dello Stato Maggiore della guardia civica stessa Felice Cleter, fu affissa nei quartieri dei quattordici battaglioni. Ora il Grandoni confessa come questo fatto producesse effetti dannosi alla concordia, in quanto suscitasse in alcuni comandanti civici eccessi di zelo, che potevano condurre ad un pericoloso dissidio nelle file della milizia cittadina78.

Giungevano, di quei giorni, in Roma il generale Giovanni Durando e il colonnello Andrea Ferrari, chiamati al riordinamento delle milizie pontificie e il nuovo Ministero, interprete dei desideri popolari, dava opera a provvedere armi e a prepararsi alla guerra, che tutti ormai sentivano essere imminente ed inevitabile.

Ma fatti più gravi e importanti avvenivano a Vienna il 13, il 14 e il 15 marzo; mentre a Roma il Papa, costretto a largire la Costituzione, si preparava a dimostrare come Papato e libertà, Pontificato e italianità siano idee inconciliabili assolutamente, la gioventù studiosa e il popolo di Vienna, insorgendo a tumulto, [p. 313 modifica]sforzavano il principe di Metternich a dimettersi dall’ufficio di primo ministro e l’imperatore a dare a’ suoi popoli egli pure una Costituzione.

E, non appena a Milano si diffusero le prime notizie della insurrezione di Vienna, nella mattina del 18 marzo incominciò quel movimento di ribellione, che fini in aperta rivolta e i cui fatti audaci segnarono una delle più splendide pagine nella storia dell’italiano risorgimento. Cinque giorni durò quella tenace e meravigliosa lotta fra il popolo quasi inerme e l’agguerrito e formidabile esercito austriaco: le prove di intrepidezza, di fermezza, di valore date dai Milanesi in quei cinque giorni di combattimento, mai interrotto, furono tali da trarre ad ammirazione gli stessi nemici, i quali, sospinti, stretti, incalzati, assaliti di palagio in palagio, di caserma in caserma, furono costretti ad abbandonare la città, per le vie della quale la fiamma dell’amor patrio, divenuta, per furore di popolo, irresistibile, scorreva come lava ardente, distruggitrice del dominio e del nome straniero.

A Roma giunsero, quasi contemporaneamente, le notizie, amplificate ed esagerate della rivoluzione di Vienna e della insurrezione di Milano, della quale, però, non si conobbe la finale vittoria che il 24.

«Giunse ai 21 di marzo la importante notizia di una completa rivoluzione seguita in Vienna il 14 del mese corrente. In seguito di questa assicuravasi fuggito il principe di Metternich, il suo palazzo bruciato, l’imperatore colla sua famiglia posto quasi in ostaggio e costituito un Governo provvisorio»79.

E allora dimostrazioni entusiastiche per la città: le campane di molte chiese suonano a distesa, la gente corre per le vie, esultante; uno abbraccia l’altro: «Viva l’Italia, viva Pio IX, viva Milano, viva i Viennesi! Abbasso Metternich, abbasso Radetscky!» Una bandiera tricolore sventola per le vie e presto qualche altra ne appare alle finestre delle residenze del Circolo romano e del Circolo popolare, del palazzo Canino e - miracolo della paura! - del convento del Gesù.

[p. 314 modifica]Un manipolo di giovani, quasi tutti studenti, si avvia pel Corso; diviene man mano coorte; presso piazza di Venezia è divenuto legione.

E allora una deputazione si reca nell’appartamento dell’ambasciatore Lutzow ad annunciargli che il popolo vuole atterrati gli stemmi dell’aquila bicipite: egli protesta essere questo atto illegale e allora un veronese gli domanda se erano legali i massacri di Milano. Intanto la deputazione assicura che gli appartamenti dell’ambasciatore saranno rispettati. E allora scale congiunte ad altre scale sono appoggiate alle mura esterne del palazzo; un operaio lombardo - si chiamava Sandriani - dalla folta barba vi sale e scuote e percuote con un’ascia la catena: altri operai salgono ad aiutare il primo: ad ogni colpo la folla grida: legge stataria! alla fine lo scudo austriaco piomba, con gran fracasso e si frange in molti pezzi, fra gli applausi frenetici della folla, la quale calpesta e sminuzza lo stemma: e ciascuno ne vuole un frammento.

Al posto ove prima sorgeva lo stemma è infissa una bandiera tricolore. Migliaia di colpi di fucile vengono sparati per allegrezza. Un giovane, che alcuni affermano di nazione tedesca ed altri designano determinatamente per Francesco Dall'Ongaro, scrive col gesso sopra una tavoletta di legno: «Palazzo della Dieta italiana»; e quella scritta è sovrapposta alla marmorea esistente sul palazzo di Venezia e su cui era scolpito: «proprietà dell’impero austriaco». Gli altri stemmi consimili, esistenti in Roma, subiscono la stessa fine e sono trascinati per le vie dal popolo festante80.

[p. 315 modifica]

Alle 4 pom. di quello stesso giorno imponente processione - la frase è dello Spada - mosse dalla piazza del Popolo e, percorrendo il Corso, si recò in Campidoglio e di là alla chiesa di Ara—Coeli, dove fu cantato da tutto il popolo un solenne Te—Deum in ringraziamento della espulsione dell’esecrato oppressore straniero. Indi la folla trasse al Colosseo ove il padre Gavazzi predicò, con istile gonfio ed enfatico, adatto al luogo o alla circostanza, la crociata contro lo straniero.

Alessandro Gavazzi era nato a Bologna nel 1809. Nel 1824, a soli quindici anni di età, il giovinetto Gavazzi, che aveva già dati non dubbi segni del fervido e poderoso suo ingegno, vestì l’abito dei Barnabiti.

Gli avvenimenti del 1831 scossero profondamente l’anima sua entusiasta: ed egli, dal pulpito del suo convento di Livorno, parlò al popolo libere parole: onde il governatore di quella città, sgomento della calda eloquenza del frate liberale, ottenne che egli venisse trasferito in un convento di Piemonte. E fra il 1832 e il 1834 l’ordine dei Barnabiti, che era, a quei tempi, uno dei più liberali fra gli ordini monastici, inviò questo oratore valoroso dalla voce gagliarda, dall’alta e maestosa figura, dal volto bello di maschia bellezza, contornato da una lunga e fluente chioma nera, a predicare ad Alessandria, ad Asti, a Vercelli, a Genova, a Torino; e, dovunque, la sua parola, inspirata sempre dall’amor di patria, riesciva efficace ed affascinante e destava i sospetti e le paure dei gesuiti, i quali riuscirono a farlo tacere prima, poscia a farlo espellere dal Piemonte. Nel 1839 fu inviato a Parma, non a predicare, ma a disimpegnare il modesto ufficio di cappellano delle prigioni.

Nel 1840 fu inviato a predicare a Bologna, ma, dopo una prima predica, detta l’8 dicembre di quell’anno, tutta ridondante di sentimenti patriottici, fu tenuto in silenzio di nuovo fino ai 1844, anno nel quale ebbe autorità di predicare nell’Umbria; e Perugia, Città della Pieve, Spoleto ed Assisi, udirono la sua infuocata parola, discorrere della passata grandezza d’Italia e delle sue presenti miserie e del duro servaggio.

Onde, sottoposto a processo per ordine di Gregorio XVI, fu relegato in rigorosa prigionia nel convento di san Severino. Ivi stette diciotto mesi, e cioè dal gennaio 1845, fino al luglio 1846; [p. 316 modifica]allora, dopo la pubblicazione dell’amnistia, gli fu concesso di andare a Senigallia ove, nel duomo, con parola accesa e inspirata, celebrò le virtù di Pio IX e lo salutò redentore dell’oppresai Italia.

Venuto a Roma fu ricevuto dal nuovo Papa con segni di benevolenza; ma la predica da lui fatta nella chiesa di san Cario dei Lombardi per i morti di Milano, gli alienò l’animo di PioIX, il quale, sobillato dai gesuiti e specialmente dai due grandi loro protettori i cardinali Lambruschini e Patrizi, lo relegò nel convento di san Bonaventura al Palatino. Donde fu inviato in quello dei Cappuccini di Genzano. Per le preghiere di molti liberali e per le sollecitazioni di una Commissione di nobili, presieduta dal duca Michelangelo Caetani, ne fu ordinata la liberazione; cosi il padre Alessandro Gavazzi potè tornare in Roma e vi capitò proprio il giorno innanzi a quello in cui vi pervenne la lieta novella della vittoria del popolo milanese, dopo i gloriosi combattimenti delle cinque giornate. Ed eccolo al Colosseo, a infervorare, con la eloquente parola, la gioventù romana ad inscriversi nei ruoli dei volontari disposti a partire per la guerra di Lombardia.

Il Balleydier, che riferisce, più diffusamente degli altri storici, questo episodio, ha un po’ l’aria di schernire quei patrioti accesi dal più naturale, dal più logico e dal più santo degli entusiasmi e si affatica a designare il padre Gavazzi come un nuovo, ma ridicolo Pietro l’Eremita, banditore, come quegli lo fu della crociata contro i Maomettani, occupatori della Terra Santa di Palestina, di una nuova crociata italica contro lo straniero invasore. E, non ostante le derisioni dello storico-romanziere papalino, in quel momento, fra le ruine del Colosseo, dinanzi a migliaia e migliaia di cittadini commossi, entusiasti dinanzi all’aurora della liberazione del patrio suolo dal dominio straniero, il raffronto aveva tutti i caratteri della serietà e, in quel momento, quel frate onesto, austero, nobile, generoso ricordava l’Eremita predicante la crociata nelle pianure di Clermont81.

[p. 317 modifica]Ecco una parte della narrazione del Balleydier: «— Fratelli! - esclama - è giunto il giorno della liberazione! suonata é l’ora della santa crociata! all’armi! Iddio io vuole! all’armi. . . .

«Anticamente, allorché i popoli d’Occidente vollero conquistare il sepolcro di Lui, che della croce del Golgota aveva fatto un piedestallo alla libertà, posero dessi la croce sui loro petti, e sotto lo stendardo del Cristo si scagliarono sull’Oriente! giunta era la loro causa; la loro causa era santa! — Più giusta e più santa è la nostra. All’armi, o Romani! L’Austriaco, mille volte più barbaro del Mussulmano, è vicino alle nostre porte; noi, come i Crociati, poniamoci la croce sul petto, e avanti contro il nemico! che così vuole Iddio!

· · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · ·

«Non è degno di chiamarsi Romano, colui che ne’ tempi in cui siamo, anteponendo i propri affetti e gl’interessi privati al generale interesse, si rimanga vilmente ne’ suoi focolari. Degno non è di essere discendente dai padroni del mondo, erede dei vittoriosi del Campidoglio, colui che ricusi di vincere o morire per l’indipendenza d’Italia! Non è degno di chiamarsi Romana e di dar figli alla patria, quella che fra le braccia trattenga il suo fidanzato! Degna non sarebbe d’essere madre, o da esser benedetta nelle feconde sue viscere, quella che piangesse per la partenza del figlio! Non è degna di esser eroica figlia delle matrone romane, colei che co’ suoi vezzi indebolisse il coraggio dello sposo reclamato dalle battaglie! Romani, i vostri antenati conquistarono il mondo: volete voi esser degni di loro? Rispondete!

«— Sì, si! grida tutta insieme la moltitudine entusiasta.

«— Romani! volete voi, spezzando le catene della schiavitù, correre al conquisto del più prezioso fra tutti i beni, alla gloria, all’indipendenza, alla libertà?

«— Si, sì! - replica la folla - noi lo vogliamo!

«— Romani! volete voi tornare ad essere il popolo-re?

«— Si, si, si! - ripete per la terza volta elettrizzata la massa

«— Or bene! sia fatta la vostra volontà. Romani! in nome dell’Italia all’armi! avanti, l’arringo è aperto [p. 318 modifica]all'armi!.... la vittoria vi attende all’armi! o Romani! cosi vuole Iddio!

«Echeggiavano ancora gli applausi con che furono accolte quelle parole, quando un uomo di una certa età, indossando il pittoresco vestimento dei montanari romani, subentrò al padre Gavazzi nel sacro pulpito, divenuto tribuna politica. Cappello a tese larghe, soprabito di panno verde-cupo foderato di una pelle di montone, gettato sulle spalle, ghette di pelle rossa e nera, strette alle gambe con fibbie di rame, casacca di velluto turchino fermata da una larga cintura tricolore, sottoveste rossa, calzoni corti e grosse scarpe coi ferri, ecco in che arnese si presenta questo nuovo oratore, di nome Rosi, e noto per pastore poeta. La faccia pallida circondata da lunghi capelli neri, gli occhi larghi e brillanti, l’armonia dei lineamenti e la distinzione nella favella, impongono silenzio.

«— Io non sono nè un oratore, nè un sapiente! - esso esclama - sono un povero contadino, che conosce la storia del proprio paese solo per le rovine le quali ricuoprono la terra delle sue campagne. Ogni sua rovina porta una rimembranza, ogni rimembranza serba un nome, ogni nome forma un insieme miracoloso, un ’monumento eterno eretto alla gloria d’Italia ..... L’Italia, o fratelli! questo nome è tre volte caro, muove alle lacrime gli occhi vostri, la vostra destra va naturalmente sul vostro fianco onde trovarvi il brando della risurrezione; l’Italia vi aspetta sul suo letto di dolore; vi chiama voi che siete suoi figli; vi chiede la libertà, voi soli dargliela potete: sarete insensibili al suo invito?

«— No, no! - urla il popolo - Evviva l’Italia!

«— Chiuderete gli occhi alle sue lacrime, e l’orecchio alla sua voce?

«— No, no! Evviva l’Italia!».

«Per un quarto d’ora il poeta-pastore, diventato tribuno, trattiene sospesa ad ascoltare le sue magiche parole, la calca tacita ed attenta; indi lascia la tribuna per cederla ad un altro oratore, esso pure poeta, benchè segretario del principe di Canino. E suo nome è Masi; la sua prosa è, al pari del gesto, facile ed elegante, e per lo più diviene epica; la rapida favella ubbidisce al concetto.

[p. 319 modifica]«— Fratelli! - grida dopo aver volto abilmente ed a lungo lo sguardo in viso a tutti quanti lo ascoltano in religioso raccoglimento - fratelli! altro io non posso fare se non se svolgere ciò che prima di me vi hanno detto i due oratori i quali mi precederono.

«Difatti, l’uomo di Canino passa in rivista tutte le grandi figure dell’antichità, evocando le di loro ombre, scuotendo la polvere del loro lenzuolo funebre per farne una bandiera ad uso di quelli che egli chiama i risuscitati della vecchia Roma; poi, esteso maggiormente il quadro, scorre di volo sui punti più lontani ove in addietro aggiravansi le aquile imperiali, e rianima il passato onde stimolare il presente a servire d’esempio al futuro»82.

Conseguenza di questi discorsi fu che l’entusiasmo popolare salisse alla concitazione della febbre: al ritorno della folla dal Colosseo la città fu splendidamente illuminata: e in quella sera stessa «si celebrò la festa dei moccoletti in luogo di quella che non volle darsi in segno di lutto pei casi di Lombardia, l’ultima sera di carnevale»: e lo Spada è costretto a confessare che «una tal festa non mai riuscì o più numerosa, o più brillante di quella del marzo 1848. Il popolo si guidò da sè: e se non accadde alcuno sconcerto fu tutto merito suo, perchè quella sera la soldatesca non intervenne pel Corso»83.

E la spontaneità e l’entusiasmo di quelle feste fu tale che il Farini - dei festeggiamenti poco tenero - fu tratto a scrivere a proposito di quelle del 21 marzo: «Grandi furono le feste, né certo più spontanee e naturali mai; grande fu l’ebbrezza, né mai scusabile più, perché non v’ha più scusabile ebbrezza di quella che è procacciata dall’improvvisa fortuna della patria, e non v’ha giorno più fortunato di [p. 320 modifica]quello in cui lo straniero morde la polvere di nostra profanata terra»84.

A quell’onda impetuosa di popolare commozione non era possibile resistere: il 22 marzo si adunò il Consiglio dei ministri e deliberò la pubblicazione della seguente ordinanza, che venne affissa il 23 e pubblicata dai giornali:

«Ordinanza ministeriale.

«Il ministro delle armi:

«Considerando le imperiose circostanze d’Italia ed al voto universale della città;

«Udito il Consiglio dei ministri;

«Udito il volere di Sua Santità; ordina quanto segue:

«È aperto un arruolamento volontario nell’ufficio del Ministero delle armi;

«Il colonnello Ferrari è preposto all’organizzazione di questo corpo che partirà dietro un suo ordine;

«Il generale Durando è chiamato al comando generale del corpo d’operazione.

«Roma, 23 marzo 1848.


Questa ordinanza era stata preceduta da un’altra pubblicata il 21, in data del 20 marzo, con la quale:

«Considerando la gravità delle condizioni presenti dello Stato e dell’Italia, e l’urgenza di provvedere alla difesa e sicurezza dei domini pontificii, non che alla concorde azione delle forze nazionali italiane;

«Udito il Consiglio dei ministri;

«Udito il volere di Sua Santità;

«Il ministro delle armi (principe Camillo Aldobrandini) ordinava:

«Un corpo d’operazione sarà formato, e composto nel modo seguente:

[p. 321 modifica]«Quattro reggimenti di fanteria;

«Due reggimenti di cavalleria;

«Tre batterie d’artiglieria da campagna;

«Una compagnia di artificieri estratta dal corpo d’artiglieria

«Due compagnie del genio.

«Ogni reggimento avrà i rispettivi ufficiali di sanità.

«Al detto corpo d’operazione saranno collegate le truppe straniere al servizio di Sua Santità»85.

Ho voluto riferire dalla Gazzetta Ufficiale il testo di questi due decreti, per tagliar corto, fino da ora, su tutte le sottigliezze bizantine con le quali lo Spada e il Balan, il Balleydier, e il D'Amelio e qualche altro degli storici papalini si industriano a dimostrare che le intenzioni del Papa furono oltrepassate; che egli non voleva che la guerra difensiva; che nelle deliberazioni adottate non si era mai trattato di guerra offensiva, per il che essi riempiono le pagine delle loro storie di lamentazioni sulla violenza che si faceva alla volontà del Papa.

Ora è evidente che quando nell’ordinanza del 20 marzo è detto che v’ha «urgenza di provvedere alla difesa e sicurezza dei domimi pontificii, non che alla concorde azione delle forze nazionali italiane» ed è detto pure - e chi lo dice è il principe Aldobrandini, gentiluomo, d’animo nobilissimo e cavalleresco e al Papato e a Pio IX devotissimo - «che fu udito il volere di Sua Santità», non e’ è più da sottilizzare e da sofisticare; la guerra tanto difensiva, quanto offensiva in quella ordinanza era deliberata.

E quando è stabilito nella seconda ordinanza che «udito, sempre, il volere di Sua Santità, il colonnello Ferrari è preposto all’organizzazione del corpo dei volontari che partirà dietro suo ordine», è evidente che al Ferrari si è già accordato pieno potere su quelle giovani milizie.

E che tali fossero gl’intendimenti di Pio IX, quando nel consiglio dei ministri, agiva da Principe, lo prova la testimonianza del colonnello Andrea Ferrari, il quale, promosso generale dei corpi volontari e recatosi dal Papa, prima di partire [p. 322 modifica]da Roma «ne ricevè conforti e benedizioni per sè e per la brava gioventù che - queste furono le parole di Pio IX andava incontro ai pericoli della guerra: nè il Papa mostrò al Ferrari contrarietà alcuna rispetto al passaggio del Po, nè gli tenne discorso di fermarsi ai confini». E del racconto fatto dal generale Ferrari di quella conversazione fa testimonianza l’intemerata coscienza di Aurelio Saffi, il quale lo udì dalle labbra del generale Ferrari medesimo 86.

Si dica, dunque, piuttosto che Pio IX, dopo avere approvato in Consiglio dei ministri ciò che, come Principe, poteva e doveva approvare, due ore dopo, dalla ferrea contraddizione che lo teneva inesorabilmente avvinto, era condotto a disapprovare, nel Consiglio dei cardinali, ciò che aveva approvato come Principe e che, come Pontefice, credeva e sentiva di non potere e di non dovere approvare: dicasi questo e si dirà il vero e si spiegheranno razionalmente e secondo la verità storica le cause di quel conflitto e gli equivoci dolorosamente fatali di quella politica a partita doppia.

Ad ogni modo, con un po’ di apparato scenico, se si vuole, ma confacevole all’entusiasmo ingenuo e primitivo di quelle genti in quella efflorescenza primaverile del patriottismo, si aprirono i registri per le iscrizioni dei volontari a piazza del Popolo e al Colosseo; e, in poche ore, «migliaia di volontà diedero il nome: era come al tempo dei consoli antichi: «nomina dederunt» 87 .

Fra i volontari si inscrisse anche Ciceruacchio, pieno di giovanile ardore per quella santa impresa.

«Il popolo poi, siccome era preso da entusiasmo nelle sue determinazioni, leggendo scritto il nome di Ciceruacchio nei ruoli fra i primi campioni, levò alta la voce dicendo di non voler perdere il suo rappresentante: e Ciceruacchio allora giurò di non partire, soggiungendo: partirà il figlio mio in mia vece, partirà il sangue mio» 88.

[p. 323 modifica]L’impeto dello iscriversi fu tale che in breve ora si doverono chiudere i ruoli, giacché il numero dei volontari che avevano dato il loro nome, già superava quello delle armi e degli indumenti disponibili.

Si raccolsero le offerte in danaro e in oggetti preziosi, e, in pochi giorni, si ebbero circa 1600 offerte della complessiva somma di trentatremila e ottocentotrentanove scudi, pari a lire centosessantamila circa, oltre parecchie centinaia di doni preziosi; onde gli oblatori sommarono a circa duemila e l’importo a circa duecentomila lire89.

Del resto sullo slancio patriottico di quei giorni, sulla spontaneità delle offerte, sugli impeti generosi della gioventù, sull’entusiasmo universale, cosi favella, non sospettabile di esagerazioni, il Farini:

«e chi era atto alle armi versarsi ne’ campi di guerra, e le donne inanimire i mariti ed i figliuoli, ed i preti benedire le bandiere e all’altare della patria i cittadini arrecar doni; et vide molti esempi di generosità e di sacrifizio. Il [p. 324 modifica]Papa e le Congregazioni religiose fecero ricchi donativi; i principi romani gareggiarono di liberalità co’ cittadini; tutti pagarono lieti e spontanei il tributo di carità alla patria; il popolo, se non nella ricchezza, li emulò nella copia de’ doni e nel fervore dell’affetto; anche il mendico stese la mano ai passeggieri questuando per l’Italia; le gentildonne si dispogliarono de’ preziosi ornamenti; le popolane di quei pegni d’amore e di fede che ricordano i più felici momenti della vita a chi sulla terra non gode altre felicità. Una giovane popolana in Bologna, non avendo gemme, donò il tesoro della sua bella chioma. E cardinali e principi donarono cavalli per le artiglierie; e pel campo partirono i principi e duchi e nobili e cittadini e popolani affratellati; partirono due nipoti del Papa; in pochi giorni dallo Stato Romano dodici mila volontari almeno. Il Papa li benediceva lasciando intendere che la benedizione scendeva sui guerrieri che ivano a difendere i confini dello Stato della Chiesa; le città erano in festa; i campagnuoli salutavano anch’essi le pontificie legioni. Le insegne pontificie erano maritale ai colori nazionali; la croce era in cima alla bandiera d’Italia; Italia non aveva più nemici fra noi: i cuori che non palpitavano per la sica libertà, palpitavano per la grandezza del Papato; santa era reputata la guerra»90.

Di questi giorni, e appena saputasi in Roma le notizie della insurrezione di Vienna, il cardinale Antonelli mandò a chiamare il principe di Canino, il conte Carlo Rusconi e Ciceruacchio ed ebbe con loro un lungo colloquio, di cui uno dei tre ci ha serbato i particolari.

«E strettaci a tutti con affettuosa effusione la mano, ci fece sedere. Ciceruacchio, amor delle plebi, più presso di lui, proprio da costa, e dal lato del cuore. E dolci come favi iblei, fluivano le parole dall’eminentissimo labbro. Discorreva d’Italia, di Vienna, ma con un far cosi sciolto, così spedito, così compenetrato, cosi spesso interrotto da quel senso di contento che da ogni parola trapelava, che ci sarebbe proprio voluto un san Tommaso per non crederci. Era un vero, uno schietto [p. 325 modifica]giubilo, non una rassegnazione forzata: era un giubilo, che prorompeva per quanta opera si facesse per frenarlo. E la dignità della porpora non ci scapitava: si trattava della nazione: degli Italiani. E cosi andava, andava: stringeva di tratto in tratto la mano al tribuno di Trastevere; a noi volgeva compiacenti occhiate; e ripigliava, si ripeteva, non sapeva saziarsi di quell’argomento. La caduta di Vienna gli aveva dato quella parlantina che la morte di don Rodrigo dava a don Abbondio.

«— Ma non l’ha benedetta egli il Santo Padre questa cara Italia? - conchiudeva, riferendosi esso pure alla famosa benedizione più su mentovata - e come pensare che fruttuosa non dovesse riuscire quella benedizione? L’eco della gran voce di Pio si è sgomberata la via fino alla reggia dei Cesari, e la reggia è crollata. Son commosso anche pensando alla contentezza che ne avrà avuto il Santo Padre; son commosso - e si asciugava gli occhi - Ed ecco che l’Italia si avvia ora finalmente alla sua mèta trionfale.

«Ciceruacchio prese per oro di zecca tutta quella cicalata, e andò deviato in Trastevere a ripeterla. Canino ed io ci allegramm,o di quel discorso, non per le cose dette, ma perchè il dirle mostrava quanto la Curia fosse in fondo»91.

Il Circolo romano, fino dal 23 marzo, votava una petizione al Papa sottoscritta da Massima D'Azeglio, Rodolfo Audinot e Pietro Sterbini col quale si invocava la pronta organizzazione e partenza delle milizie; e nello stesso giorno il Circolo suddetto un altro indirizzo votava al Papa, concepito nei termini più lusinghieri per lui e pieno di sentimenti di devozione e d’affetto, per eccitarlo «ad adoperarsi perchè senza perdita di tempo, la rappresentanza di tutti gli Stati d’Italia promossa da lui si raccogliesse in Roma a Parlamento nazionale, a Dieta italiana».

Questo indirizzo era sottoscritto dai:

[p. 326 modifica]
Padre Gioacchino Ventura per la Sicilia
Eugenio Albèri per la Toscana
Cav. Francesco Mortera pel Ducato di Parma
Francesco Dall'Ongaro per il Veneto
Giulio Litta Modignani per la Lombardia
Massimo D'Azeglio per il Piemonte
Giuseppe Massari per il Napolitano
Carlo Rusconi per Bologna
Cario Berti-Pichat
Prof. Francesco Orioli per lo Stato Romano
Rodolfo Audinot
Luigi Masi per Roma
Pietro Sterbini

      Era la prima manifestazione solenne per una Dieta federativa; era la prima timida affermazione che la capitale d’Italia - fosse pure riunita a federazione - doveva essere Roma; manifestazione e affermazione fatte da uomini di grande reputazione e di sentimenti moderati ed opinioni temperate, quali il Ventura, l’Albèri, il Massari, il D’Azeglio, l’Orioli, l’Audinot; onde ha proprio torto, e obbiettivamente e subbiettivamente giudicando, lo Spada, il quale, a proposito di questo indirizzo, leva alte querimonie, per soverchia tenerezza del potere temporale dei Papi, in quell’atto vedendo trame e minaccie che, non soltanto esso non conteneva, ma che non esistevano neppure nella mente di alcuno dei firmatari di esso.

Fra il 23 e il 30 marzo partirono, man mano, da Roma tutte le milizie regolari che vi stanziavano, o che vi giunsero richiamate da Civitavecchia, da Frosinone e dai confini meridionali dello Stato e tutti i vari corpi di volontari che, con sollecitudine precipitosa, vennero ordinati ed armati. Già circa trecento volontari erano partiti alla spicciolata, a manipoli, per conto loro marciando verso Bologna: e questi manipoli eran composti di giovani delle famiglie più ricche ed agiate, i quali partivano ben forniti di danaro.

Il 20 partirono, accompagnati da una infinita folla di gente, miileduegento volontari fra civici mobilizzati e Battaglione universitario; il 27 partirono altri millecinquecento uomini delle legioni volontarie e del corpo dei Tiraglioli92.

[p. 327 modifica]Il generale Giovanni Durando era già partito, insieme a’ suoi aiutanti di campo, marchese Massimo D’Azeglio, conte Casanova e conte Pompeo di Campello, ed era pure partito il generale Andrea Ferrari, che aveva scelti a suoi ufficiali di Stato Maggiore Luigi Masi e i romani duca Filippo Lante di Montefeltro e Mattia Montecchi.

Più tardi, quando i magazzini militari furono nuovamente forniti di armi e di oggetti di vestiario parecchie altre centinaia di volontari partirono per i campi veneti, e fra questi nuovi manipoli, va specialmente notato il corpo dell’artiglieria civica romana, comandata dal capitano Federigo Torre.

Alla testa di tutta questa gioventù, che mai aveva udito fragore d’armi, mossa ed accesa da un solo nobilissimo desiderio di far libera la patria dallo straniero, partivano, col grado di ufficiali uomini eminenti della nobiltà e della borghesia, il flore della cittadinanza, il duca Filippo Lante, il marchese Filippo Patrizi, il marchese Carlo Stefanoni, il conte Pompeo di Campello, il principe Bartolomeo Ruspoli, il conte Luigi Pianciani, due conti Mastai, nipoti del Papa, Luigi Bartolucci, Giuseppe Gallieno, Bartolomeo Galletti, Angelo Tittoni, Pietro De Angelis, Natale Del Grande, Mattia Montecchi, Ignazio Amici, Demetrio Diamilla, Alessandro Gariboldi, Ignazio Palazzi, Luigi Ceccarini, Luigi Grandoni, Giuseppe Checchetelli, Romolo Federici e altri cento - e dico cento, non por convenzionalismo di forma, ma per dir proprio cento - e più di cento giovani, segnalati per studi, per ingegno, per censo fra i cittadini di Roma.

Il 27 marzo, appena partite le legioni dei volontari, si diffuse un’altra notizia graditissima al cuore dei patrioti: anche a Venezia il popolo era insorto, anche da Venezia erano stati espulsi gli Austriaci. Una folla numerosissima si raccolse nella chiesa di San Marco, ove fu cantato il Te Deum e poscia, per tutto il giorno, e anche durante la notte, il popolo festeggiò il fausto evento con luminarie, canti patriottici e dimostrazioni, le quali finirono poi con nuovi atti di ostilità verso i gesuiti a piazza del Gesù.

A questo punto parecchi fra i narratori delle vicende di quel triennio raccontano che il Pontefice nel benedire, la sera del 23 la bandiera dei civici mobilizzati, portata nelle sue stanze da [p. 328 modifica]una deputazione composta del vessillifero Sopranzi Domenico, dal caporale Masini Giuseppe e dai militi Pinelli Pietro, Fontana Ferdinando, Marabini Tommaso e Pifferi Alessandro, esprimesse recisamente a quei giovani che quella bandiera e le armi che essi impugnavano non venissero portate di là dai confini dello Stato pontificio; che altrimenti facendo, essi diverrebbero aggressori, in diretta opposizione alla sua volontà93.

E narrano, inoltre, che discesa la deputazione dei militi in piazza del Quirinale a render conto alle centinaia di compagni d’arme che ivi l’attendevano, del risultato della sua missione, costoro non vollero udire le parole del Sopranzi, il quale riferiva quelle del Papa, allorchè il vessillifero narrava avere il Pontefice detto che non si oltrepassassero le frontiere dello Stato: e quando il Sopranzi parlava di frontiere se gli imponeva silenzio col gesto e con la voce94.

Checchè ne sia di queste affermazioni che, come è detto in una nota precedente, altri storici negano, e pure ammettendole per vere, sempre ne consegue - come ho già detto - la contraddizione in flagranti in cui, come se egli fosse rinchiuso in una cassetta foderata di punte di chiodi aguzzi, si dibatteva il Pontefice, il quale a un dato momento era costretto a lasciar credere e lasciava credere di volere la guerra offensiva e un momento dopo era costretto a dichiarare e dichiarava che [p. 329 modifica]voleva unicamente la guerra difensiva, ed era - e naturalmente e logicamente e razionalmente - approvato da’ suoi sudditi, quando lasciava credere la prima cosa, perchè i suoi sudditi erano e si sentivano italiani e volevano e dovevano volere la liberazione della penisola dal dominio straniero; e, perciò appunto, non era approvato ed ascoltato da’ suoi sudditi quando affermava la seconda cosa, perchè sarebbe stato pretendere tutto ciò che umanamente avvi di più impossibile, presumere che quindici o sedici mila soldati romani fossero stati, sulla destra riva del Po, con Tarma al braccio, impassibili spettatori della lotta disperata che gli altri Italiani combattevano di là, sulla riva sinistra, contro V odiato oppressore straniero. Simili cose non può immaginarle che il subbiettivismo fazioso del Balleydier e del De Saint-Albin, del Croce e dello Spada; ed io ringrazio e benedico Iddio che mi abbia fatto tale da non sapere di siffatte cose neppure alla lontana concepire.

L’ultimo atto della politica a partita doppia, adoperata fino a quel giorno da Pio IX, fu l’Allocuzione, in istile biblico e con chiusi concetti apocalittici, rivolta ai popoli italiani e con la quale, con arte sopraffina di chiaroscuri, pareva che il Pontefice volesse dir molte cose e poteva parer che dicesse nulla; con la quale sembrava che egli volesse la guerra e non la volesse, che egli desiderasse la redenzione d’Italia e che non la [p. 330 modifica]desiderasse per mezzo delle armi; insomma in quella Allocuzione Papale v’era di che appagare tutte le opinioni e tutte le aspirazioni nazionali e, nel tempo stesso, non v’era cosa di cui potessero ragionevolmente lamentarsi il Governo e il popolo austriaco. È documento importantissimo ed è necessario che il lettore lo abbia sotto gli occhi. Eccolo:

PIUS PAPA IX

AI POPOLI D'ITALIA

SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE.

« Gli avvenimenti che questi due mesi hanno veduto con sì rapida vicenda succcedersi e incalzarsi, non sono opera umana. Guai a chi in questo vento che agita, schianta e spezza i cedri e le roveri, non ode la voce del Signore! Guai all’umano orgoglio, se a colpa o a merito d’uomini qualunque riferisse queste mirabili mutazioni, invece di adorare gli arcani disegni della Provvidenza, sia che si manifestino nelle vie della giustizia o nelle vie della misericordia, di quella Provvidenza, nelle mani della quale sono tutti i confini della terra! E Noi a cui la parola è data per interpretare la muta eloquenza delle opere di Dio, Noi non possiamo tacere in [p. 331 modifica]mezzo ai desideri, ai timori, alle speranze che agitano gli animi dei figliuoli nostri.

«E prima dobbiamo manifestarci, che se il Nostro cuore fa commosso nell’udire come in una parte d’Italia si prevennero coi conforti della Religione i pericoli dei cimenti, e con gli atti di carità si fece palese la nobiltà degli animai: non potemmo per altro né possiamo non essere altamente dolenti per le offese in altri luoghi recate a Ministri di questa Religione medesima. Le quali, quando pure noi, contro il dovere nostro, ne tacessimo, non però non potrebbe fare il nostro silenzio che non diminuissero l’effetto delle nostre benedizioni.

«Non possiamo ancora non dirvi che il ben usare la vittoria è più grande e più difficile cosa che il vincere. Se il tempo presente ne ricorda un altro della storia vostra, giovino ai nipoti gli errori degli avi. Ricordatevi che ogni stabilità ed ogni prosperità ha per prima ragione civile la concordia; che Dio solo è Quegli che rende unanimi gli abitatori d’una casa medesima; che Dio concede questo premio solamente agli umili, ai mansueti, a coloro che rispettano le sue leggi nella libertà della sua Chiesa, nell’ordine della Società, nella carità verso tutti gli uomini. Ricordatevi che la giustizia sola edifica, che le passioni distruggono, e Quegli che prende il nome di Re dei Re, s’intitola ancora il dominatore dei popoli.

[p. 332 modifica]«Possano le nostre preghiere ascendere nel cospetto del Signore, e far discendere sopra di voi quello spirito di consiglio, di forza e di sapienza di cui è principio il temere Iddio, affinchè gli occhi nostri veggano la pace sopra tutta questa terra d’Italia, che se nella nostra carità universale per tutto il inondo cattolico non possiamo chiam/ire la più diletta. Dio volle però che fosse a Noi la più vicina.

«Datum. Romae apud Sanctam Mariam Majorem, die xxx martii mdcccxlviii Pontificatus Nostri anno secundo».

Questa Allocuzione fu pubblicata nello stesso giorno in cui si diffondeva a migliaia e migliaia di esemplari per Roma il nobilissimo proclama che il re Carlo Alberto, in data del 23 marzo, aveva indirizzato al popoli della Lombardia e della Venezia nell’atto di varcare, alla testa del suo esercito, il Ticino. Onde nuovi festeggiamenti pubblici avvennero in Roma e l’entusiasmo della grandissima maggiorità della cittadinanza, salì ai più alti gradi e si mutò quasi in delirio.

La partenza dei volontari pei confini dello Stato può considerarsi come la miccia accesa applicata alla bomba della contraddizione: il tempo che i volontari impiegheranno a giungere ai confini, sarà il tempo che la miccia impiegherà a dar fuoco alla polvere; allorchè i volontari passeranno il confine la bomba scoppierà e avrà fine la contraddizione che, per ventidue mesi di seguito, come cappa insopportabile di piombo si era venuta aggravando sulle ipocrisie e sugli equivoci di quella situazione, cosi torbida di pericoli e cosi gravida di sventure.


Note

  1. Vedi i documenti 2, 3, 4 e 5 estratti dalle Buste della Miscellanea politica degli anni 1848-1849 esistenti nel R. Archivio di Stato di Roma e provenienti dal Ministero dell’interno e da altri dicasteri del cessato Governo pontificio.
  2. G. Spada, op. cit., vol. II, cap I.
  3. B. Grandoni, op. cit., pag. 108 e seg.
  4. A. Saffi, op. cit., cap. VII, pag. 149. Cfr. con l’Archivio triennale italiano, vol. I, documento 167, pag. 224 e con F. Ranalli, vol. I, lib. VII, pag. 384 e seg.
  5. Tutti gli storici di questi avvenimenti, Balan, Balbo, Balleydier, Belviglieri, Cantù, Croce, D’Amelio, D’Azeglio, De Saint-Albin, D’Arlincourt, Farini, Grandoni, La Farina, Lubienscki, Montanelli, Miraglia, Perrens, Pinto, Ranalli, Reuchlin, Roy, Ruth, Saffi, Tivaroni, Zellor, ecc. avversari od ammiratori di Ciceruacchio, riconoscono, alcuni biasimandola, altri loandola, la grande sua potenza sulle moltitudini, specialmante in quel momento. Il H. Reuchlin, (op. cit., vol. I, cap. IX, pag. 299, afferma che «nessuno era in quei giorni più potente pel mantenimento dell’ordine del solo Ciceruacchio, protettore del cardinale Ferretti». Il Ruth (op. cit., vol. II, cap. II, pag. 121, afferma che «il principe Corsini dovette chiedere l’aiuto di Ciceruacehio pel mantenimento dell’ordine dei giorni 1 e 2 gennaio 1848». Cf. F. T. Perrens, op. cit., II, pag. 32 e 33, I. Zeller, op, cit., cap. II, pag. 41; A. Colombo, op. cit, II, da pag. 61 a 66; e tutti i giornali di quel tempo.
          Il De Saint-Albin, per non venir meno alla sua abitudine di mescolare favole, menzogne e calunnie negli avvenimenti che viene narrando, afferma qui che il cardinale Ferretti fece battere la generale, si prenentò lui stesso in Trastevere, teatro di questi ultimi disordini, e, accompagnato da dragoni e da carabinieri, soffocò la sedizione! De Saint-Albin, op. clt., vol. I, cap, IV, pag. 100;. Tutta roba di pura o pretta invenzione del favoleggiatore fanatico clericale francese!
  6. La narrazione di questi fatti è quasi uguale, tanto nelle pagine degli storici papalini, quanto in quelle dei moderati e dei liberali. Il Balleydier, il De Saint-Albin e il Croce aggiungono che Ciceruacchio, dopo aver fatto sventolare sotto gli occhi del Papa la bandiera recante il motto surriferito, lo ripetesse altamente con la sua voce avvinata. Per accuratezza storica quei tre scrittori - che non erano in Roma nessuno dei tre al momento in cui avveniva il fatto - avevano fino anche sentito l’alito della bocca di Ciceruacchio!! Quanto ai giudizi ed apprezzamenti degli storici a proposito di quei fatti possono dividersi in tre gruppi: il primo gruppo - composto del Balan, del Balleydier, del Cantù, del Croce, del D’Amelio, del D’Arlincourt, del De Saint-Albin, del Lubienscki e dello Spada - biasima altamente i fatti del 1° e 2 gennaio e tutta la responsabilità e la colpa ne fa ricadere sui rivoluzionari e nessuna sul Savelli, sul Ferretti e sui retrogradi; il secondo gruppo — cui debbono ascriversi il Balbo, il Belviglieri, il Farini, il Ruth, il Perrens — pur dando parte della colpa di quei tumulti ai reazionari, finisce per biasimare come eccessive le manifestazioni popolari cui, dal più al meno, quegli scrittori attribuiscono il carattere di rivoluzionarie; il terzo gruppo — a cui partecipano il Colombo, il Cattaneo, il D’Azeglio, il Grandoni, il Galani, il La Farina, il Miraglia, il Montanelli, il Pianciani, il Perfetti, il Pinto, il Rey, il Reuchlin, il Ranalli, il Saffi, il Tivaroni e lo Zeller — è nel complesso concorde nel riversare gran parte della colpa di quei fatti sull’atteggiamento e sulle provocazioni del partito reazionario e nel ritenere logica e legittima conseguenza dell’ambiente, preparato dai fatti precedenti, ciò che avvenne il 2 gennaio 1848.
          I principali giornali di quel tempo sono concordi essi pure col terzo gruppo di storici sopra menzionati, nel giudicare improvvido e ingiustificato l’atteggiamento della Segreteria di Stato e della polizia nel giorno 1° gennaio 1848 e lo biasimano severamente - meno la Bilancia che non ne dice nulla, e ne danno la colpa al partito reazionario, allontanano ogni responsabilità dei provvedimenti presi per impedire la dimostrazione popolare da Pio IX e lodano tutti la manifestazione dal giorno successivo 2, e il contegno della popolazione romana, del senatore Corsini e di Ciceruacchio. Contemporaneo del 4 gennaio 1848, anno II, n. 1; Pallade nel suo numero straordinario del 3 gennaio, nel n. 136 del 7 gennaio e nel n. 138 del 10 gennaio e Speranza del 4 gennaio, anno II, n. 1, in cui si contengono grandi elogi a Ciceruacchio.
  7. Benché con apprezzamenti opposti fra di loro, sono pure concordi nell’ammettere il trionfo di Ciceruacchio, in quel giorno, il Balbo, il Belviglieri, il Farini, il Montanelli, il Perrens, il Reuchìin, ecc.
  8. Montanelli, op. cit, vol. II, cap. XXXII, in fine.
  9. F. T. Perrens, op. cit, II, pag. 33.
  10. I. Zeller, op. cit, cap. II, pag. 41.
  11. G. La Farina, op. cit, lib. III, cap. IV, in fine.
  12. N. Bianchi, Carlo Matteucci e l’Italia del suo tempo, Torino, Fratelli Bocca, 1874, cap. IV, pag. 153.
  13. I. Zeller, op. cit., cap. II, pag. 40.
  14. Dopo aver lavorato per circa venti anni, con opera assidua, efficacissima a scardinare il Governo teocratico di Roma, sia come potere temporale, sia come autorità spirituale; dopo aver percosso quotidianamente, con l’arme irresistibile del più dissolvente ridicolo, ad una ad una, tutte le singole istituzioni su cui si fondava quel medioevale, feudale, chiesastico e fradicio edificio; dopo avere demolito nella coscienza del popolo romano ogrni sentimento di ossequio e di reverenza a tutte quelle barocche tradizioni, Giuseppe Gioacchino Bolli si spaventò delle conseguenze dell’opera sua e, dopo avere inchiodato in tutte le menti le premesse, si ribellò ilìogicamente alle loro legittime illazioni. Intravenne anche a lui ciò che era avvenuto, dal più al meno, a Vittorio Alfieri e a Silvio Pellico e ciò che avveniva, in quei tempi medesimi, a Giuseppe Giusti. Egli pure, come l’Alfieri, come il Pellico, come il Giusti rimase atterrito dogali effetti dell’opera propria e, nel 1849, dopo caduta la Repubblica romana, scrisse che in essa si era «compendiato quanto di fellonesco, di barbaro, di abbietto abbia saputo mai osare la depravata coscienza dell’uomo». (I sonetti Romaneschi di G. G. Belli pubblicati dal nipote Giacomo a cura di L. Morandi, Città di Castello, S. Lapi, tipografo-editore, 1889. Prefazione, pag. ccxliiii). Giudizio non soltanto esagerato - come si vedrà dal seguito di questa storia ma ingiusto ed iniquo. E tanto più ingiusto e tanto più iniquo in quanto che proveniva da uomo il quale, così tenacemente, aveva cooperato a preparare quegli eventi e che aveva il dovere di riflettere che se, demolendo la teocrazia ed il Papato, egli non aveva avuto intenzione di giungere agli eccessi a cui giunsero i feroci settarii del Zambianchi, neppure i reggitori repubblicani, onestissimi uomini quasi tutti, avevano avuto intenzione di giungervi e quindi non ne erano neppure essi responsabili.
  15. L. Morandi, op. cit., vol. V, pag. 359 e 365.
  16. A. Bianchi-Giovini, Pio IX e Carlo Alberto, Alessandria, dalla tipografia Capriolo, 1848, pag. 14.
  17. L. Pianciani, op. cit., vol. II, cap. XXII, pag. 407.
  18. A. Brofferio, La politica di Vincenzo Gioberti, considerazioni storico-critiche, Torino, Federico G. Crivollari e Comp., 1849, pag. 7. Cf. T. Flathe, op. cit., llb. II, cap. II, § 4.
  19. A proposito del servizio meraviglioso prestato dalla guardia civica al mantenimento dell’ordine e a proposito dei sentimenti altamente patriottici di cui essa diede continue e indiscutibili prove, comincerò a presentare ai lettori documenti inediti.
          Il documento n. 6, che è il rapporto riassuntivo del tenente colonnello di Stato Maggiore della guardia civica cav. Cleter, di tutti i rapporti avuti dai capi-posto della guardia civica stessa il 25 gennaio 1843, è importante non soltanto perchè dimostra l’utile servizio di polizia prestato dalle pattuglie civiche, ma perchè vi è annesso un curioso documento che dimostra le continue mene del partito reazionario contro le riforme e contro i prelati reputati riformisti, quale era monsignor Morandi, procuratore fiscale generale, che in quel libello è assalito e coperto di contumelie.
  20. Carlo Casati, Nuove rivelazioni, ecc., già citate, vol. II, cap. I, pagine 23 e seg., e documento VIII a pag. 453. Cf. con M. D’Azeglio, I lutti di Lombardia, e precisamente fra 1 documenti in quel volumetto contenuti a pag. 85 e seg., il quale dà un ferito di più, cioè ne dà cinquantaquattro; e con C. Cattaneo, L’insurrezione di Milano nel 1848, Bruxelles, a spese dell’editore, 1849, § 3, pag. 32 e seg.
  21. G. Spada, op. cit., vol. II, cap. I; B. Grandoni, op. cit., pag. 114 e 115; L. C. Farini, op. cit., lib. II, cap. IX; Contemporaneo del 13 gennaio, anno li, n. 5; Pallade del 12 gennaio, n. 140; Bilancia del 13 gennaio, n. 75; Speranza del 13 gennaio, anno II, n. 6; Labaro del 15 gennaio, n. 1, e del 26 gennaio, n. 3.
  22. G. Spada, op. cit., vol. II, cap. I, pag. 18.
  23. L. C. Farini, op. cit., lib. I, cap. IX, pag. 318. - Nelle quali parole dell’illustre storico romagnolo salta agli occhi del lettore la inconseguente contraddizione che le governa. «Ufficio di pietà e di covata vendetta», esclama il Farini, quasi a rimprovero degli studenti romani: ma, in nome di Dio e della logica, che cosa si poteva pretendere da quei giovani, poichè a funeree feste l’Austria dava sovente materia, e poichè, dal 1815, durava l’esecrato dominio straniero, e, da più di trent’anni, si andavano accumulando negli animi degl’Italiani i rancori, le ire e il desiderio della riscossa? Si poteva pretendere che, mentre il popolo romano, raccolto nella chiesa di san Carlo, pregava pace alle vittime dell’Austria, invocasse la protezione celeste sugli stranieri che quelle vittime avevano assassinato? E perchè esigere che il padre Gavazzi e quei giovani e il popolo romano dovessero essere dottrinari come il Guizot, e, in ogni atto, in ogni parola, s’avessero a governare, con la prudenza e l’avvedutezza e la chiaroveggenza, che tutti sanno consigliare dopo successi i fatti e secondo i preconcetti della scuola dottrinaria, e non piuttosto così come ragionevolmente e necessariamente imponevano le premesse, cioè i fatti che avevano preparato quella situazione, quella condizione di animi, quelle accese passioni e quell’ambiente? Perchè pretendere sempre che dal seme dei lupini, gettato nell’orto, possano e debbano scaturire le fragole?
  24. B. Grandoni, op. cit., pag. 114 e 115. - Quasi tutti gli storici che narrano gli avvenimenti di questi tempi, l’Anelli, il Balbo, il Belviglieri, il Bersezio, il Bertolini, il Bianchi-Giovini, il Bianchi N., il Carrano, il Casati, il Cattaneo, il D’Azeglio, il De Boni, il De La Forgpe, il Garnier-Pagès, il Gioberti, il Grandoni, il Guerrazzi, il La Farina, il Martin, il Massari, il Wickiewicz, il Montanelli, il Perrens, il Finto, il Ranalli, il Reuchlin, il Rey, il Ricciardi, il Rusconi, il Ruth, il Saffi, il Tivaroni, lo Zeller, ecc., tutti, dal più al meno, hanno parole di biasimo - e molti parole di fuoco - per le feroci e sanguinose repressioni di Milano e di Pavia; il Cantù solo, l’apologista dell’Austria, racconta gli eventi a modo suo - senza addurne ombra di prova, questo s’intende - e in guisa da invertire quasi le parti e da fare apparire provocatori gl’inermi provocati, e, con ributtante cinismo, conclude quasi deridendo il rumore che si levò per quegli atti barbarici della soldatesca austriaca. È bene riferire qui, per ricordarle ai lettori, a vitupero di chi le scrisse, le svergognate parole: «L’astinenza - dal fumarevolle spingersi fin ad obbligarvi altri violentemente, e sia vero o no che i militari o la polizia mandassero attorno per Milano fumanti provocatori, si offerse occasione nuova di trar le sciabole; il popolo fu ferito e calpesto, come sempre, come in tutti gli altri paesi d’Italia: (!!) ma qui doveva assumere carattere nazionale, dovevano deplorarsi chiassosamente le vittime dello straniero, (!!) ed esagerarne il numero, e levarsi fremito e compianto per tutta Italia sopra le stragi di Milano.
          «E poichè, siccome adesso i mazziniani sono zimbello d’invettive, di calunnie, d’assurdità, così erano allora gli Austriaci, le declamazioni dei circoli e dei giornali, e le esequie drammaticamente ripetute, e un’amplificazione di Massimo D’Azeglio sprofondavano sempre più l’abisso fra noi e gli stranieri». (Cronistoria, vol. II, cap. XXXIX, pag. 770-771. Questi periodi sono ripetuti, quasi parola per parola, secondo il sistema del Cantù, anche nella Storia degl’Italiani, vol. XIV, cap. CXCI, pag. 127).
          Quanto dolore perchè si sprofondava, anzichè colmarsi - come era negli ardenti desiderii del Cantù - l’abisso che ci separava dagli stranieri!...
  25. Carlo Casati, op. cit, vol. II, cap. I e, fra i documenti, il XIII a pagina 480. Cf. con la Pallade del 14 gennaio, n. 142, e con il Contemporaneo del 15 gennaio, anno II, n. 6.
  26. P. D. Pasolini, op. cit., cap. IV, pag. 73.
  27. L. C. Farini, op. cit., lib. II, cap. IX in fine. Cf. con la Pallade del 17 e del 18 gennaio, n. 144 e 145; col Contemporaneo del 18 gennaio, anno II, n. 7; con la Bilancia del 18 gennaio, n. 79; con la Speranza del 18 gennaio, anno II, n. 9.
  28. L. C. Farini, op. cit., lib. II, cap. IX, pag. 319; Archivio triennale italiano, vol. I, pag. III; L. Mickiewicz, op. cit., vol. I, cap. I, § 2o; G. Massari, La vita e il regno di Vittorio Emanuele II, già citata, vol. I, § 2°, A. Saffi, op. cit., cap. V, pag. 99; Eduardo Duller, Storia del popolo tedesco dalle origini, ecc., Torino, cugini Pomba e Comp. editori,?853, vol. II, appendice, cap. VIII, pag. 286.
  29. F. Ranalli, op. cit., lib. VI, pag. 811.
  30. A. Saffi, op. cit., cap. VII, pag. 152.
  31. F. Ranalli, op. cit., lib. VI, pag. 347.
  32. Degli infingimenti, della fallacia, della malafede del re Ferdinando II parlano, concordi, quasi tutti gli storici di questi avvenimenti, Anelli, Belviglieri, Bertolini, Beaumont-Vassy, Bianchi-Giovini, Bianchi N., Brofferio, Cappelletti, Carrano, Colombo, Correnti, Dall’Ongaro, D’Azeglio, De Boni, Del Vecchio, D’Ayala, Dyer,Farini, Gabussi, Gaìani, Garnier-Pagès, Garibaldi, Gavazzi, Gioberti, Grandoni, Guerzoni, La Farina, Lamartine, Le Masson, Leopardi, Mariani, Massari, Mastcheg, Mazzini, Minghetti, Miraglia, Montanelli, Nisco, Oriani, Orsini, Pandullo, Pepe, Petruccelli della Gattina, Perrens, Pinto, Pisacane, Règnault, Reuchlin, Rey, Ricciardi, Rusconi, Ruth, Saffi, Settembrini, Tivaroni, Tommasoni, Torre, Vannucci, Vecchi, Ventura, Webb-Probyn, White Mario e Zeller e sinanco - cosa meravigliosa - lo Spada (op. cit, vol. II, cap. II, pag. 29).
          Ma lo Spada biasima re Ferdinando per il troppo che accordò e si accosta, in questo, al Farini, il quale rimprovera il Borbone perchè «in questa guisa colla soverchia resistenza, colla pertinacia soverchia, poi colla soverchia debolezza e colla fretta soverchia disvia affatto il moto italiano dalle vie di misurato progresso, e balza gli Stati là dove non si pensava che fossero per giungere in tempo breve, tempo che il signor Guizot dalla ringhiera di Francia augurava lontano di dieci anni almeno. E così si chiude in Italia il periodo delle riforme ed incomincia quello delle costituzioni, e si improvvisano costituzioni, si copiano: ognuno fa a chi può far prima e più (op. cit, lib. II, cap. X, pag. 334). E così, fisso sempre nel ritener come assioma evangelico ogni opinione del Guizot, l’illustre storico romagnolo ora biasima Ciceruacchio, ora il Borbone, ora il Guerrazzi, ora il Lambruschini, - sempre per amore del juste milieu, quintessenza della sapienza di Stato - i quali erano rei soltanto di non essere discepoli del signor Guizot e compievano ognuno la piccola missione, che la logica sapiente della storia a ciascuno, secondo le qualità individuali, le origini, l’educazione, gli esempli, la forza determinante dell’ambiente proprio di ciascuno, aveva affidata. Curiosa fissazione questa del Farini che le vicende della rivoluzione italiana dovessero ad ogni costo procedere giusta i preconcetti, le previsioni, e i calcoli del Guizot, il quale quei calcoli faceva secondo gli interessi della sua politica conservatrice e ad uso Metternich e voleva che l’Italia impiegasse dieci anni a divenire costituzionale, solo perchè così tornava comodo a lui! E curioso profeta questo signor Guizot, il quale vuol fissare leggi al nembo, che si è venuto addensando per un trentennio e prescrivere alla folgore, che da quel nembo debbe di necessità scaturire, l’ora in cui deve scoppiare, la via che deve percorrere; e il quale presume di circoscrivere, secondo i suoi preconcetti, i limiti dell’azione della folgore | Curioso maestro costui, che voleva obbligare la rivoluzione italiana a svolgersi, pian piano, lemme lemme, por lento e studiate e calcolate evoluzioni, entro il termine di dieci anni! Curioso filosofo della storia questo profeta, che, mentre va fantasticamente speculando su ciò che deve avvenire in casa degli altri, non scorge l’abisso che sta sotto a’ suoi piedi; e il quale, mentre fissa agl’Italiani lo leggi cervellotiche che, secondo lui, debbono governare la loro rivoluzione, non investiga e non comprende neppure uno dei boati del terremoto ruggente in Francia e non vede neppure uno dei segni precursori di quel nubifragio che, fra due mesi, ingoierà lui, il suo padrone, il suo sistema la dinastia, che in quel sistema aveva le sue fondamenta!
  33. B. Grandoni, op. cit., pag. 119. Il Labaro del 3 febbraio, n. 4.
  34. L. C. Farini, op. cit., lib. II, cap. X.
  35. B. Grandoni, op. cit, pag. 122.
  36. Vedi anche in proposito P. D. Pasolini, op. cit., cap. IV, § 3°, pag. 74.
  37. H. D'Ideville, op. cit, liv. Vme, pag. 179 ove riferisce la lettera indirizzata dal conte Rossi da Roma, in data 18 gennaio 1848, al ministro Guizot. Cf. V. Gioberti, Rinnovamento, vol. I, cap. I.
  38. P. D. Pasolini, op. cit., cap. V, § 1°.
  39. Lo stesso, ivi.
  40. Se quella voce avesse qualche consistenza non si è potuto mai nè sicuramente affermare, nè negare assolutamente. Che il Consiglio dei ministri, senza aver preso peranco alcuna deliberazione incorno alla proposta della Consulta di Stato per l’armamento si fosse, in genere, chiarito contrario ad essa lo affermarono allora taluni giornali e, dopo, parecchi storici; altri giornali, allora, e altri storici, poi, lo negarono.
  41. La folla passava vicino al convento dei gesuiti e perciò quella voce gridò: rispetto ai moribondi, alludendo alla loro imminente espulsione.
  42. Pallade del 9 febbraio n. 163. Cf. con tutti gli altri giornali di quel tempo: Contemporaneo, Bilancia, Speranza, il cui racconto di poco differisce dal presente, col quale, nel complesso, concordano anche le narrazioni del Grandoni, del D’Azeglio, dello Spada e del Rusconi, testimoni oculari
  43. B. Grandoni, op. cit, pag. 124.
  44. Pallade del 10 febbraio, n. 164; Contemporaneo del 12 febbraio, anno II, n. 18; Bilancia del 10 febbraio, n. 95; Speranza del 10 febbraio, anno II, n. 22; F. Ranalli, op. cit., lib. VII, pag. 388; G. Spada, op. cit., cap. III; A. Saffi, op. cit., cap. VII, pag. 164; C. Tivaroni, op. cit., vol. II, vol. II, parte VII, cap. V, § 4°; C. Belviglieri, vol. III, lib. XV, pag. 37.
  45. Vedi documenti 7, 8 e 9 .
  46. L. C. Farini, op. cit., lib. II, cap. X, pag. 386 e seg.
  47. G. La Farina, op. cit., lib. Ili, cap. IX, pag. 156.
  48. B. Grandoni, op. cit, pag. 125 e 126. Cf. Gazzetta di Roma (succeduta al Diario di Roma) del 12 febbraio, n. 20; Bilancia del 17 febbraio, n. 100; Speranza del 15 febbraio, anno II, n. 25; Labaro del febbraio, n. 8; e Pallade del 12 febbraio, n. 166, la quale stigmatizza i gridi di morte, biasimati dal Pontefice augusto (morte ai gesuiti, morte agli Austriaci, ecc.) e non esita a dichiarare che quei gridi non possono essere proferiti che da gente venduta all’oro straniero.
  49. G. Spada, op. cit, vol. II, cap. III; F. Ranalli, op. cit., vol. I, lib. VII, pag. 391; A. Saffi, op. cit., cap. VII, pag. 167.
  50. Parole detto da Pio IX ai consultori di Stato il 15 novembre 1841; vedi a pag. 241 di questo volume.
  51. Parole dette da Pio IX agli ufficiali superiori della civica l’11 febbraio 1848; vedi le prime linee di questa pagina stessa.
  52. Vedi Pallade del 14 febbraio, n. 167. Anche il Contemporaneo pubblicò il 14 un supplemento straordinario contenente quasi le stesse materie trattate dalla Pallade. Cf. Bilancia del 14, 15 e 18 febbraio, nn. 98, 99 e 101, e Speranza del 15 febbraio, anno II, n. 25
  53. Pallade del 15 febbraio, n. 168.
  54. P. D. Pasolini, op. cit., cap. V, pag. 80 e 81.
  55. P. D. Pasolini, op. cit, cap. V, pag. 81 e 82.
  56. Lo stesso, ivi, pag. 82.
  57. Che lo sobillassero lo dice il Grandoni, op. cit, pag. 131. Per la rivista del Belvedere oltre al Grandoni, ivi, vedi lo Spada, vol. II, cap. III; L. C. Farini, lib. II, cap. XI; A. Saffi, cap. V, pag. 168.
  58. Bilancia del 4 febbraio, n. 91; Contemporaneo del 12 febbraio, anno II, n. 18.
  59. Vedi Gazzetta di Roma del 14 febbraio, n. 21, e il Contemporaneo del 19 febbraio, anno II, n. 19.
  60. B. Grandoni, op. cit., pag. 144. Il quale di nuovo lamenta la «malaugurata predica e la non perdonabile imprudenza del padre Rossi» a pag. 168.
  61. Lo stesso, ivi; L. C. Farini, op. cit, vol. II, lib. III, cap. I; Contemporaneo del 14 marzo, anno II, n. 81; Pallade del 13 marzo, n. 191, e del 14 marzo, n. 192.
  62. L. Pompili Olivieri, op. clt, vol. II, pag. 118 e 119.
  63. Gazzetta di Roma del 7 marzo, n. 37.
  64. L. C. Farini, op. cit., lib. II, cap. XI, pag. 345.
  65. L. C. Farini, op. cit, lib. II, cap. XI; G. Spada, vol. II, cap. V.
  66. B. Grandoni, op. cit., pag. 143.
  67. G. Spada, vol. II, cap. V, pag. 102. Contro il passionato e ingiusto giudizio del Farini intorno al Galletti protesta il venerando Federico Torre (op. cit, vol. I, lib. I, § 10). Al Galletti dan lode di onesto il Miraglia, il Saffi, il Bertolini, il Tivaroni ed nitri storici e grandissima lode gli dà poi il Grandoni. Lo stesso Farini fece poi parziale ammenda di questo suo giudizio in una lettera indirizzata da Torino il 31 maggio 1852 al prof. Silvestro Gherardi in cui parlando del Galletti, scriveva «... del quale se ho dovuto per intimo convincimento censurare la condotta politica in Roma, conosco le qualità di ottimo padre, di uomo onesto e ricordo l’antica amicizia». (Vedi Lettere di Luigi Carlo Farini con una introduzione di Adolfo Borgognoni). Ravenna, tip. Calderini, 1878, let. LIV, pag. 184.
  68. Pallade dell’11 marzo n. 190. Federico Torre, op. cit., vol. I, lib. I, § 9, aggiunge che il duca Caetani «si dimise scandalezzato di trovar troppo facile il Papa a dimenticare la mattina gli ordini dati la sera innanzi», sebbene il Minghetti, con l’usata leggerezza e superficialità giudicando, dica di lui che era violento e iracondo, disadatto all’ufficio e mancante di tatto e di esperienza, esagerando i difetti e dimenticando le grandi virtù dell’illustre gentiluomo. (Cf. M. Minghetti, op. cit., vol. I, cap. V, pag. 831 e 382).
  69. P. D. Pasolini, op. cit, ciip. V, § a"; G. La Farina, vol. II, lib. III, cap. IX; L. C. Farini, vol. I, llb. II, cap. XI; F. Torre, op. cit., vol. I, lib. I, il 10; D. Silvagni, op. cit., vol. III, cap. XV.
  70. G. La Farina, vol. Il, lib. III, cap. IX.
  71. N. Bianchi, Storia documentata della diplomazia, ecc., vol. V, cap. II, § 6°.
  72. C. Rusconi, Memorie aneddotiche cit., cap. V, pag. 38.
  73. R. Rey, op. cit., lib. III, cap. V.
  74. C. Tivaroni, op. cit., vol. II, parte VII, pag. 306.
  75. A. De Saint-Albin, op. cit., vol. I, cap. IV. Rilevano poi o la inanità effimera, o l’astuzia pretesca, o le contraddizioni e le incongruenze di quella Costituzione il Belviglieri, il Bertolini, il Bianchi-Giovini, il Cappelletti, il Cattaneo, il D’Azeglio, il Farini, il Gabussi, il Miraglia, il Nisco, l’Oriani, il Perrens, il Pianciani, il Pinto, il Raggi, il Ranalli, il Reuchlin, il Ruscoqì, il Ruth, il Saffi, il Silvagni, il Torre, il Vecchi, lo Zaller. — Il Beaumont-Vassy erroneamente afforma che la Costituzione concessa da Pio IX, e che egli loda come sufficiente pei Romani, fosse elaborata dal conte Rossi, il quale invece dichiarò — secondo le affermazioni del Raggi e del Silvagni — che «quella costituzioìie era una guerra legalizzata fra i sudditi e il sovrano». (De Beaumont-Vassy, op. cit., § XXII, pag 313. Cf. con Oreste Raggi, Prose e poesie su Pellegrino Rossi. Imola, G. Galeati, 1876, e David Silvagni, op.cit.).
  76. T. Flathe, op. cit., lib. II, cap. IV, pag. 704.
  77. G. Spada, vol. II, cap. V, pag. 121.
  78. B. Grandoni, op. cit., pag. 151.
  79. B. Grandoni, op. cit., 153.
  80. B. Grandoni, op. cit., pag. 153; C. Rusconi, Memorie aneddotica cit, cap. IV, pag. 32 e seg.; G. Spada, op. cit, vol. II, cap. VII; L. Mickiewicz, op. cit, tom. I, cap. I, § 6°; M. Minghetti, op. cit.. vol. I, appendice, pag. 391; tutti cinque testimoni oculari. Quasi tutti gli altri storici e fra essi mi piace di notare il Balbo, il Costa de Beauregard, l’Oriani e il Nisco, narrano, e quasi tutti allo stesso modo, i fatti suddescritti. Il Balleydier - che non era in Roma a quel tempo - infiora il suo racconto di una quantità di piccole bugie da lui, non storico, ma romanziere, inventate (op. cit., cap. V, pag. 63); e il D’Arlincourt - il quale era lontano da Roma a quei giorni esso pure - rincara la dose parlando «di busti e di mobili infranti, di devastazione degli appartamenti dell’ambasciatore, di fuochi di fila fatti contro le pitture e le statile del palazzo imperiale ...». Sciocche e insulse invenzioni, menzogne spudorate, completamente smentite dalle narrazioni stesse degli altri scrittori papalini, e specialmente da quelle dello Spada e del Balan, e dal giornale cattolico il Labaro del 29 marzo, n. 14.
  81. Ciò anche pensa ed afferma il Costa de Beauregard nel suo pregevole volume Epilogue d’un règne, già citato, cap. VII, pag. 175 e seg.
  82. A. Balleydier, op. cit, cap. V, pag. 67 o seguenti. 11 racconto di lui è più circostanziato, ma concorda con quelli del De Saint-Albin, dello Spada, del Grandoni e dei giornali del tempo, compreso il Labaro.
  83. G. Spada, vol. II, cap. VII. Cfr. con Grandoni, op. cit., pag. 155 e col giornali Contemporaneo del 23 marzo, anno II, n. 35; Pallade del 22 marzo, n. 200; Labaro del 29 marzo, n. 14; Speranza del 23 marzo, anno II, n. 45; Epoca del 22 marzo, n. 6. Cf. con H. Reuchlin, op. cit, vol. II, cap. XIV, pag. 107.
  84. L. C. Farini, vol. II, lib. III, cap. I. Di tale entusiasmo popolare ammirati favellano pure il D’Azeglio, il Minghetti, il Balbo, il Costa di Beauregard, il Ruth, il Nisco, l’Oriani e molti altri scrittori.
  85. Gazzetta di Roma del 21 marzo, n. 47, e del 23 marzo, n. 48.
  86. A. Saffi, op. cit., cap. VIII, pag. 210.
  87. C. Cattaneo, op. cit., considerazioni al vol. II dell’Archivio storico italiano, pag. 338. G. Gabussi, Memorie ecc. citate, vol. I, cap. VII.
  88. G. Spada, vol. II, cap. VII, pag. 138. Tale narrazione è confermata dalla Pallade, dall’Epoca, dal Balleydier, dal Colombo, dal Silvagni, dal Saffi e dal Tivaroni.
  89. Curiose sono, a questo proposito, le osservazioni e le insinuazioni dello Spada circa la maggiore o minore spontaneità di queste offerte e più curiosa ancora è l’analisi, dirò così, chimica che egli fa degli oblatori e delle offerte per venire alla conclusione che quelle efferte furono scarse. (G. Spada, vol. II, cap. VII). Al qual proposito voglio narrare qui un aneddoto di cui fui testimone oculare e del quale - quantunque non avessi allora dieci anni ancora - serbo vivissima la ricordanza.
          A piazza di Sant’Eustachio, dinanzi al luogo ove si apriva ed è ancora aperta la farmacia Corsi, stavano seduti attorno a un tavolo alcuni membri della Commissione che raccoglieva le offerte, contornati da molta gente. Nostro padre condusse me e i miei fratelli minori Ettore, Fabio e Mario, vestiti tutti alla foggia italiana, dinanzi alla Commissione per offrire uno scudo, dopo averci ammoniti che per un mese dovevamo rinunciare a mangiare dolci o frutta in fine del pasto e dopo che noi avevamo tutti di gran cuore aderito. Indi ci condusse al primo piano del palazzo Maccarani, che sorge lì, di fronte alla farmacia, ove dimorava una rispettabile e degnissima gentildonna, la duchessa Giulia d’Altemps, nata contessa Carradori, donna di grande cultura e di sentimenti patriottici e liberali animata. Stavamo guardando, dietro i cristalli della finestra, quella folla e gli offerenti, di cui la Commissione riceveva le oblazioni. Ad un tratto vediamo uno dei domestici della duchessa, un uomo sulla cinquantina, alto, asciutto, con la barba tutta rasa, che si chiamava Giovanni - e pur troppo ne ignoro il cognome - il quale va a dare la sua offerta - poi sapemmo che essa consisteva in un papetto, ossia due paoli. - Intanto che il commissario incaricato prendeva le annotazioni sul registro, molti degli astantì riconoscono in quell’offerente un pover’uomo di condizione domestico, onde, diffusasene la voce, allorché il povero servitore si ritirò, un fragoroso applauso della folla lo salutò ed accompagnò nella sua dipartita.
  90. L. C. Farini, vol. II, lib. III, cap. I in fine.
  91. C. Rusconi, Memorie aneddotiche citate, capit. V, pag. 36 e 37 Cf. con P. D. Pasolini, op. cit, cap. VI, pag. 107.
  92. B. Grandoni, op. cit., pag. 158 e 159. Cf. G. Spada, L. C. Farini, Pallade, Epoca, Labaro, Speranza, Contemporaneo dal 22 al 30 marzo 1848.
  93. A. Balleydier, op. cit, capit. V, pag. 72 e seg.; G. Spada, vol. II, capit. VII; P. Balan, vol. I, lib. II, pag. 429 e 330; F. Croce, capit. VIII, pag. 34; C. Rusconi, La Repubblica romana del 1849, pag. 90. - Fino ad un certo punto sono anche della stessa opinione il Ranalli, vol. II, lib. VIII, pag. 79; L. Anelli, vol. II, cap. II. - Altri storici, come, ad esempio, N. Bianchi, il Saffi, il Ricciardi, il Cappelletti, il Cantù, Storia degli Italiani, vol. XIV, capit. CXCII, pag. 155 e il Tivaroni non parlano della inibizione di varcare i confini, nè di benedizioni condizionate date dal Papa.
  94. G. Spada, op. cit., vol. II, capit. VII. E ciò era logico e naturale, perchè il popolo non voleva la guerra difensiva, ma offensiva. - Ad ogni modo, a meglio dimostrare i tentennamenti - essi pure logici e naturali, per le ragioni da me già addotte - del Pontefice, ricorderò qui la narrazione fatta a Ladislao Mickiewicz da uno dei polacchi, i quali, il giorno 5 aprile 1848. accompagnarono il padre di lui, l’illustre poeta Adamo, all’udienza di Pio IX. Il grande scrittore e patriota aveva costituito il nucleo di una legione polacca, al quale si ascrissero quattordici dei polacchi residenti allora in Roma. Intorno a quel nucleo, secondo le intenzioni di Adamo Mickiewicz, dovevano venirsi a raccogliere tutti i profughi polonesi atti alle armi, dimoranti in Italia o in Francia: così quel nucleo doveva divenire legione, partire per la Lombardia, combattere a fianco degli oppressi Italiani contro gli Austriaci oppressori, per varcare, quindi le Alpi, e andare a sollevare la Polonia. Questo il disegno di Adamo Mìckiewicz; il quale, con una Commissione di quei primi quattordici legionari, recò al Papa la bandiera della legione, perchè egli la benedicesse. Il colloquio durò quasi un’ora e mezza: Pio IX, che parlava benissimo la lingua francese, parlò sempre in italiano, mentre il Mickiewicz, il quale favellava abbastanza bene in italiano, fece uso sempre, in quella udienza, della lingua francese: ognuno dei due voleva conservare la completa padronanza della propria parola. Il grande poeta polonese cominciò a parlare dei diritti sempre conculcati della sua nazione, delle benemerenze dal popolo polacco acquistate in servizio della civiltà, dei servigi da quel popolo resi alla Chiesa cattolica e, infervorandosi sempre più, con parola maschia ed eloquente, disse al papa: Beatissimo Padre, il mondo vi chiama ad essere il liberatore dei popoli, - Il Santo Padre - nota qui il narratore polacco - a queste parole sorrise in atto incredulo. Ma Adamo Mickiewicz non si perdè di coraggio di fronte allo scetticismo papale e continuò a perorare la causa della Polonia: disse di conoscere bene la gioventù polacca e affermò che se essa fosse abbandonata a se stessa e lasciata senza direzione, andrebbe dove l’attirerebbero le sue passioni. Qui Pio IX interruppe dicendo: se i Polacchi vogliono la repubblica, tanto peggio per loro. Il Mickiewicz riprese a dire che non parlava di forme di governo, questione secondaria, che si risolverebbe dopo, ma della indipendenza e della ricostituzione politica della Polonia. Il poeta parlava con fuoco, ad alta voce ...; il Papa lo interruppe: Figlio, non parlate tanto forte, alzate troppo la voce. Alla conclusione il Papa si rifiuta di benedire la bandiera dei Polacchi, perchè lui come padre, non può voler la guerra fra i suoi figli; tanto vero che non ha benedetta la bandiera delle sue truppe che alla condizione che esse si limitino alla difesa delle Stato della Chiesa, e che non oltrepassino i confini. - E aggiunse subito, con un sorriso: - se esse andranno al di là, non è colpa mia. Egli fa voti per la legione polacca, ma non può benedirne la bandiera. Che direbbero gli ambasciatori d’Austria, di Prussia e di Russia? Allora Adamo Mickiewicz scattò e con forza esclamò: Gesù Cristo non badava ai potenti della terra, ma alla verità. E voleva continuare su questo tuono, ma il Papa bruscamente lo interruppe, esclamando in francese: vous vous oubliez! Il Mickiewicz si rimise, continuò a perorare, ma non potè ottenere per la sua bandiera che la benedizione privata del Papa.
          La sera Pio IX, per mostrare al Mickiewicz, che non era in collera con lui, gli mandò un frammento della testa di sant’Andrea apostolo, la quale, dopo essere stata rubata nella chiesa di san Pietro in Vaticano, era stata di quei giorni ritrovata (L. Mickiewicz, op. cit, vol. I, § 9°, pag. 89 e seg.).
          Dinanzi a tutte queste tergiversazioni, a questi scettici formalismi, a queste paure diplomatiche, per quanto lo storico si sforzi di essere obiettivo ed imparziale, non può fare a meno di non ripensare a Ponzio Pilato e a don Abbondio. In fondo in fondo a Pio IX bastava aver dotto e ripetuto alle sue milizie di non oltrepassare i confini dello Stato, se esse poi andavano al di là dai confini, lui sorrideva, tranquillo di coscienza, perchè non era colpa sua. Pio IX comprendeva benissimo che i Promessi Sposi, cioè i Polacchi, avevano tutte le ragioni, ma non poteva benedirli per tema di don Rodrigo, di don Attilio e dell’Innominato, cioè per tema dell’Austria, della Prussia e della Russia. E trovava un accomodamento con la sua coscienza imbrogliata; e fra la verità e i potenti della terra trovava una scappatoia degna del marchese Colombi fra il si e il no, posto con le spalle al muro, trovava un sotterfugio degno di figurare nelle Fourberies de Scapin, trovava una restrizione mentale degna del padre Mariana . . . impartiva alla bandiera della legione polacca la sua benedizione . . . privata!
          Ecco in quale cerchia di miserabili espedienti stringeva un gentiluomo quale era il conte Giovanni Maria Mastai, un uomo venerando per l’altissima autorità di cui era investito, quale era Pio IX, la inesorabile contraddizione che in lui si personificava e per effetto della quale, lui - tribuno e Pontefice nel tempo stesso - lui i popoli oppressi credevano loro liberatore, mentre i tiranni oppressori confidavano trovare in lui il sostenitore del principio di autorità, per quanto impura ed illegittima di quella autorità potesse essere l’origine.