Ciceruacchio e Don Pirlone/Capitolo IV
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Capitolo Quarto.
L’inno del Meucci per la guardia civica. — Conseguenze dell’occupazione di Ferrara. — Proteste del cardinale Ciacchi e del cardinale Ferretti. La politica del principe di Metternich. — La Lega doganale. — Calabria e Sicilia. — Il conte Terenzio MamianL ~ Festeggiamenti in Roma in suo onore. — Ciceruacchio vessillifero del IV battaglione civico. — Banchetto per l’onomastico di Padron Angelo. — La nomina dei Consultori di Stato. — Pio IX e lo scultore Lorenzo Bartolini. ~ Il sonetto di un barnabita per l’anniversario dell’amnistia. — Zelo ed energia della guardia civica. — Il IV battaglione a villa Borghese. — Il III battaglione a villa Ludovisi. — Il duca Sforza Cesarini, Ciceruacchio e il milite Fabio Nannarelli. — Tre civici processati per aver gridato Viva l’Italia! — Anniversario della festa dell’8 settembre. — Giuseppe Mazzini a Pio IX. — Parole di vita ad un cadavere. — Federigo II e Innocenzo IV. — Nemo Papa potest esse ghibellinus. — Innocenzo III e Ottone IV. — Nemo imperator potest esse guelfus. — La Chiesa e il Papato nell’avvenire. — Carlo Luciano Bonaparte principe di Canino. — Principe e democratico. — Il principe di Canino fu complice dell’omicidio del conte Pellegrino Rossi? — Resultanze del processo su questo proposito. — Festeggiamenti pel motu-proprio del 1° ottobre sul Municipio romano. — Ciceruacchio e il battaglione della Speranza. — La bandiera di Roma sulla tomba del Ferruccio a Gavinana. — Festa militare alla Farnesina. — L’allocuzione Quisque vestrum. — Il professor Montanelli a Roma. — Rigori contro la libera stampa. — Il nuovo motu-proprio sulla Consulta di Stato. — Lord Minto. — Accuse e difese sulla missione di lord Minto. — La Vita popolare di Pio IX del canonico Croce. — Lord Minto e il Circolo romano. — Lord Minto e Ciceruacchio. — La famiglia Metternich e la famiglia Minto. — Il busto di Pio IX e la statuetta di Ciceruacchio. — L’inaugurazione della Consulta di Stato. — La sfuriata del Papa. — La rappezzatura del Diario di Roma. — L’inaugurazione del Consiglio comunale. — I Cento Consiglieri. — Il discorso del cardinale Altieri. — L’elezione del Senatore e dei Conservatori. — La dimostrazione per le vittorie federali contro il Sonderbund e Ciceruacchio. — Gli augurii al Papa pel suo onomastico. — I preliminari della Lega doganale. — Gli Austriaci abbandonano la città di Ferrara. — Il motu-proprio sul Consiglio dei ministri. — Morte del canonico Graziosi e dell’avvocato Silvani. — Al finire del 1847 grande ancora è la popolarità di Pio IX.
Per la istituzione della milizia popolare il gentile poeta Filippo Meucci dettò un inno civico, con l’intendimento di placare le ire divampanti, in quel primo momento, in cui i militi cittadini furono armati. Quest’inno, che ebbe gran voga e larghi applausi a quei tempi, rispecchia la mitezza dell’animo e l’ardentissimo amor di patria di quel valoroso scrittore e i sentimenti onde ancora erano animate le moltitudini a Roma, e perciò lo riproduco:
Viva il grande che al nostro coraggio |
Per la sventata congiura di Roma grande letizia in tutta Italia; e in molte città, come per esempio Firenze, Pisa, Siena, San Miniato, Poggibonsi, Pietrasanta, Montevarchi, Chianciano, furono cantati Te Deum e rese grazie al Cielo per la salvezza di Roma, del Pontefice, d’Italia1; per la prepotente occupazione di Ferrara un fermento, una eccitazione, che assumevano le più svariate forme; in Toscana e in Piemonte quella di petizione dei popoli ai principi per ottenerne riforme e la istituzione della guardia civica; in Lombardia e nel Veneto quella di atti baldanzosi e di ostili dimostrazioni contro gli esecrati stranieri; nello Stato romano in aperte manifestazioni avverse all’Austria e in preparativi popolari per la guerra; nel reame napoletano in torbidi nelle Provincie e in cupo sommovimento degli animi nella popolosissima capitale; in Sicilia in un assiduo lavorio preparatorio a proclamare la separazione dell’isola dal reame borbonico. Il 25 luglio, anniversario della morte dei fratelli Bandiera e dei loro compagni, con solenni esequie fu celebrato l’eroismo di quei martiri a Pisa, a Firenze, a Bologna, e, con prova di vero coraggio, sotto la minaccia del cannone austriaco, anche nella invasa Ferrara.
Il cardinale Ciacchi, legato della provincia ferrarese, protestò energicamente, in nome del Governo romano, contro le prepotenze austriache a Ferrara prima il 6, poi il 13 agosto 1847, intanto che il segretario di Stato cardinale Ferretti scriveva al nunzio pontificio a Vienna una vigorosa lettera di rimostranza da leggersi al principe di Metternich e un’altra, più viva ancora, ne faceva seguire il 21 agosto, nella quale egli respingeva, con molto garbo di forma, la pretesa del principe di far da tutore al Governo pontificio.
«Il signor principe - scriveva il cardinale Ferretti al nunzio a Vienna - riconoscendo il bisogno di riforme amministrative nei domini della Chiesa, si rattrista dei mali che si manifestano tutto giorno net nostri Stati dal confondere l’idea di progresso coll’altra essenzialmente diversa di sconvolgimento, vagheggiata dai clubs e forse non bastantemente contradetta dalla espressione ed azione governativa».
E quindi prende a dimostrare come le riforme largite dal Papa siano opere di progresso e non di sconvolgimento2. Ma sì, a darla ad intendere al principe di Metternich
era lo stesso come dire al muro.
A lui tutte quelle diavolerie della libera stampa, inneggiante alla indipendenza nazionale, delle riforme di carattere costituzionale e dell’armamento di duecentomila militi nello Stato romano, dovevan parere - ed erano - tanti fuscelli negli occhi dell’aquila bicipite; e dal luogo e nel modo onde egli considerava le cose, il principe aveva ragione. E la cancelleria austriaca nelle sue risposte alle note del cardinal Ferretti apertamente palesava i suoi timori, i suoi sospetti e i suoi pensieri. E ciò che è peggio e che non può essere contraddetto - il nunzio Viale Prelà la pensava come la cancelleria austriaca3.
Quella lotta diplomatica, la cui corrispondenza era resa di ragione pubblica e commentata con ardore patriottico e con lusso di sode ragioni dalla stampa, anziché calmare, accresceva l’eccitazione popolare; le milizie cittadine dello Stato, con attività febbrile, si andavano esercitando e addestrando alle armi, intanto che si cominciava a vagheggiare nei giornali l’idea di una lega doganale fra i principi e gli Stati italiani, come preparazione ed avviamento ad una lega politica4.
Ma l’eco delle riforme largite da Pio IX si era ripercosso dalle Alpi al Jonio e aveva destato fermento in tutta Italia. Onde l’8 maggio 1847 il granduca di Toscana aveva promulgata una legge per allargare il diritto di stampa; poi il 31 dello stesso mese aveva proceduto ad altre riforme: indi al 4 settembre instituì la guardia civica. Il 1<> settembre, il bisbetico e scialacquatore Carlo Ludovico di Borbone fece uguale concessione ai tumultuanti Lucchesi; e, poco stante, il suo microscopico Stato, abdicando, egli cedeva anticipatamente, secondo i patti del trattato di Vienna, al granduca di Toscana. In Piemonte il Comizio agrario di Casale inviava un indirizzo liberale al Re: le popolazioni dì Genova, di Alessandria e di Torino tumultuavano; e, dal finir dell’ottobre ai primi di dicembre Carlo Alberto si metteva risolutamente sulla via delle riforme, nella quale lui e il magnanimo suo figlio Vittorio Emanuele e il leale nipote suo Umberto, soli, fra tutti i fedifraghi e codardi principi italiani, rimasero saldi e incrollabili, né per sventure, né per minacele, né per macchinazioni tenebrose delle congreghe reazionarie, mai più se ne smossero o se ne allontanarono.
Esempio di lealtà cavalleresca tanto più ammirevole, quanto più raro.
Sui primi di settembre movimenti rivoluzionari avvenivano a Reggio di Calabria e a Messina; e in tutto il reame napoletano di qua e di là dal faro, un fermento liberale, nutrito di desideri e di speranze si manifestava; e le sollevazioni calabresi davano agio al pauroso tiranno di inferocire contro i liberali con la fucilazione dei valorosissimi giovani Domenico Romeo e Giuseppe Mazzoni e di tre loro compagni d’armi5.
L’8 e il 9 settembre i concitati spiriti lombardi, festeggiando l’arcivescovo Romilli e l’amato Pio IX, ebbero a soffrire le sanguinoso repressioni della polizia austriaca, che inferocì contro gli inermi cittadini, mentre a Venezia, in occasione del Congresso degli scienziati italiani, solenni dimostrazioni facevansi in onore di Pio IX, della libertà, della indipendenza d’Italia.
Intanto che la diplomazia europea si interponeva nella quistione dell’occupazione di Ferrara, e mentre la Corte di Roma procacciava di risolvere tale vertenza in senso favorevole alla sua dignità e, sopratutto, a seconda dei desideri delle eccitate popolazioni, i municipi dello Stato votavano indirizzi al Governo del Papa e gli offerivano danari, armi ed aiuti e si protestavano pronti a qualsiasi più duro sacrificio, purché si rompesse guerra allo straniero e si punisse l’oltracotanza dell’odiato austriaco.
E mentre i giornali soffiavano con patriottico sdegno per entro a questo ardore popolare, tutti andavan prestando i propri sentimenti a Pio IX: e chi lo paragonava a Gregorio VII e chi ad Alessandro III e chi a Innocenzo III e chi a Giulio II; e tutti concordi - compresi i diari più moderati, quali la Bilancia di Roma, il Felsineo di Bologna, la Patria di Firenze - lo eccitavano a porsi alla testa della crociata nazionale contro lo straniero, e taluni giungevano perfino a chiedere che contro gli Austriaci egli lanciasse la scomunica.
Certo è che Pio IX, pei consigli specialmente del padre Ventura e di monsignor Corboli-Bussi, dal pervicace atteggiamento della Corte di Vienna, fu tratto a portare ad atto il vagheggiato disegno di una lega doganale e commerciale fra lo Stato romano, il regno di Sardegna e il granducato di Toscana, onde in breve, con tale missione, egli inviava a Torino il predetto prelato Corboli-Bussi, il quale, nel novembre soltanto di quello stesso anno, riusci a formulare e a concordare i punti fondamentali di quella unione.
Il giorno 11 del mese di settembre giunse in Roma, per concessione avutane dal cardinale Ferretti, l’illustre filosofo, prosatore e poeta conte Terenzio Mamiani della Rovere, uno dei tre amnistiati i quali non avevan voluto sottoscrivere la dichiarazione, da loro ritenuta umiliante, fissata per il rimpatrio degli esuli e per la scarcerazione dei prigionieri, nel decreto di amnistia.
Terenzio Mamiani della Rovere era nato a Pesaro nel 1799. Dotato da natura di ingegno acuto, profondo, versatilissimo, nudrito di buoni studi, che completò a Roma, aveva già levato fama di sé come poeta gentile e come prosatore elegante, quando la rivoluzione delle Romagne e delle Marche nel 1831 era venuta a sottrarlo agli studi per lanciarlo nel vortice delle lotte politiche, nel quale egli si gettava con fede e si manteneva con tenacità di principi, con saldo carattere, con coscienza purissima, immacolata, campione ardito e securo delle idee liberali. Dopo aver partecipato, come ministro, al governo delle provincie insorte, durante il breve periodo della rivoluzione, dopo aver sofferto nove mesi di prigione austriaca a Venezia, egli esulava in Francia, dove tenne alto per quindici anni Tonore del nome italiano sia come liberale, sia come gentiluomo, sia come pensatore. Là egli diè opera a parecchie scritture, fra cui, altissima per gl’intendimenti, pei pensieri, pei gravi studi donde scaturiva, fu quella pubblicata nel 1836, che aveva per obietto: Il rinnovamento della filosofia italiana; libro nel quale egli spaziando, sulle ali di una sintesi poderosa, negli amplissimi campi della speculazione, abbraccia, con lo sguardo linceo, le varie dottrine delle opposte scuole filosofiche e, scostandosi ugualmente dai sensisti e dai materialisti da un lato e dai dogmatici e dagli autoritari dall’altro, e richiamando in onore il pensiero dei filosofi italiani, procura di aprire una nuova via agli studi metafisici.
Quel libro sollevò dispute nel campo degli studiosi di filosofia e garbate critiche da parte dell’illustre abate Antonio Rosmini, onde il Mamiani rispose a quegli appunti pubblicando sei lettere in risposta al filosofo roveretano; e più tardi, due trattati assai lodati, uno intitolato: Dell’Ontologia e del Metodo, e l’altro: Dialoghi di scienza prima, in cui, combattendo lo scetticismo, esponeva una bella teorica del progresso.
Più tardi ancora, perseverando negli studi, diè alla luce un altro libro; Dei fondamenti della filosofia del Diritto e singolarmente del Diritto di punire, nel quale oppugnava rigorosamente l’utilitarismo che avevano propugnato come fondamento del diritto statale l’Hobbes e il Bentham.
Il conte Terenzio Mamiani, adunque, tornava in Italia, preceduto da bella fama di insigne filosofo e letterato e di uomo veracemente liberale e di fortissimo carattere6.
Non era repubblicano, ma democratico di principi, di ogni più largo e civile progresso amantissimo; del Papato diffidente, speranzoso più che fiducioso di Pio IX, della romana Curia irremovibile avversario.
Piccolo, ma leggiadro della persona, accuratamente attillato nel vestire; negli atti, nel portamento, nelle parole elegante sempre e sempre sopra gli altri distinguibile. Oratore forbito, facondo, eloquente, della straniera dominazione nemico irreconciliabile, della indipendenza e unità della patria e della libertà tenerissimo.
L’illustre uomo fu degnamente festeggiato in Roma da ogni ordine di cittadini. Ciceruacchio si fece promotore di un banchetto in onore di lui: esso gli fu offerto dal Circolo romano nel casino del Vascello sul Gianicolo. Vi assistettero tutte le persone più autorevoli di Roma per studi, per cultura, per patriottismo. Furono fatti vari brindisi in suo onore, e il Masi improvvisò applauditissimi versi. «Ogni ceto di persone, dal principe al popolano, vedevasi rappresentato in quel banchetto, reso più bello dalla presenza di gentili signore». . . . Il conte Terenzio Mamiani «in suo eloquente discorso rivelò tutta quanta la sua anima piena di puro amor patrio, di sublimi pensieri e di generose inspirazioni. Tracciati i dolori dell’esilio, e resi più gravi dallo scherno dello straniero, cui dava ampia materia l’avvilimento della misera Italia, manifestò con l’accento della verità e della passione quelle sensazioni che ricevè la sua bell’anima quando egli tornò a calcare il terreno natio, ed innalzandosi a gravi e nobili considerazioni, dipinse con vivi colori lo stato presente d’Italia e i suoi voti, le sue speranze. Indi rialzando il sentimento e la dignità nazionale, mostrando l’unica possanza del popoli essere la fiducia nella loro propria forza iniettore, animando il coraggio, spronando gli animi a seguire gli esempi degli avi, eccitò tale entusiasmo, che ai clamorosi applausi si mesceano le lacrime della gioia7. I quali crebbero, se pure era possibile, quando l’illustre esule entrò a celebrare le virtù e le benemerenze dell’adorato Pontefice - la frase è del Contemporaneo. - Nè tacque le glorie di Roma. Fra queste annoverò come prima il pensiero grande, generoso che ella ebbe fin dai primi m^omenti in cui risorse a nuova vita. Questa città, egli disse, non pensò al suo bene particolare soltanto, ma al bene dell’Italia tutta rivolse i suoipensieri, i suoi voti, e si considerò come parte della gran famiglia italiana»8.
E da quel giorno ebbe origine la vivissima benevolenza che legò poi sempre l’insigne filosofo all’ottimo Ciceruacchio. Il quale, nominato ufficiale porta-bandiera del 4° battaglione civico, allorché il «principe Aldobrandini, tenente colonnello di quel battaglione, gli partecipò la nomina di ufficiale vessillifero, ammutì. Quale fu la ragione del suo silenzio? - Poco poi disse quasi dolente: La desiderava Pippo; - un suo amico carissimo, - L’altissimo popolano non sentì tanto l’onore impartitogli quanto il dispiacere che non fosse appagato l’amico suo. Se non che, fattogli conoscere che ei doveva accettarla come dimostrazione di onore ed amor patrio, soggiunse: Per la patria, meno il tamburo perchè non so suonarlo, ma ponetemi dovunque che io starò sempre fermo al mio posto, - Dite ora se in mano più salda possa stare il civico vessillo! Ditemi se tutti la sentissero come lui, qual vantaggio ne trarrebbe la patria»9.
E tale e tanto era l’amore che i liberali, anche i più illuminati, nutrivano per lui che, in occasione del suo onomastico, il giorno di san Michele Arcangelo, 29 settembre, gli fu offerto un banchetto a cui sedettero duecento persone, fra cui il Mamiani, lo Sterbini, il Masi, il Meucci, il Checchetelli, nella trattoria delle Belle Arti fuori di porta Pia. Le virtù e i meriti del modesto capo-popolo furono posti in rilievo dalle ornate parole dello Sterbini e del Meucci e dai brindisi in versi detti dal Masi, dal Guerrini e dal Gallucci e, in poesia romanesca, dal Benai10.
Pio IX, frattanto, aveva proceduto alla scelta dei ventiquattro consiglieri della Consulta di Stato sulle terne a lui sottoposte dai cardinali legati e dai monsignori delegati, i quali governavano le ventuna provincie dello Stato. E il Diario di Roma, giornale officiale, nel suo numero del 7 agosto, aveva annunciato alle popolazioni i nomi degli eletti, i quali erano già stati pubblicati il 30 luglio dalla Bilancia, meno quello dell’Odescalchi, e riprodotti il 3 del successivo agosto dalla Pallade11.
Ecco i nomi dei ventiquattro consultori, colla indicazione della provincia da ciascuno rappresentata:
Roma | Barberini principe Francesco, |
» | Odescalchi principe Pietro, |
» | Vannutelli avvocato Giuseppe, |
Comarca | Lunati avvocato Giuseppe, |
Bologna | Silvani avvocato Antonio, |
» | Minghetti Marco, |
Ravenna | Pasolini conte Giuseppe, |
Forlì | Paolucci de' Calboli marchese Luigi, |
Ferrara | Recchi nobil uomo Gaetano, |
Ancona | Simonetti de' Pupi de' princ. Annibale, |
Macerata | Ricci marchese Amico, |
Perugia | Donnini conte Luigi, |
Urbino e Pesaro | Ferri conte Carlo, |
Camerino | Peda nobil uomo Gio. Battista, |
Fermo | Felici cavalier Antonio, |
Ascoli | Sgariglia Dal Monte conte Ottavio, |
Spoleto | Di Campello conte Pompeo, |
Viterbo | Ciofi avvocato Luigi, |
Velletri | Santucci avvocato Luigi, |
Rieti | Piacentini avvocato Giuseppe, |
Frosinone | De Rossi avvocato professor Pasquale, |
Orvieto | Gualterio marchese Filippo Antonio, |
Civitavecchia | Benedetti avvocato Francesco, |
Benevento | Sabariani de' baroni Giacomo. |
In questa piccola assemblea, come è facile scorgere, dominavano gli elementi conservatori e liberali moderati e, appena appena, penetravano due o tre liberali decisi a spingersi innanzi nelle vie del progresso.
Quattro di questi consultori furono poi, prima del 15 novembre, giorno in cui si riunì la Consulta di Stato, sostituiti da altri; invece del conte Carlo Ferri rappresentò la provincia di Urbino e Pesaro il conte Luigi Mastai, il Sabariani fu sostituito nella rappresentanza di Benevento da monsignor Bartolomeo Pacca, il marchese Ricci in quella di Macerata dall’avvocato Lauro Lauri e il cavalier Felici dall’avvocato Michele Adriani nella rappresentanza della provincia di Fermo.
L’occupazione arbitraria di Ferrara, intanto, e la lotta diplomatica che il Governo pontificio, appoggiato dal re Carlo Alberto e dal Ministero inglese soltanto, sosteneva contro l’Austria favoreggiata dalla Russia, dalla Prussia e, in parte, anche dalla Francia, accrescevano le simpatie e l’affetto degl’Italiani verso Pio IX, di che son prova, oltre gli indirizzi patriottici dei comuni dello Stato che continuavano a pervenire numerosissimi al Pontefice, un sonetto, pubblicato il 17 luglio 1847 dal barnabita padre Paolo Venturini e la sottoscrizione pubblica, apertasi in Volterra, nell’agosto di quello stesso anno, ad iniziativa del canonico Filippo Gori e dell’abate Gaetano Righi, per collocare nel Collegio di san Michele, tenuto dai padri Scolopi in quella città, il busto in marmo di Pio IX, il quale, da giovinetto, era stato allievo in quell’Istituto.
Già la Direzione del Collegio aveva posto una lapide rammemorante il discepolo del Collegio, salito all’altissima dignità pontificale; ma l’entusiasmo dei Volterrani non si accontentava della lapide, voleva un busto raffigurante il Papa adorato, busto che si era assunto l’impegno di scolpire l’insigne artista Lorenzo Bartolini12.
Il sonetto del barnabita, poi, scritto a nome degli amnistiati politici ed esprimente i loro sentimenti di gratitudine e di devozione al Pontefice e rinnovante il loro giuramento di fedeltà, è dettato con tale vigoria di aspirazioni militari e guerriere che manifesta chiaramente come l’unità di pensieri, di desideri e di propositi esistesse ancora completa - non ostante le oscillazioni, le renitenze e gli scrupoli del Papa nel procedere alle aspettate riforme - fra sudditi e principe, quantunque possa il sonetto sembrare anche ammonimento a quei pochi amnistiati che, per quelle oscillazioni del Papa, cominciavano ad oscillare nella fede verso di lui.
Ecco il sonetto, un po’ reboante, ma non brutto.
i graziati politici
A PIO IX
nell' anniversario dell'amnistia.
Raggriorna il dì, che col divin perdono |
La guardia civica, in questo frattempo, si veniva ordinando ed ammaestrando alle armi con grande ardore, anzi con un ardore che singolarmente contrastava con le abitudini pacifiche e con la natura indolente della popolazione romana, la quale, da quell’inatteso e precipitoso volger d’eventi erasi levata, come desta da lunghissimo sonno, tramutata da quella dell’anno innanzi, accesa da sentimenti patriottici, seriamente disposta alle opere ed ai sacrifici. I battaglioni, numerosissimi, prendevan parte alle esercitazioni, e una nobile gara fra i vari ufficiali superiori alimentava e accresceva lo zelo dei militi. 11 primo a far bella mostra di sè a Villa Borghese il 15 agosto con pubbliche manovre fu il 4° battaglione di cui era tenente colonnello il principe Aldobrandini e vessillifero Ciceruacchio. Il principe Borghese imbandì poscia ai militi sontuoso banchetto. Il Del Frate, lo Sterbini, il Sarzana, il Checchetelli, semplici militi di quel battaglione, improvvisarono brindisi e poesie, fra cui riferisco questa quartina del Checchetelli:
Al plaudir lieto della vostra schiera |
E, nello stesso giorno, andava alle esercitazioni il 3° battaglione nella Villa Ludovisi, di proprietà del colonnello principe di Piombino, ore tornava a manovrare il 21 dello stesso mese alla presenza del cardinale Ferretti segretario di Stato. Il giorno 22 eseguirono pubbliche evoluzioni il 5° battaglione comandato dal tenente colonnello marchese Filippo Sacripante e il 6° agli ordini del maggiore Bartolomeo Galletti; e poscia il 10°, l’11° e il 12°.
Il giorno 29 agosto dieci battaglioni si esercitavano nelle vicinanze di Roma; e già da oltre un mese la guardia civica occupava tutti i posti, adempiva al servizio di pattuglie e ronde notturne per la città, vigilando al mantenimento dell’ordine e della quiete15.
La serietà e lo zelo che dimostrava la guardia civica in tutti questi servigi militari persuasero il Papa e il suo segretario di Stato cardinale Ferretti ad accordare alle milizie cittadine che la domenica potessero esse dare un corpo di guardia al palazzo del Quirinale.
Negli ultimi giorni di agosto Ciceruacchio era stato leggermente ammalato: ma con grande letizia dei moltissimi suoi amici ed ammiratori si lesse nella Pallade che il giorno 2 settembre il capo-popolo pienamente ristabilito era apparso nuovamente in pubblico.
Ieri i battaglioni Ponte e Borgo - scrive la Pallade - comandati dal capitano aiutante maggiore Garibaldi manovrarono a Belvedere fra il plauso universale. Al quartiere Lancellotti, ov’era di guardia il duca Sforza Cesarini, giunse Ciceruacchio mentre da poco era tornata la truppa dalle manovre. Entusiasmo destato in tatti dal vedere tornato in salute quel buono e forte cittadino fu immenso; fu siasmo della patria virtù.Il duca Sforza Cesarlni imbandì al quartiere per tutto il battaglione un sontuoso rinfresco, e dicendo sontuoso non esageriamo punto. Il civico Fabio Nannarelli aringò fra gli applausi16.
Ma per quanto il cardinale Ferretti e monsignor Morandi, atteggiandosi a liberali più che non fossero, cercassero di assorgere al livello del patriottismo e della eccitazione del popola romano, come lo dimostra - e questo avvenimento valga per i molti altri che potrei addurre - il fatto che, durante l’estrazione della tombola, nel Foro Agonale, domenica 5 settembre, apparissero insieme, alla moltitudine ivi adunata, dalla loggia della casa abitata dal commerciante Clemente Scarsella, il cardinale Ferretti, monsignor Morandi e Ciceruacchio, applauditi a furore17, pur tuttavia il segretario di Stato e il governatore di Roma rimanevan sempre al retroguardo dello spirito pubblico, per quella benedetta ragione delle insidiose e tenebrose mene dei reazionari, sempre in maggioranza e imperanti nella vecchia curia, come lo dimostra un altro fatto quanto vero e singolare, altrettanto incredibile.
La sera del 7 settembre si ponevano per la prima volta nel caffè delle Belle Arti, i busti in marmo di Pio IX e di Vincenzo Gioberti, in mezzo ad una grande folla plaudente. Fra quei plaudenti erano il principe di Canino, il maggiore Galletti e il banchiere inglese Macbean, da moltissimi anni domiciliato in Roma, vestiti tutti tre dell’assisa civica. Nella foga del loro entusiasmo essi divisarono di andare ad applaudire sotto le finestre delle ambasciate di Sardegna e di Toscana i nomi del re Carlo Alberto e del granduca Leopoldo, i quali si eran messi di quei giorni, sulla via delle riforme.
Detto fatto e, comunicato il loro pensiero a molti giovani lì presenti, i tre muovono per il Corso gridando ad alta voce viva l’Italia! ... e recatisi alla residenza del ministro sardo Pareto e del ministro toscano Bargagli applaudirono alla lega doganale, all’unione dei principi italiani, all’Italia. Chi lo crederebbe? Il Galletti, maggiore della guardia civica, fu arrestato per quel reato - e poi quasi subito rilasciato libero - e contro di lui e contro il principe di Canino e il Macbean fu iniziato regolare procedimento giudiziario, pel grande reato che «fu in quella occasione che per la prima volta si intesero apertamente le grida: viva l’Italia»18.
Eppure quei rivoluzionari tanto accusati, dagli storici e dai favoleggiatori papalini, di intemperanza, di esagerazione, di malevoglienza verso il Governo pontificio, e dipinti come perpetui eccitatori di disordini, gli Sterbini, i Meucci, i Zauli-Sajani, i Mattey, i Brunetti, i Checchetelli, non solo non colsero quella palla al balzo e non menarono su quell’arbitrio della polizia il rumore che avrebbero avuto diritto di sollevare, ma per amor di concordia, del fatto, abbastanza strano davvero, non fecero motto; e nessun giornale liberale ne fece cenno.
Il giorno 8 settembre Pio IX si recò, come l’anno precedente a santa Maria del Popolo; e, come l’anno innanzi, fu festeggiato con grandissimo calore dalla popolazione, accorsa in gran folla lungo il Corso e sulla vastissima piazza. Sulla strada il Pontefice trovò schierati numerosissimi i militi della guardia civica, in divisa e completamente ordinati, i quali gli presentarono le armi.
Il Papa, applaudito vivamente lungo la via percorsa, fu ricevuto sulla piazza del Popolo in un padiglione eretto di fronte al Pincio, sotto il quale era collocato il trono e a cui si ascendeva, passando sopra un magnifico tappeto di fiori naturali. Di là il Pontefice impartì la benedizione alla moltitudine, che lo accompagnò - finita la funzione religiosa in chiesa - fra le più vive acclamazioni, al Quirinale; ove esso dovette nuovamente benedire la folla.
Ciceruacchio portava, in quel corteo, la bandiera donata dai Bolognesi ai Romani19.
In quello stesso giorno 8 settembre veniva fuori, per le stampe, la lettera che il fondatore della Giovine Italia, il vero apostolo, il vero precursore dell’unità nazionale, Giuseppe Mazzini, rassegnato a sacrificare i suoi ideali se un principe italiano avesse assunto lealmente l’impresa di liberare la patria e di raccoglierne le sparse membra in una famiglia, indirizzava a Pio IX, come nel 1831 ne aveva indirizzata una consimile a Carlo Alberto.
In quella lettera, improntata alla più calda eloquenza, il profugo genovese, con linguaggio religioso, pieno di un misticismo profondo, eccita Pio IX alla santa impresa:
«Non dite a voi stesso: "se io parlo ed opero nel tal modo, i principi della terra dissentiranno; gli ambasciatori daranno note e proteste". Che sono le querele d’egoismo de’ principi, e le loro note, davanti a una sillaba dell’evangelio eterno di Dio?
«Annunciate un’era, dichiarate che l’umanità è sacra e figlia di Dio; che quanti violano i suoi diritti al progresso, all’associazione, sono sulla via dell’errore; che in Dio sta la sorgente d’ogni Governo; che i migliori per intelletto e per core, per genio e per virtù, hanno ad essere i giudicatori del popolo. Benedite a chi soffre e combatte, biasimate, rimproverate chi fa soffrire, senza badare al nome ch’ei porta, alla qualità ch’ei riveste. I popoli adoreranno in voi il migliore interprete dei disegni divini; e la vostra coscienza gli darà prodigi di forza e di conforto ineffabile. Unificate l’Italia, la patria vostra...»
Era questo un tentativo che, per scrupolo di patriottismo e senza fede nella riuscita, faceva il santo agitatore delle genti italiche, a discarico della propria coscienza e per poter dire a sé stesso: «a tutte le vie mi sono affacciato che adducessero all’altissimo ideale di vedere indipendente, libera, unita la patria; ha tentato anche di spingere un Papa a sentirsi più italiano che cattolico, più emancipatore di popoli e rinnovatore della dottrina evangelica che difensore degli interessi e propugnatore delle tradizioni di una casta sacerdotale?... era proprio visione ingannevole di un’anima mistica che, fervorosamente innamorata e devota del suo ideale, nell’ebbrezza di un’estasi sovrumana, crede possibile anche un miracolo?...».
Sarebbe difficile rispondere, con certezza di coglier nel vero, e all’una e all’altra domanda. Certo è che, nella lettera del Mazzini vi hanno molte affinità e analogie con la esortazione che il grande Machiavelli rivolge al sognato, all’invocato liberatore d’Italia perchè la redima dai barbari; certo di tale esortazione la lettera del cospiratore genovese ha tutto il calore, tutti gli impeti e la passione20.
Certo quella invocazione del Mazzini a Pio IX rimase inascoltata e apparve e fu sogno di un utopista, di un visionario; avvegnachè a nessun uomo sia concesso, per alto e veggente che sia il suo intelletto, per nobile e generosa che sia l’anima sua, di assorgere alla somma dignità del Papato senza che egli sia, dal suo ufficio e dalla sua posizione, costretto a rinnegare qualunque precedente affetto, sentimento e dottrina per dedicarsi, invece, a sostenere e propugnare con tutte le sue forze la tradizione, i diritti, gl’interessi di quella grandiosa e colossale istituzione che è la Chiesa, istituzione nella quale la sua individualità sparisce, da cui è assorbita, con cui si identifica involontariamente spesso, e inconsapevolmente.
Anzi questo assorbimento e questa identificazione dell’individuo nella istituzione non è pure esclusiva del Papato, ma di tutte le umane istituzioni, e se nel Papato è più considerevole e notata, ciò avviene perchè il Papato è, forse, la più potente fra le umane istituzioni e novera diciotto secoli di esistenza e duecento milioni di sudditi spirituali.
Allorchè più ardenti fervevano in Germania e in Italia le lotte fra Guelfi e Ghibellini, fra Chiesa e Impero, verso la metà del secolo XIII, alla morte di Celestino IV, dopo un interregno di due anni, il Conclave elesse a pontefice il cardinale Sinibaldo de’ Fieschi, un cardinale ghibellino, intimo e affettuoso amico dell’imperatore Federigo II, e il quale assunse il nome di Innocenzo IV; i cortigiani ghibellini si congratulavano con Federigo, allietandosi che il nuovo Papa fosse un amico suo e deducendo da questo fatto la speranza che presto si acconcerebbero, e con vantaggio dell’imperatore, le discordie sanguinose che separavano la Chiesa e lo Stato. Ma Federigo, nell’acuta perspicacia della sua altissima mente, si addolorò di quell’elezione, dicendo ai cortigiani che pur troppo egli avea perduto un caro amico ed aveva acquistato invece un nuovo e più terribile nemico, perchè la persona del cardinale Fieschi spariva e rimaneva assorbita in quella del Pontefice. Nemo Papa potesi esse ghibellinius, sentenziò l’Imperatore.
E le scomuniche contro di lui rinnovate da Innocenzo IV e le armi temporali suscitategli contro da lui, con ogni mezzo, tra il 1243 e il 1250, mostrarono la esattezza della previsione del glorioso imperatore.
E già un fatto consimile si era verificato nel 1210, quando Ottone IV, capo dei guelfi germanici - coronato imperatore da Innocenzo III, nel 1209 - fu costretto, nell’interesse dell’imperiale istituzione che egli rappresentava, a ribellarsi all’invadente assorbimento del Pontefice, quantunque guelfo egli fosse stato sempre prima di divenire imperatore. E come e perchè ciò avvenne? Perchè: Nemo Imperator potest esse guelfus.
Riepilogando, adunque, questa, forse non al tutto, inutile digressione, conchiudo che il Papato è quello che lo han fatto la tradizione, i concilii, i dogmi, i canoni, le donazioni di Desiderio, di Pipino, di Carlo Magno, gli ordini religiosi, la gerarchia ecclesiastica, le indulgenze, le scomuniche, il concilio di Trento, la società di Lojola, il che vai quanto dire diciotto secoli di storia; che il Papato è perciò una istituzione la quale assorbe di necessità in sè il Papa, chiunque esso sia, comunque esso si chiami prima di divenir Papa, per potente che egli possa avere l’ingegno, per magnanimo che possa avere il cuore, si chiami Ildebrando da Soana o Lotario de’ Conti, Enea Silvio Piccolomini o Prospero Lambertini, e lo identifica in sè e lo costringe a non essere altro che la istituzione medesima.
Una via sola, per quanto io mi vegga, avrebbe - e forse, ha - il Papato - e l’ho già detto in una nota precedente - a infrangere i ceppi di acciaio della tradizione dogmatica e ad affratellarsi nuovamente con la civiltà, e ad allearsi alla scienza... una grande e compieta riforma che rinnovi e ringiovanisca la Chiesa, ritraendola verso le sue origini, verso il Vangelo, verso quella santa e sublime legge di carità, di amore, di fratellanza che è e resterà sempre - io lo credo fermamente - il più perfetto codice di morale umana.
Ma potrà ciò fare, farà ciò il Papato?...
I posteri nostri avranno, forse, dagli avvenimenti una risposta a tale domanda.
Ma per tornare alle cose romane del settembre del 1847, dirò che ai 20 di quel mese tornò da Venezia ove era andato, in compagnia del suo segretario Masi, per assistervi al Congresso degli scienziati e donde era stato sfrattato sollecitamente dal Governo austriaco, il principe di Canino, il quale, saputo del processo avviato contro di lui per la dimostrazione patriottica del 7 di quello stesso mese e visto «nella sala di monsignor Medici di Otiaiano, maestro di camera di Nostro Signore, il Giornale di Roma ove legge la disapprovazione del cardinale Ferretti pei fatti del 7 e 8 in Roma..... e preso da subito sdegno, imbrattò il foglio con una impertinente diatriba, rescrivendovi quanto appresso: "Vergognatevi, monsignore, di avere questa notificazione fatta ad istigazione dei vili nemici di Pio IX e dell’Italia, Se bastò a spaventare donne e fanciulli, ha reso i petti italiani più saldi. A maggiore confusione di chi la strappò al cardinale segretario di Stato, vi prego a farmi avere con vivissima sollecitudine un’udienza dal Santo Padre: evviva Pio IX, evviva l’Italia!!..."
«In seguito di ciò venne arrestato a Villa Borghese il giorno 24 e consegnato nel proprio palazzo, e quindi tanto a lui, quanto ai suoi compagni Galletti e Macbean, a cagione dei fatti del 7 e dell’8, s’instruì un regolare processo»21.
Cosi lo Spada che quel processo esaminò. Io ho voluto riferire l’aneddoto perchè esso illumina quella situazione e mostra chiaramente il dominio delle ansie patriottiche negli animi dei liberali romani, i quali continuavano a illudersi sul conto di Pio IX e lo volevano nemico degli Austriaci e continuavano a volerlo irresponsabile degli atti che loro non erano accetti. E ho anche riferito l’aneddoto perchè esso ci rappresenta tutto intero quale esso fu il carattere di Carlo Luciano Giulio Lorenzo Bonaparte, principe di Canino, uomo che ebbe una parte assai notevole nella storia che io narro. Egli era nato a Parigi, nel 1803, da Luciano, fratello del grande Napoleone, e da Alessandrina Lorenza di Bleschamps. Aveva studiato a Pavia, a Padova, a Bologna, poi si era condotto negli Stati Uniti d’America, ove si era dedicato tutto alla storia naturale e, ben presto, si era segnalato con le sue memorie scientifiche e con la pubblicazione, fatta nel 1825 a Filadelfia della Ornitologia americana.
Tornato in Italia fissò la sua dimora in Roma, ove pubblicò, dal 1833 al 1841, l’opera che gli assegnò un posto ragguardevole fra gli scienziati e che lo rese famoso, Iconografia della Fauna italica.
Piccolo della persona e pingue, aveva nel volto tutta la impronta del tipo dei Bonaparte e ricordava, a guardarlo, il grande imperatore, come lo ricordava il principe Gerolamo Napoleone morto testè, cugino del principe di Canino. Vestiva quasi sempre di nero, ma non curava molto il proprio abbigliamento. D’ingegno vivo e pronto, d’indole impetuosa, impressionevole, mobile, subitanea, di temperamento nervoso ed irrequieto, e, quindi, tendente alle fanfaronate, in ogni manifestazione dell’animo suo esagerato, superficiale nei sentimenti, dominato dalla vanità, il principe di Canino era, in pubblico, focoso parlatore, oratore inconsiderato poco misurato; e nella vita familiare, quantunque di umore bisbetico, si manifestava spesso aperto, gioviale, ciarliero, e coloritore assai soverchio del vero, tanto da spingersi sovente nel campo delle bugie22. Buon padre di famiglia,confessa il favolista Balleydier che non è punto benevolo verso il Bonaparte - anche generoso nelle occasioni23, egli aveva ereditato gli spiriti ostinatamente repubblicani del padre; nella sua qualità di scienziato era quasi ateo; spregiatore e detestatore dei preti e dei gesuiti, sentiva circolarsi nelle vene, insieme col sangue dei Bonaparte, anche le febbrili loro voglie ambiziose. Era sinceramente democratico, tuttochè tendesse per scatti naturali al prepotere, e fu poscia ardente repubblicano. «Possessore di un vasto tenimento a cui è congiunto il titolo di principe romano, vende la terra per centomila scudi, il titolo per un soldo, e vuole, scrupolosamente rigoroso, che nell’atto notarile ciò sia ben rogato»24. L’ostentazione che appare in questo tratto rivela l’uomo in tutta la esagerazione dello studiato suo atteggiamento democratico.
I giudici processanti avvocato Cecchini e avvocato Lauronti, incaricati della processura contro gli uccisori del conte Pellegrino Rossi, come quelli che non avevano il mandato e non volevano fare il processo agli individui che compierono quell’assassinio politico, ma avevano il mandato di fare il processo e volevano fare il processo a tutti indistintamente gli uomini della rivoluzione - tanto è vero che - cosa incredibile, ma pure realtà! - tentarono di coinvolgere nel processo per l’omicidio Rossi il conte Terenzio Mamiani della Rovere!!! - i giudici processanti Cecchini e Laurenti cercarono di coinvolgere in tale processo anche il principe di Canino. E, giovandosi di un testimonio, di cui ogni Governo e ogni magistrato che avessero avuto il rispetto di sè stessi avrebbero rifiutato sdegnosamente la cooperazione e le deposizioni, fecero accordare dal Pontefice l’impunità ad un infame uomo, pubblico lenone, condannato già per canti osceni e per ferimento, poi a quindici anni di galera per i fatti delittuosi avvenuti durante la repubblica a Santa Croce in Gerusalemme, ne accettarono le rivelazioni indettate al pubblico ruffiano dalla polizia e su quelle eressero tutta la seconda parte dell’ediflcio processuale contro tutti i principali uomini della rivoluzione, quando - e cioè il 12 gennaio 1852 - già avevano in processo assicurata la piena conoscenza del vero uccisore del conte Rossi e de’ suoi complici, e quando monsignor Matteucci segretario della Sacra Consulta aveva eccitato il giudice Cecchini a venire alle finali contestazioni e alla compilazione del ristretto, o riassunto del processo25.
E meno male ancora se il miserabile delatore avesse rivelato ciò che egli realmente sapeva; ma egli, il turpissimo uomo, sugli eccitamenti della polizia, fabbricava i più ributtanti e ridicoli romanzi che il torbido suo cervello e la più torbida sua coscienza, nella sua brutalità ed ignoranza gli consentissero di fabbricare; e i giudici processanti all’opera, a tessere il loro drappo su quella fradicia trama: né a rattenerli valeva il fatto che i testimoni indicati dal sozzo lenone lo smentissero quasi unanimi e che la tela tessuta si disfacesse loro fra mani: niente valeva a distorli dallo sciocco proposito di voler coinvolgere alla meglio, alla peggio, come loro fosse dato entro quella sottile loro tela di ragno tutti gli uomini di più rispettabile riputazione, non d’altro rei che d’essere nemici del temporale potere dei papi.
Fu cosi che i processanti credettero di aver tratto fra i mandanti dell’omicidio Rossi il principe di Canino: lo credettero e sperarono di darlo a credere; mentre invece dal processo non risulta che egli della uccisione del Rossi fosse inteso26..
Ciò che risulta a carico del principe di Canino è il fatto di aver stretta e mantenuta relazione con parecchi popolani e artieri militi della civica, specialmente del rione Monti e di avere mantenuto vivo, in mezzo ad essi, dopo Tallocuzione papale del 29 aprile 1848, i sentimenti patriottici e l’ardore degli spiriti bellicosi contro lo straniero e le aspirazioni alla libertà, largheggiando in somministrazioni di danaro che forse - ma non è chiaramente provato - accordò anche ai fratelli Bernardino e Filippo Facciotti e ad una congrega di esaltati la quale si riuniva nella loro bottega di ebanisti alla salita di Marforio e di cui faceva parte anche il delatore Bernasconi. Quella congrega, composta dei più disparati elementi, raccolse, in sè, oltre a molti bravi ed onesti popolani, anche un po’ di feccia dei bassi fondi sociali e in essa si tramarono, dal maggio al novembre 1848, le più sciocche ed innocue congiure, nelle quali - tanto erano ingenue e sconclusionate - la polizia annoverava non meno di otto suoi confidenti. Risultò ancora dal processo contro gli uccisori del conte Rossi, a carico del principe di Canino, che egli corse ad armarsi di fucile il 16 novembre, dopo che gli Svizzeri ebbero fatto fuoco sul popolo sulla piazza del Quirinale e tornò, armato, agli assalti. Non gravi delitti invero!
Ma per tornare agli avvenimenti della rivoluzione, accennerò alle grandi manifestazioni popolari, alle quali partecipò la guardia civica in armi - con cui fu festeggiata, il 2 e il 3 ottobre, la promulgazione del motu-proprio del 1° di detto mese per effetto del quale il Pontefice restituiva la sua rappresentanza municipale alla città di Roma27.
Il Consiglio comunale si comporrebbe di cento consiglieri, sessantaquattro da scegliersi fra i nobili e i possidenti, trentadue fra gli esercenti professioni, arti liberali e pubblici offici, quattro fra i corpi ecclesiastici. Le prime nomine le farebbe il Governo, successivamente il Consiglio si rinnoverebbe, di triennio in triennio, per elezione del Consiglio stesso. Al nuovo Municipio si affidavano le cure dell’amministrazione della città e territorio: viabilità, edilizia, illuminazione, annona, igiene, istruzione pubblica, nettezza urbana, acque, fontane, custodia dei musei e pinacoteche esistenti in Campidoglio, servizio dei vigili, sorveglianza sulle pubbliche vetture e sul pubblico ornato.
Si assegnavano, per provvedere alle spese, al Municipio, il prodotto dei beni patrimoniali del Comune, quello dei dazi di consumo, compreso il macinato, le tasse sopra le acque, i bestiami, e sopra le patenti per l’esercizio delle arti e delle professioni.
La nuova rappresentanza comunale doveva entrare in azione al primo dell’anno 184828.
Grande, per questo fatto, fu, come dissi, la letizia della cittadinanza e grandi i festeggiamenti.
Il giorno 1° ottobre si adunò alla Lungara, sotto gli auspici di Ciceruacchio, nella locanda Martignoni, il primo nucleo di fanciulli e giovinetti dai dieci ai quattordici anni che, addestrati alle armi e vestiti di militare divisa formavano quel battaglione che fu detto della Speranza, Dopo eseguiti, con molta destrezza e disinvoltura, le esercitazioni militari, quei giovinetti sederono al desco medesimo col loro Ciceruacchio. In una magnifica sala della locanda stava apparecchiata una magnifica mensa. Si dissero dei brindisi: quello di Ciceruacchio fu questo:
Viva la nuova civica! . . . |
Il giorno 10 ottobre le popolazioni toscane traevano in pellegrinaggio a Gavinana a deporre corone sulla tomba di Francesco Ferruccio.
«Da Firenze, da Siena, da Pistoia, da Pescia, da Prato, da Papiglio, da Marescia, da Piteglio, da Casigliano, da San Marcello accorsero genti molte, che marciarono in plotoni alla volta del famoso castello. Si vedevano molte bandiere, fra le altre la bandiera Gioberti portata da un sacerdote e seguita da sacerdoti, ma tutti gli occhi erano rivolti alla bella bandiera che i Romani avevano mandata in questa occasione per onorare la memoria dell’illustre guerriero italiano. L’ingresso al castello era adorno di archi trionfali, ed iscrizioni bellissime e piene di italiani sensi. Sulla piazza di Gavinana fu gridato viva il Ferruccio tra lo sventolante delle bandiere ed il suono delle bande e delle campane. Fatto silenzio, il signor Mordini leggeva la lettera colla quale i deputati di Roma30 facevano dono a Gavinana. della nostra bandiera. Il professor Arcangeli con calde parole presentò alla deputazione ed al popolo di Gavinana quella di San Marcello ed il Castellini, direttore del Popolo, la bandiera di Siena. Furono fatti plausi iterati a Pio IX, all’unione dei popoli della penisola ed a quanto di più caro possono oggi avere gl’Italiani. Quindi le deputazioni entrarono in chiesa colle loro bandiere che furono benedette, e dopo udito l’analogo discorso del canonico Tozzi e ricevuta la benedizione del Sacramento, si marciò intorno intorno al castello e furono inaugurate le bellissime iscrizioni del dottor Franchini ne’ luoghi più memorabili della fatale battaglia sostenuta con tanto valore dal Ferruccio. Posta l’ultima epigrafe nella terrazza dei Battistini, ove cadde morto il Ferruccio, il signor Pietro Obaldo, preside della deputazione pistoiese, pronunziò calde e generose parole che furono spesso interrotte da plausi vivissimi. Furono lette ancora varie poesie. Tutte le bandiere offerte sono state messe nella chiesa. Nella facciata della chiesa tutti ammiravano un fascio di antiche armi, picche e alabarde del gavinanese Palmerini, gelosamente custodite. fino dai tempi della famosa battaglia»31.
La lettera con cui i Romani inviavano la bandiera di drappo finissimo con i ricami d’oro e d’argento e nel mezzo da un lato la lupa che allatta i gemelli, dall’altro in campo rosso un’iscrizione con pacifico olivo, la quale diceva Roma offerire questa bandiera a Ferruccio e, nelle fasce che reggevan le nappe, in una si leggeva: «Viva Pio IX Pont. M.», nell’altra: «S. P. Q. R.»32, la lettera, breve e vigorosa, diceva cosi:
«Il popolo Romano al popolo Gavinanese.
«Se Toscana festeggia Ferruccio come eroico concittadino, Roma intende onorarlo com£ gloria italiana, perchè tutto ciò che appartiene ad uno Stato d’Italia, appartiene all’intera nazione. Le gare dell’egoismo municipale sono spente perchè i popoli han potuto intendersi. Fratelli Toscani, noi vi mandiamo questa bandiera, aggiungetela ai trofei del grande Soldato.
«Se la libertà spirò con lui, noi la vediamo risorgere in questo di che possiamo onorarne popolarmente la intemerata memoria. Antico coraggio e concordia nuova ritemprino la nostra virtù e com,piano le communi speranze. Iddio che veglia i diritti dei popoli, aiuti i principi nostri a convalidare sempre più l’unione italiana.
«Roma 6 ottobre 1847.
«I vessilliferi dei 14 rioni, Angelo Brunetti detto Ciceruacchio. Salvatore Piccioni, Francesco Invernizzi, Carlo Dinelli, Girolamo Conti, Carlo Vari, Luigi Caravacci, Giosuè Guglielmotti, Salvatore Antiliei, Pietro Paolo avv. Martinetti, Giuseppe Gregori, Eugenio Venier, Biagio D’Orazio, Cesare Croce»33.
La lettera era stata dettata dal Mamiani, la ricca bandiera era stata fatta per oblazioni: Angelo Brunetti che si era affannato a raccoglierle, vi rimise, e di gran cuore, una bella somma del proprio.
Frattanto una festa splendidissima di fraternità militare era avvenuta a Roma il giorno 7 ottobre: una grande manovra e rivista alla Farnesina fuori di porta del Popolo. Vi intervennero soldati di linea, granatieri, dragoni, artiglieri, cacciatori, tutte le milizie regolari pontificie di stanza in Roma e quattromila guardie civiche, completamente abbigliate e stupendamente ordinate. «Dopo le manovre e il bacio delle armi ebbe luogo l’affratellamento della civica e linea, che facevan di sé magnifica mostra per la bella tenuta, e quindi baci, amplessi ed evviva fragorosi, ai quali associatasi eziandio il popolo numerosissima che eravi accorso. La festa somministrò uno dei più belli spettacoli, e dire il contrario sarebbe fare onta alla verità34.
Ma allo Spada non va punto a grado che, a sera, rientrando in città, civici, soldati e popolo, nel gridare viva Pio IX acclamassero anche viva l’Italia! O che pretendeva lo Spada che quei bravi soldati entusiasmati dall’affratellamento seguito, gridassero viva l’Austria, o viva la Santa Alleanza?
Pio IX, che aveva consentita quella festa, nel provvedere in concistoro ad alcune chiese arcivescovili e vescovili, pronunziò un’allocuzione, Quisque vestrum nella quale, turbato perché alcune popolazioni si servissero del suo nome per fare atti di ribellione ai propri principi, eccita tutti i vescovi a far nota ai popoli la vera sua volontà inculcando la dovuta obbedienza alle potestà costituite.
«Di che - come nota avvisatamente il Ranalli - si valse subito il vescovo di Massa per autenticare colle parole dello stesso Pontefice, da lui non amato, una sua acerba invettiva contro alle prime novità di Roma e di Toscana». E altrettanto fecero il cardinal Menico patriarca di Venezia e l’arcivescovo di Udine Zaccaria Brigido, ambo devoti all’Austria, ammonendo, in apposite pastoriali, i popoli alle loro cure affidati a restar fedeli all’imperatore, perché tale era l’intenzione del Papa. «Così di quel che faceva e diceva Pio IX si giovavano a un tempo le due parti contrarie»35.
Continuarono a Roma, per tutto il mese di ottobre, le passeggiate e le evoluzioni militari dei battaglioni civici, ora singolarmente adunati, ora tutti insieme. Nelle grandi evoluzioni compiutesi alla Caffarella il giorno 27 avvenne un incidente notevole. Mentre i quattromila civici, colà convenuti, fatti i fasci d’armi riposavano e prendevano parco cibo, Pietro Sterbini, ignaro, forse, che un ordine del comandante generale avesse vietato brindisi e poesie, si diede a declamare una sua ode, ma la declamazione fu subito interrotta dal battere dei tamburi36.
Il 26 giunse in Roma, ospite atteso e desiderato, l’illustre prof. Giuseppe Montanelli.
L’illustre professore dell’Ateneo pisano giunse in Roma la sera del 24 ottobre, incontrato dal Masi, dal Meucci, da Augusto Serny e da alcuni altri ammiratori ed amici37.
Nei giorni successivi fu ricevuto al Circolo romano dove conobbe di persona molti valentuomini del partito liberale, che gli eran noti soltanto per fama, quali lo Sterbini, il Checchetelli, il Potenziani e Ciceruacchio, che poscia egli rivide parecchie volte e di cui, come tutti gli altri che apprendevano a conoscerlo, si innamorò.
Il Montanelli, spiritualista, cristiano e anche cattolico, riformista però, fra mistico e visionario, era uno dei più ardenti apostoli d’indipendenza e di libertà. Egli era uno di quegli uomini impastati di fede e di entusiasmo, che sanno dare anche la vita per il trionfo del loro ideale; e la gravissima ferita toccata da lui l’anno appresso, eroicamente combattendo, a Curtatone lo dimostrò. Egli venne a Roma per vedere e conoscere Pio IX, di cui era caldissimo ammiratore e nel quale aveva riposto una gran parte delle sue speranze per la redenzione d’Italia, voleva vederlo, voleva parlargli, voleva sapere se gl’Italiani potevamo contare su lui, e fino a qual punto, per l’imminente guerra contro lo straniero.
Prima di essere ammesso all’udienza che aveva chiesto, il Montanelli si appostò sul portone del Quirinale per vedere uscire Pio IX, poi il primo novembre ottenne l’accesso nella cappella papale e vi udì la messa celebrata dal Papa e ascoltata dai cardinali presenti in Roma.
Egli descrive con grande vivezza di colorito quella scena. Scrutò ad uno ad unoi volti di quei cardinali. «Faccie d’imbecilli o di tristi - prosegue l’autore della Camma - che sguardo di iena il cardinale Lambruschini! Che figura sinistra il cardinale Marini! Che farbacchiolo il cardinale Antonelli! Ferretti barbottava oraazioni, si batteva II petto, e stralunava gli occhi dalla compunzione! - Sarà un buon uomo, e di certo è uno dei preti che ci credono. Ma basta vederlo per dire: È impossibile che quello sia un buon segretario di Stato. Mi scappavo a pensare come da questo Collegio di cardinali ha potuto uscire Pio IX!»38.
Il giorno successivo 2 novembre egli ebbe una lunghissima udienza dal Papa, nel quale rinvenne più affabilità di modi che sentimento profondo, più arguzia e spirito che altezza di idee e ampiezza di orizzonti, . . . insomma fu una delusione pel mistico visionario, come si rileva dalla narrazione che il Montanelli ci ha lasciato di quel lungo colloquio. Il Papa al patriota, prostrato a’ suoi piedi e, con foga di parole caldissime, rotte dalle lacrime, implorante la redenzione della patria, disse aperto che lui, come capo dei cattolici, non poteva bandire la guerra fra cattolici e allorché il professore pisano gli fece notare che la guerra contro gli Austriaci era inevitabile e che i suoi sudditi vi andrebbero ad ogni modo, il Papa rispose: E ci anderanno!
In quei giorni egli strinse amicizia col conte Pietro Ferretti il quale gli diceva che Pio IX - che era, poi, suo cugino - era di buon cuore, ma volubile più che femminetta39.
Il giorno 14 novembre partì da Roma: prima di partire il romano Augusto Serny, che era stato compagno di studi del Montanelli, gli offri un banchetto in casa sua, ove convennero parecchi amici del Serny e ammiratori del Montanelli, artisti, letterati, giureconsulti, pubblicisti, i quali gli consegnarono un affettuoso e patriottico indirizzo, firmato da tutti loro, che erano Giuseppe Del Frate, Torquato Toti, Annibale Mariannini, Andrea Pierini, Ferdinando Batelli, Innocente Sormani, Simone Gattai, Luigi Masi, Pietro Regnoli, Oreste Regnoli, Carlo Montagnoli, Giovanni Durando, Giovanni De Andreis, Alessandro Castellani, Felice Sani, Ignazio Ciampi, Serafino Garofoli, Giuseppe Caterinelli, Luigi Cecchini, Vittorio Merighi, Pompeo Molmenti e Augusto Serny40.
Il 25 settembre nel n. 39 del Contemporaneo era stato pubblicato un primo articolo di monsignor Carlo Gazzola, intitolato: Del partito cosi detto cattolico41 nel quale il dotto prelato trattava con grandissima temperanza di forma, dell’abuso che i partiti politici nel Belgio e nella Svizzera facevano del cattolicismo, riprovando che i conservatori belgi e la lega dei cantoni cattolici detta del Sonderbund procacciassero di mascherare le loro passioni politiche sotto la larva del zelo religioso e concludendo che il cattolicismo non può e non deve essere un partito politico. E oltre che il Gazzola diceva una grande verità, la diceva con parole assai misurate. Eppure gesuiti e gregoriani menarono di quell’articolo grandissimo rumore e ne reclamarono al Papa, il quale con una nota, in suo nome, inserita nel Diario di Roma del 23 ottobre faceva disapprovare le opinioni espresse in detto articolo, e poi mandava in bando da Roma monsignor Gazzola e sospendeva dalle funzioni di censore il professore Salvatore Betti, che quell’articolo aveva munito del suo visto. Anche il primo articolo della Pallade del 16 ottobre, n. 81, intitolato Consulta di Stato, usci tutto mutilato dalla Censura, con sedici linee di puntini, tuttochè contenesse lodi entusiastiche per Pio IX, forse perchè nella concessione della Consulta di Stato il giornale intravedeva qualche cosa di più largo e di più esteso che la Consulta stessa a prima vista non sembrasse.
Questi fatti dimostravano la nessuna tutela che accordava agli scrittori, per la libera manifestazione del loro pensiero, la legge sulla stampa largita ai popoli dello Stato romano il 15 marzo 1847
Il 15 ottobre intanto il Pontefice aveva fatto pubblicare un nuovo motu-proprio nel quale egli dava ordinamento e attribuzioni alla Consulta di Stato, già concessa fin dal 19 aprile. Il che vuol dire - se l’aritmetica può e deve avere un valore indiscutibile nella storia - che erano occorsi sei mesi, sei interminabili mesi, data la condizione smaniosa e febbrile degli animi, prima che quella liberale deliberazione del Papa potesse venire posta ad effetto; il che vuol dire che a quella concessione del principe le tergiversazioni, le celate opposizioni, le imperdonabili lentezze del Governo, tanto altamente e frequentemente lamentate da Pellegrino Rossi, dal Perrens, dal Rey, dal Farini, dal Ranalli, dal La Farina, dal Belviglieri, dal Saffi e da altri cinquanta o sessanta scrittori delle cose di quei tempi, avevan tolto ogni merito, ogni valore morale al cospetto delle popolazioni: dallo stato di idea a passare allo stato di fatto quella concessione aveva perduto ogni freschezza, ogni apparenza di spontaneità, ogni efficacia di opportunità. La contraddizione fra le due opposte personalità - se cosi mi si permette di dire - di Pio IX la lotta irreconciliabile fra reazionari e liberali inesorabilmente avevano voluto e volevano, avevano imposto e imponevano cosi, non ostante le postume querele dello storico Balbo, non ostante i postumi sarcasmi dello storico Cantù. Ad ogni modo di quel motu-proprio si fece grande festa e una popolare dimostrazione andò a ringraziare e ad applaudire il Pontefice al Quirinale 42.
La sera del S novembre giungeva in Roma, con la sua famiglia, Gilberto Elliot Murray Kynynmond conte di Minto, noto nelle storie italiane di quei tempi col nome di lord Minto, membro allora del gabinetto inglese dei wighs, presieduto dal suocero di lui lord Russell e da lord Palmerston. Figlio di un uomo di Stato inglese, egli era nato, per combinazione, a Lione nel 1782. Allievo della Università di Edimburgo, era entrato nel 1806 nella Camera dei Comuni e nel 1814 in quella dei Lordi, sedendo sempre sui banchi dell’opposizione, durante i vari Ministeri succedutisi al potere fino al 1832, anno in cui salì alla direzione della cosa pubblica il suo partito, il quale lo inviò ministro plenipotenziario a Berlino. Nel 1835 entrò a far parte del Ministero Melbourne come primo lord dell’ammiragliato e durò in quell’ufficio fino al 1841. Nel 1846 tornò a far parte del Ministero Russell Palmerston.
Tali erano i precedenti dell’uomo cui il Governo inglese, ragionevolmente preoccupato dall’atteggiamento politico del Metternich e del Guizot tanto a riguardo delle discordie civili della Svizzera, quanto di fronte alle riforme inaugurate dai principi italiani, affidava nel 1847, una missione diplomatica in Isvizzera e in Italia.
A proposito di questa missione, assolutamente benevola pei principi e pei popoli italiani e diretta a rattenere le mal celate voglie di intervenzione armata del Governo austriaco, perfidiarono allora e poscia tutti i reazionari d’Italia e, più o meno, tutti gli storici della reazione, i quali accuse di slealtà e di doppiezza a larga mano affibbiarono a lord Minto 43.
A tutte queste insinuazioni, mancanti di documenti e di prove, risponde trionfalmente, per tutti gli storici obiettivi ed imparziali, il Farini il quale scrive: «Coloro che si inalberano alla vista di ogni diplomatico, e che dalla Francia hanno preso a prestanza anche la diffidenza della proverbiata Albione, mulinavano in loro mente sospetti d’ogni guisa su lord Minto e sul ministerio a cui veniva fungendo. E chi lo credeva deputato a discoprire trame ed infrenare rivoluzioni, chi a tramare e soffiare nelle rivoluzioni, ognuno correva col pensiero là dove la propria passione accennava ed il desiderio e la paura tiravano. Fatto è che lord Minto, onorato gentiluomo e sagace diplomatico, non operava cosa che a gentiluomo onorato e sagace diplomatico non si convenisse; consigliava ai principi quei temperamenti e quelle lealtà che potevano sicurare gli Stati, ed ai popoli quella moderanza che poteva fruttar libertà; e di questa guisa onestamente serviva il proprio Governo, benemeritando dell’Italia. Ei fu segno ad accuse stolide che l’istoria disdegna, siccome quella che fa fondamento ai giudizl non sulle passioni e le insanie dei partiti, ma sui documenti e sulla scienza dei fatti. La lettera oggi pubblica di lord Palmerston, che porta la data di Londra delli 18 settembre 1847 documenta, che il Governo inglese dava a lord Minto lo incarico di accertare il Governo sardo di sincera amicizia e cordiale benevolenza, non che di attestare, come stimasse non escusabili atti di flagrante violazione del diritto internazionale le minaccie di invasione austriaca per gli aspettati organici mutamenti dello Stato. - Cosi doveva in Firenze lodare il nuovo indirizzo che pareva avere preso il Governo, ed a Torino, a Firenze ed a Roma doveva studiar modo di dare consapevolezza dei sensi, delle opinioni e delle mire dell’Inghilterra, che si riassumevano in qicesio paragrafo della citata lettera.
«"Il Governo di S. M, è profondamente convinto, essere saggio partito pei sovrani e pei Governi loro il porre o mantenere in atto nella amministrazione degli affari un sistema di progressivi miglioramenti, il porre rimedio agli abusi, e modificare di tempo in tempo le antiche istituzioni per acconciarle ai progressi dell’intelligenza e delle discipline politiche. Il Governo di S. M. riguarda come un innegabile vero, che ove un sovrano indipendente, esercitando liberamente gli atti della volontà sua, pensi intraprendere quei miglioramenti delle istituzioni e delle leggi che reputa efficaci a procacciare il benessere del suo popolo, niun altro Governo abbia il diritto di tentare di frenarlo ed immischiarsi nell’esercizio di uno degli attribuii della sovranità indipendente ".
«E per ciò che era peculiare allo Stato romano, i monimenti di Palmerston, eran questi:
«"Il Papa attuale ha cominciato ad entrare in un sistema di miglioramenti amministrativi, e sembra al Governo di S. M. che in ciò meriti le lodi e l’incoraggiamento di tutti coloro i quali prendono interesse al benessere degli Italiani. Nel 1831 e nel 1832 una speciale combinazione di circostanze politiche indusse i Governi di Austria, Francia, Inghilterra, Prussia e Russia a consigliare al Papa allora regnante di fare ne’ suoi Stati grandi mutazioni o miglioramenti, sì organici che amnninistrativi, e le principali riforme consigliate vennero notate in un Memorandum presentato al Governo romano dal conte Lutzow ambasciatore austriaco a Roma, e da lui raccomandato vivamente in nome delle cinque potenze. Però queste raccomandazioni non produssero alcun risultato, e vennero poste in non cale dal Governo del morto Papa. Il Governo di S. M. non sa che le riforme e miglioramenti effettuati ed annunziati dal presente Papa abbiano raggiunta la piena estensione di quelli raccomandati nel Memorandum del 1831, e quindi crede che le potenze le quali concorsero a quel Memorandum sieno pronte ad incoraggiare ed aiutare il Papa, ove dimandi incoraggiamenti ed aiuti da esse alla piena attuazione delle riforme suggerite dalle cinque potenze al suo predecessore. In ogni evento il Governo britannico è preparato a tenere una tale condotta; e voi siete incaricato a rassicurare in proposito il Governo rovinano e dirgli che il Governo di S, M. non vedrebbe con indifferenza una aggiessione contro il territorio romano diretta ad impedire al Governo pontificio l’attuazione di tutte quelle interne riforme ch’ei possa credere convenienti". Questo lo incarico di lord Minto; a questo rispondenti le parole e le opere sue. Cessino i percossi dal nembo della rivoluzione, cessino i caduti risorti, ed i caduti sopravvinti dal rendere in colpa lord Minto, l’Inghilterra o qualsivoglia altra fantastica cagione delle battiture sofferte e degli strazi della patria»44.
A ribadire questo savio e onesto parlare, fondato su documenti, si unisce l’illustre Nicomede Bianchi sulla base di numerosi e preziosi documenti da lui pubblicati nella importantissima sua Storia documentata della diplomazia europea in Italia, là dove scrive: «le fole poste in giro a quel tempo sull’operato di lord Minto in Italia, debbono far luogo alla verità. Prudente e sagace diplomatico, egli era tutt’altro che favorevole a’ moti rivoluzionari; che anzi si adoperò ad arrestarli quanto gli fu dato co’ suoi consigli e con le sue franche dichiarazioni»45.
Non si arrese lo Spada al vigoroso ragionamento del Farini e solo perchè lord Minto commise l’orrendo fallo, di far buon viso al marchese d’Azeglio, al principe di Canino, al Masi, allo Sterbini, al Meucci e sopra tutti a Ciceruacchio, si ostinò a riprovarne la condotta46, quasi che un gentiluomo inglese potesse aver d’uopo di lezioni di educazione e quasi che un liberale quale era il Minto, che nel 1857, trovandosi a Firenze, si struggeva ancora di amore per l’Italia47, avesse bisogno di lezioni intorno alla maggiore o minore giustizia della causa la quale si dibatteva allora nei consigli della diplomazia europea circa le aspirazioni e i diritti degl’Italiani alla indipendenza e alla libertà della patria loro. Anzi una sola scusa può essere invocata a favore dello Spada ed è questa: che egli non conosceva e non poteva conoscere l’importante e seria opera dell’illustre Nicomede Bianchi, che, altrimenti, si sarebbe potuto in vero concludere col rinviare lo Spada, italiano, cosi smanioso di dare lezioni altrui, ad apprendere il sentimento della giustizia e l’amor della patria alla scuola del nobile diplomatico inglese.
Il quale, giunto in Roma la sera del 3 novembre, fu dalla presidenza del Circolo romano invitato a volere all’indomani assistere, dalla loggia dall’appartamento ove risiedeva il Circolo stesso e la quale si apriva sul Corso, al passaggio del Papa, che, in grande equipaggio, si recava alla chiesa di san Carlo dei Milanesi.
Infatti «lord Minto e le sue figlie si portarono invitate alle camere del Circolo romano per ammirare il passaggio del corteo pontificio che accompagnava Pio IX alla chiesa di san Carlo. Quivi fu presentato al nobile inglese ed alle sue signore il popolano Ciceruacchio, nel quale contemplarono con meraviglia non un uomo del popolo, ma la virtù cittadina personificata e rispettata»48.
Accolto festevolmente non soltanto nei Circoli liberali, ma nelle sale dorate dell’aristocrazia romana, lord Minto seppe suscitare in tutti e dovunque rispetto e simpatia; e di questi sentimenti da lui inspirati ebbe continue ed ampie testimonianze nei tre mesi di sua dimora in Roma; il conte Pellegrino Rossi diede in suo onore la sera del 30 novembre una festa alla quale furono invitati tutti i consultori di Stato49; egli stesso il 1° dicembre offrì un banchetto al cardinale Antonelli, nel grande Albergo d’Europa al quale furono invitati e intervennero il conte Rossi, il marchese d’Azeglio, il Pasolini, il Minghetti ed altri personaggi50; e a chi volesse aver prova della considerazione in cui fu tenuto il gentiluomo inglese basterà riscontrare la collezione dei quattro principali giornali romani di quel tempo, Contemporaneo, Bilancia, Pallade e Speranza durante il trimestre dicembre 1847-febbraio 1848.
Lord Minto ebbe parecchie udienze dal Papa, dal quale - lo Spada, bontà sua, lo ammette - egli fu ricevuto «con molta distinzione e amorevolezza»51. Però che col Santo Padre il rappresentante officioso della Gran Bretagna non parlasse, in quei colloqui, unicamente del bel tempo e della pioggia, che non parlasse soltanto delle miserie degli Irlandesi, come pretenderebbe lo storico papalino, lo dimostra ad esuberanza Nicomede Bianchi sul fondamento dei dispacci riservati inviati da Roma a lord Palmerston da lord Minto52.
Da altra parte, allorché, il giorno 4 novembre, Ciceruacchio si congedò da lord Minto e uscì dalle sale del Circolo romano, il gentiluomo inglese manifestò ai circostanti la profonda impressione che nell’animo suo aveva prodotto l’aspetto leale, maschio e prestante del popolano, e quella sua vereconda modestia, e quel suo squisito buon senso. Tanto che i reggitori del Circolo romano, intenti a festeggiare in ogni miglior modo il grande liberale britannico, mentre preparavano ogni sera concerti musicali dinanzi all’albergo di Europa, in piazza di Spagna, per riuscire grati al Minto, amantissimo della musica, nelle sere successive gli fecero trovare in una sala a pianterreno dell’albergo, in mezzo ai doppieri accesi, il busto in marmo di Pio IX e una statuetta in terra cotta, rappresentante Ciceruacchio con una bandiera in mano. Il che - secondo lo Spada - stava bene; «perchè il primo rappresentava il sovrano benefattore, la seconda l’emblema del popolo beneficato»53.
Ma in verità che, pensando come il povero Ciceruacchio, dopo aver tutto sacrificato per mantenersi fedele alla causa della redenzione d’Italia, di cui Pio IX erasi da prima fatto strenuo banditore, per divenirne poi feroce oppugnatore, lasciava gloriosamente la vita sotto il piombo austriaco, mentre Pio IX rientrava trionfante in Roma fra fumanti mine e in mezzo al lutto, al dolore, alle stragi de* suoi sudditi, in verità che io mi sentirei tentato di dire che quel busto e quella statuetta non sarebbero più state bene insieme, in appresso, sopra lo stesso tavolo, fra doppieri, giacché l’uno rappresentasse il sovrano incostante e sleale che si era mutato in carnefice, e l’altra fosse l’immagine del generoso e leale patriota che, per mantener fede alla sua bandiera, era divenuto vittima di quel carnefice.
E la simpatia di lord Minto per Ciceruacchio fu tale e tanta che lo stesso storico Spada, non certo soverchiamente benevolo verso Angelo Brunetti, cosi ne parla:
«E se dicemmo che lord Minto mostrò sempre una costante predilezione per Ciceruacchio, avemmo ben ragione, perchè credendo di ravvisare in esso il degno rappresentante del popolo romano, non solo veniva onorandolo aristocraticamente col discendere fino a lui in benevoli colloqui, ma volle prima di partire per Napoli, lanciare alla sua famiglia una memoria non peritura della sita affezione regalando al suo figlio Lorenzo una copia del libro pubblicato dallo scozzese Macaulay e intitolato: Lays of ancient Rome (Canti dell’antica Roma) ed iscrivere sul margine del medesimo i versi seguenti in lode del padre:
(Presented by lord Minto to Lorenzo Brunetti)
These be but tales of the olden days.
The patriot Bard shall now his lays
Of charming freedom pour;
And Rome’s fair annals bid the fame
Of Ciceruacchio’s humble name
In deathless honor soar.
Minto.
i quali versi, voltati nell’idioma italiano dal marchese Massimo d’Azeglio, dicevano cosi: «Sono soltanto racconti di un’età passata. Ora il poeta patriota può salutare la libertà che risorge: e gli annali di Roma spargeranno la fama dell’umile nome di Ciceruacchio cinto di gloria immortale»54.
È strano poi che lo stesso Spada prima affermi che «non gli sembra pertanto che si debbano tessere elogi di un uomo, che non pure non seppe sostener la sua dignità, ma che rabbassò e la prostituì del tutto per accattarsi l’aura popolare soltanto in modo sì poco decoroso»55 - scusate se è poco - e dica poi, quattro o cinque pagine appresso: «ci siamo soverchiamente diffusi in parlare di lord Minto, e della sua missione in Roma, nel far la qual cosa se tenemmo un linguaggio franco e severo, questo si riferì soltanto alla sua vita pubblica. Che se vuolsi riguardare alla sua vita privata, alla sua istruzione, alla nobiltà e disinvoltura delle sue maniere, non potremmo che tesserne gli elogi, e renderle omaggio alla onoratezza del suo carattere cpme uomo privato. Noi lo conoscemmo personalmente, e non possiamo se non lodarci di lui e della sua cortesia»56.
Ma oramai il grande avvenimento che tutti occupava gli animi dei Romani era l’inaugurazione della Consulta di Stato fissata per il 15 novembre.
Da molti giorni si attendeva ai preparativi di quella festa: i consultori in ventiquattro carrozze di gala, offerte dalle famiglie patrizie di Roma, dovevano prima recarsi al Quirinale per essere ricevuti e benedetti dal Papa, poi di là al Vaticano dove, udita la messa solenne e dopo cantato il Veni Creator Spiritus, dovevano, nello stesso palazzo pontificio, nelle sale destinate a residenza della Consulta, iniziare l’opera a cui eran chiamati.
Tutte le vie, che dal Quirinale conducono al Vaticano, erano inghirlandate di fiori; arazzi a tutte le finestre; bandiere sventolanti da per tutto; archi di mortella, numerosissime iscrizioni e una fìtta calca di popolo plaudente sulla lunghissima strada che doveva percorrere il corteo.
Alle otto antimeridiane il Papa, uscendo dai suoi appartamenti, entrò nella sala regia, ove erano raccolti i ventiquattro consultori, di cui già ho registrato i nomi, col loro vice-presidente monsignor Camillo Amici e col loro presidente cardinale Giacomo Antonelli.
Fra i soci del Circolo romano i quali, secondo l’ordinamento prestabilito dal Comitato direttivo della festa, presieduto dal duca Marino Torlonia, dovevano fare scorta d’onore ai consultori, c’era Pietro Sterbini, che, due giorni innanzi, aveva scritto nel Contemporaneo un vigoroso articolo in cui, con molta abilità, aveva dimostrato quale era il significato che egli e i liberali attribuivano alla Consulta di Stato.
Fra altre cose in quell’articolo era detto: «È certo uno spettacolo nuovo nella storia quello che oggi presenta alle nazioni l’Italia quasi tutta: una rivoluzione sociale che non si arresta nella superficie, ma attacca le fondamenta, si compie fra le feste e fra gli evviva, fra le lacrime di gioia e gli abbracciamenti fraterni
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La istituzione della Consulta di Stato non incontrò le simpatie di pochi stolti! che non considerano essere essa destinata a dare un’eterna base all’unione fra popolo e Governo; il che non poteva accadere giammai se non si apriva al popolo una strada da far giungere al trono i suoi voti, le sue lagnanze, col mezzo dei suoi veri rappresentanti; se non si stabiliva un centro, in cui si esaminassero le grandi questioni dello Stato; se non si mettevano in un immediato contatto governanti e governati»57.
Ciò premesso e premesso che, già da molto tempo, parecchi prelati e cardinali andavano insinuando nell’animo impressionabilissimo di Pio IX sentimenti di malevoglienza contro il Circolo romano e segnatamente contro il Canino, lo Sterbini ed il Masi, dirò che il Papa ascoltò le parole di devozione, ammirazione e riconoscenza che, a nome dei consultori, gli rivolgeva il loro presidente cardinale Antonelli e quindi imprese a rispondere, ringraziando i consultori delle parole rivoltegli e affermando che contava su loro, che sperava buoni frutti nascerebbero dall’opera a cui essi stavano per accingersi. Disse che il bene dei sudditi gli era stato a cuore fin dal primo giorno della sua elezione: che Dio e i sudditi gli eran testimoni! che al conseguimento di questo bene egli aveva consacrato ogni sua cura, e che, col divino aiuto, ogni sua cura consacrerebbe per l’avvenire.
A questo punto del suo dire, venutogli veduto lo Sterbini, il Papa si arrestò un istante, si rannuvolò, e con subitaneo impeto di collera, inesplicabile a tutti e che tutti rese attoniti, divenuto acceso in volto, con voce vibrata e alquanto tremula, irruppe in una volgare diatriba che il Diario di Roma, giornale ufficiale cercò di nascondere alla meglio ravvolgendola in queste parole: «. . . senza però menomar mai neppur di un apice la sovranità del pontificato, quale avendo egli ricevuta da Dio e da’ suoi antecessori piena ed intera, tale doveva trasmetterne il deposito sacro ai suoi successori. . .
E qui disse che la Consulta egli «l’aveva riunita, per ascoltarne all’uopo i pareri, per giovarsene nelle sue sovrane deliberazioni, consultando la sua coscienza e conferendone co’ suoi ministri, e col suo sacro Collegio. . . Ingannarsi grandemente chiunque credesse esser diverso da questo il loro ufficio: ingannarsi chi nella Consulta di Stato da lui istituita vedesse qualche utopia propria, o i semi di una istituzione incompatibile colla sovranità pontificia»58.
Qui il Papa si arrestò, tacque alquanto, procurò ricomporsi e prosegui, mutata voce ed atteggiamenti dicendo: «Quella vivacità e quelle parole non riguardare alcuni di loro, cavalieri onorati ed altre simili persone (sic), delle quali, fin da quando le elesse conoscendone la educazione sociale, la probità crstiana e civile, gli era nota ugualmente la lealtà de’ sentimenti e la rettitudine delle intenzioni; non riguardare nemmeno la quasi totalità de’ suoi sudditi, della cui fedeltà ed obbedienza esser sicuro; sapendo che i cuori dei suoi sudditi sono uniti al suo nel desiderio dell’ordine e della concordia. Esservi però disgraziatamente alcuni, pochi di numero sì, ma pure esservi, i quali non avendo niente da perdere, amano le turbolenze e le sedizioni, abusando delle concessioni medesime. A costoro esser rivolte quelle parole: - dover costoro intenderne bene il significato. - Nella cooperazione de’ signori deputati egli non vedere che un sostegno ben saldo di persone, le quali, spogliatesi di ogni privato riguardo, intenderanno insieme con lui coi loro consigli al pubblico bene, né si ristaranno per vane ciarle di gente dissennata ed inquieta, dall’aiutarlo col loro senno in quello che è più spediente alla sicurezza del trono e alla vera felicità dei sudditi pontifici.
«Finito che ebbe il Santo Padre il suo discorso ammise i deputati al bacio del piede ad uno ad uno. Quindi, levatosi da sedere, li benedisse, aggiungendo pure poche altre parole: che andassero, con la benedizione del Cielo a intraprender le lor fatiche; sarebbero state feconde di buoni effetti e secondo i desiderii del suo cuore»59.
Non ostante questa rappezzatura del giornale officiale, lo sdruscio apparve chiaro e manifesto; giacché il fatto avvenne in presenza di troppi testimoni perchè le vere escandescenze in cui proruppe il Papa potessero rimanere ignote al pubblico.
Difatti, quantunque i giornali liberali di Roma tacessero dell’accaduto, se ne diffuse subito e se ne propagò la notizia: e, sebbene a molti cuocessero quelle sconsiderate parole, che rivelavano, una volta ancora, l’animo del Pontefice avverso alle franchigie costituzionali, pur tuttavia anche questa scappata di Pio IX fu buttata sulle spalle dei gregoriani, dei reazionari e dei gesuiti, i quali avevan dovuto - essi, senza dubbio - insinuare chi sa mai quali sottili calunnie contro ai liberali nel mobile animo di lui e averlo spinto a quel subito moto d’ira; e cosi, un po’ perchè molti non volevano e non sapevano rinunciare al loro idillio, un po’ perchè molti altri, per non guastar le cose, preferivano chiudere un occhio e tirare innanzi, con la speranza di condurre, suo malgrado, il Papa a capitanare l’impresa dell’italica indipendenza, per allora di quell’avvenimento non si fece che un parlare sommesso e quasi tutti andavan cercando qualche scusa per scagionarne il Papa.
Ho detto come il racconto officiale, al quale si attiene, come a vangelo, lo Spada, sia assai lontano dal vero, scritto anzi per attenuare e nascondere il vero; e che cosi sia e che realmente il Papa parlasse, fuor di ogni convenevole misura, parole irose e disordinate lo provano ad esuberanza le narrazioni di ventidue scrittori, alcuni dei quali ammettono la sfuriata papale, pur cercando di giustificarla e di farne ricadere la responsabilità sullo Sterbini e sugli uomini che presiedevano al Circolo romano e che questi storici - come, ad esempio, il Balleydier, il Balan, il Farini, il Lubienscki, il Pasolini, - si ostinano a considerare come nefasti agitatori, altri - quali il La Farina, il Pianciani, il Pinto, il Ricciardi, il Saffi, il Silvagni - la giudicano severamente e come una volgare e inopportuna escandescenza60. Ad ogni modo il corteo dei consultori, dopo il ricevimento papale, magnifico e solenne, percorse trionfalmente la sua via, fra gli applausi della folla, che acclamava or l’uno, or l’altro di essi, ora tutti insieme li salutava: ma il più applaudito era Gaetano Rocchi, e ciò tanto per il suo noto liberalismo quanto perchè egli rappresentava la oppressa, la violentemente occupata Ferrara.
Le descrizioni della festa concordano tutte nell’affermarne la grandezza e lo splendore61.
La sera ci fu gran festa, a spese del principe Torlonia e a beneficio degli Asili infantili, al teatro Apollo, in onore dei consultori. Vi fu molto applaudito lord Minto, che fu poscia accompagnato all’albergo con grande dimostrazione di popolo.
Ciceruacchio fu accolto nei palchi dei consultori, parecchi dei quali vollero fare la personale conoscenza del celebrato capopopolo.
Già fin dal 1° ottobre, terminate finalmente le lunghissime elucubrazioni della Commissione nominata dal Papa fino dal l° marzo, era stato pubblicato, come dissi, il motu-proprio che ristabiliva il Municipio romano, e il Pontefice aveva nominato i cento consiglieri e cioè:
1. | Altieri principe Clemente, |
2. | Boncompagni Ludovisi di Piombino principe Antonio, |
3. | Borghese principe Marc'Antonio, |
4. | Braschi Onesti duca Pio, |
5. | Colonna Doria principe Giovanni Andrea, |
6. | Corsini principe Tommaso, |
7. | Doria Pamphili principe Filippo Andrea, |
8. | Falconieri Mellini nobile Orazio, |
9. | Massimo di Rignano duca Mario, |
10. | Odescalchi principe Livio, |
11. | Orsini principe Domenico, |
12. | Patrizi marchese Filippo, |
13. | Rospigliosi principe Giulio Cesare, |
14. | Ruspoli principe Giovanni, |
15. | Torlonia duca Marino. |
E questi 15 consiglieri, tutti romani, rappresentavano il patriziato e i possidenti, che avevano una rendita non minore di seimila scudi a senso della prima parte dell’art. 5 del motu-proprio 1° ottobre. A questi succedevano i trentaquattro consiglieri rappresentanti il ceto dei possidenti forniti di una rendita non inferiore ai mille scudi, a norma della seconda parte dell’art. 5 suddetto, di cui ecco i nomi:
16. | Alberghetti conte Giuseppe, |
17. | Amici Ignazio, |
18. | Antici marchese Carlo, |
19. | Armellini avv. Carlo, |
20. | Bernini cav. Prospero, |
21. | Bolognetti-Cenci-Petroni conte Alessandro, |
22. | Bontadossi avv. Annibale, |
23. | Capranica marchese Bartolomeo, |
24. | Cardelli conte Carlo, |
25. | Castellacci canonico Pietro, |
26. | Cavalletti marchese Ermete, |
27. | Cini conte Filippo, |
28. | Colonna cav. Vincenzo, |
29. | Conti principe Cosimo, |
30. | Cortesi Vincenzo, |
31. | D’Antoni Giovanni, |
32. | Dall’Olio Luigi, |
33. | Del Bufalo marchese Ottavio, |
34. | De Dominicis cav. avv. Enrico, |
35. | Della Fargna marchese Clemente, |
36. | De Rossi comm. Francesco, |
37. | Ferraioli marchese Giuseppe, |
38. | Graziosi Giovanni, |
39. | Guglielmi marchese Giambattista, |
40. | Lante duca Giulio, |
41. | Muti-Papazzurri marchese Alessandro, |
42. | Pianciani conte comm. Vincenzo, |
43. | Potenziani marchese Ludovico, |
44. | Righetti cav. Pietro, |
45. | Sacchetti marchese Gerolamo, |
46. | Sala cav. Pietro, |
47. | Senni conte Francesco, |
48. | Truzzi Giuseppe, |
49. | Valentini monsignor Giandomenico. |
A questi nomi fan seguito quelli dei 15 consiglieri nominati in conformità della terza parte dell’art. 5 suindicato, e cioè possidenti che avessero una rendita di almeno duecento scudi, cioè:
50. | Albertazzi Gioacchino, |
51. | Bianchini Antonio, |
52. | Borgognoni cav. Francesco, |
53. | Cappello cav. Scipione, |
54. | Castellani Pio Fortunato, |
55. | Carretti Andrea, |
56. | Folchi cav. prof. Clemente, |
57. | Ghirelli dott, Giambattista, |
58. | Massani avv. Filippo, |
59. | Morichini Gaetano, |
60. | Ostini avv. Felice, |
61. | Rossi avv. Pietro, |
62. | Scaramucci avv. Ottavio, |
63. | Tosi avv. Gaetano, |
64. | Villani prof avv. Carlo Giovanni. |
Susseguono i trentadue consiglieri, scelti, a norma dell’articolo 11 del motu-proprio, fra gli scienziati, i letterati, gli artisti, i negozianti e altri esercenti professioni liberali:
65. | Alibrandi dott. Lorenzo, |
66. | Baroni cav. prof. Paolo, |
67. | Belli dott. Bartolomeo, |
68. | Benedetti cav. Giambattista, |
69. | Borghi dott. Raffaele, |
70. | Bucci prof. Francesco, |
71. | Canina prof. cav. Luigi, |
72. | Cardinali cav. Luigi, |
73. | Coghetti prof. cav. Francesco, |
74. | Coppi abate Antonio, |
75. | De Crollis dott. Domenico, |
70. | De Matteis cav. dott. Giuseppe, |
77. | Desantis dott. Ponziano, |
78. | Duranti-Valentini avv. Gerolamo, |
79. | Finelli cav. prof. Carlo, |
80. | Forti Giuseppe, |
81. | Girometti prof. cav. Giuseppe, |
82. | Luswerg Luigi, |
83. | Minardi cav. prof. Tommaso, |
84. | Molza monsignor Andrea, |
85. | Peretti prof. Pietro, |
86. | Pieri prof. Giuliano, |
87. | Podesti prof. cav. Francesco, |
88. | Proia dott. Pietro, |
89. | Sarti prof. cav. Emiliano, |
90. | Sereni prof. Carlo, |
91. | Sturbinetti avv. Francesco, |
92. | Tenerani prof, comra. Pietro, |
93. | Uber Salvatoi'e, |
94. | Vescovali Luigi, |
95. | Vaselli dott. Antonio, |
96. | Zaccaleoni avv. Agostino. |
Nominati dal cardinal vicario e scelti nel ceto ecclesiastico:
97. | Alessandrini don Luigi, |
98. | Gaggiotti canonico Luigi. |
Nominati, infine, dal cardinale, presidente di Roma e Comarca, pure fra gli ecclesiastici:
99. | Arrighi prof, don Giacomo |
100. | Rezzi prof, don Luigi Maria62. |
Di quei giorni fu pubblicato, alla macchia, senza indicazione di data e di tipografia, un «Album dei cento consiglieri che siedono in Consiglio nel giorno 24 novembre 1847, rappresentanza del Municipio di Roma, con brevi cenni biografici. Senno italiano - Coraggio civile - Patria carità»63.
L’anonimo autore premette un breve fervorino per porre in rilievo l’importanza delle istituzioni, quasi simultanee della Consulta di Stato e del Municipio romano. «L’una il proemio e l’iniziamento dell’altra siccome la base altera, su cui s’appoggia solidamente un colosso di nazionale-grandezza. Poi osserva: per onore della verità avremmo amato meglio che le nomine fossero state più svariate nei ceti, e da tutti gli ordini sociali avessero riassunto tali persone, da essere ciascuna direttamente istruita d’un ramo diverso d’amministrazione civile. Ne sembra, per esempio, che l’elemento legale vi sia diffuso con troppa preponderanza; il che in motti casi non è forse l’espressione e la sicurezza del meglio. E del resto non diremo....».
E lì l’anonimo scrittore si tura da sé stesso la bocca con una serqua di puntini di reticenza.
Poi consacra ad ogni nuovo consigliere una, tre, quattro, non più di sei linee di cenni biografici e di ammonimenti; e, di quando in quando, a qualcuno, applica anche qualche sferzatina.
Riferirò taluna di siffatte piccole biografie perché i lettori possano farsi un’idea esatta di questo scritto:
«Armellini cav. Carlo, avvocato concistoriale, avvocato dei più rinomati di Roma. - Irnerio e Cujaccio gli fruttarono lode e danaro. Par timido, mxx è forte di proposito. Fu tra i più caldi per le garanzie municipali
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«Bontadossi Annibale. Figlio ed avvocato non mediocre; Il quale dalla curia passò alla prelatura, e fu auditore del pontefice Gregorio XVI
· | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · |
«Cortesi Vincenzo. Uno fra i distinti mercanti di campagna che vivono a Roma; oculatezza ed assiduità molta negli affari fan prosperare le sue fortune
· | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · |
«Finelli prof. Carlo. Scultore celebre. D’indole coraggiosa e italiana, se in lui gli anni scemarono le forze, non affievolirono però d’un capello la nobiltà dell’animo
· | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · |
«Morichini Gaetano. Figlio del celebre professore di chimica e fratello dell’attuale pro-tesoriere
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«Tosi avv. Gaetano. Avvocato».
Dagli esempi addotti i lettori avranno compreso di qual genere fossero queste, sovente caustiche, e sempre telegrafiche biografie64.
E, qui, di passaggio, farò una osservazione che varrà a distruggere sempre più - con l’autorità di Pio IX - la ridicola e assurda teoria dello Spada intorno alla necessità che tutti coloro i quali si occupavano della cosa pubblica in Roma dovessero essere nati a Roma e non potessero e non dovessero essere forestieri, estranei - come egli li appella. - Fra i cento consiglieri nominati da Pio IX più di trenta non erano romani e appartenevano ad altre provincie dello Stato o anche ad altri Stati d’Italia; e cito ad esempio, come vien viene, l’Antici, che era marchegiano, il Guglielmi di Civitavecchia, il Potenziani reatino, il Pianciani spoletino, il Cappello abruzzese, il Baroni romagnolo, il Bucci napoletano, il Canina e il Coppi piemontesi, il Coghetti bergamasco, il Finelli e il Tenerani carraresi, il Rezzi piacentino, il Podesti anconetano, il Minardi faentino, il Durante-Valentini e il Tosi sabini, il De Matteis e il De Crollis della provincia di Frosinone, ecc.
Dei giornali liberali nessuno fece motto sulla nomina di quei cento consiglieri, intorno a molti dei quali ci sarebbero state, e ragionevolmente, molte cose da ridire. Il che significa che i direttori e i collaboratori di quei giornali, continuamente designati dal Balan, dal Balleydier, dal D’Amelio, dal D’Arlincourt, dal De Saint-Albin, dal Lubienscki, come iniqui settari e scellerati cospiratori, unicamente intenti a demolire l’autorità e il prestigio di Pio IX, altro non erano, in realtà, che buoni e pietosi figliuoli, i quali, come il biblico Sem, cercavano ad ogni modo di coprire e nascondere le bizzarie, le stravaganze e le contraddizioni del padre. E tali si palesano di fatto lo Sterbini, il Checchetelli, il Meucci, il Pompili e i loro colleghi; perché, effettivamente, a loro doleva di disfare l’idolo che s’erano fabbricato; e desideravano che integri ne restassero, agli occhi delle moltitudini, il prestigio e lo splendore acciocché efficacia irresistibile avesse la voce del Pontefice, allorché ella si leverebbe - come essi speravano ancora, come speravano sempre - eccitatrice dei popoli alla redenzione della patria. Soltanto la Bilancia, il più moderato di quei giornali, espresse, sommessamente, la propria opinione sul nuovo statuto dato al romano Municipio, manifestando il desiderio di averlo più ampio e liberale65.
Per l’inaugurazione del Municipio il 24 novembre furono fatte in Roma grandi feste, che tutti i giornali di quel tempo e tutti gli storici concordemente descrivono.
Al mattino verso le dieci i consiglieri furono presentati al Pontefice nel palazzo del Quirinale dal cardinale Ludovico Altieri, presidente di Roma e Comarca, il quale espresse in acconcio ed ornato discorso, a nome dei consiglieri, la gratitudine loro e del popolo verso il Papa, gratitudine che dai fatti e dalle più aperte prove di devozione, in breve, meglio che con sterili parole sarebbe da essi attestata:
«Discendendo da questa inclita vetta - continuò il cardinale Altieri - ci condurremo solleciti all’antico colle sul quale un giorno si decidevano le agitate sorti del mondo, e ci rallegreremo di vederle cambiate in pacifiche, dacché furono affidate a chi divinamente governa la navicella di Pietro; colà giunti entreremo in quell’antico tempio che ci ricorda la profetica lingua annunciatrice di un’era novella, feconda di pace e di prosperità. Oggi però non v’ha d’uopo di voce misteriosa per renderci certi non dover già più aspettare, ma essere già inoltrati sotto la saggia e prudente tutela della Santità Vostra nell’ordinato, nel pacifico, nel tranquillo progresso che facciamo in un nuovo ordine di pubbliche cose. Progresso felice e da Dio benedetto, perchè diretto dall’animo grande, dal cuore rettissimo del Padre dei fedeli, tendente solo ad accrescere la gloria dell’Altissimo, ad ampliare il celeste suo regno, ad adempire la santa sica volontà coll’insegnamento ed esempio continuo di tutte le virtù religiose, civili e sociali. I rappresentanti della città di Roma cammineranno sicuri per le vie dalle medesime segnate, subito che la Santità Vostra si degnerà benedirli: poiché fu promesso che la benedizione del legislatore alacri e spediti ne fa andare per l’arduo, ma sempre glorioso sentiero delle cristiane virtù66.
Con questa ascetica chiusa ebbero fine le parole del cardinale Altieri, alle quali il Papa rispose: «Esser grato ai sentimenti che per mezzo della eminenza sua manifesiavangli i consiglieri,
«Compiacersi delle molte dimostrazioni di esultanza verso la Santa Sede, che dappoi il suo innalzamento ài pontificato avevano avuto luogo in Roma.
«Colla istituzione del municipio aver dato ai Romani un attestato speciale delle sue sollecitudini pel loro verace vantaggio.
«Non dubitare (come diceva egli) che i consiglieri fossero animati da spirito di concordia; sperare che fra le spinose cure di governo la nuova istituzione gli sarebbe stata di conforto e di appoggio; ed esser persuaso della moderazione e della calma nelle loro deliberazioni affinchè tornasse cui esempio degli altri comuni. Raccomandava la scelta di buoni magistrati, e benedicendoli li accommiatava»67.
Indi i consiglieri uscivano dal Quirinale e si avviavano al Campidoglio.
«Presentavasi il corteggio preceduto da un drappello di dragoni e di guardie civiche.
«Venticinque carrozze di gala, gentilmente offerte dalla romana nobiltà, accoglievano i consiglieri. Erano precedute da quelle dell’eminentissimo Altieri.
benedetto, perchè diretto dall’animo grande, dal cuore rettissimo del Padre dei fedeli, tendente solo ad accrescere la gloria dell’Altissimo, ad ampliare il celeste suo regno, ad adempire la santa sica volontà coll’insegnamento ed esempio continuo di tutte le virtù religiose, civili e sociali. I rappresentanti della città di Roma cammineranno sicuri per le vie dalle medesime segnate, subito che la Santità Vostra si degnerà benedirli: poiché fu promesso che la benedizione del legislatore alacri e spediti ne fa andare per l’arduo, ma sempre glorioso sentiero delle cristiane virtù68.
Con questa ascetica chiusa ebbero fine le parole del cardinale Altieri, alle quali il Papa rispose: «Esser grato ai sentimenti che per mezzo della eminenza sua manifesiavangli i consiglieri,
«Compiacersi delle molte dimostrazioni di esultanza verso la Santa Sede, che dappoi il suo innalzamento ài pontificato avevano avuto luogo in Roma.
«Colla istituzione del municipio aver dato ai Romani un attestato speciale delle sue sollecitudini pel loro verace vantaggio.
«Non dubitare (come diceva egli) che i consiglieri fossero animati da spirito di concordia; sperare che fra le spinose cure di governo la nuova istituzione gli sarebbe stata di conforto e di appoggio; ed esser persuaso della moderazione e della calma nelle loro deliberazioni affinchè tornasse cui esempio degli altri comuni. Raccomandava la scelta di buoni magistrati, e benedicendoli li accommiatava»69.
Indi i consiglieri uscivano dal Quirinale e si avviavano al Campidoglio.
«Presentavasi il corteggio preceduto da un drappello di dragoni e di guardie civiche.
«Venticinque carrozze di gala, gentilmente offerte dalla romana nobiltà, accoglievano i consiglieri. Erano precedute da quelle dell’eminentissimo Altieri.
rispose patriottiche e affettuose parole il cardinale Altieri; poscia furono dai quattordici vessilliferi dei rioni presentate, per essere custodite in Campidoglio, le quattordici bandiere dei rioni.
Dopo di che si venne alla votazione per la formazione della terna nella quale il Pontefice doveva scegliere il senatore di Roma. Da tale votazione, il cui compimento, stante l’ora tarda, fu rinviato alla seduta del successivo giorno 25, risultarono eletti a comporre la terna il
A conservatori furono eletti:
Il popolo, che aveva preso parte plaudente alla festa, fece grandi dimostrazioni di simpatia e di affetto al principe Corsini, nuovo senatore, avanti al suo palazzo alla Lungara.
Il principe Corsini apparve al balcone, tenendo per mano il popolano Ciceruacchio, onde gli applausi ne andarono alle stelle, segnatamente dopo che il buon capo-popolo ebbe declamati due versi da lui improvvisati lì per lì:
Viva Pio IX e il principe Corsini, |
Intanto il 3 novembre erano stati firmati a Torino i preliminari della lega doganale dai tre rappresentanti del Piemonte, della Toscana e dello Stato romano, conte di San Marzano, cavalier Martini e monsignor Corboli-Bussi, e i popoli italiani se ne erano allietati, quantunque il re di Napoli, il duca di Modena e la duchessa di Parma, invitati a partecipare a quell’inizio di colleganza dei principi italiani, con bollo parole e con opportune riserve, avessero rifiutato di aderirvi72.
K poiché giunsero di quei giorni in Roma le prime notizie delle rapide e facili vittorie ottenute dalle milizie federali svizzere, guidate dall’abile generale Dufour contro le forze, allestite per la ribellione dai sette Cantoni cattolici del Sonderhund (alleanza separata), e poiché era noto a tutti come l’influenza dei gesuiti avesse sollevato i Cantoni dissidenti a quella guerra civile, avvenne che la parte liberale romana facesse aperte manifestazioni di gioia per quelle vittorie dei liberali. E, per quanto ciò potesse riuscire spiacevole ai reazionari, ai gregoriani, ai gesuiti e allo stesso Pontefice, era pur tuttavia logico e naturale: i liberali europei, a qualunque nazione appartenessero, dovevano necessariamente allietarsi della vittoria dei liberali svizzeri, appunto per la stessa ragione per cui i reazionari di tutta Europa, qualunque fosse la nazione a cui appartenevano, se ne attristavano.
Sono quindi, obiettivamente considerando le cose, per lo meno inutili, per non dire ridicole, le querele e i clamori che intorno a quelle dimostrazioni romane, avverse al Sonderhund e ai gesuiti, levano il Balbo e il Lubienscki, il Halan e il Balleydier, il De Saint-Albin e lo Spada, e, tratto da considerazioni affatto subiettive, poco dicevoli ad uno storico insigne, anche il Farini, che irrompe, a questo proposito, in una retorica declamazione, quanto inopportuna, altrettanto - secondo le norme di una critica rigorosa - non giusta. Certo sarebbe stato assai meglio che la dimostrazione popolare non si fosse fatta; non c’ó che dire; il Papa non se ne sarebbe turbato, i gesuiti neppure e quella parte di popolazione che vi partecipò, avrebbe dato prova di sapienza politica meravigliosa, palesandosi tollerante e generosa; ma, siccome - dato quell’ambiente e quell’ora e le condizioni e la tensione degli animi eccitati quasi a stato febbrile la dimostrazione popolare doveva inevitabilmente avvenire ed avvenne, perché la sapienza politica non c’era a quei giorni, cosi è inutile pretendere di far procedere gli avvenimenti storici, secondo i nobili intendimenti e i generosi desideri dei singoli scrittori, anelanti, con le loro postume considerazioni, ad una perfezione che, spessissimo, non è dato agli uomini di raggiungere e importa invece, narrando quei fatti, cercarne e trovarne, nelle condizioni del tempo e dello spazio, le ragioni che, allora, in quel tempo e in quello spazio, legittimamente li determinarono. Questo - a mio modesto giudizio - è l’ufficio dello scrittore, che non una storia ideale, foggiata secondo i suoi preconcetti, i suoi pregiudizi e le sue convinzioni, ma la storia reale, tale quale efiettivamente si svolse, voglia narrare, e che le cause per cui quella storia ebbe quel dato svolgimento voglia imparzialmente e obiettivamente indagare.
Checchè ne sia, Ciceruacchio capitanò quella dimostrazione popolare; Ciceruacchio, che, realmente, adorava Pio IX e che detestava i gesuiti, i gregoriani, i reazionari, gli amici insonìraa dello vecchie istituzioni e dei tempi andati; Ciceruacchio, il quale il più ingenuo fra tutti quei liberali, fra tutti quei rivoluzionari, se cosi si vogliono chiamare i più ardenti patrioti di quei giorni, il più ingenuo, perchè il meno istruito, il più primitivo, quegli che era più di tutti in buona fede - credeva più di tutti gli altri, che Pio IX fosse liberale come lo era lui, che fosse patriota alla maniera sua e quindi, meno degli altri, poteva vedere la contraddizione che giganteggiava in quel personaggio, costretto ad essere, contemporaneamente. Pontefice e principe, sacerdote e cittadino, cattolico e italiano. Onde Ciceruacchio più degli altri si illudeva sulle vere intenzioni del Papa e non poteva supporre, non supponeva menomamente che gli applausi per la vittoria dei liberali svizzeri e le grida di abbasso i gesuiti, potessero e dovessero dispiacere a Pio IX; anzi, in buona fede, credeva che, pur non dandone manifesto segno, il Papa, nell’intimo suo, approvasse quegli evviva e quegli abbasso.
Ad ogni modo il fatto è che la dimostrazione popolare ci fu il 3 di dicembre e che Ciceruacchio ne fu l’ordinatore e il capo73: e chi vuol dargliene biasimo gliel dia; io, per conto mio, non gliene fo nè colpa, nè merito; anzi, considerata la sua buona fede, il suo entusiasmo, la sua ignoranza e la rettitudine e la purezza delle sue intenzioni, addirittura dalla colpa di quella clamorosa dimostrazione lo assolvo.
Il Governo fece disapprovare la dimostrazione dal Diario di Roma con aspre e rigide parolenota; onde i giornali liberali non ne fecero menzione, quantunque tutti, dal più al meno, mostrassero, nel narrare gli eventi della breve guerra fra i federali e il Sonderbund, le loro simpatie pei liberali svizzeri.
Pio IX poi, dal canto suo, nel concistoro del 17 dicembre, lamentava le dimostrazioni ostili a quella fedele milizia della Chiesa, che era l’ordine dei gesuiti, dei quali egli aveva già tessute le lodi nel Breve, indirizzato, fino dal giugno di quella anno, al gesuita padre Perrone a proposito del dogma dell’Immacolata Concezione.
Ed era logico e naturale che il Pontefice fosse fautore dei gesuiti, come era naturale e logico che Ciceruacchio ne fosse avversatore.
Tre fatti notevoli si compirono prima che si chiudesse ranno 1847.
Il 16 dicembre, per convenzione intervenuta fra il Governo pontificio e l’austriaco, fu risoluta la questione della occupazione di Ferrara. Riservato ogni diritto a ciascuno dei due Governi circa l’interpretazione dell’art. 103 del trattato di Vienna del 1815, fu stabilito che gli Austriaci rientrerebbero nella fortezza e leverebbero le guardie messe alle porte della città, tranne che a porta Po, la quale, come quella che serviva alle comunicazioni della guarnigione austriaca con le provincie venete, si convenne che fosse custodita da soldati austriaci e da pontifici, con sentinelle senz’armi, per la sola sorveglianza dei disertori.
Il 27 dicembre, giorno onomastico di Pio IX, nonostante la pioggia dirotta che imperversava da parecchi giorni, nonostante i fulmini e i tuoni, una imponente dimostrazione popolare, con faci e bandiere, mosse da piazza del Popolo alla volta del Quirinale per presentare auguri di felicità al Pontefice.
Lo Spada, giunto a questo punto della sua storia, se la prende fieramente col Ranalli pel modo come egli ha narrato il fatto di questa popolare dimostrazione ed afferma che la verità fu che 74 «una lurida accozzaglia di paltonieri in piccol numero (fra il fango, la pioggia e il balenar dell’atmosfera), cui unironsi al solito alcuni popolani condotti dal tristamente famoso Ciceruacchio, si recarono al Quirinale, ove ad onta della meschinità dei dimostranti e del cattivo tempo, la benedizione del Santo Padre ebbe luogo». E a lui si associa il Balan affermando che poca e quasi indecente schiera di popolaccio si recò al Quirinale alla dimostrazione75.
Ma lo Spada, tratto dallo spirito di fazione, mentisce qui solennemente ed è solennemente smentito, non soltanto dai giornali liberali che narrano ben diversamente i fatti, ma dal giornale officiale stesso il quale li narra con queste parole: «Ricorrendo ieri la festa del glorioso apostolo San Giovanni onomastico della santità di nostro signore papa Pio IX, il popolo romano, per tale auspicata circostanza, riunitosi sulla piazza del Popolo in grandissimo numero con faci accese si conduceva al palazzo apostolico del Quirinale onde presentare al benignissimo padre e sovrano i più lieti sinceri auguri pel lungo corso del pontificato e per la conservazione della preziosa salute sua, ecc.
«Il Santo Padre, fattosi alla loggia per dimostrare il suo gradimento, impartiva al popolo la sua paterna benedizione»76 .
Per confessione adunque del giornale officiale la lurida accozzaglia di paltonieri in piccol numero e gli alcuni popolani dello Spada, si mutano nel popolo romano in grandissimo numero accorso del giornale officiale.
Il La Farina, il Ranalli, il Tivaroni, il Saffi e qualche altro storico - sulla fede forse deìl’Archivio triennale italiano77 narrano che, in quella sera 27 dicembre, fossero dal popolo recati alcuni cartelloni sui quali stavano a grandi caratteri scritte le domande che il popolo romano inviava a Pio IX, e cioè: Libertà di stampa, allontanamento dei gesuiti, lega italiana, emancipazione degl’Israeliti, scuole di economia pubblica, pubblicità degli atti della Consulta di Stato, colonizzazione dell’Agro romano, abolizione del giuoco del lotto, amnistia a’ ventiquattro reclusi in Civitacastellana per colpa politica, armamenti, freno agli arbitrii, abolizione degli appalti camerali, abolizione dei fidecommissi, riforma delle mani-morte, ecc.78.
L’onesto storico Giuseppe Spada, pel quale i principi han tutti i diritti, e i popoli tutti i doveri, si leva inorridito contro coloro che narrarono questo fatto, del quale egli è terribilmente scandolezzato e lo nega come impossibile, diamine! I Romani avrebbero potuto osar tanto! . . . Si sarebbero potuti spingere fino a commettere l’imperdonabile reato di chiedere l’abolizione di così belle ed utili istituzioni medioevali quali il giuoco del lotto, i fidecommissi e le mano-morte! . . . Impossibile! . . . Quindi egli nega sdegnosamente tutto.
Se non che le negative dello Spada non possono legittimamente estendersi che alla quistione della forma con cui il fatto fu narrato, ma non possono annullare il fatto stesso nella sua sostanza: poichè è vero che non furono recati in giro i cartelloni contenenti quelle domande, ma se non è cosa sicura - benchè gli storici indicati lo affermino - che Ciceruacchio presentasse quelle domande al Papa, allorchè quale ufficiale vessillifero del IV battaglione si recò il 28 successivo, insieme con le deputazioni dei quattordici battaglioni civici a rassegnare al Pontefice gli auguri del capo d’anno, è però indubitato che i cartelloni - i giornali la Pallade e il Contemporaneo li designano col nome di targhe - furono preparate, e, per cagione della pioggia, non vennero recate in giro, ma furono depositate in segreteria di Stato ove restarono a indicazione dei comuni bisogni79.
L’ultimo fatto importante dell’anno 1847, per ciò che riguarda la rivoluzione romana, fu il motu-proprio del 30 dicembre con il quale il Papa costituiva il Ministero in forma alquanto somigliante a quella vigente negli Stati costituzionali, con questa differenza però, che nel motu-proprio papale si stabiliva che il presidente del Consiglio dei ministri e ministro degli esteri, doveva essere un cardinale col titolo di segretario di Stato e doveva avere a sostituto un prelato: e gli altri ministri potevano non essere cardinali; ma intanto che in tal guisa si lasciava sperare che i laici potessero essere chiamati alla direzione della cosa pubblica, effettivamente del nuovo Ministero non entravano a far parte che cardinali e prelati, poiché esso veniva ccstituito cosi:
Presidenza e affari esteri | Cardinale Ferretti. |
Interno | Monsignor Amici. |
Istruzione pubblica | Cardinale Mezzofanti. |
Grazia e giustizia | Monsignor Roberti. |
Finanze | Monsignor Morichini. |
Commercio, agricoltura e belle arti | Cardinale Rlario-Sforza. |
Lavori pubblici | Cardinale Massimo. |
Armi | Monsignor Rusconi. |
Polizia | Monsignor Savelli. |
Due personaggi notevoli erano morti durante l’anno 1847, l’abate Graziosi e l’avvocato Silvani.
Giuseppe Maria Graziosi era nato in Roma nel 1703. Dotto e modesto maestro di teologia, sobrio, temperante, mansueto, vero modello di semplicità e carità evangelica, visse umile e povero nelle meditazioni, negli studi, nelle contemplazioni di un ascetismo quasi medioevale. Ebbe la fortuna di poter noverare fra i suoi discepoli Giovanni Maria Mastai Ferretti e Gioacchino Ventura. Il primo, divenuto Pontefice lo volle suo confessore e consigliere. E considerata la mitezza e generosità dell’animo disinteressatissimo del Graziosi, il popolo romano ebbe profondo il convincimento che le prime riforme di Pio IX fossero in buona parte dovute alla sua influenza. Il secondo, quando il povero canonico della basilica lateranense morì il 22 agosto 1847, ne disse pubblicamente l’elogio notando che «straniero a quello spirito d’insaziabile cupidigia, insopportabile nel secolare, orribile nell’ecclesiastico, che quanto più ha, tanto più brama, per tutte le vie, di avere, lungi dallo attendere, dall’avvilirsi ad ammassare il superfluo, non chiese nemmeno ciò che eragli necessario»; . . . che «degno di ottenere i più pingui benefizi, di occupare le più grandi dignità della Chiesa . . . fino agli ultimi anni della sita vita fu sempre dimenticato, e costretto, per vivere, ad occuparsi nel laborioso ministero dell’insegnare». E il padre Ventura conchiuse che «quando ne fu annunziata la morte, come ad una pubblica calamità, come se fosse in quest’uomo solo mancato a tutti il padre, il fratello, lì amico, profonda ne fu in tutti la mestizia, sincero come universale il dolore»80.
E, realmente l’abate Graziosi, carissimo al popolo, ebbe dal popolo onori funebri quali ad altissimo personaggio, o a padre della patria si sarebbero convenuti81.
L’avv. Antonio Silvani, uno dei due consultori di Stato per Bologna, insigne giureconsulto, esule dalla patria per antico liberalismo fino dal 1831 e il quale non soltanto pel robusto ingegno e per la vasta dottrina, ma altresì per la gentilezza dell’animo e per la grande modestia sua, si era acquistato la universale benevolenza, morì per un fiero male di intestini, durato solo trenta ore, la mattina del 4 dicembre.
Anche ad esso, ben a ragione reputato uno dei migliori e ilei più liberali fra i consultori, furono rese splendide onoranze funebri82.
L’abate Graziosi e l’avvocato Silvani erano stimati, quali erano realmente, due veri liberali fra i pochi liberali che circondassero Pio IX, erano creduti due amici del Pontefice; e fu perciò che volle ad essi il popolo romano testimoniare ampiamente la sua reverenza e il suo affetto.
Onde legittimamente si può e si deve arguirne, per la verità che, nonostante le immaginarie trame attribuite ai liberali dagli storici papalini; nonostante le tenebrose mene dei sognati settari, Pio IX godeva ancora, al finire dell’anno 1847, tutto l’amore, tutta la devozione de’ suoi sudditi e che le ondulazioni e le oscillazioni della politica a partita doppia, a lui imposta dalla contraddizione, sotto l’incubo della quale, da diciotto mesi, egli regnava e viveva, non erano bastate a scemare le speranze, a sminuire la fede che le moltitudini avevano riposte in lui. Con l’anno che moriva non morivano le illusioni degli Italiani; essi confidavano ancora di poter sottrarre il Papa alla funesta influenza dei gregoriani e dei gesuiti e di potere ancora fare di lui il nuovo Alessandro III, il nuovo Giulio II, il banditore della crociata nazionale contro l’abbonito straniero, crociata che, come era stata ed era il desiderio, cosi era divenuto il sogno di tutti i patrioti dalle falde delle Alpi fino alla lontana spiaggia di Marsala.
Note
- ↑ Pallade dell’11 agosto, n. 31.
- ↑ L. C. Farini, op. cit., vol. I, lib. II, cap. V.
- ↑ Circa alla politica persistentemente avversatrice delle riforme liberali di Pio IX adoperata dal principe di Metternich e dal fido agente dei suoi torbidi maneggi il maresciallo Radetscky, oltre i già indicati autori, credo opportuno citare anche l’Archivio storico italiano vol. I, pag. 110 e seg.; A. Saffi, op. cit., cap. V, pag. 99; G. Massari, La Vita e il Regno di Vittorio Emanuele II, vol. I, § 2°; Jules Zeller, Pie IX et Victor Emmanuel, histoire contemporaine de l’Italie (1847-1878), Paris, Didier et Cie, chap. I, pag. 34, e due scrittori che davvero non possono essere sospettati di liberalismo. Il Balleydier, nel volume storico-romanzesco-favoloso, pubblicato nel 1847, sotto il titolo Rome et Pie IX, e da me già citato, il Balleydier, il quale, a quel tempo non pensava che più tardi si sarebbe indotto a scrivere anche quella Storia della rivoluzione di Roma, ugualmente romanzesca e favolosa che io ho citato più volte, scriveva nel cap. VIII, a pag. 174 del detto suo libro Roma e Pio IX: «L’Austria, congiunta ai prelati avversi all’idea riformatrice, operava nelle tenebre e nulla lasciava d’intentato per provocare il malcontento del popolo e vi riusci in qualche parte». E si noti che gli avvenimenti, fra storici e favolosi, narrati dal Balleydier in questo volume, non vanno oltre l’aprile del 1847, perchè il libro fu pubblicato prima che si tramasse a Roma la congiura reazionaria e avanti che le milizie austriache occupassero Ferrara.
Il Lubienscki, poi, storico-romanziere egli pure non meno dell’altro papalino, ammette nel cap. IV a pag. 67 del suo libro (Guerres et révolutions d’Italie) che il principe di Metternich si adoperava a spaventare il Papa. E, seguitando, dice non esser facile sapere la verità sul fatto che il Metternich da una parte incoraggiasse la resistenza dei retrogradi e dall’altra eccitasse le esigenze della demagogia per divenire il protettore necessario del Papa: ma non nega la possibilità che il fatto fosse vero. È curioso poi osservare come monsignor Balan (op. cit., lib. II, pag. 195) biasimi vivamente il principe di Metternich che non fu uomo religioso nella politica sua e preparò la ruina dell’Austria, ecc. - ↑ Bilancia del 28 settembre, n. 42, e del 1° ottobre, n. 43; Speranza del 25 agosto, n. 4; Pallade del 6 agosto, n. 30; Contemporaneo del 4 settembre, n. 36, ecc.
- ↑ Archivio storico italiano, vol. I, pag. 79. Cf. con Ricciardi, Ranalli, La Farina, Nisco, ecc. Delle turbolenze e dei movimenti insurrezionali delle Calabrie e della Sicilia e delle feroci repressioni borboniche si occupavano, con molto patriottica e sagace concordia di propositi, i giornali liberali romani, Bilancia, Italico, Speranza; e il Contemporaneo che nei tredici suoi numeri, pubblicati dall’11 settembre al 6 novembre, consacrò dieci articoli alle cose di Calabria e di Sicilia; ma più tenacemente e più assiduamente di tutti la Pallade, la quale, a datare dal suo foglio dell’8-9 settembre, n. 54, al foglio del 9 novembre, n. 95, contiene trentaquattro articoli intitolati o Sicilia e Calabria o Due Sicilie o Regno di Napoli, ecc., e tutti di simpatie per gl’insorti e di esacrazione contro il Borbone. Due di quegli articoli rendono tributo di ammirazione e di compianto al prode Romeo e ai valorosi compagni suoi, e un altro riproduce la sentenza di morte pronunciata a Messina dalla Commissione militare contro il prete Krymi e contro il calzolaio Giuseppe Seiva per il tentativo di rivolta del 1° settembre.
- ↑ Intorno al Mamiani vedi Garnier-Pagès, op. cit., tom. I, § 8; E. Poggi, op. cit., vol. II, lib. IV e V; G. Saredo, Terenzio Mamiani nei Contemporanei italiani, Galleria Nazionale, Torino, Unione tipografico-editrice torinese, 1862 e Terenzio Mamiani nel volume Studi e Ritratti di G. Barzellotti.
- ↑ Il Contemporaneo del 25 settembre 1841, n. 39. Cf. la Pallade del 24 settembre, n. 67; G. Spada, op. cit., vol. I, cap. XVIII; B. Grandoni, op. cit, anno II, pag. 87.
- ↑ Il Contemporaneo del 25 settembre, n. 39.
- ↑ Pallade dell’11 settembre, n. 56.
- ↑ Contemporaneo del 2 ottobve, n. 40; Pallade del primo ottobre, n. 71. Cf. con G. Spada, op. cit., vol. I, cap. XVIII.
- ↑ Bilancia del 30 luglio n. 25; Pallade del 3 agosto, n. 27.
- ↑ Pallade del 4 settembre 1847, n. 51.
- ↑ Pallade del 1° settembre 1847, n. 48.
- ↑ Pallade del 16 agosto 1S47, n. 35; e poi nei numeri 37, 41, 42, 44, 47, 50, 52, 58, ecc. ecc; Contemporaneo del 14 agosto n. 33 e poi nei numeri 34, 35, 36, 37, 38, 39 e 40; Speranza del 25 agosto n. 4 e poi nei numeri 5, 6, 9 e 11.
- ↑ Contemporaneo Pallade, Bilancia e Speranza nei loro fogli del mese di agosto e settembre.
- ↑ Pallade del 3 settembre, n. 50.
- ↑ Pallade del 7 settembre, n. 53. Cfr. con G. Spada, op. cit., vol. I, cap. XVIII.
- ↑ G. Spada, op. cit., vol. I, cap. XVIII; B. Grandoni, op. cit., anno II, pag. 86-87; Pallade doll’8-9 settembre, n. 54; Contemporaneo del’ ll settembre, n. 37; P. Balan, op. cit., vol. I, lib. II, pag". 201; A. Balleydier, op- cit., cap. II, pag. 33, il quale, romanziere e favolista, al solito, anzi che storico, esagera smisuratamente e grottescamente il racconto, nel quale è smentito poi dagli stessi Spada e Grandoni.
- ↑ G. Spada, op. cit., vol. I, cap. XVIII; B. Grandoni, op. cit, anno II, pag. 87; Pallade dell’8-9 settembre, n. 54; Contemporaneo dell’1l settembre, n. 37; Speranza dell’8 settembre, n. 6; Bilancia del 10 settembre, n. 37.
- ↑ Queste erano parole di cita dette ad un cadavere, esclama Carlo Cattaneo (op. cit., Considerazioni in fine al I volume dell’Archivio triennale, ecc., pag. 252) a proposito della lettera del Mazzini; sulla quale brontolano il Balan, op. cit., vol. I, lib. II, pag. 197; C. Cantù, Storia degl’Italiani, vol. XIV, cap. CXC; e lo Spada, op. cit., vol. I, cap. XVIII. Cf. con A. Saffi, op. cit, cap. VI, pag. 130 e seg.
- ↑ G. Spada, op. cit., vol. I, cap. XVIII; P. Balan, op. e luogo citato. Il bello poi si è che proprio in quel medesimo giorno del ritorno del principe di Canino e della sua sfuriata e del processo avviato contro di lui, la Bilancia, nella quale era già apparso un articolo pieno di caldissime lodi al Bonaparte, firmato dal prof. Francesco Orioli (Bilancia del 27 agosto, n. 33) contiene un altro articolo di elogi e di felicitazioni pel Canino e pel suo segretario Masi a proposito del loro viaggio trionfale, in divisa civica, a Livorno, Pisa, Bologna, Ferrara, per Venezia, e delle feste a cui essi erano stati fatti segno, Bilancia del 21 settembre, n. 40. E un articolo consimile vivo di lodi e di plausi pel principe di Canino già aveva pubblicato la Pallade del 16 settembre, n. 60, che ne stampava un altro nel foglio del 20 dello stesso mese, n. 63. Anche la Speranza del 22 settembre, n. 8, celebrava il Canino e il Masi. Curioso che nessuno dei detti giornali accenni all’aneddoto o al processo, sempre mossi dal desiderio di non creare imbarazzi al Papa ed al suo Governo e di non guastare la concordia degli animi e dei propositi.
- ↑ C. Rusconi, Mem. anedd. cit., cap. VII. Il Minghetti (op. cit., vol. I, cap. V) rafferma vigorosamente il difetto dell’esser bugiardo nel Canino e dice che per la città, quando si udiva a dire una grossa bugia, si diceva subito: è una caninata.
- ↑ A. Balleydier, op. cit., cap. I, in fino.
- ↑ C. Rusconi, Mem. anedd. cit, luogo sopra citato. Cfr. con M. Minghetti, opera e luogo citato, e col volume, Massimo D'Azeglio e Diomede Pantaleoni, Carteggio inedito con profazione di G. Faldella, Torino, L. Boux e C, 188S, pag. 166; con L. C. Farini, op. cit., lib. I (il quale non adopera nei giudizi sul Canino, suo avversario politico, quella temperanza e moderazione di giudizi che si era in diritto di aspettare da lui moderato e che si era assunto l’ufficio di storico imparziale); cap. VII, cap. XI, cap. XVII, cap. XVIII e passim; con F. Ranalli, op. cit., vol. II, lib. XII, pag. 281, e con F. Orioli, articolo nella Bilancia del 27 agosto 1847, n. 33. Quasi tutti gli storici di quegli avvenimenti favellano, qua e là, qualche cosa del principe di Canino, a seconda degli umori di parte, variamente giudicandolo.
- ↑ Lettera di monsignor Matteucci nel Processo di lesa maestà ed omicidio del conte Pellegrino Rossi, esistente al foglio 2992-2993.
- ↑ Graverebbero di qualche responsabilità il principe di Canino nella trama per la uccisione del conte Rossi - e quasi tutti per sentito a dire e non di loro scienza - i testimoni Deck, cocchiere del conte Pellegrino Rossi, il fratello di questo conte Carlo Rossi, Colomba Mazzoni in Di Bianchi detta la bella Colomba, a 22 anni di età già condannata a galera a vita per avere ammazzata un’altra donna, Ilario Tozzi, Innocenzo Zeppacori, che era stato capo-popolo del rione Sant’Angelo durante la repubblica, il cav. Agostino Squaglia, una specie di Don Marzio alla bottega del caffè, dilettante accusatore, Filippo Bernasconi, il lenone impunitario, colonna vertebrale di tutto il processo, i coniugi Salvati, il duca don Mario Massimo, il tenente dei carabinieri Lavagnini, il maresciallo Paravani, Rosa Benasi e il dott. Diomede Pantaleoni.
Allontanano da lui ogni complicità, e quasi per propria scienza, Pietro Luzzi, Innocenzo Zeppacori (in un’altra delle sue molte deposizioni), Vincenzo Longhi, il cav. Pietro De Angelis, in due testimonianze l’ispettore di polizia Rosalbi, l’agente di polizia Volponi, l’ispettore di polizia Del Fante, il Galluppi, il Villanuova Castellacci, il fornaio Toncker, il confidente di polizia Dell’Olden, il Giancamilli, il Pinci, il Cerocchi, il colonnello della civica Angelo Tittoni, il Belli, il Mucchielli, lo Scaccia e il colonnello Grandoni.
Del resto di tutto ciò tratterò più diffusamente - come ho grià detto - nell’altro volume Pellegrino Rossi e la Rivoluzione romana. - ↑ B. Grandoni, op. cit, anno 11, pag. 89 e seg.; G. Spada, op. cit., vol. I, cap. XVIII; A. Saffi, op. cit, cap. VI, pag. 119 e 120; A. De La Forge, op. cit., vol. II, § 10; Diario di Roma del 5 ottobre, n. 80; Pallade del 3-4 ottobre, n. 74; Speranza del 4 ottobre, n. 10; Bilancia del 5 ottobre, n. 44.
- ↑ Oltre il Farini, il Ranalli, il La Farina, Belviglieri, lo Spada, il Reuchlin, il Garnier-Pagès, il Perrens, il Ruth, il Saffi, ecc. ecc., per la istituzione del Municipio romano, consulta Luigi Pompili Olivieri, nell’op. cit. Il Senato romano nelle sette epoche di svariato governo, ecc., vol. II, da pag. 41 a 46.
- ↑ Pallade del 10 ottobre, n. 72.
- ↑ I deputati di Roma si intende i quattordici capi-popolo dei rioni.
- ↑ Contemporaneo del 16 ottobre 1847, n. 42.
- ↑ Pallade del 16 ottobre n. 81. Per la festa di Gavinana, cf. Archivio storico triennale italiano, vol. I, pag. 90; G. Montanelli, op. cit, vol. II, pag. 25 e seg.; G. Spada, op. cit., vol. I, cap. XIX.
- ↑ Pallade del 16 ottobre, n. 81; Contemporaneo del 16 ottobre, n. 42. E qui noto che il Cantù, Storia degli Italiani, vol. XIV, cap. CXC, infuria contro il Guerrazzi, a Gavinana «ritraente a colori biblici la possa di un popoletto che potè resistere a Carlo V padrone di due mondi; e mostrando come le discordie fraterne avessero tutto mandato a ruina, invitaóa a giurare eterna concordia. E concordia, risorgimento, Italia, èra nuova, ripeteansi dappertutto: quasi le stesse persone dappertutto ricomparivano: abdondando e declamazioni e tutto ciò che in politica è inutile, nulla di ciò che è necessario ad una ricostruzione», quasi che un popolo, che si svegliava, dopo così lungo servaggio, negli impeti della sua giovanile inconsideratezza, avesse potuto sulla tomba del Ferruccio a Gavinana, cantare litanie e paternostri e gridare: «Viva Carlo V, Viva Casa d’Austria!». Gl’Italiani gridavano, a quei giorni, ciò che era naturale e logico che dovessero gridare e ciò ohe, in quell’ambiente, in quello spazio, in quella condizione degli animi, dovevano necessariamente gridare, senza preoccuparsi se quelle acclamazioni potessero dispiacere, in avvenire, al Cantù, così dotto del senno del poL Che quelle declamazioni, quelle acclamazioni, quella giovanile baldanza, quelle intemperanze siano state inutili lo afferma gratuitamente il Cantù; ma la concatenazione logica dei fatti di allora con quelli di un decennio dopo sta a dimostrare che gli errori di allora - che erano razionale e legittima conseguenza di cause secolari precedenti - furono utili e prodosaero l’assennatezza e la concordia per le quali, dieci anni dopo, gl’Italiani poterono giungere a riaffermare solennemente la loro unità politica, fatto che tanto cuoce al Cantù.
- ↑ G. Spada, op. cit., vol. I, cap. XIX. Il Grandoni (op. cit., anno II, pag. 91) è ancora più caldo ed entusiasta dello Spada nel descrivere questa festa civile e militare; e non meno di lui il Saffi, op. cit, cap. VI, pag. 120-121. Cfr. Contemporaneo del 9 ottobre 1847, n. 41; Speranza del 13 ottobre, n. 11 e Pallade dell’8 ottobre, n. 77.
- ↑ F. Ranalli, op. cit., vol. I, lib. III, pag. 170.
- ↑ G. Spada, op. cit., vol. I, cap. XIX; Pallade del 30 ottobre, n. 89.11 giornale nota il fatto, nenza nominare lo Sterbini, e biasima il poeta che voleva disobbediro agli ordini dati e loda il Comando superiore (sic) di aver fatto osservare la disciplina militare. Lodano le grandi evoluzioni civiche alla Caffarella il Contemporaneo del 30 ottobre, n. 44 e la Bilancia del 2 novembre, n. 52.
- ↑ Bilancia del 24 ottobre, n. 49; Pallade del 24-25 ottobre, n. 87. Cf. G. Montanelli, Memorie citate, vol. II, cap. XXX.
- ↑ G. Montanelli, op. cit, vol. II, cap. XXX.
- ↑ G. Montanelli, op. cit., vol. II, cap. XXX, pag. 54.
- ↑ Lo stesso, ivi, cap. XXX in fine. Cf. Pallade del 18 novembre, n. 101.
- ↑ Così s’intitolava l’articolo incriminato di monsignor Gazzola e non già Del cosi detto partito cattolico nel Belgio, come erroneamente scrive lo Spada. E difatti della condotta dei fanatici cattolici non solo del Belgio, ma anche della Svizzera, trattava l’articolo condannato. Vedi Contemporaneo del 25 settembre, n. 39, articolo di fondo, intitolato come ho riferito di sopra.
- ↑ Pallade del 16 ottobre, n. 84; Diario di Roma del 16 ottobre, n. 33; Speranza del 20 ottobre, n. 12; foglio aggiunto settimanale del Contemporaneo del 19 ottobre, n. 3.
- ↑ A. Balleydier, op. cit., cap. II, pag. 35 e se.; E. Lubienschi, op cit. cap. IV, pag. 70; V. D’Arlincourt, op. cit., Ier partie, chap. II; P. Balan, op. cit., vol. II, pag. 200; A. De Saint-Albin, op. cit., vol. I, cap. IV;
G. Spada, op. cit., vol. I, cap. XX (in tutto il capitolo malignando sui passi, sulle parole, sui sorrisi di lord Minto); C. Cantù, Cronistoria, vol. II, cap. XXXVIII, pag. 732. (Cf. Storia degl’Italiani, vol. XIV, cap. CXC).
Non perfidiano sulle azioni e sulle intenzioni di lord Minto, G. Grandoni, op. cit., anno II, pag. 96 e il marchese Costa de Beauregard (Epilogue d’un règne ou les dernières années du roi Charles-Albert, Paris, E. Plon, Nourrit et Cie éditeurs, Rome, Turin, Naples, L. Roux et Cie, 1890, chap. II, § 3) ma non si mostrano guari benevoli verso di lui.
Chi adopra ogni maniera di insinuazioni e di calunnie contro lord Minto è il Croce, del quale sarà bene dire qualche parola, una volta per tutte.
Il Croce (Vita popolare di Pio IX per D. Francesco Croce, sacerdote vicentino, missionario apostolico, dottore in teologia e cameriere d’onore di S. S. Pio IX, Prato, Ranieri Guasti editore-libraio, 1878), ha dato prova, in questo suo sozzo libello, di ciò che possono in un animo basso e volgare il fanatismo religioso e l’odio di parte. Premesso che il volume del Croce altro non è che uno sconclusionato rabberciamento della Storia di Pio IX del De Saint-Albin e del libercolo romanzesco-favoloso del Balleydier, intitolato: Roma e Pio IX (a cui altre volte mi son riferito e che non è da confondere con la Storia della rivoluzione di Roma dello stesso autore), dai quali due libri lo spudorato plagiario sacerdote traduce e riproduce, come roba sua, intere pagine di quando in quando, darò della esattezza storica dal Croce osservata nel narrare i fatti due esempi soli, che al lettore potranno servire di saggio intorno ai tanti strafalcioni, onde il zibaldone del missionario apostolico vicentino è infarcito.
Nel capo V a pag. 25 del suo libello il Croce con sfrontatezza inaudita osa asserire che i consultori «erano eletti dal Papa sopra liste di tre candidati, mandate dai Consigli provinciali che, per formarle, sceglievano fra altre liste provenienti dai Consigli municipali (sic) e che questi erano il prodotto del suffragio universale!» (sic).
A pag. 24 il Croce, la cui crassa ignoranza non è superata che dalla insigne sua mala fede, scrive che «Pio IX istituì la guardia civica indottovi dall’esempio degli altri sovrani e che ci si piegò per ultimo», mentre è risaputo anche dagli allievi della quinta elementare che la prima guardia civica istituita in Italia fu la romana e che il Granduca di Toscana e il Duca di Lucca concessero l’armamento delle milizie cittadine nel settembre 1847, mentre la romana era stata ordinata nel luglio, e che Carlo Alberto e Ferdinando II accordarono la guardia civica soltanto sul principiare del ’48.
E perchè il lettore abbia pure un concetto dello stile, del galateo e della carità evangelica del prete Croce, riferisco qui il frammento in cui sì narra della missione di lord Minto.
«Il Mazzini.... principale motore delle società secrete aveva complici perfino in seno ai Governi. Il capo d’uno dei più potenti fra loro, lord Palmerston, primo ministro della regina d’Inghilterra, covava un odio di settario contro il cattolicismo (!!). Egli mandò in Italia un plenipotenziario, lord Minto, con manifesta missione di dare buoni consigli ai sovrani, ma coll’ordine segreto di fare ogni opera per sollevare Napoli, Firenze e specialmente Roma, Lord Minto apriva in Roma i suoi saloni a uomini cospiratori, ieri amnistiati da Pio IX, oggi traditori e spergiuri. Difeso dalle immunità diplomatiche, accoglieva intorno a sè la feccia di tutta Roma: il Galletti, il Materazzi, il Tofanelli ed Angelo Brunetti, arruffapopolo famoso sotto il nome di Ciceruacchio, il principe Carlo Bonaparte, il cui padre Luciano aveva ricevuto dalla bontà di Pio VII il palazzo che abitava (!!) e il titolo di principe di Canino, il giornalista Sterbini, medico, poeta e, sopra tutto, cospiratore contro la società (!) e contro Pio IX, A queste congreghe tenebrose mancava il solo Mazzini, ma vi assisteva per lettere (!!). Allora gli assembramenti popolari guidati e retti da questi farabutti (!!) incominciarono a prender l’aspetto di ribellione, ecc., ecc. (op. indicata, cap. VIII, pag. 31)
Nè minori imputazioni dà a lord Minto - nè meno sbugiardate di quelle del Croce dalla pubblicazione dei Documenti inglesi e da quella fatta da Nicomede Bianchi - Cesare Cantù (Cronistoria, vol. II, cap. XXXVIII) il quale non accetta prove, non ammette documenti; la verità storica deve essere quella che cervelloticamente e autocraticamente afferma lui; per lui non c’è Cristo che tenga ...quod dixi, dixi. - ↑ L. C. Farini, op. cit., lib. II, cap. VIII, in principio.
- ↑ N. Bianchi, op. cit., vol. V, cap. I, s 13. E conformi alla opinione dei due precedenti scrittori, sono, dal più al meno, quelle del Bersezio, del La Farina, del Cattaneo, del D’Azeglio, del De Boni, del Montanelli, del Ranalli, del Belviglieri, dell’Anelli, del Cappelletti, del Carrano, del Bertolini, del Silvagni, del Tivaroni, del Saffi, del Minghetti, dell’Alison, del Dyor, ecc.
- ↑ G. Spada, op. cit., vol. I, cap. XX, da pag. 387 a 390.
- ↑ M. Minghetti, op. cit., vol. III, appendice al cap. IX, pag. 430. Un altro aneddoto, notato nelle Memorie del Principe di Metternich, dimostra ancora l’amore di lord Minto e delle sue figliuole per l’Italia. Nel maggio del 1848, quando la famiglia di lord Minto era tornata a Londra, la famiglia di Metternich si recò essa pure nella capitale inglese. Una sera la famiglia Metternich udì cantare l’inno di Pio IX nella casa vicina a quella da essa abitata! La famiglia Metternich era capitata a trovarsi ad uscio ad uscio con la casa abitata dalla famiglia del radicale - l’epiteto è della principessa Melanie - lord Minto. Curioso radicale la cui famiglia cantava ...l’inno di Pio IX! (Memorie già citate del Principe di Metternich, vol. VIII, Journal de la princesse Melanie, pag. 200).
- ↑ Pallade del 5 novembre, n. 92; Bilancia del 5 novembre, n. 53; Speranza del 10 novembre, n. 15.
- ↑ Bilancia del 30 novembre, n. 60.
- ↑ Bilancia del 3 dicembre, n. 61.
- ↑ G. Spada, op. cit., vol. I, cap. XX, pag. 383.
- ↑ N. Bianchi, op. cit., vol. V, cap. I, § 13, pag. 84 e cap. II, § 9, pag. 130. Cf. Bilancia del 16 dicembre, n. 63, dove è detto: «Ultimamente lord, Minto in udienza privata presentò a N. S. dispacci del suo Governo».
- ↑ G. Spada, op. cit., vol. I, cap. XX, pag. 380.
- ↑ G. Spada, op. cit., vot. I, cap. XX. Riferisce il fatto anche il wl, uno dei furiosi contro lord Minto, allorché narra che questi «andava ai circoli, all’ufficio del Contemporaneo, riceveva con cortesia Cocervacchio (sic) e faceva versi per Cicervacchietto (sic)» (op. cit., cap. IV, pag. 58).
- ↑ Lo stesso, ib., ib., pag. 385.
- ↑ Lo stesso, ib., ib., pag. 390.
- ↑ Contemporaneo del 13 novembre, n. 46.
- ↑ Diario di Roma del 16 novembre 1817, n. 91.
- ↑ Diario di Roma del 16 novembre 1847, n. 91
- ↑ Gli scrittori che riferiscono la invettiva papale, senza le mitigazioni onde cercò velarla il Diario di Roma, sono l’Anelli, il Mianchi-Giovini, il Balan, il Balleydier, il Farini, il La Farina, il Gabussi, il Lubienscki, il Garnier-Pagès, il Minghetti, il Montanelli, il Pasolini, il Perrens, il Pianciani, il Pinto, Il Ranalli, il Rey, il Ricciardi, il Rossi, il Saffi, il Silvagni, e il Tivaroni.
Il conte Pellegrino Rossi, in un suo dispaccio del 18 novembre, narrando al Guizot l’avvenimento dell’inaugurazione della Consulta, raccontò, senza ambagi, l’incidente occorso e le aspre parole del Pontefice. (D’Ideville, op. cit., liv. Vme, i).’i^. 174). Cf. con Guizot, op. cit, tom. VIII, cbap. XXXXVI, pag. 399.
Il conte Luigi Pianciani, nella sua Roma dei Papi (Le Rome des Papes, son origine, ses phases successives, ses mœures intimes, son gouvernement, son système administratif, par un ancien membre de la Constituante romaine. Bilie, librairie Schweighauser, London John Chapman, 1859) riferisce le parole del Papa ancor più crudamente e afferma che Pio IX gridò, acceso e, concitato: Ricordatevi, signori, che io sono sempre il padrone: e l’udivano ripetere con collera: Non crediate già che io abbia rinunciato al beneficio del mio diritto sovrano, io non ho accolto questa frenesia nel mio cervello, io resto sempre il sovrano assoluto e libero di fare tutto ciò che mi piace (La Rome des Papes, vol. II, chap. XXII).
Il cav. Minghetti nota che.... nessuno rispose, come è naturale, a quello tirata, ma ne restò negli animi un po’ di scontentezza, e la festa riuscì freddo (Op. cit,, vol. II, cap. V, pag. 295).
Poi, narrando il successivo colloquio da lui avuto col Papa, prima di redigere, come ne aveva avuto mandato dalla Consulta di Stato, la risposta al discorso di Pio IX, risposta cui la maggioranza dei consultori voleva dare il carattere costituzionale di indirizzo in risposta al discorso della Corona e il Papa il carattere di un semplice indirizzo di ringraziamento, afferma che il Pontefice gli disse: Ma credete voi che io mi sia obbligato ad accettare tutto ciò che farà la Consulta? Se lo credeste sareste in errore. Io mi sono riservato di dare o no la mia sanzione a quelle proposte che stimerò convenienti. E il Minghetti nota in seguito che il Papa allora parlò dell’obbligo che avena di trasmettere intatti i diritti della S. Sede ai suoi successori, e ritornò sulle frasi chn aveva detto al primo ricevimento. (Op. cit., vol. II. cap. V, pag. 297-298). Le quali parole gravissime dimostrano il deliberato proposito del Pontefice e il suo vero intendimento, e tolgon credito alla rappezzatura con cui si cercò, allora, di scusare quella sfuriata, avere, cioè, il Papa proferito quelle parole per l’eccitamento nervoso destato in lui della presenza dello Sterbini. - ↑ Oltre al Grandoni, allo Spada, al Ranalli, al Belviglieri, al Baileydier, ecc., si possono vedere il Diario di Roma del 19 novembre, n. 92 il Contemporaneo del 16 novembre, nel foglio aggiunto settimanale, n. 7: la Pallade del 16 novembre, n. 99, la Bilancia del 16 novembre, n. 66, e la Speranza del 17 novembre, n. 16.
- ↑ L. Pompili Olivieri, op. cit, vol. n, pag. 47 e seguenti. Cf. con i giornali Contemporaneo, Pallade, Bilancia e Speranza.
- ↑ Miscellanea Trucchi, vol. I (1846-47;, in fine.
- ↑ Album dei Cento consiglieri, ecc., nella Miscellanea Trucchi, luogo citato.
- ↑ Bilancia del 5 ottobre 1847, n. 44, in un articolo, firmato proprio da Francesco Orioli.
- ↑ L. Pompili Olivieri, op. cit., vol. II, pag. 53.
- ↑ G. Spada, op. cit., vol. I, cap. XXII. Cf. con B. Grandoni, op. cit., anno II, pag:. lOO e seg.; con la Speranza del 25 novembre, n. 17; con la Bilancia del 29 novembre, n. 59; con 11 Contemporaneo del 27 novembre, n. 48, e con la Pallade del 24 e del 25 novembre, numeri 106 e 107.
- ↑ L. Pompili Olivieri, op. cit., vol. II, pag. 53.
- ↑ G. Spada, op. cit., vol. I, cap. XXII. Cf. con B. Grandoni, op. cit., anno II, pag:. lOO e seg.; con la Speranza del 25 novembre, n. 17; con la Bilancia del 29 novembre, n. 59; con 11 Contemporaneo del 27 novembre, n. 48, e con la Pallade del 24 e del 25 novembre, numeri 106 e 107.
- ↑ Grandoni, Spada, Ranalli, La Farina, ecc., e i giornali sopra citati. Vedi anche L. Pompili Olivieri, il quale, nel luogo indicato, commette l’imperdonabile errore di affermare che soli sei conservatori furono eletti, mentre effettivamente ne furono eletti otto, quanti se ne dovevano eleggere; errore tanto più imperdonabile in quanto che il Pompili fu segretario generale del comune di Roma ed ebbe quindi tutto l’agio di verificare l’esattezza dei fatti.
- ↑ A. Colombo, op. cit., II, pag. 60; Pallade del 26 novembre, n. 108.
- ↑ Archivio triennale italiano, vol. I, pag. 109; B. Grandoni, op. cit., anno II, pag. 91 e 98; L. C. Farini, op. cit., lib. II, ciip. VII; Pallade dal 12 novembre, n. 97; Contemporaneo del 13 novembre, n. 46.
- ↑ C. Tivaroni, op. cit., tom. II, parte VII, cap. V, § 3°. Cf. con E. Lubienscki, op. cit., chap. IV, pag. 81.
- ↑ Diario di Roma del 4 dicembre, n. 97.
- ↑ G. Spada, op. cit., vol. I, cap. XXIII Cf. con Balan, op. cit. vol. I, lib. II, pag. 247.
- ↑ Diario di Roma, del 28 dicembre, n. 92. Cf. con il Contemporaneo nel suo foglio aggiunto settimanale del 29 dicembre, n. 13; con la Pallade del 28 dicembre, n. 191 e del 29 dicembre, n. 132; con la Speranza del 29 dicembre, n. 22.
- ↑ G. La Farina, op. cit., lib. III, cap. VII; F. Ranalli, op. cit., vol. I, lib. IV, pag. 229; C. Tivaroni, op. cit., vol. II, parte VII, cap. V, § 3°; A. Saffi, op. cit., cap. VI, pag. 134; Archivio triennale italiano, vol. I, pag. 163.
- ↑ G. La Farina, op. cit, lib. III, cap. VII.
- ↑ Contemporaneo, nel suo foglio aggiunto settimanale del 29 dicembre, n. 18. Cf. Pallade del 28 dicembre, n. 131.
- ↑ Elogio funebre di don Giuseppe Maria Graziosi, nel volume Opere complete del reverendo padre Gioacchino Ventura, Elogi funebri, Genova, presso Dario Giuseppe Rossi, 1852, pag. 363 e seguenti.
- ↑ B. Grandoni, op. cit., anno II, pag. 84-85; G. Spada, op. cit, vol. I, cap. XV; L. C. Farini, op. cit., lib. II, cap. V; Federico Torre in un articolo inserito nel Contemporaneo del 29 agosto, n. 35; Pallade del 22-23 agosto, n. 41.
- ↑ L. C. Farini, op. cit., lib. II, cap. VIII; B. Grandoni, op. cit., anno II, pag. 106-107; G. Spada, op. cit., vol. I, cap. XXII; Pallade supplemento al n. 114 del 4 dicembre e n. 115 del 5-6 dicembre; Bilancia del 6 dicembre, n. 62; Speranza del 5 dicembre, n. 19; Contemporaneo nel suo foglio aggiunto settimanale del 7 dicembre, n. 10, dove, nella descrizione del funerale, è detto che, preceduti da Angelo Brunetti venivano i cittadini romani, senza distinzione alcuna, di ogni ceto e di ogni classe, ecc., e che tutto il pòpolo guardava con rispetto il senatore Corsini confuso tra i soci del Circolo romano.