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capitolo quinto | 271 |
quel grande poeta, di quel sommo artista e inespertissimo e fiacchissimo uomo politico che fu Giuseppe Gioacchino Belli1, i quali, a quei giorni, correvano sulle labbra di tutti e rispecchiavano fedelmente le condizioni di quell’ambiente:
ER PAPA BONO.
Pe’ bono è bono assai; ma er troppo è troppo; |
LA TOR DE BABELE.
Inzin che ar Papa je staranno addosso |
- ↑ Dopo aver lavorato per circa venti anni, con opera assidua, efficacissima a scardinare il Governo teocratico di Roma, sia come potere temporale, sia come autorità spirituale; dopo aver percosso quotidianamente, con l’arme irresistibile del più dissolvente ridicolo, ad una ad una, tutte le singole istituzioni su cui si fondava quel medioevale, feudale, chiesastico e fradicio edificio; dopo avere demolito nella coscienza del popolo romano ogrni sentimento di ossequio e di reverenza a tutte quelle barocche tradizioni, Giuseppe Gioacchino Bolli si spaventò delle conseguenze dell’opera sua e, dopo avere inchiodato in tutte le menti le premesse, si ribellò ilìogicamente alle loro legittime illazioni. Intravenne anche a lui ciò che era avvenuto, dal più al meno, a Vittorio Alfieri e a Silvio Pellico e ciò che avveniva, in quei tempi medesimi, a Giuseppe Giusti. Egli pure, come l’Alfieri, come il Pellico, come il Giusti rimase atterrito dogali effetti dell’opera propria e, nel 1849, dopo caduta la Repubblica romana, scrisse che in essa si era «compendiato quanto di fellonesco, di barbaro, di abbietto abbia sa-