Versi editi ed inediti di Giuseppe Giusti/Prefazione
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PREFAZIONE.
È questa la prima volta che i Versi di Giuseppe Giusti escono in luce compiutamente raccolti e ordinati secondo la mente sua; giacchè le edizioni che se ne fecero, lui vivo, a sua insaputa, in Italia e fuori, oltre alla scorrezione tipografica che offende il lettore anche meno esperto, vanno deturpate da stranissime giunte di componimenti apocrifi.1 Ond’egli di questo abuso degli Editori altamente si querelava, e negli ultimi anni della sua vita pensava di raccogliere in un volume tutti quei Versi che egli voleva che andassero sotto il suo nome, pubblicamente rifiutando quelli che gli erano apposti, e quelli che scritti da lui negli anni giovanili, non credeva degni di se, quantunque un’indiscretezza poco amichevole li avesse tolti alla dimenticanza cui gli aveva condannati egli stesso. La morte che lo colse nel 31 marzo del 1850 gli impedì di condurre ad effetto questo suo disegno, che rimase un sacro legato per gli amici suoi; i quali riandando le carte da lui lasciate, e rispettando religiosamente la sua volontà, apparecchiarono con studio ed amore questa edizione postuma delle sue poesie, unendo ai Componimenti già pubblicati, quelli che si rinvennero inediti, coll’intendimento di giovare insieme alla memoria dell’Amico ed alla patria letteratura.
Le poesie che compongono la presente Raccolta vanno distinte in tre serie.
Stanno nella prima tutti i Componimenti pubblicati dall’Autore dopo il 1843; chè nell’anno successivo il Giusti pensò per la prima volta di vendicare colla stampa le ingiurie dei copisti, e nell’edizione di Bastia, venuta in luce nel 1845, riunì quei Versi che egli riconobbe come suoi, fra i molti che col suo nome si erano già divulgati da un capo all’altro d’Italia. L’ordine delle poesie di questa prima serie era già stato stabilito dall’Autore stesso, e la sua autorità è bastata perchè non vi si facesse mutamento alcuno, sia nel numero, sia nella disposizione.2
La seconda serie comprende i Versi inediti scritti dal Giusti dopo il 1847, quando le amarezze raccolte dalla mala riuscita del tentato risorgimento italico, gli avvelenarono la vita, e gli inacerbirono quella mortale malattia che, dopo lungo penare, lo condusse innanzi tempo al sepolcro. Tutto quello che si è trovato di meno incompiuto nei suoi manoscritti, figura in questa serie, la quale raccoglie, per così dire, gli ultimi raggi della sua bella intelligenza, gli ultimi palpiti del suo cuore. Tranne due o tre Componimenti condotti a termine, il resto sono frammenti che egli non avrebbe certamente pubblicati, senza condurli a quella rara perfezione di forme e di concetti che sapeva dare a tutti i prodotti del suo splendido ingegno. Si è creduto peraltro di non dover defraudare il pubblico di queste ultime creazioni del Poeta, e si sono stampate così come si rinvennero nelle sue carte, senza aggiungere o toglier sillaba.
Nella terza serie si raccolsero alcuni Componimenti scritti dal Giusti in età giovanile, parte già stampati per diverse occasioni, parte tuttora inediti. Questi Versi giovanili certamente non aggiungono nulla alla fama del Poeta, ma sono preziosi ricordi per la storia del suo ingegno, e rivelano come egli fin d’allora andasse tentando varie forme di poesia, per trovar quella che meglio rispondesse al suo genio. Noterà inoltre il lettore come anche in questi primi tentativi poetici del Giusti sia il germe di quei nobilissimi sentimenti che egli seppe poi trasfonder nelle poesie dell’età più matura; e come spesso accanto al sorriso amaro ed alla ilarità festiva, si rivelino concetti di alta ispirazione morale. Il Giusti non faceva più caso di questi Versi, e ne sia segno l’averne ripetuti alcuni che più gli piacevano in altri Componimenti scritti dappoi: si pensò per altro di doverne arricchire questa Raccolta, sebbene nel cercare fra le carte lasciate dal Poeta, si procurasse di non far fascio di ogni erba, ma bensì ghirlanda d’ogni fiore.
Ecco quanto era d’uopo che il lettore sapesse sul metodo usato nell’ordinare questa compiuta Raccolta dei Versi del Giusti; ma perchè questa breve avvertenza non sia un’arida storia delle ragioni dell’edizione, ma contenga pure quel tanto che il Giusti volle far sapere al pubblico intorno ai suoi Versi, si crede utile di riprodurre in queste prime pagine del libro, non solo le due Prefazioni che l’Autore appose alle Edizioni di Bastia e di Firenze, ma ben anche i frammenti di un’altra Prefazione che il Poeta apparecchiava per una compiuta ristampa delle sue Poesie.
Cominciamo dalla Prefazione premessa dal Giusti all’edizione di Bastia del 1845.
« Lettore: se dovessi dirti come mi sia nata nella testa questa maniera di scrivere, non saprei da che parte rifarmi, tante sono state le combinazioni. La natura, come dà a ciascuno di noi un aspetto, un andare, un fare tutto proprio, così vuole che ognuno mandi in giro le sue opinioni vestite alla casalinga. Io non ho avuto mai altro partito che quello del mio paese; e freddo come un marmo per tutte le sétte, m’ha fatto compassione egualmente chi alza una bandiera per calpestarlo, o chi l’alza per farlo riavere senza cognizione di causa e senza virtù. Se tu sai che cos’è popolo, e sai pensare col popolo, ti troverai d’amore e d’accordo con questi versi: se poi mi vai nelle nuvole, o mi caschi nel fango, come fanno parecchi, io non istarò a combattere le tue opinioni, ma solamente ti dirò che ci parleremo nudi là nella valle di Giosafat. Se mi domandi il fine che mi sono proposto, nessun altro fine, ti risponderò, che quello di fare una protesta: che tu non m’abbia a prendere per uno di quei che presumono di rimettere il mondo a balia.
» Se tagliato unicamente a spassarti, non andare più in là di questa pagina, perchè un riso nato di malinconia potrebbe farti nodo alla gola, e me ne dispiacerebbe per te e per me. Se poi ti s’è dato il caso di scioglierti con una crollata di testa dal pensiero delle tue miserie, vieni pure con me, e seguita a crollarla amorevolmente sulle miserie comuni.»
All’edizione dei Nuovi Versi, fatta in Firenze dal Baracchi nel 1847, il Giusti aveva apposto il seguente avviso.
« Quando i miei scherzi giravano ex lege, parecchi tra Stampatori e Libraj fecero a confidenza col pubblico e con me, stampando in un fascio roba mia e non mia, lieti di potere accozzare un libro pur che fosse, e di mandarlo fuori col mio nome o espresso o sottinteso. Da un lato, sento che mi corre l’obbligo d’esser grato a questa, dirò, impazienza, che solletica dolcemente il debole del Poeta; dall’altro, l’amore di Padre s’è risentito più volte, vedendo che taluno nel prendere in collo que’ poveri orfani vagabondi, me gli ha storpiati e tartassati senza garbo nè grazia. In questi tempi di fratellanza, non farò rimprovero a nessuno; solamente, se fosse possibile, direi che da qui innanzi ognuno stesse sul suo, e chi ha avuto ha avuto.
» Non s’abbiano a male gli Autori dei componimenti attribuiti a me, se io protesto di non riconoscere per cose mie altro che i trentadue Scherzi, contenuti nell’edizione di Bastia, fatta dal Fabiani nel 1845; quelle sei poesie stampate a Livorno dall’Antonelli; L'Amor pacifico pubblicato da Le Monnier; le due coserelle inserite nell’Italia; il Congresso de’ Birri, e l’Ode a Leopoldo Secondo, stampati dal Baracchi, successore del Piatti. Questo schiarimento è necessario per essi e per me, perchè alcuni di que’ loro componimenti essendo stati lodati, non è giusta che essi li perdano nè che io li guadagni.
» Questi che do fuori adesso, sono stati messi insieme in due anni; e se a taluni paressero un po’ serotini, parte n’ha colpa la lima, parte l’infingardaggine, e parte certi ostacoli che ora grazie a Dio non esistono più.
» Sento che questo modo di poesia comincia a essere un frutto fuor di stagione, e vorrei elevarmi all’altezza delle cose nuove che si svolgono davanti ai nostri occhi con tanta maestà d’andamento; ma l’ingegno, avvezzo a circoscriversi nel cerchio ristretto del No, chi mi dice che abbia tanto vigore da rompere la vecchia pastoia e spaziare in un campo più largo e più ubertoso? Se mi darà l’animo di poterlo tentare, certo non me ne starò; se poi non mi sentissi da tanto, non avrò la caponeria d’ostinarmi a suonare a morto, in un tempo che tutti suonano a battesimo.»
A queste due Prefazioni lasciò scritta il Poeta una giunta, che non sarà discaro al lettore il vedere qui riferita.
«Da queste due Prefazioni, che ho ritoccate nella dicitura guardandomi di alterarne la sostanza, apparirà manifesto quale sia stato l’animo mio anche molti e molti anni prima del 1848. Non ho altro da aggiungere se non che io, quanto alle opinioni manifestate, non rifiuto e non rifiuterò mai una sillaba di tutto ciò che ho scritto; quanto poi a ciò che riguarda l’arte, bisognerebbe che io dessi di frego a parecchi di questi componimenti, e che sottoponessi tutti gli altri a una lavanda generale e accuratissima. Questo genere di poesia, giusto appunto perchè può avvantaggiarsi di tutta la lingua scritta e di tutta la lingua parlata, se non è trattato in modo schietto e aperto tanto per il lato del pensiero quanto per quello della parola, fa l’effetto che suol fare uno che non sia chiamato a dire facezie, e che voglia fare il lepido a ogni costo.»
La Prefazione che il Giusti pensava di far precedere ad una compiuta ristampa dei suoi versi, è la seguente, visibilmente scritta nell’aprile del 1848.
« Ecco la quarta o la quinta edizione d’un libro il quale mesi sono aveva del nuovo tuttavia, e che adesso parrà di certo un vecchiume. Così vanno le cose di questo mondo; e i libri, come gli uomini, oggi ridono di gioventù e sono pieni dell’avvenire, domani s’afferrano al presente che sfugge loro di mano, più tardi non vivono che di sole memorie. Io non mi pentirò d’avere scritti questi versi, perchè quando gli scrissi, credo che bisognasse scriverli; ma dirò schiettamente che molti uomini e lo stesso animo mio si sono migliorati sotto la penna; ond’è che volendo fare le parti giuste e contentare la natura migliore che s’è riavuta in me, dovrei ora a parecchie punture portare la mano carezzevole e spargervi sopra un qualche lenitivo di lode. Non avendo odiato mai nessuno, perchè dovrei ostinarmi a straziare chi s’è corretto, se io appunto non desiderava altro che tutti ci correggessimo? È vero che agli errori e ai vizi di tempo fa, sono succeduti i vizi e gli errori delle cose recenti; ma io lieto di vedere aperta la via del bene, non ho più cuore di menare attorno la frusta, e col mio paese ringiovinito ritorno anch’io ai sogni sereni e alla fede benigna della primissima adolescenza. E questa fede, posso dire non essersi spenta mai nell’animo mio; e il non aver derisa la virtù, e la stessa mestizia del verso sdegnoso, spero che valga a farmene larghissima testimonianza. Dirò di più, che essa, oltre all’avermi salvato dal tacere e dal disperare obbrobriosamente, m’è valsa più e più volte a precorrere gli eventi; e di qui è nato che molte delle mie visioni poetiche hanno preso carne e figura tra gli uomini, dopo due, tre e quattro anni, che io me l’era fantasticate tra me e me. Ma l’amore dell’arte che ha potuto in me quanto l’amore del mio paese (perocchè io non so dividere ciò che la natura ha unito, e il buono e il bello si tengono per mano e sono anzi una cosa sola), l’amore dell’arte, diceva, m’ha trattenuto sul tavolino parecchie di queste fantasie; alle quali se avessi dato il volo quando avevano tuttavia i bordoni, avrebbero i fatti vegnenti annunziati, come le rondini annunziano la primavera e come le lucciole il granire della messe. E ciò come non induce superbia in me, così non deve indurre maraviglia nel mio lettore; perocchè, come nel corpo umano il riprendere della salute si manifesta o per il colorito delle guancie, o per la vivezza dell’occhio, o per la speditezza del passo, così il risorgere d’una nazione apparisce a diversi segni nei diversi individui che la compongono. Io, scrivendo come ho scritto, non ho inventato nulla, e non ci ho messo di mio altro che il vestito: l’ossa e le polpe me le ha date la nazione medesima; e pensando e scrivendo, non ho fatto altro che farmi interprete degli sdegni e delle speranze che mi fremevano d’intorno. E la mia nazione ha fatto buon viso a’ miei scritti, come a persona di conoscenza; e, com’è solito fare chi vive nell’abbondanza, ha voluto con bella cortesia chiamarmi ricco della sua stessa ricchezza. Ora che essa spande da sè la larga vena dei suoi tesori, e che il popolo, eterno poeta, ci svolge dinanzi la sua maravigliosa epopea, noi miseri accozzatori di strofe, bisogna guardare e stupire, astenendoci religiosamente d’immischiarsi oltre nei solenni parlari di casa. L’inno della vita nuova si accoglie di già nel vostro petto animoso, o giovani, che accorrete nei Campi Lombardi a dare il sangue per questa terra diletta. Ed io ne sento il preludio e ne bevo le note con tacita compiacenza. Toccò a noi il misero ufficio di sterpare la via, tocca a voi quello di piantarvi i lauri e le quercie, all’ombra delle quali proseguiranno le generazioni che sorgono. Lasciate, o magnanimi, che un amico di questa libertà che vi inspira la impresa santissima, baci la fronte e il petto e la mano di tutti voi. L’Italia adesso è costà: costà, ove si stenta, ove si combatte, e ove convengono da ogni lato, quasi al grembo della madre, i figli non degeneri, i nostri primogeniti veri. . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
Il manoscritto originale non dà compiuta questa Prefazione; ma come conchiusione di quel più che il Giusti avrebbe detto, sta bene di pubblicare le seguenti parole, le quali è manifesto essere state scritte da lui perchè fossero note all’Italia. Da questa breve dichiarazione ispirata da un generoso sdegno, apparirà inoltre il perchè siansi esclusi da questa Raccolta certi componimenti che furono scritti dal Giusti, e che andarono sotto il suo nome nelle diverse edizioni dei suoi versi.
« Ecco le poche parole che avrei fatte precedere ai miei Versi, risparmiando a me e al lettore le smorfie e le lungaggini d’una prefazione; ma le garbatezze fatte da due anni in qua a questi poveri Scherzi da certa buona gente di Lugano mi sforzano ad aggiungere due altre righe di ringraziamento.
» Questi onesti tipografi raggranellarono di qua e di là tutto quel po’ che poterono, e appena messo insieme il quaderno, senza badare se le cose raccolte erano o non erano mie, erano o non erano corrette, le pubblicarono a onore e gloria del mio Signor Me; e rimettendoci un tanto di tasca, come hanno assicurato, e come tutti credono fermamente. Per rimediare alle omissioni (io direi spropositi) della prima edizione, ne mandaron subito fuori un’altra, e il rimedio fu peggiore del male, e il furto fu scontato col latrocinio, protestando sempre che tutto era fatto per il mio decoro, per l’utile del paese e per altre dieci belle cose di questo genere, colla buona fede che è dote speciale degli Stampatori, e segnatamente di quelli che stanno sui confini, stanza prediletta di tutti i contrabbandieri. Dopo un anno e più di respiro, eccoti fuori la terza edizione fatta a Lugano come le altre sorelle, ma colla data di Bruxelles, che si potrebbe credere esservi stata messa per pudore, se il pudore stesse di casa coi galantuomini che ho nominati di sopra. In questa come nelle altre, sono le solite stroppiature, il solito miscuglio degli Ebrei coi Samaritani, manifesta insomma la somma perizia nell’arte e l’onestà di ventiquattro carati che distingue l’Editore e tutti coloro che gli tennero il sacco. Ma tra gli altri regali che m’hanno fatto questi Apostoli della mia fama, il più bello, il più onesto, il più caro di tutti, è quello d’otto o dieci composizioni che ho rifiutate e d’altrettante che non sono mie per nulla. Le rifiutate sono: — La Mamma educatrice — Un insulto d’apatia — Il mio nuovo amico — Il Cholera — Professione di fede alle Donne — Tirata a Luigi Filippo — Ricotta — L’Ave Maria — e Parole d’un Consigliere al suo Principe, — tutte scritte a diciott’anni, quando ero una mosca senza capo più assai che non sono adesso.
» Quelle fatte da altri sono: Il Creatore e il suo mondo — Il Giardino — Il fallimento del Papa — Come vanno le cose — Consigli del mio nonno — Una Marchesa — Per la soppressione dell'Antologia, — e finalmente poi un infame e miserabilissimo Sonetto in onta di Pietro Contrucci, del quale mi compiaccio d’essere amico e che di certo non mi crede capace d’una bassezza simile.
» Avrei menato buono tutto agli Editori Luganesi, perchè in fondo una parte della colpa era mia, un po’ per aver lasciati girare gli Scherzi, un po’ per non averli pubblicati prima; ma questa d’attribuirmi un’infamia come quel Sonetto, infamia di stile e di pensiero, senza sapere che contristavano a nome mio l’animo d’un uomo al quale sono debitore di mille garbatezze e d’un’amicizia non ismentita mai, e che credo migliore di molti altri che gli gridano la croce addosso, è un’ingiuria che non ho potuto comportare e della quale intendo di reclamarmi al cospetto di tutta l’Italia. Del resto
- Rubino i ladri, — è il lor dovere: il mio
- È di schernirli.»
Per la storia poetica dell'ingegno di Giuseppe Giusti, che si rivela in un continuo e mirabile perfezionamento di forme e di concetti, e per la stessa intelligenza dei singoli componimenti, i quali furon quasi sempre ispirati da idee e fatti contemporanei, gioverà al lettore il seguente Indice cronologico di tutte le poesie comprese in questa Raccolta. La data apposta indica l’epoca nella quale il componimento fu scritto o almeno divulgato. La maggior parte di queste epoche si ricavò dai manoscritti originali dell'Autore, ed ove fu necessario ricorrere a congetture si avvertì con un segno (?). Se a questo Indice non sempre corrisponderà la sede dei componimenti in ciascuna delle tre serie nelle quali va divisa la presente pubblicazione dei Versi del Giusti, ne fu causa l’aver voluto mantenere per quanto si poteva l'ordine che il Poeta stesso avea dato all'Edizione che stava apparecchiando.
- 1829? Sonetto «Così di giorno in giorno inoperoso.»
- 1829. — «China alla sponda dell’amato letto.»
- 1830. — «Per occulta virtù che dall’aspetto.»
- 1831. — «Poichè m’è tolto saziar la brama.»
- 1831. — «Da questi colli i miei desiri ardenti.»
- 1831? In morte d’una Sorella di latte.
- 1833? Alla memoria di Carlo Falugi.
- 1833. La Guigliottina a vapore.
- 1833. Rassegnazione e Proponimento di cambiar vita.
- 1834. Al P. Bernardo da Siena, predicatore.
- 1834? «Questa nuova Susanna a cui d’intorno.» Frammento.
- 1835. Il Dies iræ.
- 1835. Legge penale per gl’Impiegati.
- 1836. All'Amica lontana.
- 1836. Lo Stivale.
- 1836. A Giovan Battista Vico.
- 1837. La Fiducia in Dio.
- 1837. A San Giovanni.
- 1837. All'amica Amalia Rossi Restoni, per la nascita del di lei primo figlio.
- 1838. Brindisi.
- 1838. Apologia del Lotto.
- 1838. L'Incoronazione.
- 1839. La Vestizione.
- 1839. Preterito più che perfetto del Verbo Pensare.
- 1839. Affetti d’una Madre.
- 1839. Per il primo Congresso dei Dotti, tenuto in Pisa nel 1839.
- 1840. Il Brindisi di Girella.
- 1840. Il Sospiro dell'anima.
- 1841. A un Amico.
- 1841? Per un reuma d’un Cantante.
- 1841? Gli Umanitari.
- 1841? A Girolamo Tommasi. Origine degli Scherzi.
- 1841. All'Amico nella primavera del 1844.
- 1841. La Chiocciola.
- 1841. Il Ballo.
- 1841. Le Memorie di Pisa.
- 1841. La Terra dei Morti. A G. C.
- 1841. Il Mementomo.
- 1841. Il Re Travicello.
- 1841. Nell’occasione che fu scoperto a Firenze il vero Ritratto di Dante fatto da Giotto.
- 1841. La Scritta.
- 1841. Avviso per un settimo Congresso che è di là da venire.
- 1841. Ad una Giovinetta.
- 1841. Gl'Immobili e i Semoventi.
- 1841. In occasione delle Feste triennali di Pescia.
- 1841. Per la morte dell’unica figlia di Urania e Marco Masetti.
- 1843? I Brindisi.
- 1844. L'Amor pacifico.
- 1844. Il Poeta e gli Eroi da poltrona.
- 1844. I trentacinque anni.
- 1844? «Tacito e solo in me stesso mi volgo.»
- 1844. «Con la fida lucerna.» Frammento.
- 1845. I Grilli.
- 1845? «La nomèa di poeta e letterato.»
- 1845? «A notte oscura e per occulta via.»
- 1845. Il Papato di Prete Pero.
- 1845. Gingillino.
- 1845? Una levata di cappello involontaria.
- 1845? Contro un Letterato pettegolo e copista.
- 1845. Il Giovinetto. (Novembre.)
- 1846. Il Sortilegio.
- 1846. La Guerra. (1 Maggio.)
- 1846. Sant’Ambrogio. (Ottobre.)
- 1846. La Rassegnazione. (Decembre.)
- 1846. Il Delenda Cartago. (Decembre.)
- 1847. A Gino Capponi. (Gennaio.)
- 1847. Al medico Carlo Ghinozzi. (Marzo.)
- 1847. I Discorsi che corrono.
- 1847. Storia contemporanea. (Settembre.)
- 1847. Alli Spettri del 4 Settembre.
- 1847. Istruzioni a un Emissario.
- 1847. Consiglio a un Consigliere. (Ottobre.)
- 1847. Il Congresso de' Birri. (Novembre.)
- 1847. A Leopoldo Secondo. (Novembre.)
- 1848. La Repubblica, a Pietro Giannone. ( Settembre.)
- 1848. «Vent'anni son trascorsi.» Frammento. (Novembre.)
- 1848. «Per poco accanto a te, quasi smarrito.» (Novembre.)
- 1848. Dello scrivere per le Gazzette.
- 1848? A uno Scrittore di Satire in gala.
- 1848. «Di tenersi nel confine.» Frammenti.
- 1848. «Che i più tirano i meno è verità.»
- 1848. A Dante.
- 1848.-1849. Quattro Epigrammi.
- 1849? «Felice te che nella tua carriera.»
- 1849? «Se leggi Ricordano Malespini.»
- 1849. «Signor mio, Signor mio, sento il dovere.» (Decembre.)
Note
- ↑ È incredibile la negligenza, per non dir peggio, colla quale gli Editori pubblicarono i Versi di Giuseppe Giusti. Nell’edizione colla data d’Italia 1845, oltre una serie di componimenti che si qualificano come attribuiti al Giusti, ve ne ha un’altra che comprende poesie attribuitegli per isbaglio, e sono alcuni dei versi più belli che il Giusti scrivesse. Nelle due edizioni colla falsa data di Bastia 1849 e 1850, che pur s’intitolano — rivedute, corrette ed ampliate, — oltre una serie di componimenti che si confessano apocrifi, altre poesie vi si leggono col nome di altro autore. Così si provvede in Italia alla fama degli scrittori ed alla dignità delle lettere.
- ↑ Vedi la Nota bibliografica a pag. xix.