Versi editi ed inediti di Giuseppe Giusti/La Vestizione
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LA VESTIZIONE.
Quando s’aprì rivendita d’onori,
E di croci un diluvio universale
Allagò il trivio di Commendatori;
Quando nel nastro s’imbrogliaron l’ale
L’oche, l’aquile, i corvi e gli sparvieri;
O, per parlar più franco e naturale,
Quando si vider fatti cavalieri
Schiume d’avvocatucci e poetastri,
Birri, strozzini ed altri vituperi;
Tal che vedea la feccia andare agli astri,
Nè un soldo sciupò mai per tentar l’ambo
Al gran lotto dei titoli e dei nastri,
Nel cervellaccio imbizzarrito e strambo
Sentì ronzar di versi una congerie:
E piccato di fare un ditirambo,
Senza legge di forme o di materie,
Le sacre mescolò colle profane
E le cose ridicole alle serie.
Parole abburattate e popolane,
Trivialità cucì, convenïenti
A celebrar le gesta paesane,
E proruppe da matto in questi accenti,
Ai retori lasciando e a’ burattini
Grammaticali ed altri complimenti.
Rôsa da nobiltà senza quattrini
Casca la vecchia Tavola, e la nuova
È una ladra genia di Paladini.
Tanta è la sua viltà che non ne giova:
E i bottegai de’ titoli lo sanno,
Ma tiran via perchè gatta ci cova.
Come di Corte riempir lo scanno
Che vuotan Conti tribolati? e come
Le forbici menar se manca il panno?
Volle di Cavalier prendere il nome,
Spazzaturaio d’anima, un Droghiere:
Bécero si chiamò di soprannome.
In diebus illis girò col paniere
A raccattare i cenci per la via,
Da tanto ch’era nato Cavaliere.
Trovo che fece anco un sinsin la spia.
Poi, come non si sa, l’ipotecario;
Di questo passo aprì la Drogheria.
E coll’usura e facendo il falsario,
Co’ frodi e con bilance adulterate,
Gli venne fatto d’esser milionario.
Volle, quand’ebbe i rusponi a palate,
Rubar fin la collottola al capestro,
E col nastro abbuiar le birbonate.
D’un Balì che di Corte è l’occhio destro
Dette di frego a un debito stantìo,
E quei l’accomodò col Gran Maestro.
Brillava a festa la casa d’Iddio
Tra il fumo degl’incensi e i lampadari:
D’organi e di campane un diavolìo
Chiamava a veder Bécero agli altari
A insudiciare il sacro ordin guerriero
Che un tempo combattè contro i Corsari.
A lui d’intorno il Nobilume e il Clero
Le parole soffiandogli ed i gesti,
In tutti lo ciurmavan Cavaliero.
Tra i Preti, tra i Taù1 con quelle vesti,
Alterar si sentì la fantasia,
Nè gli pareano più quelli nè questi;
Ma li vedea mutar fisonomia,
E dall’altar discendere e svanire
Le immagini di Cristo e di Maria.
Era la Chiesa un andare e venire
Di fieri spettri e d’orribili larve,
Con una romba da farlo ammattire.
Crollò il Ciborio, si divelse e sparve;
E nel luogo di quello una figura
Magra e d’aspetto tisico gli apparve.
In mano ha la cambial, dalla cintura
Di molti pegni un ordine pendea:
La riconobbe tosto per l’Usura
Dalla pratica grande che n’avea:
Vide prender persona i candelieri,
E diventar di scrocchi un’assemblea.
Parean Nobili tutti e Cavalieri,
E d’accordo gridavano al fantasma:
«Mamma, Pisa per voi doventa Algeri.»2
Com’uom che per mefitico mïasma
Anela e gronda d’un sudor gelato,
O come un gobbo che patisce d’asma,
Bécero si sentì mozzare il fiato:
Alzossi e per fuggir volse le spalle,
Ma gli treman le gambe, e d’ogni lato
Di strane torme era stipato il calle.
Grullo, confuso
Rimase lì;
Col manto il muso
Si ricoprì.
Da quella faccia
Che lo minaccia
Celarsi crede,
Ma sempre vede
Cose d’inferno
Coll’occhio interno
Della paura,
Che non si tura.
Ansi, raccolto
In sè medesimo,
Si sentì l’animo
Viepiù sconvolto.
E di più nere immagini
Gli si turbò la mente:
Sognò l’accusa, il carcere,
La Corte, il Presidente;
In banco di vergogna
Sedè coi malfattori;
Udì parlar di gogna,
Di pubblici lavori.
Tosato, esposto al popolo,
Ai tocchi d’un battaglio,
L’abito nobilissimo
Cangiò colore e taglio:
La croce sfigurata
Pareva un cartellaccio,
Lo sprone un catenaccio,
La spada una granata.
Poi vide un’alta macchina,
Un militar corteo;
Fantasticò d’ascendere
Su per uno scaleo;
E sotto, una gran folla;
Allato, un Cappuccino;
Fu messo a capo chino,
E udì scattar la molla.
Parvegli a quello scatto
Sentire un certo crollo,
Ch’alzò le mani a un tratto
Per attastarsi il collo.
Ma in quel punto una mano scettrata
Gli calò sulla testa nefaria:
Allo strano prodigio, incantata
La mannaia rimase per aria.
Viva, viva, gridava il buglione,
La giustizia del nostro Solone;
Se protegge chi ruba e chi gabba,
Muoia Cristo, si sciolga Barabba.
Di sotto la toga
Che quasi l’affoga
La testa levò;
D’intorno girò
Quegli occhi di falco;
E allor gli s’offerse
D’Altare, di Palco,
D’Usura, di Cristo,
Un vortice, un misto
Di cose diverse.
Così del malato
Non bene svegliato,
Col falso e col vero
Combatte il pensiero,
Guizzando nel laccio
Di qualche sognaccio.
E già la visïon si disciogliea,
Quando da un lato della Chiesa sente
Incominciare un canto, e gli parea
Superbo nel concetto e impertinente.
Si volta, e vede in aulica livrea
Gente che incoccia maledettamente
D’esser di carne come tutti siamo,
E vorrebbe per babbo un altro Adamo.
Vedea sbiadito il nastro degli occhielli,
E la fusciacca doventata bieca;
Uniformi ritinte, e de’ gioielli
Il bugiardo baglior che non accieca.
Else e crascià riconoscea tra quelli,
E spallette tenute in ipoteca,
E Marchesi mandati in precipizio;
E più visi di bue che di patrizio.
(Qui ci vuole un certo imbroglio —
Di sussiego e di miseria,
E il frasario dell’orgoglio
Adattato alla materia.
Fatto mantice, il polmone
Spiri vento di Blasone.
Ma di modi arcigni e tronfi
Non ho copia in casa mia,
Nè un bisnonno che mi gonfi
Di fastosa idropisia,
E un linguaggio da strapazzo
Ascoltai fin da ragazzo.
Se il poetico artifizio
Non m’aiuta a darmi l’aria
D’uno sbuffo gentilizio,
Colpa d’anima ordinaria.
Proverò se ci riesco.)
Lo squadravano in cagnesco
E diceano: un mercatino
Che il paese ha messo a rubba,
Un vilissimo facchino
Si nobilita la giubba,
E dal banco salta fuori
A impancarsi co’ Signori?
Si vedrà dunque un figuro,
Nato al fango e al letamaio,
Intorbare il sangue puro
Col suo sangue bottegaio?
E farà questo plebeo
Tanto insulto al Galateo?
Usuraj crucesignati
Che si comprano di lei,
Tra i patrizi scavalcati
Passeranno in tiro a sei
A esalar l’anima ciuca
A sinistra del Granduca?
Rifiniti dal mestiere,
C’è chi paga i Ciambellani
Con un calcio nel sedere;
E rifà di pelacani,
Che il delitto insignorì,
Il vivaio dei Balì.
E di più, ridotto a zero
Il patrizio è condannato
A succhiarsi il vitupero
Di vestir chi l’ha spogliato,
A ridursi sulla paglia
Per far largo alla canaglia.
Se vien voglia ai morti eroi
Dell’avita abitazione,
Oramai, siccome noi
Si tornò tutti a pigione,
Cerchi l’anima degli avi
Il birbon che n’ha le chiavi.
Di questa antifona
L’onda sonora
Su per la cupola
Tremava ancora;
L’illustre bindolo
A capo basso
Parea Don Bartolo
Fatto di sasso:
Quand’ecco a scuoterlo
Dal suo stupore
Un nuovo strepito,
Un gran rumore.
Come pinzochera
Che il mondo inganna,
Di dentro Taide,
Di fuor Susanna,
Si sogna i diavoli
Montati in furia,
Dopo la predica
Sulla lussuria;
Così, coll’animo
Sempre alterato,
Tutto Camaldoli,
Tutto Mercato,
Vedea concorrere
In una lega,
Portando l’alito
Della bottega;
Sbracciati, in zoccoli,
E scalzi e sbrici,
E musi laidi
Di vecchi amici;
E Crezie e Càtere,
E Bobi e Beco,3
Su per le bettole
Cresciuti seco.
Questa combriccola
Strana di gente
Agglomerandosi
Confusamente,
Lasciate le idee,
Le frasi ampollose,
Con urla plebee
Rincara la dose,
E lo striglia così nel suo vernacolo
Senza tanto rispetto al Tabernacolo.
Salute a Bécero,
Viva il Droghiere;
Bellino, in maschera
Di Cavaliere!
O come domine,
Se giorni sono
Vendevi zenzero
Per pepe bono,
Oggi ci reciti
Col togo addosso
Questa commedia
Del cencio rosso?
Ah, tra lo zucchero,
Col tuo pestello,
Eri in carattere,
Eri più bello!
Or tra lo strascico
E l’albagìa
Un chiappanuvoli
Par che tu sia.
Eh torna Bécero,
Torna Droghiere,
Leva la maschera
Di Cavaliere.
Se per il solito
Quando ragioni
Dici spropositi
Da can barboni,
Come discorrere
Potrai con gente
Che saprà leggere
Sicuramente?
Ah torna Bécero,
Torna Droghiere,
Leva la maschera
Di Cavaliere.
Se schifo ai nobili
Non fa la loia
Di certi ciaccheri
Scappati al boia;
Se i Preti a crederti
Son tanto bovi,
Con codest’anima
Che ti ritrovi;
Se per lo scandalo
Dì questa festa
Non ti precipita
La Chiesa in testa;
O in oggi ha credito
Lo sbarazzino,
O Santo Stefano
Tira al quattrino.
Ma noi che fécemo4
Teco il mestiere,
S’ha a dir lustrissimo?
L’aresti a avere!
Un rivendugliolo
Rimpannucciato
Ci ha a stare in aria?
Va via sguaiato!
Va colle logiche,5
Va pure assieme;
Che tu ci bazzichi
Non ce ne preme.
Ma se da ridere,
Po’ poi, ci scappa
Di te, del ciondolo,
E della cappa,
Non te ne prendere,
Non far cipiglio;
Sai di garofani
Lontano un miglio.
Tientene, Bécero;
Gonfia, Droghiere:
Se’ bello in maschera
Di Cavaliere!
Tacquero: e gli parea che ad una voce
Ripigliasser le genti ivi affollate:
— Se dalla forca ti salvò la croce,
Non ti potrà salvar dalle frustate. —
Indi ogni larva se n’andò veloce,
Finì la ceremonia e le fischiate;
E su in ciel Santo Stefano si lagna
Di vedere un Pirata in Cappamagna.