Versi editi ed inediti di Giuseppe Giusti/Nell'occasione che fu scoperto a Firenze il vero ritratto di Dante fatto da Giotto

Nell’occasione che fu scoperto a Firenze il vero ritratto di Dante fatto da Giotto

../Il Re Travicello ../La Scritta IncludiIntestazione 12 novembre 2020 100% Da definire

Nell’occasione che fu scoperto a Firenze il vero ritratto di Dante fatto da Giotto
Il Re Travicello La Scritta
[p. 132 modifica]

NELL’OCCASIONE

CHE FU SCOPERTO A FIRENZE IL VERO RITRATTO DI DANTE

FATTO DA GIOTTO.



Qual grazia a noi ti mostra,
     O prima gloria italica, per cui
     Mostrò ciò che potea la lingua nostra?
     Come degnasti di volgerti a nui
     Dal punto ove s’acqueta ogni desio?
     Tanto il loco natio
     Nel cor ti sta, che di tornar t’è caro
     Ancor nel mondo senza fine amaro?

Ma da seggio immortale
     Ben puoi rieder quaggiù dove si piange;
     Tu sei fatto da Dio, sua mercè, tale,
     Che la nostra miseria non ti tange.
     Soluto hai nelle menti un dubbio grave,
     E quel desio soave
     Che lungamente n’ha tenuti in fame,
     Di mirar gli occhi tuoi senza velame.

Nel mirabile aspetto
     Arde e sfavilla un non so che divino
     Che a noi ti rende nel vero concetto:
     A te dinanzi, come il pellegrino
     Nel tempio del suo voto rimirando,
     Tacito sospirando,
     Sento l’anima mia che tutta lieta
     Mi dice: or che non parli al tuo Poeta?

[p. 133 modifica]


Diffusa una serena
     Mestizia arde per gli occhi e per le gene,
     E grave il guardo e vivido balena
     Come a tanto intelletto si conviene;
     E nello specchio della fronte austera,
     Qual sole in acqua mera,
     Splende l’ingegno e l’anima, sicura
     Sotto l’usbergo del sentirsi pura.

Tal nella vita nuova
     Fosti, e benigne stelle ti levaro
     Di cortesia, d’ingegno in bella prova,
     E di valor, che allora ivan del paro.
     Così poi ti lasciò la tua diletta,
     La bella giovinetta,
     Nella selva selvaggia incerto e solo,
     Armandoti le penne a tanto volo.

Così fermo e virile
     Frenar tentasti il tuo popolo ingiusto;
     Così, cacciato poi del bello ovile,
     Mendicasti la vita a frusto a frusto,
     Ben tetragono ai colpi di ventura;
     E della tua sciagura
     Virtù ti crebbe, e potè meglio il verso
     Descriver fondo a tutto l’Universo.

Solingo e senza parte
     Librasti in equa lance il bene e il male,
     E nell’angusto circolo dell’arte
     Come in libero ciel spiegasti l’ale.
     Novella Musa ti mostrava l’Orse,
     E fino a Dio ti scôrse
     Per lo gran mar dell’essere l’antenna,
     Che non raggiunse mai lingua nè penna.

[p. 134 modifica]


Sempre più c’innamora
     Tua visïon che poggia a tanta altezza:
     Nessun la vide tante volte ancora,
     Che non trovasse in lei nuova bellezza.
     Ben gusta il frutto della nuova pianta
     Chi la sa tutta quanta;
     In lei si specchia cui di ben far giova,
     Per esempio di lei Beltà si prova.

Forse intera non vedo
     La bellezza ch’io dico, e si trasmoda
     Non pur di là da noi; ma certo io credo
     Che solo il suo Fattor tutta la goda.
     E così cela lei l’esser profonda:
     E l’occhio che per l’onda
     Di lei s’immerge prova il suo valore;
     Tanto si dà quanto trova d’ardore.

Per mille penne è tôrta
     La sua sentenza; e chi là entro pesca,
     Per gran sete d’attingere vi porta
     Ambagi e sogni onde i semplici invesca.
     Uno la fugge, un altro la coarta,
     O va di carta in carta
     Tessendo enimmi, e sforza la scrittura
     D’un tempo che delira alla misura.

Per arte e per inganno
     Di tal cui sol diletta il pappo e il dindi,
     Mille siffatte favole per anno
     Di cattedra si gridan quinci e quindi:
     O di te stesso guida e fondamento,
     Ai pasciuti di vento
     Dirai che indarno da riva si parte
     Chi cerca per lo vero e non ha l’arte.

[p. 135 modifica]


Ben v’ha chi sente il danno,
     E chi si stringe a te, ma son sì pochi
     Che le cappe fornisce poco panno:
     Padre, perdona agl’intelletti fiochi,
     Se tardo orecchio ancor non ha sentito
     Tuo nobile ruggito;
     Se fraude spiuma, se iattanza veste
     D’ali di struzzo l’aquila celeste.

Io, che laudarti intendo
     Veracemente, con ardito innesto,
     Tremando all’opra e diffidando, prendo
     La tua loquela a farti manifesto.
     Se troppa libertà m’allarga il freno,
     Il dir non mi vien meno:
     Lascia ch’io venga in piccioletta barca
     Dietro il tuo legno che cantando varca.

Maestro, o Signore,
     O degli altri poeti onore e lume,
     Vagliami il lungo studio e il grande amore
     Che m’han fatto cercar lo tuo volume.
     Io ho veduto quel che s’io ridico,
     Del ver libero amico,
     Da molti mi verrà noia e rampogna,
     O per la propria o per l’altrui vergogna.

Tantalo a lauta mensa
     D’ogni saper, vegg’io scarno e digiuno,
     Che scede e prose e poesie dispensa,
     E scrivendo non è nè due nè uno.
     Oimè, Filosofla, come ti muti,
     Se per viltà rifiuti
     De’ padri nostri il senno, e mostri a dito
     Il settentrïonal povero sito!

[p. 136 modifica]


Qui l’asino s’indraca
     Stolidamente, e con delirio alterno
     Vista la greppia poi raglia, si placa,
     E muta basto dalla state al verno.
     Libertà va gridando ch’è sì cara
     Ciurma ozïosa, ignara,
     E chi per barattare ha l’occhio aguzzo;
     Nè basta Giuda a sostenerne il puzzo.

L’antica gloria è spenta,
     E le terre d’Italia tutte piene
     Son di tiranni, e un martire doventa
     Ogni villan che parteggiando viene.
     Pasciuto in vita di rimorsi e d’onte,
     Dai gioghi di Piemonte,
     E per l’antiche e per le nuove offense
     Caina attende chi vita ci spense.

Oggi mutata al certo
     La mente tua s’adira e si compiagne
     Che il Giardin dell’Imperio abbia sofferto
     Cesare armato con l’unghie grifagne.
     La mala signoria che tutti accora
     Vedi come divora
     E la lombarda e la veneta gente,
     E Modena con Parma n’è dolente.

Volge e rinnova membre
     Fiorenza, e larve di virtù profila
     Mai colorando, che a mezzo novembre
     Non giunge quello che d’ottobre fila.
     Qual è de’ figli suoi che in onor l’ama,
     A gente senza fama
     Soggiace, e i vermi di Giustinïano
     Hanno fatto il suo fior sudicio e vano.

[p. 137 modifica]


Basso e feccioso sgorga
     Nel Serchio il bulicame di Borbone,
     E in quel corno d’Ausonia che s’imborga
     Di Bari, di Gaeta e di Crotone;
     E la bella Trinacrï

   
a consuma,

     Che là dov’arde e fuma
     Dall’alto monte vede ad ora ad ora
     Messo Palermo a gridar — mora, mora!

Al basso della ruota
     La vendetta di Dio volge la chierca:
     La gente che dovrebbe esser devota,
     Là dove Cristo tutto dì si merca,
     Puttaneggiar co’ regi al mondo è vista;
     Che di farla più trista
     In dubbio avidi stanno, e l’assicura
     Di fede invece la comun paura.

Del par colla papale
     Già l’ottomanna tirannia si sciolse,
     Là dove Gabriello aperse l’ale,
     E dove Costantin l’aquila volse.
     Forse Roma, Sionne e Nazarette,
     E l’altre parti elette,
     Il gran decreto, che da sè è vero,
     Libere a un tempo vuol dall’adultero.

Europa, Affrica è vaga
     Della doppia ruina; e le sta sopra
     Il Barbaro, venendo da tal plaga
     Che tutto giorno d’Elice si cuopra,
     E l’angla nave all’orïente accenna:
     Ma, lenta, della Senna
     Turba con rete le volubili acque
     La Volpe che mal regna e che mal nacque,

[p. 138 modifica]


E palpitando tiene
     L’occhio per mille frodi esercitato
     All’opposito scoglio di Pirene
     Delle libere fiamme inghirlandato,
     Temendo sempre alle propinque ville
     Non volin le faville
     Di spenta libertà sopra i vestigi,
     E d’uno stesso incendio arda Parigi.

Ma del corporeo velo
     Scarco, e da tutte queste cose sciolto,
     Con Beatrice tua suso nel Cielo
     Cotanto glorïosamente accolto,
     La vita intera d’amore e di pace
     Del secolo verace
     Ti svia di questa nostra inferma e vile;
     Sì è dolce miracolo e gentile.

E beato mirando
     Nel volume lassù triplice ed uno,
     Ove si appunta ogni ubi ed ogni quando,
     U’ non si muta mai bianco nè bruno,
     Sai che per via d’affanni e di ruine
     Nostre terre latine
     Rinnoverà, come piante novelle,
     L’Amor che muove il Sole e l’altre stelle.