Versi editi ed inediti di Giuseppe Giusti/La Scritta
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LA SCRITTA.
PARTE PRIMA.
Pesa i vecchi diplomi e quei d’ieri,
Di schietta nobiltà v’è carestia:
Dacchè la fame entrò ne’ Cavalieri,
La tasca si ribella all’albagia.
Ma nuovi sarti e nuovi rigattieri
A spogliare e vestir la signoria
Manda la Banca, e le raschiate mura
Ripiglian l’oro della raschiatura.
Poco preme l’onor, meno il decoro;
E al più s’abbada a insudiciare il grado:
Che se grandi e plebei calan tra loro
A consorzio d’uffici o a parentado,
Necessità gli accozza a concistoro
O a patto coniugal, ma avvien di rado
Che non rimangan gli animi distanti,
E la mano del cor si dà co’ guanti.
Un de’ nostri Usurai messe una volta
L’unica figlia in vendita per moglie,
Dando al patrizio che l’avesse tolta
Dello fraterne vittime le spoglie,
Purchè negli usci titolati accolta
Venisse, a costo di rifar le soglie,
E colle nozze sue l’opere ladre
Nobilitasse del tenero padre.
Era quella fanciulla uno sgomento:
Gobba, sbilenca, colle tempie vuote;
Un muso tutto naso e tutto mento,
Che litigava il giallo alle carote;
Ma per vera bellezza un ottocento
Di mila scudi avea tra censo e dote;
Per questo agli occhi ancor d’un gentiluomo
Parea leggiadra, e il babbo un galantuomo.
Non ebbe questi da durar fatica,
Nè bisognò cercar colla lanterna
Un genero, che in sè pari all’antica
Boria covasse povertà moderna;
Anzi gli si mostrò la sorte amica
Tanto, che intorno a casa era un’eterna
Folla d’illustri poveri di razza,
Che incrociarsi volean colla ragazza.
Di venti che ne scrisse al taccuino
A certi babbi-morti dirimpetto,
Un ve ne fu prescelto dal destino
A umilïare il titolo al sacchetto.
L’albero lo dicea sangue latino
Colato in lui sì limpido e sì pretto
Che dalla cute trapelava, e vuolsi
Che lo sentisse il medico da’ polsi.
La scritta si fissò lì sul tamburo:
E il quattrinaio, a cui la cosa tocca,
Dei parenti del genero futuro
Tutta quanta invitò la filastrocca.
Coi propri, o scelse, o stette a muso duro,
O disse per la strada a mezza bocca:
Se vi pare veniteci, ma poi
Non vi costringo.... in somma fate voi.
Un gran trepestio
S’udiva una sera
Di zampe e di ruote:
Con tal romorio
Lontana bufera
Gli orecchi percuote.
Gran folla di gente,
Saputa la cosa,
Al suono accorrea,
E tutta lucente
Brillar della sposa
La casa vedea.
La fila de’ cocchi
Solcava la strada
A perdita d’occhi:
Per quella contrada
Un ite e venite
Di turbe infinite;
Continuo lo strano
Vociar de’ cocchieri;
E in mezzo al baccano,
Tra torce e staffieri,
La ciurma diversa,
Plebea e signora,
Nell’atrio si versa
In duplice gora.
Là smonta la Dama,
E qua la pedina
Che adesso si chiama
O zia, o cugina;
Il gran Ciambellano
V’arriva da Corte,
E dietro un tarpano
Da fare il panforte.
Per lunghi andirivieni
Di stanze scompagnate
E di stambugi pieni
D’anticaglie volate,
Tra le livree di gala
S’imbocca in una sala,
A cera illuminata
Da mille candelieri,
Di mobili stivata
Nostrali e forestieri,
E carica d’arazzi
Vermigli e paonazzi;
Ricca d’oro e di molta
Varietà di tappeti.
Dipinta era la volta,
Dipinte le pareti
Di storie e di persone
Analoghe al padrone.
Era in quella pittura
Colla mitologia
Confusa la scrittura:
La colpa non è mia
Se troverai descritte
Cose fritte e rifritte.
Pagato tardi e poco
L’artista, e messo al punto,
Pensò di fare un gioco
A quel ciuco riunto,
E lì sotto coperta
Gli potè dar la berta.
Da un lato, un gran carname
Erisitone ingoia,
E dall’aride cuoia
Conosci che la fame
Coll’intimo bruciore
Rimangia il mangiatore.
Giacobbe un po’ più giù,
D’Erisitone a destra,
Al povero Esaù
Rincara la minestra;
Santa massima eterna
Di carità fraterna.
Ma dall’opposto lato
Luccica la parete
Di Giove, trasmutato
In pioggia di monete,
Che scende a Danae in braccio
Ad onta del chiavaccio.
Di là da Danae l’empio
Eliodoro è steso
Sulla soglia del tempio;
E un cavalier, disceso
Dal Ciel, pesta il birbante
Colle legnate sante.
Nel soffitto si vede
D’un egregio lavoro
Mida da capo a piede
Tutto coperto d’oro,
Che sta lì spaurito
Dal troppo impoverito.
Nel campo lentamente
In vista al vento ondeggia
La canna impertinente,
E più lunge serpeggia
Volubile sul suolo
Il lucido Pattôlo.
Fa contrapposto a Mida
La presa di Sionne:
Udir credi le strida
Di fanciulli e di donne,
E divampare il fuoco
Rugghiando in ogni loco;
E nell’orrida clade,
Di sangue e d’oro ingorde,
Fra le lance e le spade
Frugar colle man lorde
Per il ventre de’ morti
Le romane coorti.
La sposa in fronzoli
Sta là impalata,
Rimessa all’ordine
E ripiallata.
Tutte l’attorniano
Le donne in massa
Dell’alta camera
E della bassa.
Queste la pigiano,
La tiran via;
Quell’altre lisciano
Con ironia;
Essa si spiccica
Meglio che sa,
E si divincola
Di qua e di là.
Lo sposo a latere,
Ridendo a stento,
Succhia la satira
Nel complimento;
Ma, come l’asino
Sotto il bastone,
Si piega, e all’utile
Doma il blasone.
Legato e gonfio
Come un fagotto,
Con tutta l’aria
D’un gabellotto,
Ritto a ricerere
Sta l’Usuraio:
Ciarla, s’infatua,
È arzillo e gaio,
Par che dal giubilo
Non si ritrovi.
Cogl’illustrissimi
Parenti nuovi
Si sdraia in umili
Salamelecchi,
E passa liscio
Su quelli vecchi.
Anzi affacciandosi
Spesso al salone
Grida: «Ma diavolo.
» Che confusione!
» Ohè, rizzatevi
» Costà, Teresa;
» Date la seggiola
» Alla Marchesa.
» Su bello, Gaspero;
» Al muro, Gosto;
» Lesti, stringetevi,
» Sbrattate il posto.»
Quelli rinculano
Goffi e confusi,
In lingua povera
Dicendo: oh! scusi.
«Ma no, »ripiglia
La Dama allora,
« No, galantuomini;
» Chi non lavora
» Può star benissimo
» Senza sedere;
» Via, riposatevi,
» Fate il piacere.»
Così le bestie
Scansa con arte,
E va col prossimo
Dall’altra parte,
Ove una sedia
Le porge in guanti
Uno dei soliti
Micchi eleganti,
Che il gusto barbaro
Concittadino
Inciviliscono
Col figurino.
Sol con quei tangheri
Che stanno in piede,
Seduta a chiacchiera
Qua e là si vede
Qualche patrizia
Andata ai cani,
Più democratica
Co’ terrazzani.
Genio, che mediti
Di porre i sarti
Nell’accademia
Delle Bell’Arti;
A cui del cranio
Sopra le cuoia
Sfavilla l’organo
Della cesoia;
Reggi la bussola
Dell’estro gretto,
E colla critica
Dell’occhialetto
Profila i termini
Della distanza
Tra la goffaggine
E l’eleganza.
Là tra la ruvida
Folla spregiata,
Stretta negli angoli
E rinzeppata,
Vedresti d’uomini
Scorrette moli,
Piantate, immobili,
Come pioli;
Testoni, zazzere,
Panciotti rossi,
E trippe zotiche,
E cosi grossi.
Con un’indigena
Giubba a tagliere,
Ecco il quissimile
D’un cancelliere
Sotto le gocciole
D’una candela:
E con due classici
Solini a vela,
Una testuggine
Che si ripone
Nel grave guscio
D’un cravattone,
Accanto a un ebete
Che duro duro
Col capo all’aria
Puntella il muro.
Le donne avevano
La roba a balle,
E tutto un fondaco
Sopra le spalle.
Code, arzigogoli,
Penne, pennacchi,
Gesti d’indivia
E spauracchi.
Ma dal contrario
Lato splendea
Levigatissima
La nobilea.
Colori semplici,
Capi strigliati,
Gentili occhiaie,
Visi slavati;
Sostanza tenue
Che poco ingombra,
Anello medio
Fra il corpo e l’ombra;
Sorrisi fatui,
Moti veloci,
Bleso miscuglio
D’estranee voci;
E nell’intonaco,
Nelle maniere,
L’arte che studia
Di non parere.
Così velandosi
Beltà sfruttata
D’una modestia
Matricolata,
Riduce a stimolo
Fin l’onestà,
E per industria
Si volta in là.
Ma già il notaio,
Disteso l’atto,
Si rizza e al pubblico
Legge il contratto.
Giù giù per ordine
Si firma, e poi
Per sala girano
Bricchi e vassoi;
Gran suppellettile
Ove apparia
Mista alla boria
La gretteria.
Le Dame dicono
Partendo in fretta:
«Era superflua
» Tanta etichetta.
» Oh! per i meriti
» D’una bracina,
» Bastava l’abito
» Di stamattina.»
Quelle del popolo
Tutte impastate
Di the, di briciole,
Di limonate;
Che più del solito
Strinte, impettite,
Fiacche tronfiavano
E indolenzite:
«Animo, animo,
» Mi par mill’anni:
» Immè, gridavano,
» Con questi panni!
» Uh che seccaggine!
» Oh maledette
» Le scritte, i nobili,
» E le fascette!»
PARTE SECONDA.
Partì l’ultimo lo sposo,
Sopraffatto dal pasticcio
E dall’obbligo schifoso
Di legarsi a quel rosticcio.
Con quest’osso per la gola
Si ficcò tra le lenzuola.
Chiuse gli occhi, e gli parea
D’esser solo allo scoperto;
E un grand’albero vedea
Elevarsi in un deserto;
Un grand’albero, di fusto
Antichissimo e robusto.
Giù dagl’infimi legami
Fino al mezzo della fronda
Spicca in alto, stende i rami
E di frutti si feconda,
Che, di verdi, a poco a poco
S’incolorano di croco.
Un gran nuvolo d’uccelli,
Di lumache e di ronzoni,
Si pascevano di quelli
E beccavano i più buoni;
Tanto che l’albero perde
L’ubertà del primo verde.
Ma dal mezzo alla suprema
Vetta in tutto sì dispoglia,
E su su langue, si scema
D’ogni frutto e d’ogni foglia,
E finisce in nudi stecchi
Come pianta che si secchi.
Mentre tutto s’ammirava
Nelle fronde il signorotto,
E il confronto almanaccava
Del di sopra col disotto,
Più stupenda visïone
Lo sviò dal paragone.
Ove il tronco s’assottiglia
E le braccia apre e dilata,
Vide l’arme spiattellata
Colla bestia di famiglia,
Che soffiando corse in dentro
E lasciò rotto nel centro.
Dall’araldico sdrucito,
Come in ottico apparato
Che rifletta impiccinito
Un gran popolo affollato,
Traspariva un bulicame
D’illustrissimi e di dame.
Cappe, elmetti luccicanti,
Toghe, mitre e berrettoni,
E grandiglie e guardinfanti,
E parrucche a riccioloni,
E gran giubbe gallonate,
E codone infarinate,
Con musacci arrovellati
Bofonchiavano tra loro
Di contee, di marchesati,
Di plebei, di libri d’oro,
E di tempi e di costumi,
E di simili vecchiumi.
Dietro a tutti, in fondo in fondo
Si vedea la punta ritta
D’un cappuccio andare a tondo,
Come se tra quella fitta
Si provasse a farsi avante
Qualche Padre zoccolante.
Lo vide appena che lo perse d’occhio:
Quello, alla guisa che movendo il loto
Ritira il capo e celasi il ranocchio,
In giù disparve con veloce moto;
E tosto un non so che suona calando
Dentro del fusto come fosse vuoto.
Come a tempo de’ Classici, allorquando
Gli olmi e le quercie aveano la matrice
E figliavano Dee di quando in quando;
Così, spaccato il tronco alla radice,
Far capolino e sorgere fu vista
Una figura antica di vernice.
Era l’aspetto suo quale un artista
Non trova al tempo degli Stenterelli,
Se gli tocca a rifare un Trecentista.
Rasa la barba avea, mozzi i capelli,
E del cappuccio la testa guernita,
Oggi sciupata a noi fin dai cappelli;
Un mantello di panno da eremita,
Tra la maglia di lana e il giustacuore
D’un cingolo di cuoio stretta la vita.
Corto di storia, il povero signore
Lo prese per un buttero, e tra ’l sonno
Gli fece un gesto e brontolò: va fuore.
Sorrise e disse: io son l’arcibisnonno
Del nonno tuo, lo stipite de’ tuoi,
Nato di gente che vendeva il tonno.
Oh via non mi far muso, e non t’annoi
Conoscer te d’origine sì vile,
Comune, o nobilucci, a tutti voi.
Taccio come salii su, dal barile
Di quel salume; ma certo non fue
Nè per onesta vita mercantile,
Nè per civil virtù, che d’uno o due
Prese le menti, ond’ei poser nell’arme
Per tutta nobiltà l’opere sue.
Sai che la nostra età fu sempre in arme:
Io per quel mar di guerre e di congiure
Tener mi seppi a galla e vantaggiarme.
Ma tocche appena le magistrature,
Fui posto al bando, mi guastâr le case,
E a due dita del collo ebbi la scure.
A piedi, con quel po’ die mi rimase,
Giunsi a Parigi, e un mio concittadino
D’aprir bottega là mi persuase.
Un buco come quel di un ciabattino
Scovammo; e a forza di campare a stento,
E di negar Gesù per un quattrino,
N’ebbi il guadagno del cento per cento:
Quindi a prestar mi detti e feci cose,
Cose che a raccontarle è uno spavento.
Pensa alle ruberie più strepitose,
Se d’Arpia battezzata ovver giudea
Ma’ mai t’hanno ghermito ugne famose;
Son tutte al paragone una miscea:
Questo socero tuo, guarda se pela,
Non le sogna nemmanco per idea.
Figlio e nipote per lunga sequela
D’anni continuando il mio mestiere,
Nel mar dell’angherie spiegò la vela.
Quelle nostre repubbliche sì fiere,
Moge obbediano un Duca, un Vicerè,
Che significa birro e gabelliere,
Quando un postero mio degno di me
Rimpatriò ricchissimo, e il Bargello
Del suo rimpatriar seppe il perchè.
E qui mutando penne il nuovo uccello,
Fatta la roba, fece la persona,
E calò della Corte allo zimbello.
Da quel momento in casa ti risuona
Un titolaccio col superlativo,
E a bisdosso dell’arme hai la Corona.
Aulico branco nè morto nè vivo
Da costui fino a te fu la famiglia,
Ebete d’ozio e in vivere lascivo,
Ridotto al verde per dorar la briglia:
Perchè ti penti, o bestia cortigiana?
Prendi dell’usurier, prendi la figlia.
Chè siam tutti d’un pelo e d’una lana.