Versi editi ed inediti di Giuseppe Giusti/L'Amor pacifico
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L’AMOR PACIFICO.
Gran disgrazia, mia cara, avere i nervi
Troppo scoperti e sempre in convulsione,
E beati color, Dio li conservi,
Che gli hanno, si può dire, in un coltrone,
In un coltrone di grasso coi fiocchi,
Che ripara le nebbie e gli scirocchi!
Noi poveri barometri ambulanti
Eccoci qui, con tutto il nostro amore,
Piccosi, puntigliosi, stravaganti,
Sempre e poi sempre in preda al mal umore,
Senza contare una carezza sola
Che o presto o tardi non ci torni a gola.
Sentimi, cara mia, questa commedia
O dura poco, o non finisce bene;
E se d’accordo non ci si rimedia,
Un di no’ due ne porterà le pene.
Tu patisci, io non godo, e mi rincresce:
Riformiamoci un po’ se ci riesce.
In via di contrapposto e di specifico
Al nostro amor che non si cheta mai,
Ecco la storia dell’amor pacifico
Di due fortunatissimi Ermolai,
Femmina e maschio, che dal primo bacio
Stanno tra loro come pane e cacio.
Essi là là, come ragion comanda,
S’adorano da un mezzo giubileo:
L’amorosa si chiama Veneranda,
E l’amoroso si chiama Taddeo,
Nomi rotondi, larghi di battuta,
E da gente posata e ben pasciuta.
La dama infatti è un vero carnevale,
Una meggiona di placido viso;
Pare in tutto e per tutto tale e quale
Una pollastra ingrassata col riso;
Negli atti lenti ha scritto: Posa piano;
E spira flemma un miglio di lontano.
Grasso, bracato, a peso di carbone,
Il suo caro Taddeo somiglia un B:
Un vero cor-contento, un mestolone
Fatto, come suol dirsi, e messo lì.
Sbuffa, cammina a pause, pàr di mota,
Pare un tacchino quando fa la rota.
Del rimanente, vedi, tutti e due,
Oltre all’essere onesti a tutta prova,
Levato il grasso e un briciolo di bue,
Che per un grasso non è cosa nova,
Son belli, freschi, netti come un dado,
Cosa che in gente grassa avvien di rado.
Si veggono la sera e la mattina
Comodamente all’ore stabilite;
Parlan di consumé, di gelatina,
Di cose nutrïenti e saporite;
Nell’inverno di stufe, e nell’estate
Trattano, per lo più, di gramolate.
Quando arriva Taddeo, siede e domanda:
Cara, che fai? come va l’appetito? —
Mi contento, risponde Veneranda;
E tu, anima mia, com’hai dormito? —
Undici ore, amor mio, tutte d’un fiato:
A mezzo giorno, o sbaglio, o t’ho sognato. —
E per dell’ore poi resta lì fermo,
Duro, in panciolle, zitto come un olio;
O tirando sbadigli a cantofermo,
Come se fosse zucchero o rosolio
Si succhia in pace l’apatia serena
Di quel caro faccione a luna piena.
Dal canto suo la tepida signora,
Quasi supina colla calza in mano,
Infilando una maglia ogni mezz’ora,
Ride belando al caro pasticciano,
E torna a dimandar di tanto in tanto:
Lo vuoi stamane un dito di vin santo? —
Perchè questa signora, hai da sapere,
Che invece di bijou, di porta-spilli,
Di rococò, di bocce e profumiere,
E di quei mille inutili gingilli,
Di che, sciupando un monte di quattrini,
Tu gremisci vetrine e tavolini;
Come donna da casa e che sa bene
Il gusto proprio e quello di chi l’ama,
In luogo di quei ninnoli, ci tiene
Bottiglie, che so io, bocche di dama,
Paste, sfogliate ripiene di frutta,
Tanto per non amarsi a bocca asciutta.
La sera, quando s’avvicina l’ora
D’andare alla burletta o alla commedia,
Veneranda che mastica e lavora,
Senza scrollarsi punto dalla sedia
Sbadiglia e poi domanda: il tempo è buono? —
Stupendo. — Guarda un po’, che ore sono? —
Son l’otto. — Proprio l’otto? Ora mi vesto. —
Brava. — Ma ti rincresce d’aspettarmi? —
No, no, vestiti a comodo. — Eh fo presto! —
(E lì piantati e duri come marmi.)
Taddeo, che ore sono? — Son le nove. —
Dunque scappo a vestirmi. — (E non si move.)
Taddeo, che dici, mi vesto di nero? —
Sì, vestiti di nero. — O la mantiglia
L’abbia a prendere? — Prendila. — Davvero?
O se è caldo? — Allora non si piglia. —
Così restano in asso, e dopo un pozzo:
Che ore sono? — Son le dieci e mezzo. —
Diamine! O dove sia la cameriera?....
Basta, oramai sarà l’ultima scena;
Che diresti? — Anderemo un’altra sera. —
Sì, dici bene, è meglio andare a cena. —
E di questo galoppo, ognuno intende
Che vanno avanti anco l’altre faccende.
Liti, capricci, chiacchiere, dispetti,
Non turbano quel nodo arcibeato;
La Gelosia c’ingrassa di confetti,
Il Sospetto ci casca addormentato;
Amor ci va, sbrigata ogni faccenda,
E credo che ci vada a far merenda.
La Maldicenza (impara, o disgraziata,
Tu che di ciarle fai sempre un gran caso)
La Maldicenza a volte s’è provata
Nelle loro faccende a dar di naso,
Tentando forse di scuoprir terreno,
O di farli dormir mezz’ora meno:
Ma per quanto le zanne abbia appuntate
Come lesine, e lunghe più d’un passo,
Questa volta, nel mordere, ha trovate
Tante suola di muscoli e di grasso,
Che per giungere al cor colla ferita,
L’ha fatta corta almen di quattro dita.
Una tal volta, immagina, fu detto
A Veneranda da una sua vicina,
Che Taddeo le celava un amoretto
Di fresco intavolato alla sordina,
E ciarlando arrivò la chiacchierona
Fino a dirle la casa e la persona.
Rispose Veneranda: O che volete,
Caspiteretta, che non si diverta?
Lo compatisco; è giovane, sapete!
Solamente rimango a bocca aperta
Che la vada a cercar tanto lontana,
A rischio di pigliare una scalmana!
Un’altra volta dissello a Taddeo
Che Veneranda, povera innocente,
Teneva di straforo un cicisbeo,
E che questo briccone era un Tenente
Che gli faceva l’amico sul muso
E dietro il Giuda, come corre l’uso.
Come! disse Taddeo, Carlo? davvero?
Povero Carlo, è tanto amico mio!
Per me ci vada pur senza mistero,
E tanto meglio se ci sono anch’io.
Ma eh? che capo ameno che è Carlo!
Fa bene Veneranda a carezzarlo.
Così di mese in mese e d’anno in anno
Amandosi e vivendo lemme lemme,
È certa, cara mia, che camperanno
A dieci doppi di Matusalemme.
E noi col nostro amore-agro e indigesto
Invecchieremo, creperemo, e presto.
O pace santa! o nodo benedetto!
Viva la Veneranda e il suo tesoro!
Ma in somma delle somme, io non t’ho detto
Come andò che s’intesero tra loro:
Se non l’ho detto, te lo dico adesso;
Dirtelo o prima o poi, tanto è lo stesso.
Erano tutti e due del vicinato,
Piccioni della stessa colombaia;
E ciascuno nel mondo avrà notato
Che Dio fa le persone e poi l’appaia;
Che l’amore e la tosse non si cela,
Che vicinanza è mezza parentela.
Veneranda era vedova di poco;
Taddeo, scapolo, ricco e ben veduto;
E una volta, a proposito d’un cuoco,
V’era corso un viglietto ed un saluto:
Ma fino a lì, da buoni conoscenti,
La cosa era passata in complimenti.
Un giorno, da un amico, a desinare
Trovandosi invitati e messi accanto,
Si vennero per caso a combaciare
Colle spalle, co’ gomiti, con quanto
Sempre (quando la seggiola non basta )
S’arroteranno due di quella pasta.
L’ìndole, la scambievole pinguedine,
La scintillaccia che madre Natura
Pianta perfino in corpo alla torpedine,
Il cibo, il caldo, e quell’arrotatura,
Fece sentire alle nostre balene
D’esser due cosi da volersi bene.
L’affetto stuzzicato ad ogni costo
Volea provarsi a dire una parola;
Ma scontrato dal fritto e dall’arrosto
Restava lì strizzato a mezza gola:
Intanto il desinare era finito
Combattendo l’amore e l’appetito.
S’alzaron gli altri, ed ove si mesceva
Il caffè tutti quanti erano andati;
Quando gli amanti, dandosi di leva
Co’ pugni sulla mensa appuntellati,
In tre tempi, su su, venner ponzando,
Soffiando, mugolando e tentennando.
Quando d’essere in piè fu ben sicuro,
Taddeo porse alla bella un braccio grave;
All’uscïo si puntò, si strinse al muro,
E lì deposto il carico soave
Nelle stanze di là la mandò sciolta,
Chè bisognò passare uno alla volta.
Di qua, di là, per casa, e nel giardino
Tutta si sparpagliò la compagnia;
Ma fiacchi dal disagio del cammino
Di due salotti e d’una galleria,
Provvidero gli amanti alla persona,
E fecer alto alla prima poltrona.
Nel primo abbocco degl’innamorati
Si sa che non v’è mai senso comune;
Ma quando tutti e due sono impaniati,
Ognun dal canto suo slenta la fune;
Ognuno sa ciò che l’altro vuol dire,
Ognun capisce perchè vuol capire.
Dopo mezz’ora e più di pausa muta,
Taddeo si fece franco e ruppe il ghiaccio,
E cominciò: Signora, l’è piaciuta
La crema? — Eccome! — Sì? me ne compiaccio:
E quei tordi? — Squisiti! — E lo zampone? —
Eccellente! — E quel dentice? — Bonone! —
Per verità, si stava un po’ pigiati...
Era un bene per me l’averla accosta;
Ma se per caso ci siamo inciampati,
Creda, Signora, non l’ho fatto a posta. —
Oh le pare! anzi lei ci stava stretto;
Scusi, vede, son grassa... — È un bel difetto! —
Lo crede? — In verità! codesto viso
È una Pasqua, che il Ciel glielo mantenga.—
Son sana. — Altro che sana! è un Paradiso! —
Ma via, sono un po’ grossa... — Eh se ne tenga!
Per me... vorrei... se mi fosse concesso... —
Che cosa? — Rivederla un po’ più spesso. —
S’annoierebbe. — Oibò! m’annoierei?
Anzi sarebbe il mio divertimento. —
Oh troppo bono! allora... faccia lei... —
Vede, Signora, il suo temperamento
Mi pare che col mio possa confarsi;
Che ne direbbe? — Eh, gua’, potrebbe darsi. —
Via, faremo così: ci penseremo,
Ci proveremo, e poi, se si combina,
Quand’è contenta lei, seguiteremo:
La strada è pari, la casa è vicina,
Tutto, secondo me, va per la piana...
Comincerò quest’altra settimana. —
E così, tra volere e non volere,
Fu sentito, scoperto, ventilato,
E poi con tutto il comodo, a sedere,
Senza malinconie continuato
Per tanti e tanti e tanti anni di filo,
Questo tenero amor nato di chilo.