Versi editi ed inediti di Giuseppe Giusti/Gingillino
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GINGILLINO.
PROLOGO.
Sandro, i nostri Padroni hanno per uso
Di sceglier sempre tra i servi umilissimi
Quanto di porco, d’infimo e d’ottuso
Pullula negli Stati felicissimi:
E poi tremano in corpo e fanno muso
Quando, giunti alle strette, i Serenissimi
Sentono al brontolar della bufera
Che la ciurma è d’impaccio alla galera.
Ciurma sdraiata in vil prosopopea,
Che il suo beato non far nulla ostenta,
Gabba il salario e vanta la livrea,
Sempre sfamata e sempre malcontenta.
Dicasterica peste arciplebea,
Che ci rode, ci guasta, ci tormenta
E ci dà della polvere negli occhi,
Grazie a’ governi degli scarabocchi.
Sempre l’uom non volgare e non infame
O scavalcato o inutile si spense,
O presto imbirbonì nel brulicame
Dell’altre arpíe fameliche e melense.
Così sente talor di reo letame
L’erba gradita alle frugali mense,
Così per verme che la fori al piede
Languir la pianta ed intristir si vede.
O Principi Reali e Imperïali,
Gotico seme di grifagni eroi,
Forse accennando ai Lupi commensali
Nelle veci dell’Io stampate il Noi?
Spazzateci di qui questi animali
Parasiti del popolo e di voi,
Questa marmaglia che con vostro smacco
Ruba a man salva, e voi tenete il sacco.
I.
Il Voltafaccia e la Meschinità
L’Imbroglio, la Viltà, l’Avidità
Ed altre Deità,
Come sarebbe a dir la Gretteria
E la Trappoleria,
Appartenenti a una Mitologia
Che a conto del Governo, a stare in briglia
Doma educando i figli di famiglia,
Cantavano alla culla d’un bambino,
Di nome Gingillino,
La ninna nanna in coro,
Tutta sentenze d’oro
Degnissime del secolo e di loro.
Bimbo, non piangere;
Nascesti trito,
Ma se desideri
Morir vestito,
Ecco la massima
Che mai non falla,
E come un sughero
Ti spinge a galla.
Dagli anni teneri
Piega le cuoia
Al tirocinio
Della pastoia.
Sotto la gramola
Del pedagogo
Curvati, schiacciati,
Rompiti al giogo.
E cogli estranei
E in mezzo ai tuoi,
Annichilandoti
Più che tu puoi,
Non far lo sveglio,
Non far l’ardito;
Se pur desideri
Morir vestito.
Non ti frastornino
La testa e il core
Larve di gloria,
Sogni d’onore.
Fuggi le noie,
Fuggi le some,
Fuggi i pericoli
Di un chiaro nome;
E limitandoti
Senz’altro fumo
A saper leggere
Pel tuo consumo,
Rinnega il genio
Sempre punito;
Se pur desideri
Morir vestito.
Cresci, e rammentati
Che dà nel naso
Più lo sproposito
Commesso a caso,
Che la perfidia
La più fratina,
Tramata in regola
E alla sordina.
Abbi di semplice
Per segno certo
Dell’uomo ingenuo
L’errore aperto,
E imita il sudicio
Che par pulito;
Se pur desideri
Morir vestito.
Studia la cabala
Del non parere,
E gli ammennicoli
Del darla a bere.
Di Dio, del Diavolo
Non farti rete;
Nega il negabile,
Ma liscia il prete.
Un letamaio
Di vizi abborra
Giù de’ precordii
Tra la zavorra;
Ma coram populo
Esci contrito;
Se pur desideri
Morir vestito.
In corpo e in anima
Servi al reale,
E non ti perdere
Nell'ideale.
Se covi smania
Di far fagotto,
Incensa l'idolo
Quattro e quattr'otto.
Sempre la favola
Della ragione
Ceda alla storia
Del francescone;
Sempre lo scrupolo
Muoia fallito;
Se pur desideri
Morir vestito.
Non far che un libero
Sdegno ti dia
Quella poetica
Malinconia,
Per cui non paiono
Vili e molesti
Dei galantuomini
I cenci onesti.
Un gran proverbio,
Caro al Potere,
Dice che l'essere
Sta nell'avere.
Credi l'oracolo
Non mai smentito;
Se pur desideri
Morir vestito.
Vent’anni dopo, un Frate Professore,
Gran Sciupateste d’Università,
Da vero Cicerone Inquisitore,
Encomïava la docilità
E la prudenza d’un certo Dottore
Fatto di pianta in quel vivaio là,
Dottore in legge, ma di baldacchino,
Che si chiamava appunto Gingillino.
In gravità dell’aurea concione
Messer Fabbricalasino si roga
Capo Arruffacervelli; e un zibaldone
Di Cancellieri e di Bidelli in toga
Gli fa ghirlanda intorno al seggiolone,
E di quell’Ateneo la sinagoga,
Che in lucco nero, a rigor di vocabolo,
Parea di piattoloni un conciliabolo.
Chi brontola, chi tosse e chi sbadiglia,
Chi ride del Dottore e chi del Frate,
Che ansando e declamando a tutta briglia,
Con salti e con rettoriche gambate
Circonda il caro alunno e l’appariglia
Alle celebrità più celebrate,
Calandosi a concluder finalmente
Di dotta carità tutto rovente:
« Vattene, figlio, del bel numer’uno
» De’ giovani posati e obbedïenti,
» Oh vattene digiuno
» Di ragazzate, di divertimenti,
» Di pipe, di biliardi, d’osterie,
» Di barbe lunghe e d’altre porcherie.
» O benedetto te, che dalla culla
» Se’ stato savio di dentro e di fuori;
» Che non hai fatto nulla
» Senza il permesso de’ Superïori,
» Sempre abbassando la ragione e l’estro,
» Sempre pensando a modo del maestro!
» Salve, o raro intelletto, o cor leale,
» Che d’una fogna d’empi e d’arroganti
» Te n’esci tale e quale,
» Esci come venisti, e tiri avanti;
» Vattene al premio che s’aspetta al giusto,
» Della gran soma dottorale onusto.
» Comincia coll’esempio e coll’inchiostro
» A difender l’altare a destra mano,
» Ed a mancina il nostro
» Dolce, amorevolissimo Sovrano:
» Vattene, agnello pieno di talento,
» Caro al presepio e al capo dell’armento.»
All’apostrofe barocca
Che con grande escandescenza
Esalava dalla bocca
Di quel mostro d’eloquenza,
Gingillino andato in gloria
Se n’uscía gonfio di boria
Dal chiarissimo concilio
Colla zucca in visibilio.
Sulla porta un capannello
D’onestissimi svagati,
Un po’ lesti di cervello
E perciò scomunicati,
Con un piglio scolaresco
Salutandolo in bernesco,
Gli si mosser dietro dietro
Canticchiando in questo metro:
Tibi quoque, tibi quoque
È concessa facoltà
Di potere in jure utroque
Gingillar l’umanità.
La manía di Sere Imbroglia,
Che nel cranio ti gorgoglia,
Ti rialza fuor di squadro
Il bernoccolo del ladro.
Che ti resta, che ti resta
D’uno sgobbo inconcludente
In quel nocciolo di testa,
Sepoltura della mente?
Ma se l’anima di stoppa
Se n’è tinta per la groppa,
Tanto basta, tanto basta
Per ficcar le mani in pasta.
Infilando la giornea
D’avvocato o di notaio,
Che t’importa la nomea
Se t’accomodi il fornaio?
Tu se’ nato a fare il bracco,
Il giannizzero, il cosacco,
E compensi il capo corto
Coll’andare a collo torto.
O pinzochero fiscale,
Ti si legge chiaro in viso
Che galoppi al Tribunale
Per la via del Paradiso;
E di più c’è stato detto
Che lavori di soffietto,
Devotissimo ab antico
Dell’Apostolo dal fico.
Ma quel Giuda era un buffone,
Un vilissimo figuro:
Tu, vincendo il paragone,
Mostrerai che a muso duro
Si può vendere un Messia,
Senza far la scioccheria
Di morire a gozzo stretto
E di rendere il sacchetto.
II.
Nel mare magno della Capitale,
Ove si cala e s’agita e ribolle
Ogni fiumana e del bene e del male;
Ove flaccidi vizi e virtù frolle
Perdono il colpo nel cor semivivo
Di gente doppia come le cipolle;
Ove in pochi magnanimi sta vivo,
A vitupero d’una razza sfatta,
Il buon volere e il genio primitivo;
E dietro a questi l’infinita tratta
Del bastardume, che di sè fa conio,
E sempre più si mescola e s’imbratta;
Col favor della Musa o del Demonio
Che il crin m’acciuffa e là mi scaraventa,
Entro e mi caccio in mezzo al Pandemonio.
O patria nostra, o fiaccola che spenta
Tanto lume di te lasci, e conforti
Chi nel passato sogna e si tormenta;
Vivo sepolcro a un popolo di morti,
Invano, invano dalle sante mura
Spiri virtù negli animi scontorti.
Quando per dubbio d’un’infreddatura
L’etica folla a notte si rintana,
Le vie nettando della sua lordura;
Quando il patrizio, a stimolar la vana
Cascaggine dell’ozio e della noia,
Si tuffa nella schiuma oltramontana;
E ne’ teatri gioventù squarquoia
E vecchiume rifritto, ostenta a prova
False carni, oro falso e falsa gioia;
Malinconico pazzo che si giova
Del casto amplesso della tua beltade,
Sempre a tutti presente e sempre nova;
Lento s’inoltra per le mute strade
Ove più lunge è il morbo delle genti,
Ed ove l’ombra più romita cade.
Paragona Locande e Monumenti,
E l’antica larghezza e il viver gretto
Dei posteri mutati in semoventi;
E degli avi di sasso nel cospetto,
Colla mente in tumulto e l’occhio grosso
Di lacrime d’amore e di dispetto;
Gli vien la voglia di stracciarsi addosso
Questi panni ridicoli, che fuore
Mostrano aperto il canchero dell’osso
E la strigliata asinità del core.
Tra i mille ergastoli
Di mille tinte,
Che tutta, in pagine
Chiare e distinte,
Se reggi il vomito,
Ti fan palese
La bassa cronaca
D’un reo paese;
Vince lo stomaco,
Vince l’acume
D’ogni occhio intrepido
Al laidume,
Primo in obbrobrio
Di tanti e tanti,
Il lombricaio
Degli Aspiranti.
Immonda chiovina,
Ove caduto
Del Fôro il fetido
Sterco e il rifiuto,
In sè medesimo
Putre e fermenta,
E immedicabili
Miasmi avventa.
A gran caratteri,
In gran cartello,
Sta sul vestibulo
Scritto: Bargello;
Parola mistica
Che il fiato in bocca
Gela, e significa
Bazza a chi tocca.
Dai Sacri Canoni,
Dalle Pandette,
Passato al codice
Delle manette,
Ringhia lo spirito
Del mio lodato
Nell’abominio
Lì rotolato.
Scorda l’ambrosia
Del tuo Parnaso,
Calza gli zoccoli,
Turati il naso,
Musa, e tenendoti
Su la sottana,
Scendi al motriglio
Dell’empia tana.
Come in immagini
Lerce e falsate,
Nella Tebaide
Al Santo Abate
Pìovean le luride
Torme dell’Orco,
Sporcando il trogolo
Perfino al porco;
Per furia idrofoba
Che giù gli mena,
Così nel baratro
Sbocca una piena
D’infami Rabule,
Di Birri e Spie,
A mucchi, a vortici,
A litanie.
Ohimè che l’aere
Maligno e tetro
La casta Vergine
Respinge indietro,
La casta Vergine
Ond’io m’adiro,
A cui quell’alito
Mozza il respiro.
Nata alle vivide
Fonti, all’ameno
Rezzo dei lauri,
Al ciel sereno,
Di quella bozzima
Che là s’infogna,
Sente l’ingenua
Schifo e vergogna.
La turpe bolgia
Sdegnando io stesso,
Ove alleluia
Canta il Processo,
Varco allo stabbio
Che aduna a sera
I Birrocratici
Di bassa sfera.
Giace in un vicolo
Sghembo e remoto,
Tra le pozzanghere
D’eterno loto,
Nera casipola
A uscio e tetto,
Che d’una trappola
Ti dà l’aspetto.
Dal bugigattolo
De’ Magistrati,
Dal serbatoio
Degli Avvocati,
La sozza Frucola,
La vil Tartuca,
La Talpa e il Granchio
Là si trabuca;
Là dai venefici
Rovi del Fisco,
Si striscia l’Aspide
E il Basilisco.
Là, grogiolandosi
Le invidie inermi,
Miste all’ossequio
Degli altri vermi,
Sbuffa e si gloria
L’ozio bracato
Del Tarlo pubblico
Già giubilato.
Là, colle nubili
Sciolte e vistose,
Recan le vedove,
Le mogli annose
De’ Commissarii,
De’ Gabellotti,
Rigiri, scandali,
Pania e cerotti:
Là per libidini
Di contrabbando
Vanno, e cimentano
Di quando in quando
La lor nullaggine
Che par persona,
Le Carïatidi
Della Corona.
Tutto si rumina,
Tutto s’indaga,
Tutti si sgolano
Lì per la paga;
Tutti colorano
Al caso proprio
L’ombre, le nuvole
D’un Motuproprio;
Ogni bazzecola,
Ogni bisbiglio,
Che bolle in pentola
Del Gran Consiglio.
E lì si predica,
Lì si dibatte
La compra e vendita
Delle Mignatte
Che i Re ci azzeccano
Fitte alle vene,
Per controstimolo
Del troppo bene.
Come del chimico
Nel cavo rame
Si scioglie in glutine
L’accolto ossame,
Così l’intingolo
D’un’altra colla,
Dal gran carnaio
Che là s’affolla,
Tira una Taide,
Che adesso è nonna,
Di quel postribolo
Donna e madonna.
Fu già da giovane
Cuoca e pietanza
D’un Rodipopolo
Su di Finanza,
Che dietro un seguito
D’apoplessie,
D’ire, di scrupoli,
Di trullerie,
In facie Ecclesiæ,
Tirando innanzi,
Di sè, del pubblico
Biasciò gli avanzi:
Finchè, lasciandole
Sgombro il canile,
Col copertoio
Del vedovile,
Fece all’erario
Costar salato
Anco il rimedio
Del suo peccato.
Se al mondo è femmina
Garga e maestra,
Costei del Diavolo
Può stare a destra;
Costei che, a titolo
Di ben servito,
Rosola il Principe
Come il marito.
L’Eccellentissimo
Dottor Gingilla,
Entrato in grazia
Della Sibilla,
Dopo un proemio
D’incensi abietti,
Di basse lacrime,
Di sconci affetti,
Le chiese il bandolo
Che mena al varco,
E schiude i pascoli
Del regio Parco.
A cui l’ex-guattera,
Tirando fuori
Della domestica
Scuola i tesori,
Senza metafora
Tracciò distinto
L’itinerario
Del laberinto.
III.
O Merli tarpati
Su su da piccini,
O Galli potati
Ad usum Delphini;
O Gufi pennuti
Dell’antro di Cacco,
O Falchi pasciuti
Del pubblico acciacco;
O Nibbi vaganti
Stecchiti di fame,
O Corvi anelanti
Al nostro carcame;
Sparvieri, calate,
Calate, Avvoltoi;
Pappate, pappate;
Si scanna per voi:
Ma intanto, brigata,
Udite la Strega
Che dà l’imbeccata
Al vostro collega: —
Che bisogna scansare i liberali,
I giovani d’ingegno, i mal veduti;
Non chiacchierar di libri e di giornali,
Come non visti mai nè conosciuti;
Chiuder l’animo a tutti e stare a sè,
So di buon luogo che lo sai da te.
Questo appartiene all’arte del non fare,
E in quest’arte sei vecchio e ti conosco;
E sarebbe, il volertela insegnare,
Portar acqua alla fonte e legne al bosco:
Ora all’ingegno tuo bene avviato
Resta l’altra metà del noviziato.
Prima di tutto incurva la persona,
Personifica in te la reverenza;
Insaccati una giubba alla carlona,
E piglia per modello un’Eccellenza:
In questo caso l’abito fa il monaco,
E il muro si conosce dall’intonaco.
Piglia quel su e giù del saliscendi,
Quell’occhio del ti vedo e non ti vedo;
Quel tentennío, non so se tu m’intendi,
Che dice sì e no, credo e non credo;
E piglia quel sapor di dolce e forte,
Che s’usa dal Bargel fino alla Corte.
Barba no, ci s’intende: un impiegato,
(Cosa chiara, provata e naturale)
Quanto più serba il muso di castrato,
Tanto più entra in grazia al Principale:
Ma in questo, per piacere a chi conviene,
Anco la mamma t’ha servito bene.
Non lasciar mai la predica e la messa,
E prega sempre Iddio vistosamente;
Vacci nell’ora e nella panca stessa
Del Commissario, oppur del Presidente;
Anzi, di sentinella alla piletta,
Dagli, quand’entra, l’acqua benedetta.
Fatti introdurre, e vai sera per sera
Da qualche scamonea fatto Ministro;
E là, secondo l’indole e la cera,
Muta strumento e gioca di registro:
Se ti par aria da farci il buffone,
Fallo, e diverti la conversazione;
Se poi si gioca e si sta sulle sue,
Chiappa le carte e fai da comodino.
Perdi alla brava, ingozzati del bue,
Doventa il Papa-Sei del tavolino;
Chè quando t’ha sbertato e pelacchiato,
Ti salda il conto a spese dello Stato.
Fa di tenerlo in giorno, e raccapezza
La chiacchiera, la braca, il fattarello;
Tutto ciò che si fa, da Su’ Altezza
(Per così dire) infino a Stenterello.
Sia l’ozio, il posto o la meschinità,
Chi comanda è pettegolo, si sa.
Se il Diavolo si dà1 che ti s’ammali,
Visite, amico, visite e dimolte:
Metti sossopra medici, speziali,
Fa’ quelle scale centomila volte;
Piantagli un senapismo, una pecetta,
E bisognando vuota la seggetta.
Se l’omo guarirà, fattene bello:
Se poi vedi che peggiora e che muore,
A caso perso, bacia il chiavistello,
E lascia nelle péste il Confessore.
Il morto giace, il vivo si dà pace,
E sempre s’appuntella al più capace.
Colle donne di casa abbi giudizio;
Perchè, credilo a me, ci puoi trovare
Tanto una scala quanto un precipizio,
E bisogna saper barcamenare.
Tienle d’accordo, accattane il suffragio;
Ma prima di andar oltre, adagio Biagio.
Se avrà la moglie giovane, rispetto,
E rispetto alle serve e alle figliuole:
Se l’ha vecchia, rimurchiala a braccetto,
Servila, insomma fai quello che vuole:
Oh le vecchie, le vecchie, amico mio,
Portano chi le porta; e lo so io.
Occhio alla servitù venale e scaltra;
Ungi la rota, e tienti sull’avviso
Di non urtarla; una man lava l’altra,
Suol dirsi, e tutte e due lavano il viso:
Nel mondo va giocato a giova giova,
E specialmente se gatta ci cova.
Sempre e poi sempre un pubblico padrone
Ha un servitore più padron di lui,
Che suol fare alla roba del padrone
Come a quella di tutti ha fatto lui;2
Se l’amico avrà il suo, con questo poi
Sii pane e cacio, e datevi del voi.
Se mai nasce uno scandalo, un diverbio,
Un tafferuglio in quella casa là,
Acqua in bocca, e rammentati il proverbio:
Molto sa chi non sa, se tacer sa;
A volte, in casa propria, un Consigliere
Pare una bestia, ma non s’ha a sapere.
In quanto a lodi poi, tira pur via;
Incensa per diritto e per traverso;
Loda l’ingegno, loda la mattia,
Loda l’imprese, loda il tempo perso:
Quand’anco non vi sia capo nè coda,
Loda, torna a lodare, e poi riloda.
Pesca una dote e ridi del decoro
(Della virtù, si sa, non ne discorro);
Che se piacesse all’Eccellenze loro
D’appiccicarti un canchero, un camorro,
Purchè ti sia la pillola dorata,
Beccala e non badare alla facciata.
Briga più che tu puoi: sta sull’intese;
Piglia quel che vien vien, pur di servire:
Ma chiedi, chè la Botta che non chiese,
Non ebbe coda: e poi devi capire,
Che non sorrette dai nostri bisogni
Le loro autorità sarebber sogni.
L’animo d’un Ministro, il mio e il tuo,
Son press’a poco d’uno stesso intruglio:
Dunque un Nebbione che non fa sul suo,
E si può fare onor del sol di luglio,
Nella sua dappocaggine pomposa,
È quando crede di poter qualcosa.
Non ti sgomenti quel mar di discorsi,
Quel traccheggiar la grazia al caso estremo,
Quel nuvolo di se, di ma, di forsi,
Quel solito vedremo, penseremo.....
Eterno gergo, eterna pantomima
Di queste zucche che tu vedi in cima.
Abbi per non saputo e per non visto
Ogni mal garbo, ogni atto d’annoiato;
Fingiti grullo come Papa Sisto,
Se ti preme di giungere al papato:
Il dolce pioverà dopo l’amaro,
E l’importuno vincerà l’avaro. —
E Gingillino non intese a sordo
Della Volpe fatidica il ricordo.
Andò, si scappellò, s’inginocchiò,
Si strisciò, si fregò, si strofinò;
E soleggiato, vagliato, stacciato,
Abburattato da Erode a Pilato,
Fatta e rifatta la storia medesima,
Ricevuto il Battesimo e la Cresima
Di vile e di furfante di tre cotte,
Lo presero nel branco, e buona notte.
Qui, non potendosi
Legare al collo
La grazia regia
Col regio bollo,
A capo al letto
In un sacchetto
Se l’inchiodò;
Mattina e sera
Questa preghiera
Ci bestemmiò.
Io credo nella Zecca onnipotente
E nel figliuolo suo detto Zecchino,
Nella Cambiale, nel Conto corrente,
E nel Soldo uno e trino:
Credo nel Motuproprio e nel Rescritto,
E nella Dinastia che mi tien ritto.
Credo nel Dazio e nell’Imposizione,
Credo nella Gabella e nel Catasto;
Nella docilità del mio groppone,
Nella greppia e nel basto:
E con tanto di core attacco il voto
Sempre al Santo del giorno che riscuoto.
Spero così d’andarmene là là,
O su su fino all’ultimo scalino,
Di strappare un cencin di nobiltà,
Di ficcarmi al Casino,
E di morire in Depositeria
Colla croce all’occhiello, e così sia.