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XII prefazione.

in modo schietto e aperto tanto per il lato del pensiero quanto per quello della parola, fa l’effetto che suol fare uno che non sia chiamato a dire facezie, e che voglia fare il lepido a ogni costo.»


La Prefazione che il Giusti pensava di far precedere ad una compiuta ristampa dei suoi versi, è la seguente, visibilmente scritta nell’aprile del 1848.


« Ecco la quarta o la quinta edizione d’un libro il quale mesi sono aveva del nuovo tuttavia, e che adesso parrà di certo un vecchiume. Così vanno le cose di questo mondo; e i libri, come gli uomini, oggi ridono di gioventù e sono pieni dell’avvenire, domani s’afferrano al presente che sfugge loro di mano, più tardi non vivono che di sole memorie. Io non mi pentirò d’avere scritti questi versi, perchè quando gli scrissi, credo che bisognasse scriverli; ma dirò schiettamente che molti uomini e lo stesso animo mio si sono migliorati sotto la penna; ond’è che volendo fare le parti giuste e contentare la natura migliore che s’è riavuta in me, dovrei ora a parecchie punture portare la mano carezzevole e spargervi sopra un qualche lenitivo di lode. Non avendo odiato mai nessuno, perchè dovrei ostinarmi a straziare chi s’è corretto, se io appunto non desiderava altro che tutti ci correggessimo? È vero che agli errori e ai vizi di tempo fa, sono succeduti i vizi e egli errori delle cose recenti; ma io lieto di vedere aperta la via del bene, non ho più cuore di menare attorno la frusta, e col mio paese ringiovinito ritorno anch’io ai sogni sereni e alla fede benigna della primissima adolescenza. E questa fede, posso dire non essersi spenta mai nell’animo mio; e il non aver derisa la virtù, e la stessa mestizia del verso sdegnoso, spero che valga a farmene larghissima testimonianza. Dirò di più, che essa, oltre all’avermi salvato dal tacere e dal disperare obbrobriosamente, m’è valsa più e più volte a precorrere gli eventi; e di qui è nato che molte delle mie visioni poetiche hanno preso carne e figura tra gli uomini, dopo due, tre e quattro anni, che io me l’era fantasticate tra me e me. Ma l’amore dell’arte che ha potuto in me quanto l’amore del mio paese (perocchè io non so dividere ciò che la natura ha unito, e il buono e il bello si tengono per mano e sono anzi una cosa sola), l’amore dell’arte, diceva, m’ha trattenuto sul tavolino parecchie di queste fantasie; alle quali se avessi dato il volo quando avevano tuttavia i bordoni, avrebbero i fatti vegnenti annunziati, come le rondini annunziano la primavera e come le luc-