Versi editi ed inediti di Giuseppe Giusti/Dello scrivere per le Gazzette

Dello scrivere per le Gazzette

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Ad una Donna A uno Scrittore di satire in gala
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DELLO SCRIVERE PER LE GAZZETTE.



Sdegno di far più misere
     Con diuturno assalto
     Le splendide miserie
     Di chi vacilla in alto;
     Sdegno, vigliacco astuto,
     Insultare al cadavere
     Dell’orgoglio caduto.

Nè bassa contumelia
     Che l’uomo in volto accenna,
     Nè svergognato ossequio
     Mi brutterà la penna,
     La penna, a cui frementi
     Spirano un vol più libero
     Più liberi ardimenti.

Oh se talor, negl’impeti
     Ciechi dell’ira prima,
     In aperto motteggio
     Travierà la rima,
     A lacerar le carte
     Tu, vergognando, aiutami,
     O casto amor dell’arte.

Il riso malinconico
     Non suoni adulterato
     Dell’odio o dell’invidia
     Dal ghigno avvelenato,
     Nè ambizïon delusa
     Sfiori la guancia ingenua
     Alla vergine Musa.

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Nell’utile silenzio
     Dei giorni sonnolenti,
     Con periglioso aculeo
     Osai tentar le genti;
     Osai ritrarmi quando
     Cadde Seiano, e sorsero
     I Bruti cinguettando.

Seco Licurghi, e Socrati,
     Catoni, e Cincinnati,
     £ Gracchi pullularono
     D’ozio nell’ozio nati:
     Come in pianura molle
     Scoppia fungaia marcida
     Di suolo che ribolle.

Ahi, rapita nel mobile
     Baglior della speranza,
     Non vide allora il vacuo
     Di facile iattanza
     L’illusa anima mia,
     Che s’abbandona a credere
     II ben che più desia!

E le fu gioia il subito
     Gridar di tutti a festa,
     E sparir nelle tenebre
     La ciurma disonesta,
     Ed io, pago e sicuro,
     Aver posato il pungolo
     Che ripigliar m’è duro.

O Libertà, magnanimo
     Freno e desio severo
     Di quanti in petto onorano
     Con te l’onesto e il vero,
     Se del tuo vecchio amico
     Saldo tuttor nell’animo
     Vive l’amore antico,

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Reggi all’usato termine
     La mano e la parola,
     Quando in argute pagine
     Caldo il pensier mi vola,
     Quando in civile arringo
     La combattuta patria
     A sostener m’accingo.

Teco in aperta insidia
     O in pubblico bordello
     Dell’adulato popolo
     Non mi farò sgabello,
     All’amico le gote
     Non segnerò col bacio
     Di Giuda Iscariote.

Dell’orgia, ove frenetica
     Licenza osa e schiamazza,
     Con alta verecondia
     Respingerò la tazza.
     Con verecondia eguale
     Respinsi un tempo i calici
     Di Circe in regie sale.

O veneranda Italia,
     Sempre al tuo santo nome
     Religioso brivido
     Il cor mi scosse, come
     Nomando un caro obietto
     Lega le labbra il trepido
     E reverente affetto.

Povera Madre! Il gaudio
     Vano, i superbi vanti,
     Le garrule discordie,
     Perdona ai figli erranti;
     Perdona a me le amare
     Dubbiezze, e il labbro attonito
     Nelle fraterne gare.

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Sai che nel primo strazio
     Di colpo impreveduto,
     Per l’abbondar soverchio
     Anche il dolore è muto;
     E sai qual duro peso
     M’ha tronchi i nervi e l’igneo
     Vigor dell’alma offeso.

Se trarti di miseria
     A me non si concede,
     Basti l’amor non timido,
     E l’incorrotta fede;
     Basti che in tresca oscena
     Mano non pôrsi a cingerti
     Nuova e peggior catena.