Versi editi ed inediti di Giuseppe Giusti/Il Ballo

Il Ballo

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La Chiocciola Le Memorie di Pisa
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IL BALLO.



PARTE PRIMA.


In una storica
     Casa, affittata
     Da certi posteri
     Di Farinata,

A scelto e splendido
     Ballo c’invita
     Chilosca, gotica
     Beltà sbiadita.

Come per magico
     Vetro all’oscuro,
     Folletti e diavoli
     Passar sul muro,

Maravigliandosi,
     Vede il villano
     Che corre al cembalo
     Del ciarlatano;

Tali per l’intime
     Stanze in confuso,
     Cento s’affollano
     Sporgendo il muso,

Baroni, Principi,
     Duchi, Eccellenze,
     E inchini strisciano
     E reverenze.

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Un servo i ciondoli
     Tien d’occhio, e al centro
     Le borie anticipa
     Di chi vien dentro.

Fra tanti titoli
     Nudo il mio nome,
     Strazia inarmonico
     Gii orecchi, come

In una musica
     Solenne e grave,
     Un corno, un óboe
     Fuori di chiave.

Con un olimpico
     Cenno di testa,
     La tozza e burbera
     Dea della festa,

Benedicendoci
     Dal suo divano,
     C’insacca al circolo
     A mano a mano.

In brevi, rauchi,
     Scipiti accenti,
     Pagato il dazio
     De’ complimenti,

Stretto per l’andito
     Sfila il bon ton;
     Si stroppia, e brontola
     Pardon, pardon.

O quadri, o statue,
     O sante travi,
     Che del vernacolo
     Rozzo degli avi

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Per cinque secoli
     Nauseate,
     Coll’appigionasi
     Vi compensate;

Soffrite l’alito
     D’un paesano
     Che per buaggine
     Parla italiano.

Là là inoltrandomi
     Pigiato e tardo,
     Fra ciuffi e riccioli
     M’allungo, e guardo

Ove mefitici
     Miasmi esala
     Una caldaia
     Chiamata Sala.

Come, per muoversi
     D’occulto ingegno,
     Girano e saltano
     Gruppi di legno

Su questi ninnoli
     Della Germania,
     Così parevano
     Presi alla pania;

Così scattavano
     Duri, impiccati,
     Fantasmi e scheletri
     Inamidati.

Ivi non gioia,
     Non allegria,
     Ma elegantissima
     Musoneria;

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Turate l’anime,
     Slargati i pori
     A smorti brividi
     Di flosci amori;

Gergo di stitica
     Boria decente,
     Ciarlío continuo
     Che dice niente.

Ecco si rompono
     Partite e danze:
     S’urta, precipita
     Nell’altre stanze

La folla, e assaltano
     Dame e Signori
     Bottiglie, intingoli
     E servitori.

Per tutto un chiedere,
     Per tutto un dare,
     Stappare, mescere,
     E ristappare;

Un moto, un vortice
     Di mani impronte,
     E piatti e tavole
     Tutte in un monte.

Oltre lo stomaco,
     Da quella cena
     Molti riportano
     La tasca piena,

E nel disordine,
     Nel gran viavai,
     Spesso ci scappano
     Anco i cucchiai.

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PARTE SECONDA.


Lì tra le giovani
     Nuore slombate,
     E tra le suocere
     Rintonacate;

Tra diplomatiche
     Giubbe a rabeschi,
     E croci e dondoli
     Ciarlataneschi;

Veggo l’antitesi
     Di quattro o sei
     Eterogenei
     Grugni plebei.

A me che ho reproba
     La fantasia
     Per democratica
     Monomania,

Piacque lo scandalo
     Dei dommi infranti
     In quel blasonico
     Santo dei Santi;

Ma poi ficcandomi
     Là tra le spinte,
     Mi stomacarono
     Tre laide grinte.

Una è crisalide
     D’un quondam frate:
     Oggi per celia
     Si chiama abate,

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Ma non ha cherica,
     Non ha collare;
     Devoto al pentolo
     Più che all’altare.

Caro ai gastronomi
     Per dotta fame,
     Temuto e celebre
     Per fama infame,

Narrando cronache
     E fattarelli,
     Magagne e debiti
     Di questi e quelli,

Compra se biasima,
     Vende se loda,
     E per salario
     Lecca la broda.

Gratificandosi
     Fanciulle e spose,
     Gioca per comodo;
     E mamme uggiose

E paralitici
     Irchi divaga:
     Ruba, fa ridere.
     Perde e non paga.

È l’altro un nobile
     Tinto d’ieri,
     Re cristianissimo
     Dei re banchieri.

Scansando il facile
     Prete e la scure,
     Già dilettavasi
     Di basse usure;

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Oggi sollecito
     D’illustri prese,
     Sdegnando l’obolo
     Camaldolese,

Nel nobil etere
     Sorse veloce,
     E al paretaio
     Piantò la croce.

Come putredine
     Che lenta lenta
     Strugge il cadavere
     Che l’alimenta,

E propagandosi
     Dai corpi infermi
     Par che nel rodere
     S’attacchi ai vermi;

Così la rancida
     Muffa patricia,
     Da illustri costole
     Senza camicia

Spinte dal debito
     Allo spedale,
     S’attacca all’ordine
     Della Cambiale;

E già ripopola
     Corti e Casini
     Una colonia
     Di scortichini.

Di quei Lustrissimi
     L’odio sommesso
     Lo scanna e inchinasi
     Nel tempo istesso;

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Ed ei burlandosi
     D’odii e d’onori,
     Conta e girondola
     Tra i debitori.

Il terzo è un profugo,
     Perseguitato
     Peggio d’un utile
     Libro, stampato

Senza le barbare
     Al birro e al clero
     Gabelle e decime
     Sopra il pensiero.

Ferito a Rimini,
     Quest’infelice
     Scappò di carcere
     (Almen lo dice);

Errò famelico,
     Strappato ed egro;
     Si sogna il boia,
     Ma dorme allegro.

O della patria
     Sinceri figli,
     Degni d’un secolo
     Che non sbadigli!

Con voi magnanimi,
     Non entri in lega
     Chi del patibolo
     Si fa bottega.

Come Alcibiade
     Variando norme,
     Questo girovago
     Proteiforme,

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Trasfigurandosi
     Tende la rete:
     A Londra è un esule,
     A Roma è prete.

Briaco a tavola
     Co’ Ciambellani,
     Ai Re fa brindisi
     Oggi; domani

Vien meco, e recita
     O Italia mia!
     Le birbe inventano
     Che fa la spia.


PARTE TERZA.


Ad una tisica
     Larva sdentata,
     Ritinto giovane
     Di vecchia data,

Che stava in bilico
     Biasciando in mezzo,
     Di quel miscuglio
     Mostrai ribrezzo.

Oggi che a miseri
     Nomi ha giovato
     La trascuraggine
     Del tempo andato,

E si perpetua
     Ogni genia
     Per gran delirio
     D’epigrafia;

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Mi scusi l’epoca
     Se anch’io m’induco
     Al panegirico
     Di questo ciuco.

Nacque anni domini
     Ricco e quartato;
     Morto di noia
     Dov’era nato,

Per controstimolo
     Corse oltremonte:
     Di là, versatile
     Camaleonte,

Tornò mirabile
     Di pellegrini
     Colori, e al solito
     Finì i quattrini.

E adesso ai Tartari
     Cresi cucito,
     Ombra patrizia
     Tutta appetito,

Ripappa gli utili
     Nel piatto altrui
     Del patrimonio
     Pappato a lui.

Costui negli abiti
     Strizzato e monco,
     Si stira, s’agita
     Si volta in tronco;

E con ironica
     Grazia scortese,
     Nel suo frasario
     Mezzo francese,

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Disse: — eh goffaggini!
     State a vedere,
     E divertitevi:
     Col forestiere

Che spende, e in seguito
     Ci rece addosso,
     Bisogna mungere
     E bever grosso.

Po’ poi, le nenie
     Messe da banda,
     Cos’è l’Italia?
     È una Locanda.

L’oste non s’occupa
     Di far confronti;
     I galantuomini
     Gli tasta ai conti:

E fama, credito,
     Onore insomma,
     Son cose elastiche
     Come la gomma.

Certo, le topiche
     Zucche alla grossa,
     Col mal di patria
     Fitto nell’ossa;

Un malinconico,
     Legato al fare
     E alla grammatica
     Della comare,

Vi cita il Genio,
     L’Arti, la Storia...
     Tutti cadaveri
     Buona memoria.

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Io tiro all’ostriche,
     Nè mi confondo.
     Sapete il conio
     Che corre al mondo?

Franchezza, spirito,
     E tirar via:
     Il resto, è classica
     Pedanteria. —

Io, che spessissimo
     Mi fo melare
     Per vizio inutile
     Di predicare,

Punto nel tenero,
     Risposi: — è vero,
     Questo è l’ergastolo
     Del globo intero.

Se togli un numero
     Di pochi onesti
     Che vanno e vengono
     Senza pretesti,

Nella Penisola
     Tira a sboccare
     Continuo vomito
     D’alpe e di mare.

Piovono e comprano
     Gli ossequi istessi
     Banditi anonimi,
     Serve e Re smessi,

A cui confondersi
     Col canagliume,
     Non è che un cambio
     Di sudiciume.

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A questa laida
     Orda e marame
     Di Conti aerei,
     D’ambigue dame,

Irte d’esotica
     Prosopopea,
     Noi vili e stupidi
     Facciam platea;

E un nome vandalo
     In offe o in iffe,
     Ci compra l’anima
     Con un rosbiffe.

Eh via, son fisime
     Di testa astratta,
     Riprese il martire
     Della cravatta;

Son frasi itteriche
     Del pregiudizio:
     Bella! ha gli scrupoli!
     Oh! addio novizio. —

E presa l’aria
     Dell’uomo avvezzo,
     Andette a bevere
     Tutto d’un pezzo.