Versi editi ed inediti di Giuseppe Giusti/A Girolamo Tommasi
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A GIROLAMO TOMMASI.
ORIGINE DEGLI SCHERZI.
Girolamo, il mestier facile e piano
Che gl’insegnò natura ognun rinnega,
E vuol nei ferri dell’altrui bottega
Spellar la mano.
Ognuno in gergo a scrivacchiar s’è messo
Sogni accattati, affetti che non sente,
Settario adulator della corrente,
O di sè stesso.
In due scuole vaneggia il popol dotto:
La vecchia, al vero il torbo occhio rifiuta;
La nuova, il letterario abito muta
Come il panciotto.
Di qua, cervel digiuno in una testa
Di stoppa enciclopedica imbottita,
D’uscir del guscio e d’ingollar la vita
Furia indigesta;
Calvo Apollo di là trotta alla zuffa
Sul Pegaso arrembato e co’ frasconi:
Copre liuti e cetre e colascioni
Vernice o muffa.
Aggiungi a questo un tirar giù di lerci
Sonniferi che il torchio transalpino
Vomita addosso a noi, del Figurino
Bastardi guerci;
E tosto intenderai come dal verme
Di bavose letture allumacato,
Del genio paesano appena nato
Raggrinza il germe.
Non tutti il vento forestiero intasa;
V’ha chi bee le native aure vitali:
Ma non è già chi spolvera scaffali
Tappato in casa;
E sol perchè di Cronache e Leggende
E di scene cucite un sudiciume,
Per carestia, per noia e per costume
Si compra e vende,
Pensa e s’allenta in pueril conato
Di Storia o d’Epopea, tisico a tanto,
O sotto il peso di tragico manto
Casca sfilato;
O briaco di sè scansa la gente,
E per il lago del cervello oscuro
Pescando nel passato e nel futuro
Perde il presente:
Ma quei cui non fann’ombra all’intelletto
La paga, il boia e gli altri spauracchi;
Che si misura senz’alzare i tacchi
Col suo subietto;
Che benedice alla nativa zolla,
Nè baratta sapore o si tien basso,
Se, Dio volendo, invece d’ananasso
Nacque cipolla.
Varian le braccia in noi, varia l’ingegno
A diversi bisogni accomodato:
E trono e forca e seggiola e steccato
Non fai d’un legno.
Tommasi, l’umor mio tra mesto e lieto
Sgorga in versi balzani e semiseri;
Nè so piallar la crosta ai miei pensieri,
Nè so star cheto.
Anch’io sbagliai me stesso, e nel bollore
Degli anni feci il bravo e l'ispirato,
E pagando al Petrarca il noviziato
Belai d’amore;
Ma una voce segreta ogni momento,
Giù dai fondacci della coscîenza,
Mi brontolava in tutta confidenza:
«Muta strumento.
» Perché temi mostrar la tua figura,
» Se nella giubba altrui non l’hai contratta?
» Dell’ombra propria, come bestia matta,
» Ti fai paura.
» I tuoi concetti, per tradur te stesso,
» Rendi svisati nel prisma dell’arte,
» E di secondo lume in sulle carte
» Torbo reflesso.
» L’indole tua così falsificando,
» Se fai d’alchimia intonaco alla pelle,
» Del tempo passerai dalle gabelle
» Di contrabbando?
» Scimmia, se gabberai le genti grosse,
» Temi l’orecchio spalancato al vero
» Che ne’ tuoi sforzi dell’inno guerriero
» Sente la tosse.
» Chi nacque al passo, e chi nacque alla fuga:
» Invano invano a volgere il molino
» Sforzi la zebra, o a farti il procaccino
» La tartaruga.
» Lascia la tromba e il flauto al polmone
» Di chi c’è nato, o se l’è fitto in testa;
» Tu de’ pagliacci all’odierna festa
» Fischia il trescone.»
Ed ecco a rompicollo e di sghimbescio
Svanir le larve della fantasia,
E il medaglione dell’ipocrisia
Vôlto a rovescio.
Come preso all’amor d’una devota,
Se casca il velo rabescato in coro,
Vedi l’idolo tuo creduto d’oro
Farsi di mota,
Veggo un Michel di Lando, un Masaniello
Bere al fiasco di Giuda e perder l’erre;
Bruto Commendatore, e Robespierre
Frate e Bargello:
Mirare a tutto e non avere un segno;
Superbia in riga d’Angelo Custode;
Con convulsa agonia d’oro e di lode
Spennato ingegno;
Un palleggiar di lodi inverecondo;
Atei-Salmisti, Tirtei coll’affanno,
E le grinze nel core a ventunanno,
Lordare il mondo.
Restai di sasso; barattare il viso
Volli e celare i tratti di famiglia:
Ma poi l’ira, il dolor, la maraviglia
Si sciolse in riso;
Ah, in riso che non passa alla midolla!
E mi sento simíle al saltambanco,
Che muor di fame, e in vista ilare e franco
Trattien la folla.
Beato me, se mai potrò la mente
Posar quïeta in più sereni obietti,
E sparger fiori e ricambiare affetti
Soavemente.
Cessi il mercato reo, cessi la frode,
Sola cagion di spregio e di rampogna;
E il cor rifiuta di comun vergogna
Misera lode.
Ma fino a tanto che ci sta sul collo,
Sorga all’infamia dalla nostra voce,
Di scherno armata e libero e feroce,
Protesta e bollo.
Come se corri per le gallerie
Vedi in confuso un barbaglio di quadri,
Così falsi profeti e balì ladri,
Martiri spie,
Mercanti e birri in barba liberale,
Mi frullan per la testa a schiera a schiera:
Tommasi, mi ci par l’ultima sera
Di Carnevale.
Ecco i miei personaggi, ecco le scene,
E degli scherzi la sorgente prima:
Se poi m’è dato d’infilar la rima
O male, o bene,
Scrivo per me, scemandomi la noia
Di questa vita grulla e inconcludente,
Torpido per natura, e impazïente
D’ogni pastoia.
Chi mira al fumo, o a quello che si conia,
Dalle gazzette insegnamenti attinga,
E là si stroppi il cranio, o nella stringa
Del De Colonia.
Centoni, Fantasie scriva a giornata;
Venda la bile, il Credo e la parola,
Mentre gli pianta il cómpito alla gola
Libraio Pirata,
Che avaro e buono a nulla, esige mondi
Da te che mostri un’oncia di valore;
E co’ romanzi galvanizza il core
De’ vagabondi.
Io no: non porterò di Tizio o Caio
Oltramontane o arcadiche livree,
Nè per lisciarle affogherò l’idee
Nel calamaio.
Non sarò visto volontario eunuco
Recidermi il cervel, perch’io disperi
La firma d’un Real Castrapensieri
Birbone e ciuco.
Se posso, al foglio non darò rimate
Frasi di spugna, o copie o ipocrisie;
Nè per censura pubblica le mie
Stizze private.
Ma scrivendo là là quando mi pare
Sulle farse vedute a tempo mio,
Qualcosa annasperò, se piace a Dio,
Nel mio volgare.
Laudato sempre sia chi nella bara
Dal mondo se ne va col suo vestito:
Muoia pur bestia; se non ha mentito,
Che bestia rara!