Un nido/II
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PARTE SECONDA
Sulle rive della Sonna.
«O monti, o fiumi, o prati, |
Quell’istante dolce e solenne in cui il bocciolo diventa fiore, quel mattino superbo della vita in cui la nostra immaginazione travede insognati splendori, si riflette e si fissa sugli oggetti intorno per modo che noi ritornando dopo molti anni, vecchi e disillusi, vediamo sorgere come per incanto da ogni albero una rimembranza, da ogni sasso una memoria, e volgendoci indietro sui sentieri calcati dalle nostre orme giovanili, ci par di rileggere una pagina dimenticata.
Io lo cerco questo angolo tranquillo, quando, sorvolando nel rapido treno le pianure lombarde, vedo sorgere la prima ondulazione dei monti bergamaschi e tra le sponde romite e verdi scintillare come uno specchio l’Adda.
Io lo cerco avidamente, quando, lasciandosi addietro la Brianza, Lecco, le stazioni rumorose, le villeggiature eleganti della società milanese, il treno si ferma ed io sola mi inoltro per i sentieri, bianchi fra due righe di verde, serpeggianti sulla montagna.
Un’aria di felicità serena e grandiosa domina quei luoghi poco frequentati, dove spunta da ogni fessura di sasso un alberello e dove dai muri di granito piove l’edera attorcigliata in graziosissimi festoni.
Il sole sembra giocare a rimpiatterello dietro i cocuzzoli delle fitte colline, entro i boschi di abeti, giù per le stradicciuole che costeggiano i campi di vite e di grano turco; non è il sole sfacciato delle strade maestre; in quelle viuzze tutte ombra e mistero i raggi più infocati si temperano passando attraverso le foglie, ripercotendosi sull’erba fina e fresca.
La ruota intermittente di un povero mulino, il passo di un asinello, il canto di un fanciullo rompono tratto tratto la quiete, e l’eco che non si desta a quei brevi rumori conserva al paesaggio il suo tipo di calma, di serenità, di pace.
Un poeta vorrebbe andarvi per cantare e un filosofo per vivervi.
Oltre l’Adda c’è un paese il cui nome pare una dedica alle capre forse abitatrici una volta di quei dirupi. Ora di capre non se ne vedono più, ma il nome resta e il paese si distende stretto e lungo come una tela posta ad asciugare fiancheggiata da case grigie, antichissime, fra le quali risalta una mezza dozzina di palazzetti moderni, e ad onta di queste incastonature l’aspetto generale è vetusto, cresciuto dal silenzio e dalla solitudine che regnano da un capo all’altro.
Certi balconcini di legno, neri, traforati, sporgenti dal sasso, come da un torrione antico, hanno un’espressione medioevale.
Nessuna castellana tuttavia appare su quei balconcini — appena qualche vecchia grinzosa distende i pannilini al sole, o qualche rustica vergine dalle mani incallite annaffia il fido garofano.
Fuori del paese corre in su una bella via ridente e giovane, saltando burroni e vallicelle, perdendosi sotto il frascame delle robinie e dei biancospini — e se voi, o lettore di quindici anni, vi trovaste in una blanda sera di maggio su quella via, al lume della luna, e se una mano cara stringesse la vostra e tutto intorno dai monti e dai boschi, dal cielo e dai prati vi salissero al capo i profumi inebbrianti della gioventù e dell’amore, o felice fanciullo, che potreste desiderare ancora?
Paralleli al paese, da una parte e dall’altra, s’affondano nel verde di due gole ristrette due torrentelli che, nati nella Val d’Imagna coi nomi fraterni di Sonno e di Sonna, scorrono «in vicinanza coraggiosa e monda» oltre il paese, fino a Cisano, dove il fraterno amore mutando nome si uniscono pudicamente in matrimonio sotto l’arco di un ponticello e da quello sboccano fuori congiunti in un solo letto e in un solo nome.
L’origine del torrente, è poetica, e poeticissima la piccola valle della Sonna, quantunque nessun passo risonante di inglese ne abbia mai ripercossi i modesti sentieri, nessuna guida ne parli, nessun corrispondente in voga ne abbia narrate le meraviglie ai suoi centomila lettori. Poeticissima, ma umile, senza effetti trascendenti, senza cascate, senza abissi, senza orizzonti.
Il suo maggior incanto è la solitudine e una quiete profonda; sembra di essere ai confini del mondo.
Sui due versanti della collina non si vede per grazia di Dio alcuna villa signorile dipinta di bianco e di rosso col giardinetto alla francese, e mai l’ombra di un cameriere colle basette e colle scarpe lucide offusca l’acqua chiara del torrente.
In certi punti, a certi svolti repentini, la valle è così ristretta che le opposte colline hanno l’aria di volersi abbracciare e confondere insieme, come due amanti, le loro chiome di fragole e di viole.
La vegetazione è copiosa, intricata, variatissima; in un solo palmo di terra si trova un cespuglietto di more selvatiche, una pianticella di malva, un ciuffo d’erba, un gambo di trifoglio e uno d’acetosella, e poi altre fogliuzze ancora e piantine alte come la falange di un dito, verdi scure, verdi pallide, bianchicce, rosa, lucide, opache, pelose, trasparenti, frastagliate, rotonde, aguzze; e a guardarci bene se ne scoprono sempre di nuove, con mille forme stravaganti e gentili, senza nome, senza scopo, senza nessun’altra missione, oltre quella d’essere belle e di ridere un giorno al sole profumando la valle.
Al di sopra di questo piccolo mondo, che vive fra i sassi, si innalza il gran mondo dei castani, dei pioppi, degli abeti e la numerosa famiglia delle querce. Piantate in tutti i sensi, esse sporgono capricciose sulla china, vestite d’edera, colle radici inumidite dalla filtrazione del torrente quasi tutte contorte, rovesciate, gibbose, piegate a norma del suolo, del vento o del loro beneplacito, da sultane viziate in un harem deserto. Vengono su un po’ qui, un po’ là, sparse a gruppi, in fila, assediate tutto in giro dai pruni silvestri — timidi adoratori.
Tutto questo verde così fitto, così ombroso forma un gran manto sulle spalle della montagna; ma come molti manti, è strappato anche esso e mostra tratto tratto la pietra nuda, di un grigio uniforme, filamentosa, a strati come un libro — e fa venire la tentazione di sfogliarla per leggervi l’epopea dei secoli.
⁂
Editta, nei suoi tempi felici di Bruxelles, aveva conosciuto due persone — padre e figlia. Il padre ricco, solo al mondo, senza ambizione e senza desiderii, non viveva che per quella sua unica ragazza; punto bella, punto distinta, priva d’ogni ingegno e d’ogni grazia, ma che per lui rappresentava il compendio delle perfezioni umane.
Erano italiani e viaggiavano per svago. Da vent’anni — che tanti ne contava la figlia — il padre non l’aveva mai abbandonata. Amici, relazioni, progetti d’una volta, abitudini, inclinazioni tutto egli aveva lasciato per lei. Il suo amore cieco e geloso, passivo come quello d’un cane, si pasceva a contemplarla, a subirne tutte le voglie, realizzarne tutti i capricci.
Lei, ignorante e pigra in sommo grado, di capricci non ne aveva molti, o erano così puerili e limitati che il padre non rifiniva di lodare la sua bontà e moderatezza. Un abito, un pasticcetto, dormir tardi, la mattina, non far nulla, ma proprio nulla di nulla, erano le sue gioie. Spirito, istruzione, piaceri della mente, libri, musica, poesia, erano lettera morta; e il padre, che pur non era volgare, che aveva passato la gioventù ben altrimenti che satollandosi di dolciumi, non aveva occhi che per quella sua diletta, ed istupidiva anche lui per mettersi allo stesso livello. Estremo ridicolo di un sentimento sublime.
Si capisce che l’amicizia non poteva essere molto intima con Editta. La figlia del contino francese, del poeta, dell’emigrato, spaziava in un’atmosfera superiore, tutta sogni grandiosi e compiacenze spirituali; essa che viveva quasi esclusivamente di idee, si trovava davvero troppo lontana da quell’altra che gavazzava nella prosa dei fatti compiuti; però come accade nel mondo, si salutavano per convenienza, e una sera al caffè, bevendo una ghiacciata di lamponi, avevano scambiato il dolce nome d’amica.
La ricca, brutta e goffa, ammirava l’eleganza innata della fanciulla povera, incapace tuttavia di imitarla, invidiandola un pochino e tormentando la sarta perchè le facesse un vestito da poterla rendere altrettanto bella e distinta.
La mania di copiare Editta per rapirle il segreto delle sue grazie la conduceva spesso nel modesto appartamento del poeta e se da questa frequenza non nacque un vero affetto simpatico tra le due famiglie, si stabilì però insensibilmente un legame d’abitudine, una mutua stima, qualche cosa insomma che ne faceva un po’ le veci.
Durante la malattia di Vergy, il signor Bruno dimostrò l’interesse più affettuoso, e dopo, quando Editta rimase orfana, egli che contava rimpatriare, le fece la proposta di venire a stabilirsi con lui, compagna e istitutrice della propria figlia.
Ma Editta allora accarezzava altre speranze; non conoscendo i suoi parenti di Milano, le parve quella più gradevole vita, persuasa che l’avrebbero accolta bene e amata e fatte le veci dei genitori che non aveva più.
Caduta l’illusione, trovatasi più sola, più povera di prima, Editta pensò che, poichè il suo destino la condannava a mangiare il duro pane degli altri, meglio era guadagnarselo e acquistare colle proprie fatiche il diritto di essere indipendente.
Presa questa risoluzione repentina, violenta, com’era violento il suo carattere, e spronandola l’orgoglio in lei potentissimo, senza porre indugio volò dalla casa Spiccorlai alla nuova dimora, dove viveva Bruno colla figlia.
L’ultimo capriccio di costei era stato per la campagna, e così dopo aver percorse quasi tutte le capitali d’Europa essi se ne stavano ritirati in quel paese della provincia di Bergamo che ho già descritto.
Editta vi giunse una sera al cader di febbraio.
Bruno leggeva accanto al fuoco, alzando ad ogni momento lo sguardo inquieto sulla figlia che, in piedi, col dorso, alla fiamma, si dondolava. Era diventata più brutta, immensamente magra, con due solchi dietro le orecchie e queste tese, trasparenti, cartilaginose come brandelli staccati da una vecchia pergamena. Gli occhi cristallini, senza scintille, giravano lenti nell’orbita con una espressione di dolcezza sciocca. La bocca dischiusa, il labbro pendente scoprivano i denti verdastri, guasti dall’eccesso dello zucchero. Aveva le spalle un po’ curve, il petto e le anche stretti, il ventre grosso. Lunghi piedi, lunghe braccia e lunghe mani stecchite colle unghie cortissime per l’abitudine di rosicchiarle.
Vestiva riccamente, colla gonna a strascico sopraccarica di ornamenti, ma aveva due bottoni slacciati alla vita e una cravatta rossa macchiata di brodo; aveva tre o quattro braccialetti d’oro che si cozzavano senza scintillare, perchè l’incuria li aveva resi opachi, sì da parere d’ottone sudicio.
Padre e figlia non parlavano, però il padre guardava lei intensamente, e il giornale gli sfuggiva a poco a poco dalle mani cacciato da un pensiero doloroso che gli faceva contrarre le dita.
⁂
Quando Editta comparve, pallida e bruna, nel cerchio luminoso della lucerna col suo scialle da viaggiatrice sul braccio e l’altro pendente a raccogliere il lembo della gonna, la ragazza si staccò dal camino e sorridendo con stupore mormorò: ah! intanto che un chiodo, rattenendola per il vestito, vi faceva uno strappo.
Bruno si mostrò immensamente lieto della visita. Strinse le mani di Editta, la fece sedere, la tempestò di domande, ma si fermò sbigottito udendo un piccolo colpo di tosse; guardò sua figlia.
— Hai tossito. Rachele?
— Io no, non ho tossito; è una caramella che m’è andata per traverso.
Bruno soffocò un sospiro.
— È un po’ raffreddata — disse volgendosi a Editta — non vuole aversi riguardo, benedetta bambina! Ora prende le pasticche d’altea. Ne hai ancora di pasticche, Rachele?
— Sì, ne ho, ma non mi piacciono; preferisco le caramelle di limone e più ancora gli africani colla crema.
Bruno sorrise. Egli era persuaso che sua figlia avesse molto spirito, e che soltanto una invincibile timidità la trattenesse dal farne mostra. Editta non ebbe bisogno di cercare una frase conveniente per esporre il motivo della sua venuta, nè di doversi umiliare a dire: Sono qui da voi perchè non so dove andare.
Bruno la prevenne con un’insistenza così gentile, che l’orfanella ne fu proprio commossa. Anche Rachele unì le sue preghiere, intanto che osservava i capelli di Editta raccolti in modo graziosissimo sull’estremità della nuca, e promettendo a sè stessa di farsi insegnare una pettinatura che stava tanto bene.
— Sai? — disse la giovane istitutrice con un piglio di serietà amichevole — riprenderemo il corso delle tue lezioni di lingua inglese. Oh! studieremo.
— Per l’amor del cielo! — esclamò l’altra. — A questo patto non ti voglio.
— No? Allora ti farò vedere due o tre punti di ricamo che ho imparati da mia zia Amarilli.
— Nemmeno, nemmeno — continuò Rachele — lo studio mi fa male alla testa e il lavoro mi fa male alle braccia. Noi anderemo a spasso, mia cara, e la sera mi leggerai Il Ritorno di Rocambole; è molto interessante.
Bruno si affrettò a soggiungere:
— In verità, Rachele è un’ottima ragazza, ma ha l’abitudine di metter fuori tutte le fanciullaggini che le passano per il cervello... e poi...
La fronte del povero padre si rannuvolò. Lo stesso pensiero, sempre quello, profondo e doloroso, gli si dipingeva sul volto; strinse le labbra per non parlare, e si pose ad accarezzarsi macchinalmente la barba.
Editta si trovava un po’ imbarazzata.
Fortunatamente la sua compagna, che si era seduta colle gambe a cavalcioni e che da qualche istante sbadigliava rosicchiandosi le unghie, esclamò improvvisamente:
— Io ho sonno. Andiamo a letto?
La proposta fu accettata con piacere. Rachele si ritirò subito nella sua camera, ma siccome quella di Editta non era preparata, Bruno la invitò ad aspettare un momento accanto al fuoco. Appena furono soli prese con vivacità la mano di Editta e le chiese ansante:
— Come l’ha trovata?
E perchè Editta, colta così all’impensata, non rispondeva subito, egli ricadde con angoscia sulla sedia mormorando:
— Male... male... lo so.
— No, creda, non mi pare. Forse un po’ magra...
— Sì! Sì! — interruppe Bruno — molto magra; e quei zigomi rossi li ha osservati? e...? — alzò l’indice e lo pose dietro l’orecchio — e la tosse?
— Oh! la tosse non si sente nemmeno.
— Già. È appunto quella.
L’accento di Bruno mentre diceva: — è appunto quella — scosse Editta e le accese come una luce davanti agli occhi.
In quel mentre si udì dalla scala la voce di Rachele:
— Editta! Editta! Vieni un po’ su, fa vedere alla mia cameriera come sei pettinata.
— Gliela raccomando — disse il povero padre seguendo Editta sui primi scalini — me la tenga allegra; ha bisogno di distrazioni, di discorsi con fanciulle della sua età. Come ha fatto bene a venire! È Dio che l’ha ispirata. Le suggerisca, lei come lei, il catrame: a me non vuol dar retta. La persuada a stare coperta.
Rachele che aspettava la sua amica, mezzo spogliata, sul ballatoio, tossì un poco.
Bruno soggiunse ancora: — Gliela raccomando!
— E trovandosi solo, al buio, in fondo alla scala, lasciò cadere silenziosamente una lagrima.
⁂
Quante ne ho conosciute! — dice il poeta delle Orientali — una era bianca e rosa, l’altra aveva gli occhi neri brillanti sotto la nera mantiglia — e sono morte! Quante ne abbiamo conosciute noi tutti!
Nascono gioia e speranza della madre; vengono su vispe e folleggianti, paiono robuste. Uscite dall’infanzia, spiegano sorridendo le loro ali da angelo ancora candide e immacolate verso le misteriose tentazioni del futuro. L’alba della giovinezza imperla le loro fronti spensierate e serene; la vita le aspetta ne’ suoi vortici frementi, l’amore le chiama.... povere colombe, che non vedranno il nido!
Oggi tossiscono un poco; domani hanno la febbre; doman l’altro la madre pazza di dolore ne comporrà le fredde mani sul loro petto di vergine.
Tremenda malattia che simile al mostro della favola divora ogni anno centinaia di fanciulle, sorda alle preghiere, ribelle alla scienza, cinica e spietata nella sua sete inestinguibile di sangue giovanile — poichè ad essa abbisognano le vittime giovani e belle, cinte di fiori come sulle are antiche.
Rachele non era bella, e nulla sotto a questo rapporto la consacra alla pietà del poeta; ma nell’ordine della natura è pure un atomo del gran tutto; è un essere — sia anche fra gli ultimi — che ha diritto alla sua porzione di esistenza, di aria, di sole, di gioia, di lagrime. Ella doveva avere il tempo per lo meno di pagare quanto aveva costato — tutte le ansie, tutte le veglie, tutti i sacrifici — doveva essere il conforto della vecchiaia di suo padre. Era tanto amata che doveva vivere; solo chi non ha amore può morire senza rimpianti.
Vedendola sempre, stando insieme, un po’ la tosse, un po’ gli altri sintomi indicati da Bruno, e che erano evidentissimi, Editta si persuase che la sua compagna era seriamente ammalata, e quello che non aveva potuto fare la simpatia fece la compassione: Editta amò Rachele. Dunque cure grandissime, previdenze quasi materne, una pazienza, una dolcezza inalterabili.
Rachele, naturalmente, non credeva al suo male. Un semplice raffreddore, diceva essa, una cosa da nulla. Quando tossiva era sempre perchè le era andato un non so che a traverso; del rossore degli zigomi accusava il fuoco del caminetto; del pallore delle guancie il freddo preso fuori.
Impossibile farle prendere medicine, aveva fissato il chiodo sulla floridezza della propria salute e nessuno poteva smuoverla.
Questa sicurezza, questa baldanza imperiosa e decisa non ingannavano Editta, che anzi riconosceva in esse un pronostico allarmante; ma Bruno fu illuso. Desiderava troppo di sperare, per non aiutare lui stesso la speranza. Si fa sempre così.
E non si parlò più nè di male, nè di rimedii; Rachele viveva a suo talento, senza regola e senza norma; pareva che la tosse fosse un po’ assopita, essa giurava di non esser mai stata tanto bene. Bruno diceva:
— La gioventù è come le piante; non ho io forse in giardino quell’alberello di mele che temevo di veder morire da un momento all’altro? Tutto l’inverno è stato vizzo e male andato; chi gli avrebbe offerto un baiocco? Ed ecco già che ai primi soffii della primavera rinasce e si rafforza di una vita novella.
Il pover’uomo avrebbe dovuto soggiungere:
Sì, la gioventù è come le piante: finchè una goccia d’umore fecondo circola nelle radici, la primavera compie il miracolo; ma quando quella goccia manca, soffiano invano le tiepide aure!
Marzo era passato co’ suoi venti impetuosi spazzando la cima delle alpi e portando giù nelle valli il profumo delle prime viole. Le colline perdevano le tinte brulle e nebbiose per vestirsi di tenero muschio: fra l’erbetta nascente brulicavano colle alucce di velo i moscerini, e dalle praterie lombarde, dove avevano svernato, salivano ai monti le mandrie giulive, facendo tintinnire i sonagli cui accompagnava il canto lento dei pastori.
La primavera, incantevole sempre, aveva seduzioni speciali, quasi ingenue in quell’angolo tranquillo pieno di verde e di silenzio.
Le due fanciulle scendevano spesso il sentiero che dal paese conduce alla Sonna, ma ben presto Rachele trovò questa passeggiata monotona, e preferì la via maestra dove almeno s’incontrava qualcuno; ma appunto per questi qualcuno non potevano andarvi sole, essendo il decoro e le convenienze più intolleranti ancora nei piccoli paesi che nelle città.
Bruno dovette unirsi a loro. Così accadeva molte volte che Editta, non trovandosi necessaria, chiedeva il permesso di rimaner sola — e tutta sola slanciavasi come giovane gazzella giù per i sentieri del torrente; sedeva in riva all’acqua, sui sassi, e, volgendo intorno lo sguardo nella fresca solitudine, sprigionava un grido di libertà che gli echi della valle ripercotevano.
Erano le ore felici di Editta.
⁂
Chi ci insegna la verità? Io la vado cercando e non la trovo.
Ha ragione lo stoico impassibile che governa il suo cuore come un orologio? Ha ragione il fanatico che attraversa la vita spiritualmente guardando oltre la tomba? O dobbiamo noi credere al poeta?
Che mai doman possa avvenir, non cerca |
Vi è una quarta opinione, che consiste nel non preoccuparsi affatto di queste tre. Beato chi la segue.
Ma si danno anime irrequiete e superbe che non accettano l’elemosina del pane quotidiano, che trovandosi, come Amleto, ricche e amate, hanno bisogno di crearsi quel dolore che l’avara natura non ha loro concesso.
Sono le anime superiori, non c’è che dire. La plebe che spasima per la fame, non sa che cosa voglia dire spasimare per un’idea; e i ricchi ignoranti, che affogano nell’oro, non pensano che vi possa essere una cupidigia maggiore — la cupidigia del sapere.
Tutti i germi poetici del padre, semente caduta da un albero che la bufera aveva atterrato, fremevano nel sangue di Editta. Era ideale e aristocratica, giudicava tutto da un sol punto di vista, e siccome precipitava i suoi giudizi e difficilmente si decideva a ripudiarli, la verità, quella verità ch’essa tanto amava, le sfuggiva spesso. Credeva di essere positiva, ma il capo le spaziava nelle nubi fra sogni e splendori rosei.
Cresciuta in mezza ai libri e alla poesia scritta, le era ignota la poesia suprema della natura, e se prediligeva le rive della Sonna, non era tanto per la bellezza del luogo come per trovarsi libera coi suoi pensieri.
Ella fantasticava lungo il corso del placido torrentello senza curarsi dei perfettamori che le fiorivano sotto i piedi o dei ciclamini che profumavano l’erba.
Che cosa pensava? Che cosa desiderava? Essere felice; in che modo?
Le persone come lei non arrivano facilmente a tale meta, e si accontentano quasi sempre di una mediocrità orgogliosamente sopportata.
Vi è una poesia che è luce, ma ve n’è una che è nebbia; questa nebbia appunto avviluppava il cervello di Editta, che avrebbe voluto il mondo popolato da eroi, e che incontrando degli uomini, si ritraeva sdegnosa.
Era troppo sagace per rappresentare il personaggio della fanciulla ingenua, ma non era nemmeno una donna, perchè della donna le mancava la sapiente esperienza e la bontà indulgente.
Era cara, gentile, simpatica, ma qualche cosa di duro, di aspro traspariva a rari intervalli dal suo contegno; pareva alterigia, e forse lo era un poco, ma più assai mancanza di tatto e di quell’arte superiore di affratellarsi con tutti che, ove non sia in natura, è difficilissima ad acquistarsi.
Editta non si abbandonava, ecco. Una grande stima di sè stessa (che è la base dei caratteri forti), scompagnata dalla tolleranza dei difetti altrui, le rendeva insopportabili la vacuità e l’ignoranza che abbondano tanto in questo nostro gregge umano, e chiudendosi subito in sè stessa come diffidente sensitiva, trascurava di cercare il lato buono, quello da cui si sopporta.
Così, appena giunta in casa Spiccorlai, ella indovinò, è vero, l’angelico cuore di Amarilli; ma siccome la zitellona si adattava a vivere in quell’ambiente e con quelle persone, Editta concluse che era un’anima piccola, che non avrebbe potuto comprenderla interamente, senza soffermarsi a indagare le cause di quella rassegnazione, e vedere se ciò che a lei pareva piccolezza non fosse invece il sacrifizio di una grande virtù.
Come si vede, Editta, balzata da una vita placida e gioconda contro gli scogli più ingrati, non aveva avuto il tempo nè l’occasione di formarsi un criterio giusto. Ella non scorgeva che due punti ben distinti: il passato luminoso e l’avvenire buio. Era stata avvezza ad amare soltanto suo padre e sua madre, la loro cameretta, i loro libri, le loro idee; le sembrava di non poter amare niente altro sulla terra.
Al pari di un selvaggio che non si fosse cibato mai che delle radici native, ella passeggiava sotto gli alberi carichi di frutti, ignorando che la natura li maturava per lei.
Ma il grano nascosto nella terra, la larva nel bozzolo, il pensiero nel cranio, tutto ciò che vive sotto le apparenze della morte ha il giorno del gran risveglio. Passioni, affetti, sensibilità, entusiasmo, ogni virtù assopita nel cuore di Editta aspettava quel giorno.
⁂
Nelle sue gite solitarie la fanciulla non si era mai allontanata dalla vista del paese; un meschinissimo mulino posto sull’altra riva della Sonna ne era il termine abituale. Il mugnaio era sempre in giro per i suoi affari; sua moglie, povera donna istupidita dal lavoro e dalla miseria, lavava i cenci al torrente, e non voltava nemmeno la faccia a guardare la forestiera. Editta aveva bensì avuto uno o due impeti di compassione che le suggerivano di fare a quella donna l’elemosina di una parola; ma le sue troppo solite considerazioni la trattennero; si domandava d’altronde che cosa poteva dirle, e finì col non dire nulla.
Molte volle Editta sentiva il cuore gonfio di affetti e un bisogno d’espandersi che si traduceva in una cupa melanconia; era allora più che mai taciturna e passava accanto a quella grande consolazione che si chiama amor del prossimo senza curarla.
Credeva che la solitudine sola le potesse far bene, la cara solitudine che la lasciava a tu per tu co’ suoi pensieri. Fantasticando, poetizzando, si era portata una volta più in su verso la Sonna, sempre nel silenzio di quella valle romita che nemmeno gli uccelli attraversano coi loro gorgheggi e che il mormorio dell’acqua appena anima di cadenze regolari e gravi.
Il passo leggero di Editta non smoveva i ciottoli del sentiero; le foglie immobili sul suo capo lasciavano piovere puri e vermigli gli ultimi raggi del sole; il giorno moriva.
Editta si accorse in tempo di essersi dilungata oltre il consueto e ritornando sulla via fatta, cercò un ponticello di legno, una semplice tavola che il mugnaio gettava al mattino e che — la fanciulla ne concepì subito il sospetto perchè la tavola non c’era più — ritirava al cader del sole come un castellano geloso.
Era uno spiacevole contrattempo; però si poteva entrare al mulino. Editta incominciò internamente un piccolo atto di contrizione e promise a sè stessa di fare ammenda onorevole della sua fierezza; chi sa, sarebbe forse arrivata ad accarezzare colla sua manina sdegnosa il bimbo della mugnaia — ma il mulino era chiuso.
La famigliuola, approfittando che l’indomani era domenica, s’era portata ad un vicino paese, dove alcuni parenti banchettavano per nozze. Editta si trovò dunque sola davanti al torrente che gorgogliava tranquillo in mezzo ai sassi. Non ebbe paura — nel senso più assoluto di questa parola — ma certamente fu un po’ inquieta.
Che fare? L’acqua non era alta, verissimo, ma bisognava per lo meno essere inseguiti o avere il fuoco alle spalle per decidersi a traversarla a guado. Se fosse stato pieno giorno, si sarebbe tolta l’impresa di discendere fino a Cisano per risalire poi dall’altra parte; ma l’ora era tarda; Rachele doveva aspettarla senza dubbio, e il signor Bruno che cosa avrebbe pensato?
Editta si pose a correre di qua e di là, cercando un passaggio o un’idea. Provò a gettare nell’acqua alcune pietre coll’intenzione di passarvi sopra, ma le pietre piccole si affondavano e quelle grosse ella non poteva smuoverle.
Ogni istante che passava rendeva la situazione peggiore. Già il sole era scomparso dietro i monti; la piccola valle si chiudeva nelle ombre del crepuscolo, e il silenzio vi era più solenne che mai.
Editta accumulò le pietre e volle arrischiarsi; ma al primo passo l’acqua le salì fin sopra la caviglia, strappandole un grido di sgomento e di dispetto.
A quel grido rispose un rumore. Non l’eco della sua voce: era uno strepito di passi dietro i noccioli del sentiero.
La fanciulla si rivolse rapidamente, e vide scendere un uomo dalla collina. Aveva poco su poco giù, l’aspetto di un campagnolo; del resto, in quel momento Editta non poteva disporre liberamente de’ suoi occhi e della sua attenzione; quell’uomo rappresentava un aiuto, ed ella non cercò più in là.
Più tardi confessò ella stessa che, a farglielo giurare sulla sua vita, non avrebbe potuto dare un solo connotato, tanto le premeva poco di guardarlo.
Lo sconosciuto comprese l’imbarazzo della povera signorina, e francamente avvicinandola le offerse più col gesto che colle parole di trasportarla dall’altra parte. Anche Editta comprese più il gesto che le parole. Le parve naturale che un uomo avvezzo a quei piccoli incidenti della vita di campagna, e premunito di un lungo paio di stivali da caccia, non dovesse temere di bagnarsi i piedi.
Accettò con riconoscenza, occupata da un unico pensiero, che era quello di togliersi di lì.
Egli le cinse con un braccio la vita, sollevandola così destramente che si trovò sulla riva opposta senza averne sfiorato l’acqua neppure col lembo della gonna.
Nel brevissimo tempo della traversata Editta non fece nessuna riflessione, ma istintivamente pensò se doveva dare una mancia a quell’uomo. A buon conto, dopo avergli detto grazie, si frugò nel taschino dell’abito.
Egli vide l’atto, e con gentile premura le chiese:
— Ha perduto qualche cosa, signorina?
La lingua, l’accento, la voce stessa colpirono Editta, che guardò finalmente lo sconosciuto; il suo sguardo fu rapido come un lampo, ma bastò per farle comprendere il grosso sbaglio che aveva commesso. Un rossore intenso le coperse la fronte, un tremito, un’agitazione strana le fecero battere il cuore a precipizio. Ritirò la mano dal taschino ed ebbe appena tanto fiato per balbettare una innocente bugia:
— Sì.... il fazzoletto.
— Se vuole.... — replicò l’altro facendo l’atto di ripassare il torrente.
— No, no, no, — esclamò la fanciulla — grazie!
E fuggì, smarrita, divorando la via, senza vedere nè udire più nulla, col cuore che continuava a batterle forte.
Bruno e Rachele l’aspettavano sulla soglia di casa, impazientiti, inquieti. Perfino la cuoca, buona vecchiarella affezionata, dividendo l’ansia dei padroni, gridò quando vide comparire Editta: — Finalmente!
Circondata da domande, ella dovette raccontare la sua piccola avventura — e la raccontò con vivacità febbrile, arrossendo ancora come se lo sconosciuto le fosse stato davanti indovinando i quattro soldi ch’ella voleva dargli.
— Chi sarà quell’uomo? — domandò Rachele.
— Qualche affittaiuolo di Cisano — rispose il padre.
— Scommetto — interruppe la cuoca, che non aveva voluto perdere la descrizione e se ne stava sull’uscio in attitudine famigliare e modesta — scommetto che è il signor Giovanni!
Alla profezia fatta dalla cuoca con accento convinto, Bruno rispose: — Può darsi.
Dunque Bruno conosceva il signor Giovanni. Rachele non disse nulla; dunque lo conosceva anche lei e le premeva poco. La serva tornò in cucina e il discorso cambiò; ma Editta non fece altro tutta la sera che almanaccare sul signor Giovanni.
Chi ebbe diciassette anni se ne ricordi!
Non dico a caso chi ebbe diciassette anni, perchè vi sono molte persone anche sessuagenarie che quei benedetti diciassette anni non li hanno mai avuti. Questo capitolo non è per loro.
In Editta c’era tutta la freschezza dell’innocenza che i disinganni non hanno scolorita; era imbevuta di poesia, era afflitta, era sola.
Ritiratasi in camera, a lume spento, col viso in giù deliziosamente sprofondato tra le pieghe del guanciale, ella fantasticò buona parte della notte. Le era capitato qualche volta a Bruxelles di sentirsi camminare alle calcagna un giovane elegante in guanti color di paglia, o di ricevere una dichiarazione ottica, in teatro, attraverso le doppie lenti di un binoccolo; ma quelle sensazioni effimere e comuni non potevano paragonarsi all’impressione viva che le restava ora nel cuore.
Chiudendo gli occhi, ella vedeva ancora discendere dalla collina un uomo — niente altro che un uomo — bello o brutto, giovane o vecchio, non ne sapeva nulla.
Quell’uomo la prendeva in braccio — in braccio? sì; faceva l’ufficio di un ponte o di una barca, non c’era da preoccuparsene. Tutto ad un tratto ella lo guarda... non è più l’uomo di prima. Vede confusamente uno sguardo fulgido, una fronte intelligente, un sorriso come i contadini non hanno.
E l’aveva presa in braccio!
Sprofondandosi ancor più nel guanciale, Editta tentava ricordarsi il suono della sua voce, i gesti, l’espressione. Parole non ne erano corse molte, ma le sembrava che si fossero dette tante, tante cose.
A me, a voi, ai nostri buoni amici, a tutti coloro insomma che di torrenti ne videro più di uno e bene o male li hanno già traversati, non parrà vero che Editta vi spendesse dietro tanta immaginazione; ma se vogliamo essere sinceri, dobbiamo rammentare quello che si fece noi la prima volta.
Beato chi può dire, pensando alla sua giovinezza: «Quante innocenti follie ho commesso, quante care stupidaggini!» — colui ha conosciuto la vita.
Nella sua avventura Editta non considerava che il lato poetico, cioè non tanto l’avventura in sè stessa, come il romanzetto che vi s’aggirava intorno, il mistero, l’ignoto.
Chi era il signor Giovanni? Ecco la gran quistione.
All’indomani, domenica, la giovane istitutrice, che incominciava a prendere per proprio conto delle lezioni di esperienza mondana, balzò dal letto molto tempo prima del solito, e parve che infrangesse in modo assoluto le sue abitudini, perchè la cuoca, vedendola comparire sull’uscio di cucina, diede i segni del massimo stupore.
Margii — la buona bergamasca rispondeva da cinquant’anni al nomignolo di Margii, e l’avrebbero sorpresa molto chiamandola Maria — lasciò in sospeso le sue faccenduole e mosse verso la fanciulla domandandole che cosa poteva servirla.
La fanciulla mise fuori la seconda bugia; disse che si sentiva poco bene, e intanto che Margii le preparava una tazza di caffè, sedette su una di quelle panchine di legno che fiancheggiano i focolari antichi, dove i padroni d’una volta non sdegnavano di sedere insieme ai servitori.
Quella mattina d’aprile non era così calda da rendere penoso il fuoco; anzi Editta vi accostò dolcemente i piedini.
— Ha freddo? — domandò premurosa Margii.
— Ieri mi sono bagnata un poco... (terza bugia), e credo che l’umido mi sia rimasto nelle ossa.
— Ah! può dire di essere stata fortunata. Se non capitava il signor Giovanni!... Badi, si brucia le scarpe.
Sarà; ma assicuratevi, Lettrici, che bruciava maggiormente una parola sulle labbra di Editta. Ella voleva chiedere: Chi è il signor Giovanni? — eppure l’orgoglio, la ritrosia, un senso indomito e selvaggio le ricacciarono in gola quella parola.
Margii lasciò cadere il coperchio sulla cuccuma avendo cura di tenerlo sollevato con un fuscellino — il perchè non si sa — e soggiunse:
— Il signor Giovanni è la provvidenza della valle.. Zucchero niente?
— No.
Ella avrebbe voluto dire: In qual modo è la provvidenza della valle? — ma non lo disse; e mandò giù il caffè bollente.
Margii intanto s’era rimessa alle sue faccenduole. Editta si alzò, depose la tazza sul tavolo e stette un minuto ferma davanti alla buona donna. Sembrava decisa a voler parlare ad ogni costo, ma un no improvviso e risoluto dovette decidere la tenzone che si agitava dentro di lei, perchè si allontanò lentamente, in silenzio.
⁂
Alcune ore dopo, Editta ripassava davanti la cucina di Margii; era con Rachele e con Bruno — andavano a messa.
— Oggi non è cantata — disse la cuoca facendosi sulla soglia — perchè il signor curato ha la raucedine: faranno presto.
L’oracolo della famiglia la sapeva lunga in tutto. Trenta minuti appena e la messa era bell’e finita.
Nell’uscire di chiesa, appoggiato all’ultima colonna vicino alla piletta dell’acqua santa, Editta vide l’uomo della valle. Questa volta lo vide proprio bene. Era alto, bruno, snello e forte; due occhi castagni limpidi e brillanti illuminavano tutta la sua maschia faccia dalle linee severe; aveva il sorriso dolce come un bambino e lo sguardo fiero come un soldato. Era bello; era sopratutto pittoresco, vestito di abiti comuni, con un largo cappello di feltro e stivali a gambiera, senza guanti, senza gemme, senza occhialetto.
Riconobbe Editta e la salutò levandosi il cappello.
La fanciulla si sentì infiammare le guance; tutti i suoi rimorsi la ripresero pensando che ella aveva voluto dare quattro soldi a quell’uomo. Dapprima lo aveva creduto un lavorante, ora le pareva poco crederlo principe.
Chi frena una giovane immaginazione? Il nome di Giovanni, troppo prosaico per una personcina che sognava Arnoldo, Ugo, Romeo, si persuase fosse una finzione, una maschera destinata a coprire chi sa quale mistero. Una volta lanciata su questa strada, nulla doveva sembrarle impossibile, e se potessero parlare i vecchi sassi del paesello, direbbero che Editta quella mattina aveva le ali ai piedi.
Intanto Editta sotto il portico di casa fece una sosta, e lasciando andare avanti Bruno colla figlia, finse di interessarsi a certe verbene, per dare agio a Margii di uscire ancora fuori.
E Margii non si fece aspettare.
Dall’uscio di cucina, dove se ne stava colla tafferia in mano, ella vide la ragazza, e senza smettere dal mondare il suo riso le rivolse la parola come costumano tutte queste buone donnicciole allevate nelle famiglie di provincia, perchè crederebbero di mancare all’educazione lasciando i padroni senza interlocutori, e stimano una grande prova di creanza quella di non permettere che una persona resti in silenzio; bisogna anche dire, senza offenderle, che fra tutti i loro doveri reali questo dovere immaginario è forse il più simpatico a quelle anime ingenue ed espansive.
Margii dunque le rivolse la parola:
— Ha sentito messa? È stata corta eh? lo avevo detto. E il signor Giovanni l’ha veduto?
Editta, che un momento prima non cercava altro, si morse le labbra per il dispetto di doverne parlare.
— Come sai tu, Margii, che quella persona era in chiesa?
— L’ho visto. Ero qui dalla fruttivendola dirimpetto; egli è passato e mi ha detto: «Buon giorno, Margii; quando me la porti quella semente?» È semente d’erba matricaria che vuole coltivare per i poveri della valle. E poi mi ha salutata, con quella cordialità tutta sua, tirando dritto verso la chiesa. Ecco perchè lo so.
Editta fece uno sforzo che le costò un gambo innocente di verbena, stritolato fra i suoi ditini nervosi.
— È dunque medico?
— Mah!... però no; non è medico; non è niente, nè un signore, nè un contadino, nè un operaio, quantunque lavori tutto il giorno nel suo campo e nel suo orto e abbia una gran corte piena di animali che alleva in un modo affatto diverso dagli altri — e non è un sapiente, perchè parla sempre volentieri coi poveri e cogli ignoranti. Insomma, è il signor Giovanni. Io l’ho visto nascere; suo padre era organista qui, ma lui è stato via molto tempo, poi è tornato, e Dio voglia che non ci abbandoni più. Di uomini come lui ce ne dovrebbe essere a staia.
Era un bell’elogio quello di Margii, non c’è che dire; la brava creatura l’aveva fatto continuando ad agitare la mano sul riso, per non perdere tempo, ma quando gettava via un granello di miglio o una festuca, poichè la mano doveva allontanarsi egualmente, ne approfittava per disegnare nell’aria un gesto energico che mostrasse tutta la sua convinzione. Eppure Editta subì questo discorso come una doccia d’acqua fredda.
Ad ogni parola di Margii, il principe si dileguava, l’eroe si rimpiccioliva, restava l’uomo — un uomo che divertivasi a piantare erba matricaria e a discorrere colle comari...
Ah! come Editta rimpianse nel suo immenso orgoglio quella notte trascorsa in sogni d’oro e tutta quella mattina ch’ella aveva sprecata ricamando fiori di seta su una tela volgare.
Ricacciò indietro le pazze illusioni che si erano curiosamente affacciate per un istante alla sua fantasia; si vergognò di aver potuto collocare così basso un pensiero, quasi un palpito, e avida di reazione, lasciò turbinare più violenti, più acri del solito i suoi sdegni superbi, la sua amara fierezza. E però fu mesta tutto il giorno, malcontenta, irascibile.
Margii, che non era diventata vecchia per nulla, vide tutte queste variazioni, e al quarto cambiamento d’umore sollevò sulla fanciulla il suo occhio chiaro, intelligente, pieno di benevolenza, come per domandare a sè stessa: Oh! vecchia Margii, la riconosci quest’aria?
Ma un altro avvenimento ruppe il filo alle investigazioni della buona donna e occupò Editta al punto di farle dimenticare i suoi irosi propositi.
Rachele, a pranzo, ebbe un urto violento di tosse, si coricò presto, dormì malissimo e all’indomani una striscia di sangue rigava il suo guanciale.
Le passeggiate di Editta furono soppresse; dichiarata la polmonite, essa non abbandonò più nè di giorno nè di notte la camera della sua compagna.
Una mattina, Bruno, seduto accanto al letto di sua figlia, intanto che Editta prendeva un po’ di riposo, fischiava sommessamente.
Egli pensava che Rachele udendolo zufolare lo crederebbe molto allegro; lo sventurato padre era giunto a cercare nella menzogna qualche conforto, un’illusione, se non per sè stesso, per lei. Difatti l’ammalata gli domandò:
— Cos’hai di bello? sembri contento.
— Sì — rispose Bruno fregandosi i ginocchi rapidamente con tutte e due le mani e sbattendo le palpebre per cacciare indietro le lagrime — sono proprio contento. Tu stai meglio; presto ti alzerai e sarai guarita e.... e sono contento per questo.
Una lagrima gli cadde sulla mano. Buffona! doveva venire proprio lei a rompergli il giuoco — le diede un buffetto e fischiò con maggior lena.
— Ricordati — disse Rachele tossendo — che mi devi far venire da Milano un paio di scarpe, a sandali, con bottoncini d’acciaio brillantato.
— Sì.
— Coi tacchi alti.
— Sì.
Siccome Rachele tossiva ancora, Bruno si alzò per versarle da bere. La ragazza bevette, ma tenendo in mano il bicchiere, tra un sorso e l’altro, continuò:
— Di tanto in tanto ti faccio spaventare, non è vero, papà? Vado soggetta alle infreddature, e poichè sono robusta, mi pigliano con impeto, sopraggiunge la tosse e la febbre, ma non è niente. Tu e il medico mettete giù un grande apparecchio (si fermò un istante per prender fiato), e non è niente affatto.
— Scuro; niente affatto. Prendi una pillola....
— Ma se è inutile!
Inutile.... purtroppo!
A Bruno cadde la testa sul petto, e gli occhi, che non potevano più contenere le lagrime, si fissavano ostinati sulla frangia della coperta.
— Fischia ancora, papà.
L’infelice fece udire un fischio disarmonico e stonato.
Rachele si pose a canzonarlo; volle ridere, ma uno sbocco di sangue la interruppe a mezzo.
Bruno si lanciò verso sua figlia, che continuava a ripetere: Non è nulla; e intanto sveniva.
Dalla finestra salivano le voci balde e giulive di un drappello di coscritti; i loro passi destavano l’eco della via, e l’onda sonora che si lasciavano addietro portava in alto tutti i fremiti della vita impaziente. Quanti cuori di madre, di sorella, d’amante seguivano invisibili i giovani soldati! quanti fiori, quanti raggi splendidi, quante promesse la speranza seminava davanti a loro! Quanto dispregio della morte! e che sicurezza nei proprii incantevoli vent’anni.
Bruno fu infastidito da quelle voci. Chiuse le imposte e tornò a sedere presso il letto della figlia, muto, immobile.
Rachele era assopita. Nel suo immenso egoismo il padre avrebbe voluto che tutto il mondo dormisse.
Ella riposava con la bocca aperta, una bocca larga e brutta che lasciava vedere i denti più brutti ancora: ma Bruno la contemplava in estasi. Ai suoi occhi non vi era creatura più bella nè più perfetta. Era sua figlia, l’aveva fatta lui, gli apparteneva. Questa ragione, brutale se si vuole, ma fonte del più elevato affetto, ritornava costante nel cervello del povero padre. Che importava a lui di tutto il resto?
C’è l’amore di patria, è vero, c’è l’amore della scienza, c’è l’ambizione che è una forma dell’amore di sè stessi, e cento e mille altri sentimenti che bastano da soli a riempire una vita; ma che serve? Egli amava quella ragazza tisica, quella ragazza che stava per morire, e nessun’altra cosa al mondo poteva distoglierlo dal suo amore geloso e selvaggio.
Che fosse goffa e senza ingegno, pazienza, anzi meglio; l’avrebbe amata lui solo; e a lui bastava vederla muoversi, ridere, parlare — ma ora non parlava, nè rideva. Appoggiata al guanciale, la sua faccia livida e infossata presentava già il profilo d’uno scheletro. Dormiva e pareva che non dovesse svegliarsi più.
Sotto le pieghe della coperta si disegnavano le gambe lunghe e stecchite; un piede posava sull’orlo del letto — Bruno si ricordò delle scarpine coi bottoni d’acciaio brillantato e coi tacchi alti — allungò la mano, colle dita tese, e misurò quel piede. All’improvviso contatto l’ammalata, senza svegliarsi, si contrasse e si voltò dall’altra parte.
Bruno ritirò la sua sedia con precauzione.
Per una di quelle stranezze alle quali il cervello si abbandona indipendentemente dal cuore, senza transizione, senza alcun punto di contatto, gli si parò alla mente un giorno della sua passata giovinezza.
Si rivide spensierato e sereno in compagnia di amici giocondi, sotto il pergolato di una osteria di campagna — e ricordò a puntino tutti i particolari di una chiassosa partita alla morra — la testina provocante della figlia dell’oste guardava attraverso le foglie, e le allodole che trillavano su in alto non avevano vanni così arditi come se li sentiva lui, Bruno, il più ricco, il più felice, il più allegro degli studenti.
Un sorriso, dove il disinganno aveva versate tutte le amarezze, terminò la visione.
Si alzò di nuovo, prese una boccetta e preparò la medicina, perchè Rachele la trovasse pronta al suo svegliarsi.
Il quel momento l’uscio si schiuse adagino, adagino, e Editta avanzandosi in punta di piedi, disse:
— Vada pure signor Bruno; sto qui io adesso.
Non era molto che Editta aveva preso il suo posto di infermiera, quando Rachele si svegliò e chiese da mangiare. Editta volle sonare il campanello, ma l’ammalata la pregò di scendere ella stessa in cucina.
A metà scala Editta vide due uomini che fermi sotto il portico discorrevano a bassa voce. Uno era Bruno e l’altro non si distingueva bene, ma ad una certa casacca di fustagno e all’alta gambiera di uno stivale da caccia Editta credette di riconoscerlo, e il cuore improvvisamente le diede un balzo. Discese la scala un po’ tremante e si prometteva bene di tirar dritto in cucina, quando il signor Giovanni, levandosi il cappello con tratto cortese, la obbligò a rendergli il saluto.
— E Rachele? — domandò subito il signor Bruno.
— Si è svegliata ora; ha chiesto da mangiare...
— Vado io a dare gli ordini a Margii — disse il padre, e lasciò soli i due giovani.
Editta non pensava certamente a fermarsi; ma prima di salire dovette per lo meno fare un cenno di capo a quell’ospite che il padrone di casa aveva piantato lì in piedi sotto al portico.
Editta portava il lutto di suo padre; su quelle vesti nere il pallore del suo volto spiccava maggiormente; le occhiaie infossate annunciavano la fatica delle veglie. Il signor Giovanni la guardò intensamente, con profonda attenzione, e le disse:
— Mi pare, signorina, ch’ella abbia sofferto un poco dalla prima volta che la vidi...
Editta aveva dominato il palpito involontario di una simpatia che la sua ragione non approvava, e rispose asciutto:
— Sto bene, grazie.
Poi sparve rapida su per la scala.
Però, ripreso posto accanto al letto della tisica, non le riuscì tanto facile di cancellare l’immagine del signor Giovanni. Suo malgrado quella fisonomia maschia, intelligente, le ritornava con insistenza davanti agli occhi, e per quanto a bello studio ella tentasse contrapporvi i rozzi panni, la vita campagnuola, le mani annerite dal sole, la figura le appariva tuttavia splendente come quella di un cavaliere antico.
Poco dopo, nel silenzio della camera dell’ammalata, ella udì sbattere la porta di strada, e un passo risoluto percuotere il lastrico della via.
Si accorse allora che le imposte della finestra erano chiuse, e le venne un gran bisogno di aprirle. Attraverso le tende di mussolina vide il signor Giovanni che si allontanava, e risentì quello stesso trabalzo al cuore, quel medesimo tremito per tutta la persona.
— Che è questo? — domandò fieramente a sè stessa, paurosa della risposta; ma la risposta non venne.
Si pose allora per calmarsi a lavorare, e Rachele la guardava con gli occhi grandi, sbarrati, sembrandole meravigliosa quell’agilità delle dita, finchè tornò il padre seguíto da Margii, che portava la zuppa.
Bruno si accostò a Editta, e fissandola in un modo speciale, come se non l’avesse mai veduta prima, esclamò, rispondendo a un pensiero interno:
— Sì, è vero, è molto cambiata. L’egoista ch’io sono!
— Che dice, signor Bruno?
— Dico, cara ragazza, che non deve continuare a fare l’infermiera; è troppo giovane, troppo delicata, s’ammalerà anche lei.
— No, no; questo dovere io lo compio volentieri, non credo che mi possa far male.
— Eppure...
— Oh! sentite! — interruppe Rachele con brio — è inutile bisticciarsi. Fra due o tre giorni mi alzo, e la questione è finita.
La questione finì realmente per quel giorno; ma Editto si ricordò le parole del signor Giovanni, le riuscì chiaro ch’egli aveva parlato in suo favore, mosso da un sentimento delicatissimo di previdenza, e consentì che un impeto di tenerezza riconoscente la portasse ancora una volta a pensare al signor Giovanni, l’unico che si fosse accorto del suo pallore!
⁂
Qualche giorno dopo il signor Bruno incoraggiava la giovane istitutrice a uscire un po’ fuori per prendere una boccata d’aria; Editta rispondeva che non le bastava il cuore di andare a spasso sola, intanto che la sua amica languiva in letto.
Senonchè la vecchia Margii, intervenendo colla sua autorità, alla quale oramai anche Editta si rassegnava, annunciò ch’ella doveva appunto recarsi nella valle della Sonna, che la giornata era bella, e che c’era scrupolo di coscienza a lasciare in casa quella poverina.
La valle della Sonna era una gran tentazione per Editta, che finalmente accettò, dicendosi a parte che la compagnia della vecchierella non le impedirebbe di fantasticare tutta sola per i sentieri.
Ma dal canto suo Margii non era donna da lasciarsi sfuggire una bella occasione; quella gita era una festa per lei, e contava di godersela in lungo ed in largo.
Ritta ritta sui suoi zoccoletti nuovi, con un gran fazzoletto in testa che la copriva mezza, all’usanza bergamasca, e con un bel grembiale nero a fiori rossi, ella diede un’occhiata intelligente ai fornelli perchè durante la sua assenza non accadesse nessun scompiglio, raccomandando un po’ d’attenzione a una servettina subalterna che compiva gli offici più grossolani — e uscì finalmente di cucina con tutta la dignità di un ministro che abbandona per un momento le redini dello Stato.
Editta si meravigliava un poco di trovarsi, lei, l’aristocratica per eccellenza, in una viuzza di montagna, a fianco di una serva — e, quel ch’è più, interessandosi ai suoi discorsi. Perchè bisogna dire che Margii discorreva bene. Il buon penso che manca in tante opere d’arte e in tante parlate accademiche, brillava in tutte le parole della vecchia bergamasca; un certo spirito naturale e ingenuo le condiva; Editta capì per la prima volta in vita sua che si può elevare l’anima indipendentemente dalla poesia, e che anche il popolo è accessibile ai sentimenti superiori, alle buone e alle belle cose.
Gli alberi, i sassi e l’acqua tranquilla della Sonna avevano un linguaggio diverso in quel giorno; forse era l’influenza di Margii; tant’è che Editta si sentiva più buona, più tollerante; e le sue idee erano meno grandiose, ma infinitamente più calme e consolanti.
La natura prodiga il suo fascino solamente a quelli che vogliono interrogarla. Per chi passa distratto e sdegnoso una foglia non sarà mai altro una foglia.
Editta incominciava ad ascoltare un po’ meno sè stessa, apriva il cuore a sensazioni nuove, intravedeva gioie non mai sognate e mondi degni della sua attenzione.
Passando dal mulino, Margii volse il capo a salutare la mugnaia che, accoccolata per terra, sorreggeva i primi passi del suo bambino. Senza fermarsi, ma con un sorriso amichevole, la vecchia le disse:
— Vien su bene, eh, quel piccino? Bello e vispo; che Dio ve lo conservi!
Non erano molte parole, nè difficili, nè sublimi, ma valsero a irradiare il volto della madre. Editta non le aveva mai trovate quelle parole — era pur passata tante volte dal mulino, e tante volte aveva visto la mugnaia baloccarsi col bimbo. Ora ella invidiava lo sguardo riconoscente che aveva compensato Margii della sua cortesia, e per meritarsi qualche cosa anche lei, tornò indietro pochi passi e si chinò ad accarezzare il piccino.
— Buon passeggio, signorina! — le disse la madre.
— Grazie — rispose Editta.
E le parve che l’augurio di quella povera donna l’accompagnasse per via, circondandola di tante liete speranze.
Un odore fresco e giovanile imbalsamava la valle; in riva al torrente spuntavano dei ceppi di panporcini colle bianche testine incurvate sulla corolla rosea. Editta ne colse e fiutandoli li baciò con un trasporto da bambina in vacanza.
La vecchia Margii procedeva impassibile a piccoli passi regolari come il movimento di un pendolo, tenendo colle mani fermo e incrociato sul seno l’ampio fazzoletto da testa e procurando d’evitare le ineguaglianze del terreno per non guastare i suoi zoccoli nuovi.
— Ma dove andiamo alla fine? — domandò Editta, accorgendosi che il sentiero saliva gradatamente.
— Vedrà, vedrà — rispose la vecchierella con un sorriso misterioso.
Continuava uniforme il verde fitto dei noccioli dei castagni e delle querce; la Sonna scompariva a intervalli dietro il gomito di una collinetta, ma si udiva sempre il gaio mormorìo dell’acqua saltellante fra i sassi, mormorìo dalle cadenze soavi, eppure solenni in mezzo a quel perfetto silenzio.
A mezza costa una vaga prospettiva attirò gli sguardi di Editta. Era una casetta piccina, semplice, pulita, sorgente come una driade fra i boschi ombrosi e cinta di una zona di oleandri fioriti che l’adornavano di un velo rosa. I tegoli del tetto, nuovi, luccicavano al sole, e una intera famiglia di colombi, rincorrendosi sul cornicione, s’appollaiava tra i rami dell’edera che saliva altissima ad abbracciare i muri.
Un’arte rusticana e primitiva, scientemente aliena dalla ricercatezza, aveva creato una specie di lusso naturale intorno a quella casetta — lusso di sole, d’alberi, di fiori, di cinguettio di uccelli, d’armonia, di pace.
Un bellissimo bracco dormiva sulla soglia; molte galline pigolavano nel cortile; un uomo, seduto all’ombra di un noce, accomodava certi utensili campestri canticchiando una vecchia canzone soldatesca.
— Che ne dice, signorina? Le pare che questo sia un bel cantuccio di paradiso? — esclamò trionfante la vecchia Margii.
— Ma sì, davvero — disse Editta — Conosci tu il padrone di questa casa?
Invece di rispondere alla fanciulla Margii apostrofò l’uomo:
— Eh! compare Checco, non vedete che vi arrivano dei forestieri?
— Oh... la Margii! — fece l’altro alzandosi premurosamente tutto ilare in volto e guardando con una certa curiosità la signorina. Poi con quel garbo ingenuo e cortese dei contadini bergamaschi soggiunse:
— È la vostra padroncina?
— No, è un’amica della padroncina. Io sono venuta a portarvi la semente dell’erba matricaria; il signor Giovanni sa che cos’è.
— Va bene; ma entrate intanto. Mostrerò alla signorina gli alveari nuovi. Quel benedetto uomo non sta mai tranquillo. Oggi è andato a Bergamo per vedere una macchina che, dice lui, aiuterebbe molto la gente che lavora sulla collina.
— Sapevo che non c’era — interruppe Margii — l’ho veduto stamattina per tempo passare nella timonella di Bortolo e ho pensato subito: Il signor Giovanni va a Bergamo.
Questa dichiarazione era necessaria.
Editta stava già preparando un acerbo rimprovero per la sciocca femmina che l’aveva attirata in casa d’uno sconosciuto: ma guardandosi attorno in quella placida e ridente solitudine capì lo scopo innocente dell’improvvisata e si abbandonò di nuovo al piacere delle sue sensazioni, duplicate, rese intense da quel none pronunciato a caso, ma che ella non poteva più ascoltare con indifferenza.
La figura del signor Giovanni le compariva davanti ad ogni svolta: lo vedeva vivo e vero coi suoi begli occhi brillanti, col suo sorriso tanto buono e tanto bello. Ricordava a puntino i suoi baffi bruni lunghi e sottili, il portamento onesto e fiero.
Margii e Checco le mostravano confusamente un monte di roba, di fiori e d’animali, d’armi e di macchine, e le dicevano: Qui è l’allevamento dei conigli, là il pollaio modello, su la camera per i piccioni, giù la serra, in fondo gli alveari, da una parte la conserva dei frutti, dall’altra l’officina per gli esperimenti — ella non capiva nulla.
Vagolava come una sonnambula guardando più in là, in un mondo immaginario, fiutando l’odore degli oleandri, urtando le gabbie degli uccelli e non sapendo positivamente quel che si facesse.
Davanti a un uscio chiuso udì Checco che esclamava con rammarico:
— Questa è la camera del signor Giovanni; vi sono tante belle cose, ma la chiave l’ha sempre con lui.
Che pensava? Non lo sapeva ella stessa.
Come trasognata lasciò cadere il mazzo di panporcini e passò oltre, muta, estatica, mentre le ronzava all’orecchio una frase che Margii ripeteva ad ogni momento: — È un grand’uomo quel signor Giovanni!
Il ritorno non ebbe minori attrattive per Editta. Ad ogni albero diceva: Egli è passato di qui. Ad ogni sentiero: Egli lo ha attraversato. E dove la Sonna spumeggiava fremendo contro le rive vestite di muschio, bagnando i panporcini: Egli la contempla, pensava, come la contemplo io.
Un’ebbrezza infinita la rapiva; una voluttà dolce, come se avesse bevuto dell’oppio e la fantasia eccitata la portasse, quasi dormente, nel paese delle chimere e dei sogni azzurri.
⁂
L’indomani di quel bel giorno il signor Giovanni comparve cara ombra evocata tutta la notte, e con un leggero imbarazzo cercò scusarsi della sua visita.
Editta arrossì molto scontrando gli occhi di lui che raggiavano di cento liete scintille.
Bruno accasciato e stanco gli tese la mano in silenzio; la malinconia del povero padre gettò un riflesso sul sorriso dei due giovani, che non osavano parlare — ma tacendo si guardavano, e per questa via innocente e perfida penetrava più che mai nei loro cuori l’estasi del primo amore, quell’estasi inconsapevole che la più completa ignoranza da una parte e dall’altra un nobile ritegno circondava di una nebbia vaporosa, indistinta, celeste.
Gli sguardi di lui volevano dire: So che ieri siete stata nella mia povera casa, ho raccolto i profumi che vi avete lasciati, ho calcata l’orma gentile del vostro piede, ho respirato il vostr’alito, ho baciato i fiori che lasciaste cadere, pietosa, sulla soglia....
Editta comprendeva parola per parola, e la più profonda emozione le accelerava i palpiti del cuore.
Bruno andava e veniva. In un momento che si trovarono soli, Giovanni levò dalla tasca interna della sua casacca un mazzolino di panporcini legati insieme con un filo di erba; non avevano alcuna apparenza di dono, eppure egli li presentò alla fanciulla, semplicemente, come cosa convenuta, guardandola con occhi tremuli e amorosi.
Editta si sentì venir meno.
— So che le piacciono i fiori, li ho côlti sulla riva della Sonna.
Editta non disse grazie — li prese.
La confusione d’entrambi era tanta che Bruno entrò senza che se n’avvedessero; la sua voce li fece trasalire.
Editta, tornata in sè, credette di aver commesso un gran fallo, qualche cosa di grave che dovesse pesare su tutta la sua esistenza.
L’amore l’aveva presa alla sprovvista. In quell’anima orgogliosa il padrone era entrato d’assalto; ella si trovava atterrata e vinta senza aver quasi combattuto.
Questo stato violento durò due o tre giorni.
L’esaltazione cresceva, il riposo non le era più permesso; un turbine di sensazioni acute e snervanti la rapiva a sè stessa e a’ suoi doveri. Quante volte, ella che sapeva a memoria i poeti, ripetè il verso di Leopardi:
Ohimè, se quest’è amor, com’ei travaglia!
Ma il contro-attacco venne, troppo naturale nel suo carattere altero. Chi era alla fine il signor Giovanni? Bello, sì, simpatico, intelligente; ma chi era? Il figlio di un povero organista — e lui un povero allevatore di animali, un contadino, un dottore senza diploma!
Quella casetta bianca, elegante, solitaria, cinta d’oleandri, conteneva altra cosa fuorchè degli attrezzi da campagna, delle sementi e delle bestie? Non un libro — oh! ne era ben certa. Poteva esistere un tramite fra le idee del signor Giovanni e le sue? Poteva egli comprenderla? Poteva ella amarlo? L’eleganza dei suoi modi era naturale; e il parlare esatto, quasi colto, non poteva essere che un piccolo capitale di nozioni raccolte qua e là e messe a frutto da una memoria tenace e paziente.
Che cosa aveva fatto il signor Giovanni prima di ritirarsi a vivere nella valle? Niente. Ozioso, come quasi tutta la gioventù dei piccoli paesi dove manca l’incitamento e l’emulazione, aveva sonnecchiato sui premii avuti nelle prime classi; e i malevoli dicevano chiaramente che non aveva potuto trovare da collocarsi in città, causa gli studii incompleti. Era dunque un uomo mancato, un’individualità sbiadita; la sua fama popolare non era quella che bastasse a rialzarlo agli occhi d’Editta. Giovanni portava in sè la colpa d’origine — era bandito dall’Eden spirituale dove convergevano tutte le aspirazioni della fanciulla. In una parola, essa lo amava forse, ma si vergognava di lui.
E la battaglia era fortissima, le sconfitte frequenti, la vittoria incerta.
Lo vedeva spesso. Tutti i giorni, a una data ora, passava sotto la finestra; qualche volta entrava a chiedere notizie dell’ammalata. La domenica, in chiesa, ella lo sentiva prima ancora che non lo vedesse, in piedi, vicino alla piletta dell’acqua santa, cogli occhi aperti, vaganti, carichi d’amore e di pensieri.
Una sera si trovarono per combinazione nel cortile, al lume della luna; nessuno dei due parlava — erano vicini vicini, ma non si toccavano — non si erano mai stretta la mano in tutto il tempo che si conoscevano. Il desiderio represso fremeva intorno ai loro labbri:
Il piacer con l’ali d’oro |
In terra l’angelo della purità li custodiva.
Quando Editta si scosse (perchè era in estasi) e rientrò in casa, Giovanni, addossato al muro, sfiorò colle labbra il posto dove la fanciulla stava prima appoggiata.
⁂
Reazione.
— Come può vivere sempre in questo paese? — domandò alla fine Editta al signor Giovanni un giorno che si sentiva forte.
Egli ebbe un mesto sorriso prima di rispondere:
— E lei non ci vivrebbe?
— Non so; ma mi pare che un uomo dovrebbe anelare a tutto il mondo, non ad un angolo sconosciuto come questo.
Una replica era già sulla bocca del signor Giovanni, che la revocò e disse con calma:
— Io sono felice. Che cosa potrebbe darmi di più il mondo?
— Crede che non esistano gioie superiori? — esclamò Editta piccata.
— Superiori, lo ignoro; migliori no certo.
Bruno, che si trovava presente, approvò con calore la dichiarazione del signor Giovanni.
— Quando — continuò il giovane — io guardo sorgere il sole dietro gli abeti della collina, quando contemplo la luna che si specchia nel torrente, e penso che quegli astri vanno a illuminare una turba di uomini affaccendati, e mi rappresento le ire, le invidie, le calunnie, la miseria, le infamie che rodono continuamente quell’immenso colosso della società; ebbene, io mi sento superiore a tutti loro, mi sento re nella mia piccola casa in mezzo ai boschi.
— È uno stoico — pensò Editta, e soggiunse a voce alta: — Se tutti la pensassero come lei, noi vestiremmo ancora pelli di capra come san Giovanni Battista, e le radici sarebbero tutto il nostro nutrimento.
Giovanni rispose scherzosamente:
— È forse avanzato il mondo, il mondo morale, dopo l’invenzione del panno inglese e dei pasticci di Strasburgo?
— Veh! come conosce queste cose? — pensò Editta di nuovo.
— Se lo scopo della vita deve essere la felicità, come ognuno cerca, tutta la storia dei secoli è lì per provarci che l’uomo è sempre più infelice, più tormentato dalle proprie idee, più assalito dai bisogni, più vittima, più schiavo, più ammalato, più pazzo ora che cammina colla scienza in mano.
— Ah no! — esclamò Editta — lei non potrà farmi credere che i godimenti materiali di una vita da bruto compensino l’uomo delle divine gioie del pensiero.
Un vivo rossore colorì le guance brune del signor Giovanni; sembrava veramente mortificato.
— L’uomo che vive in mezzo alla natura interrogandola per sorprenderne i segreti, l’uomo avvezzo a parlare nei silenzi dei monti coll’invisibile Creatore e negli umili tugurii della valle colle creature diseredate, l’uomo cui è guida la carità, fiaccola l’amore — aveva incominciato con calma, ma la sua voce si animava parlando e gli occhi lampeggiavano — e che il grande nome di virtù spezza quotidianamente coi fratelli d’esilio, invece di metterlo in rime sulle pagine di un volume alla moda, quest’uomo, signorina, conduce una vita da bruto?
Editta era stanca della disputa. In quel momento le sembrava di odiare il signor Giovanni. Affermò a sè stessa che non avrebbe mai potuto andare d’accordo con quell’uomo, che non si intendevano su nessun punto, che non valeva la pena di discutere un sentimento al quale egli non poteva giungere. Giurò di non parlare più: ma, e guardarlo?...
Ecco che il padrone tornava a farsi sentire. Sotto il raggio di quelle pupille appassionate, rese ora malinconiche dall’interna preoccupazione, Editta sentiva le punture del tiranno ignoto. Nessuna cosa avrebbe potuto tormentarla maggiormente di quella battaglia fra il suo cuore e il suo orgoglio, fra i pregiudizi antichi e le sensazioni nuove.
Giovanni si accorgeva della lotta? Forse sì, perchè il suo sguardo, che abbandonava ben di rado la fanciulla, non rifletteva la beatitudine di una simpatia corrisposta; molte volte un’ansietà a stento frenata trapelava dai suoi occhi espressivi.
Quella sera, ritornando alla sua casetta per i sentieri battuti dalla luna, Giovanni era molto pensieroso.
Gli alberi che stormivano sui suo capo, la Sonna mormorante che si svolgeva in spire d’argento sul velluto verde della valle, non avevano il potere di distrarlo.
Mesto e raccolto, varcò la cinta di oleandri senza fermarsi, come soleva, a fiutare il profumo dei fiori, senza ascoltare le voci misteriose che dai petali color di rosa susurravano: Editta! Editta!; nè volse la testa in su a salutare i suoi colombi, e non udì, tra le foglie del noce, l’usignolo che cantava d’amore.
Si chiuse nella sua camera, e il buon contadino che prima di coricarsi faceva la ronda lo vide, seduto al tavolino, colla fronte tra le mani.