Un nido/III
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PARTE TERZA
Amore.
Aime et tu renaîtras.
musset.
Quella mesta figura d’angelo invecchiato le tornava sempre alla memoria, e pensava come e quando avrebbe potuto levarla dall’orribile casa Spiccorlai, dove la zittellona subiva rassegnata l’agonia di una vita peggiore della morte.
L’occasione parve presentarsi un giorno, poichè Editta voleva ad ogni costo vegliare ancora l’ammalata, protestando di sentirsene la forza, e Bruno recisamente glielo proibiva, quantunque fosse molto imbarazzato a trovare un’infermiera intelligente e sopratutto paziente.
Allora Editta immaginò di dividere con Amarilli la cura di Rachele; donna migliore non poteva trovarsi di certo, nè più adatta a quelle penose funzioni.
Bruno accolse l’idea con piacere e pregò la fanciulla di scriverne subito alla zia. Egli vedeva che la malattia di sua figlia, lunga, complicata esigeva un servizio di tutte le ore e di tutti i momenti; una persona doveva dormire nella camera della tisica, Bruno non volle permettere che Editta, così giovane, si esponesse a tanto rischio.
Fu in seguito a questa deliberazione che una mattina sul cader di giugno la timonella di Bortolo, che faceva il servizio della stazione, si fermò davanti alla casa; una gamba lunga e magra si allungò timidamente sul predellino, seguita quasi subito da una gonnella d’orleans nero, che mostrava la trama e come corona dell’edificio un singolare cappello di paglia color marrone in forma di tetto.
La buona zitellona, sbigottita, disorientata, sorpresa di aver viaggiato tanto e di entrare in una casa pulita, allegra, con fiori, uccellini, con persiane verdi, piena di sole e di luce, non osava fare un passo.
Bruno la incoraggiò gentilmente, Editta venne a gettarsi nelle sue braccia.
— Vedrai — le disse piano all’orecchio — che bella casa e che care persone!
Dall’andito che metteva sulla strada e nel cortile, riparato da una gran tenda di cotonnina ruggine a liste turchine, si vedeva quasi tutta la cucina col suo lieto focolare sempre acceso, coi fornelli rossi, coi paiuoli e le casseruole rilucenti, e un’aria di festa e d’abbondanza che proprio consolava il cuore.
La vecchia Margii, la regina di quel palazzo, pulita e linda, col suo scialletto di mussola bianca ricamata, colle sue buccole d’oro, sorridente, garbata, si avanzava come al solito per fare gli onori alla forestiera.
Amarilli guardò quella donna fresca e vivace che aveva dieci anni più di lei e che sembrava più giovane; pensò che doveva esser ben felice in mezzo a quel sole, a quella pulizia, a quelle gioie intime della casa; guardò sè stessa, il suo meschino abito nero, la sua scialba figura, ed ebbe quasi vergogna.
Editta comprese l’emozione di sua zia. Ella che aveva veduto l’antro degli Spiccorlai e il miserabile giaciglio dove la povera donna soleva dormire i suoi sonni di vergine e di martire, ebbe compassione di quel primo momento di sorpresa; la prese per la mano e la condusse da Rachele.
Là, Amarilli si rimise un poco. Davanti al suo dovere si sentì più franca: levò il cappello e lo pose sopra una sedia, con precauzione, in modo che i nastri non toccassero terra. Da una borsetta che teneva sul braccio tirò fuori un grembiale e legatoselo attorno alla vita entrò subito in funzioni.
Sembrava che fosse sempre stata in quella camera, vicino a quel letto. Le sue scarpe non facevano rumore, si soffiava il naso in silenzio, posava i bicchieri senza urtare il vassoio; sedendosi sulla poltrona a’ piedi del letto ci aveva un’aria così agiata e piena di garbo che pareva non dovesse muoversi più. E poichè Rachele chiudendo gli occhi disse di voler riposare qualche ora, Amarilli ricorse nuovamente alla sua borsetta, cavando fuori questa volta una calza e mettendosi a lavorare zitta zitta. Solo gli occhi, che l’occupazione meccanica non vincolavano molto, erravano sereni e soddisfatti intorno alla camera, lungo i muri tappezzati di carta celeste, negli angoli coperti di fiori, sui pizzi aerei e ondeggianti delle cortine.
Le pareva tutto un sogno — un sogno giovanile come ne aveva fatti tanti nel buio sottoscala di suo fratello.... come non credeva di farne più.
⁂
A poco a poco la buona zitellona diventò di casa. Rachele, viziata da lei, non poteva starne senza un’ora; Bruno capiva che una madre non avrebbe potuto fare di più — e Margii, ah! Margii con quel fino tatto che la distingueva aveva subito fiutata la donna di governo, la massaia economa e intelligente. Erano seguìti parecchi colloqui ove le due parti si edificavano a vicenda e, tutto ciò produceva la massima felicità di Amarilli, che non avrebbe mai osato chieder tanto al destino.
Non, era a dir vero, una felicità molto assicurata. Che Rachele morisse ovvero guarisse, l’antro degli Spiccorlai l’aspettava ancora.... Ma non voleva tormentarsi. Suo fratello le aveva permessa una gita in quell’oasi — a che pro ripensare al deserto? Meglio era godere la fortuna presente ringraziando la Provvidenza e rimettendosi placida e rassegnata ai misteri del futuro.
Tutta la notte e buona parte del giorno ella stava in camera di Rachele spiegando una vocazione di vera suora della carità; quelle poche ore poi che lo scambio con Editta le lasciava libere, le venivano centuplicate dall’interno godimento, dalla soddisfazione profonda ch’ella sentiva passeggiando sotto il portico o nel cortile o nel piccolo giardino; soffermandosi ad ogni fiore, ad ogni sasso; mirando il volo delle rondini, il cielo spazzato, i monti, l’erba, la rugiada, il bozzolo dei bruchi, la tana dei grilli, gli amori delle farfalle, tutte queste grandi e piccole cose che i suoi quarant’anni non avevano mai vedute.
Sedeva, in estasi, sulla soglia della cucina, in mezzo a un raggio di sole che la tenda indeboliva e dentro il quale volteggiavano i granelli di polvere, le festuche, i moscherini, mille atomi senza nome; molecole strappate alla natura che andavano a fecondare sotto nuove forme nuovi esseri e roteavano intanto, quasi incandescenti, in una massa di luce.
Dalla cucina uscivano ondate di vapori caldi, odorosi; e il gatto che dormiva con un occhio tenendo l’altro intento alla preda, le mosche che fuggivano a sciami cacciate dalla piccola servetta, il cheto brontolio dalla pentola, l’urtarsi dei piatti, lo scorrere della piastra di ferro dall’uno all’altro fornello per moderare il fuoco, perfino il rumore dell’acqua piovente da un robinetto in una vasca di marmo dove Margii risciacquava spesso le sue braccia nude fino al gomito — queste manifestazioni di un benessere materiale e casalingo si fondevano in armonica perfezione cogli effluvi puri e sani della natura. Amarilli godeva di vivere. Presso al letto di Rachele le sue sensazioni erano diverse, ma ugualmente dolci. Nell’immensa bontà del suo cuore la pietà e l’amore tenevano i primi posti; dedicandosi agli altri, facendo del bene ella si trovava così lieta come di una fortuna propria. Mai impaziente, mai nervosa, la dolcezza che profondeva intorno a sè le ritornava accresciuta dalla gratitudine e dall’affetto.
La tisica era entrata in un altro periodo. Alla balda sicurezza dei primi tempi succedeva uno scoramento, una paura smaniosa e febbrile, un violento terrore della morte. Piangeva. Si raccomandava a suo padre, al medico, a tutti perchè non la lasciassero morire. Voleva alzarsi — le sembrava che uno sforzo potente dovesse ricacciare indietro la malattia. Chiedeva vesti e gioielli; parlava di viaggi; aveva una sete rabbiosa di godere, di divertirsi, di essere giovane bella e felice.
Si riconobbe in questi tristi momenti l’utilità di Amarilli.
Editta non reggeva alle scene strazianti della moribonda; il padre, inebetito, cogli occhi vitrei asciutti, sorridendo come potrebbe sorridere una macchina fabbricata a tale scopo, aveva l’aria di voler impazzire da un giorno all’altro. La sola Amarilli instancabile calmava e consolava.
Senza essere propriamente religiosa, ella possedeva la parola ispirata delle persone che vivono molto coll’anima.
Editta ammirava sempre più quella nobile incarnazione di donna, sublime nella semplicità, elevata nella modestia, e stabiliva involontariamente un confronto con sè stessa — confronto che la sua lealtà le mostrava in vantaggio di Amarilli. Ma Editta appunto aveva bisogno, per affezionarsi, di trovare un essere superiore; il suo orgoglio non le permetteva di concedersi che a patto di salire.
Ora un pensiero la tormentava; quello di palesare ad Amarilli le sue angosce, le sue lotte ed anche sinceramente i suoi incanti. Al pari di tutti gli innamorati ella aveva sulla bocca il nome della persona cara, e avrebbe voluto ripeterlo sempre come il ritornello di una canzone che il suo cuore cantava in segreto.
Ma non erano giorni da parlar d’amore.
Rachele camminava rapidamente alla sua ora estrema; il lutto era già nell’aria.
⁂
Nella seconda metà d’agosto un effimero miglioramento, dovuto agli sforzi della gioventù che contendeva alla tisi la sua vittima, tornò ad accendere un raggio di speranza nel povero padre.
Editta e Amarilli rispettavano in silenzio quella santa illusione.
Rachele si alzava un poco e i desiderii le rinascevano pungenti, acri di una voluttà spasmodica e malata. Un capriccio fra gli altri si palesò con maggior insistenza. Si avvicinavano le vendemmie ed ella disse a suo padre che voleva assistervi ad ogni costo. Bruno per mezzo di Amarilli tentò persuaderla a rinunciarvi; il medico invece non vi pose alcuna difficoltà. Che male poteva venirne da una innocente concessione a quella creatura già segnata per la morte?
Il signor Giovanni aveva una piccola vigna, nella quale i grappoli erano già maturi; la pose a disposizione dell’inferma. Una carrozza doveva trasportarvela e un piccolo letto improvvisato sotto i pampini l’avrebbero riposata dello strapazzo.
Si scelse una giornata magnifica, calda e tranquilla.
La piccola comitiva giunse alla vigna verso le due del pomeriggio e prese posto all’ombra, sotto un padiglione verde screziato dalle prime tinte vermiglie dell’autunno.
Il signor Giovanni fece gli onori di casa con modestia e disinvoltura. Editta lo guardava di soppiatto pensando: — Peccato! tanto gentile, e chi sa se scrive una pagina senza errori!
Fervendo il lavoro, il signor Giovanni non si fece scrupolo di unirsi ai contadini, aiutandoli colla parola ed anche coll’esempio; sollevando lui stesso gli ampi panieri colmi d’uva e tenendo d’occhio le ragazze perchè non guastassero i tralci. Aveva una camicia bianca, ma nei polsini era già gualcita, e provò un fuggitivo rossore guardando dalla parte di Editta. In quel momento un uomo guidando un carro vuoto entrò nella vigna, Giovanni con una semplicità dignitosa avviò il trasporto dei panieri, fermo al suo posto, attento, prendendone nota su un piccolo taccuino.
Una donna inciampò e cadde. Egli l’aiutò a rialzarsi e le chiese se si era fatta male.
Un vecchio che prendeva poca parte alla vendemmia incominciò il racconto delle vendemmie passate, quelle della sua gioventù. migliori naturalmente — e Giovanni, pur sorvegliando gli altri, lo ascoltava paziente e rispondeva.
Parlava con tutti alla buona, più da amico che da padrone, e poichè queste pratiche famigliari indispettivano Editta, egli si faceva melanconico pensando che tra lui e la fanciulla c’era un abisso.
Sotto a un pergolato di foglie, coi piedi nell’erba e gli occhi sull’orizzonte, Amarilli gustava una gioia placida. L’ammalata le rivolgeva le sue solite domande insulse, noiose, ripetute chi sa quante volte; Amarilli aveva sempre un sorriso per rispondere.
Bruno dondolando un piede, canticchiando e mostrandosi tutto assorto nel piacere della vendemmia, pensava: «Ci sarà l’anno venturo?» e stava attento alla tosse di cui ogni scoppio rimbombava dentro al suo petto come mitragliatrice che gli prendesse di mira il cuore.
— Ecco — disse Amarilli — questi poveri tralci piangono ora orbati dei frutti che avevano nutriti; ma verrà il giorno che rideranno, perchè la consolazione fiorirà accanto al loro dolore. Tutto si compensa.
— Tutto? — mormorò il signor Bruno automaticamente.
— Sì, tutto, perchè la speranza è nel cuore dell’uomo una seconda provvidenza, e nessuno può dire che cosa ci prepara il futuro.
Il signor Bruno fu riconoscente ad Amarilli per queste buone parole; senza la presenza di Rachele le avrebbe stretta la mano, però la ringraziò con uno sguardo.
La povera zitellona, che non mirava a tanto successo, rimase dolcemente confusa.
Intanto la vendemmia era finita. Il signor Giovanni venne a sedersi sotto il pergolato sopra un paniere capovolto. Editta non sfuggiva il suo sguardo dolce e vivace, un po’ triste qualche volta, e proponeva a sè stessa il solito dilemma: L’amo? Non l’amo?
Egli la amava; si vedeva, si capiva ad ogni suo atto, dal sorriso, dagli improvvisi mutamenti del volto. Editta sentiva questo amore penetrarle soavemente a scuoterla, e pure esitava.
Aveva orrore di una vita comune, divisa tra volgari occupazioni ed umili affetti. Ella cullata dai poetici vaneggiamenti del padre, in un esilio romanzesco, vissuta sempre fuori della sfera reale, come rondinella cresciuta in un nido d’aquile, sdegnava fabbricarsi un altro nido. Avrebbe voluto mutare sè stessa, ma la fiamma divina che opera tali miracoli non la investiva ancora.
Ritornarono tutti insieme tranquilli guardando la bella campagna e ascoltando le canzoni dei vendemmiatori che si allontanavano.
Giunti a casa del signor Bruno, l’ammalata, sorretta dal padre e da Amarilli andò subito a coricarsi su quel letto che non doveva abbandonare più viva. Editta rimasta a chiudere la porta, aspettava che il signor Giovanni la salutasse.
Ritti, l’uno di fronte all’altra, tenevano gli occhi bassi, compresi da un turbamento che sembrava precedere una grande rivelazione. Ora, quella rivelazione era la cosa che Editta temeva sopra tutte.
Standosi così impensierita si sentì prendere la mano. Giovanni non parlava, ma quando le loro mani si trovarono congiunte, anche i loro occhi si incontrarono, e per fermo l’emozione fu soverchia a quei casti amanti, perchè Editta sciolse la sua mano, nè Giovanni la ritenne e solo parve alla fanciulla che, mentre si voltava per andarsene, un contatto morbido e caldo le sfiorasse l’estremità delle dita.
⁂
Il giorno dopo, Rachele non potè alzarsi; e però diceva:
— Mi sento bene, non è che un po’ di poltroneria; la lunga abitudine di stare in letto mi ha resa pigra.
Chiese di Editta: volle rimanere sola con lei; fattasi portare un mazzo carte, giocò per vedere se le sarebbe toccato un marito biondo o nero.
Le toccò uno nero e non ne fu contenta.
Gettò via le carte indispettita, giurando che un nero non lo avrebbe mai preso. Lei voleva un biondo, roseo, coi baffi ingommati, la cravatta alla Ruy-Blas, i polsini lucidi, inamidati, lunghi fino alle unghie; e poi le calze a righe color verde mirto e crema alla rosa, gli scarpini stretti, i guanti di pelle svedese a doppia cucitura.
Editta l’interruppe domandandole se aveva letto questa descrizione sul giornate delle mode e dove mai sperava trovare un giovinotto simile.
— Qui, in paese, no; ma appena guarita voglio viaggiare ancora; tu verrai con noi; oh! ci divertiremo.
Anche il giorno dopo non si alzò, nè i seguenti.
La malinconia tornò a riprenderla. Amarilli non si coricava nemmeno più: tutta la notte conveniva vegliare al capezzale della tisica, che dormiva pochissimo. Ogni sera alle undici precise Margii, di moto proprio, portava una tazza di caffè nero ad Amarilli; la buona donna era orgogliosa di questa sua ispirazione, tanto quanto Amarilli ne era riconoscente. Le due zitellone scambiavano uno sguardo doloroso, crollavano la testa e si auguravano a vicenda la buona notte indicando il cielo cogli occhi come a dire: Sarà quel che Dio vuole!
Una mattina, Rachele, che si era assopita all’alba, si destò improvvisamente dicendo di aver fatto un sogno singolare.
— Sognai di te, Editta. Eri in chiesa e ti facevi sposa col signor Giovanni: avevi un vestito tutto d’erba sparso di panporcini; il signor Giovanni invece dell’anello ti dava una piccola falce per mietere.
Tutti sorrisero trovando il sogno bizzarro; Editta ne fu turbata fino nell’animo.
— Se ti mariti prima di me — continuò Rachele — voglio regalarti la mia croce di perle col brillante nel mezzo: ma se mi marito prima io, vedrai che regalo!
Dopo aver detto queste parole si lagnò di un forte dolore al petto e le scemò la voce. Più tardi domandò ad Amarilli:
— Sto male?
— No, carina, ma parli troppo.
Venne il dottore e trovò una febbre piuttosto gagliarda. L’indomani articolava a stento le parole; il dolore di petto l’opprimeva sempre, verso sera ebbe un seguito di svenimenti che pose l’allarme in casa. Bruno passò la notte al suo capezzale.
Passarono due o tre giorni di incertezze angosciose, poi entrò in agonia, e una notte spirò, senza soffrir molto, fra le braccia del padre e di Amarilli. Nessun altro era presente.
Che cosa disse Amarilli, che cosa fece per calmare il primo impeto dello sventurato Bruno, non si sa. Quella donna, guidata dal più caritatevole amore, aveva risorse di un sentimento e di un coraggio che influirono certamente sulla disperazione di lui, piegandola a un rassegnato dolore.
Quando fu nota la disgrazia, nè Editta, nè Margii, nè alcuno di casa potè udire la voce del signor Bruno. Immobile presso al letto di sua figlia, colla faccia nascosta nelle coperte, sembrava una statua. Lo si volle strappare di là a viva forza, ma Amarilli pregò perchè lo si lasciasse stare: — È l’ultimo giorno che passa con sua figlia!
Ella si incaricò di tutto. Aiutata da Margii, dispose per i funerali, per il trasporto, per l’abbigliamento della salma. Intrepida e serena, le cinse colle sue mani la bianca veste di vergine e le pose sul capo la corona di rose.
Nel momento che la toglievano dal letto per deporla sulla bara, Bruno gettò un urlo, mostrando di voler precipitarsi su quelle spoglie care. Amarilli lo fermò mettendogli fra le mani una lunga treccia di capelli... Bruno li baciò con trasporto. Per merito di Amarilli gli restava qualche cosa della sua diletta fanciulla, qualche cosa che le aveva appartenuto viva e che sembrava vivere ancora attorcigliandosi attorno alle sue dita come per dargli l’ultimo saluto.
— Siate benedetta! — disse volgendosi ad Amarilli.
Furono le prime parole che Bruno pronunciò dopo la morte della figlia.
⁂
Terminato il funerale e la messa, dopo aver accompagnata la morta al cimitero, Editta e Amarilli ritornarono piangenti a quella casa che non doveva più ospitarle.
Quale destino le aspettava? Povere donne! Avevano appena intravista la pace dell’agiatezza, ed ecco che la fatalità le sospingeva di bel nuovo in quella vita di amarezze e di stenti dove ogni pezzo di pane costa una goccia di sudore.
Per Amarilli, ella aveva portata la sua croce quarant’anni e non era quistione che di riprenderla; ma Editta? La zitellona si crucciava molto più per la nipote che per sè stessa.
A Bruno in quei giorni non si poteva domandar consiglio; d’altronde, lo conoscevano bene; avrebbe risposto: Rimanete con me.
E al rimanere non bisognava nemmeno pensarci, poichè la morte di Rachele aveva tolta qualsiasi onesta ragione alla loro presenza in quella casa.
La buona Margii capiva tutto. Ella girava e rigirava intorno alle due donne non osando interrogarle e pur cercando un pretesto per dire loro: Vi amiamo, sapete? Perchè volete andarvene? Che cosa faremo noi, soli, coll’immagine della defunta? Che triste casa sta per diventare questa! Oh! che importa il bel sole, le camere liete, l’abbondanza, se più nessuno riderà quì? Un uccelletto è morto e gli altri volano via... poveretti noi!
Amarilli faceva malinconicamente i suoi addii.
Non aveva mai creduto di dover vivere sempre lì; lo sapeva bene che era una posizione transitoria. Aveva viaggiato, non altro — e come un pellegrino doveva accontentarsi di portar seco delle memorie.
Quel portico così allegro, ombreggiato dalla tenda, chi sa quante volte lo avrebbe riveduto nel sottoscala di suo fratello! e nella sucida, meschinissima cucina di Carlo Spiccorlai, quante gioconde apparizioni l’avrebbero seguita, quanti dolci rumori, quanta lucentezza, quanta vita serena!
Ella sedeva per l’ultima volta sulla soglia prediletta, guardando minutamente tutti gli oggetti; li salutava ad uno ad uno come persone che non doveva rivedere mai più: «Tazza gentile di porcellana col filetto d’oro, tu mi eri compagna nelle lunghe notti vegliate presso l’inferma; da’ tuoi labbri splendenti bevevo la forza e l’energia. Voi tutti, umili e fidati amici delle pareti domestiche, corone della intimità di famiglia, che tanto bene parlate a chi sa intendere il linguaggio della concordia e dell’affetto, continuate a rallegrare la casa dell’uomo benefico — io ritorno dove non c’è amore, dove non c’è pace, dove ogni cosa è buia, tetra e meschina. Addio, mosche vivaci, brillanti farfalle, ah! voi non mi seguirete — e tu neppure, piccolo grillo, amico dei lieti focolari e della fiamma gioconda. Vuoi venire con me, bel garofano dalle lunghe foglie, dai fiori di porpora? — ma avvizziresti, è vero, laggiù... perchè non c’è aria, nè luce. Addio, dunque! Addio, miei giovani amici... io partirò sola.»
Ella aveva ripetuto a voce, alta: — Partirò sola — e una brusca risposta pronunciata dietro le sue spalle la fece sussultare:
— No — diceva Bruno — non partirà. Chi avrebbe cura di riunire le memorie di lei, le sue vesti che le piacevano tanto, i suoi gingilli, i vezzi e i monili che l’hanno fatta sorridere per così poco tempo?
Si fermò interrotto da uno scoppio di pianto.
Amarilli aderì al pio desiderio. Per volere espresso di Bruno donò a Editta la croce di perle e una quantità d’altre piccole cose. Ella serbò un anellino che aveva appartenuto alla madre di Rachele; questo glielo diede Bruno, soggiungendo: Alla sua seconda madre; pensava forse alla treccia che Amarilli aveva tagliato per lui in quel giorno solenne.
Poi tutto fu chiuso in un armadio come reliquie sante, e Bruno passava i giorni interi colla testa appoggiata a quell’armadio, quasi aspettasse di vederne uscire viva la figlia o di udirsi chiamare per nome.
⁂
— Sei pronta, Editta? Noi dobbiamo alla fine partire. Ho un presentimento che mio fratello sia ammalato; vorrei essergli al fianco.
Nel pronunciare queste parole Amarilli sembrava calma e risoluta. Le sue lagrime, se aveva pianto, erano già asciugate, e i suoi occhi tanto dolci splendevano di energia. Aveva lottato con sè stessa e aveva vinto.
Editta rispose:
— Sono pronta; ma in casa Spiccorlai non vengo.
Che cosa avrebbe fatto la povera orfanella? Quali erano le sue intenzioni? Non lo sapeva. Pur di non ritornare in quella casa era decisa a sopportare ogni stento. Anche in ciò l’energia del suo sangue non si smentiva; il corpo piegava alla necessità, l’orgoglio no.
Facevano assai tristamente i loro fardelli di nascosto di Bruno, che non voleva lasciarle partire.
Il lutto di Editta era cessato, pure lo continuava per un delicato riguardo verso l’amica morta. Mesta gramaglia! ella pensava, dovrò io portarti eternamente? Sì, perchè ogni gioia è finita per me, quest’abito è meno nero del mio avvenire.
Il signor Giovanni era venuto tutti i giorni dopo la morte di Rachele, ma in mezzo alla generale tristezza egli pure era triste, e non parlava. È ben vero che i suoi occhi si posavano ansiosi e quasi interrogatori sulla fanciulla; seppe finalmente i suoi progetti di partenza. Edita glieli comunicò alla vigilia, intanto che Amarilli leggeva un giornale al signor Bruno, per distrarlo e per compiere fino all’ultimo il suo dovere.
Editta e Giovanni si trovavano in piedi sotto il portico. Un fiore di verbena pendeva dalla cintura della fanciulla; le piccolissime stelle di cui era composto staccandosi ad ogni leggero movimento cadevano per terra. Giovanni le raccoglieva una alla volta in silenzio e le teneva strette nel suo pugno.
— Va via... per sempre? — domandò ad un tratto, facendosi pallido.
— Non so.
— È almeno felice?
— Io non posso avere felicità, nè la chiedo ad alcuno.
C’era dell’amarezza e della superbia in queste parole. Giovanni, che volle scorgervi un sentimento più riposto, si sentì preso da infinita tenerezza e le disse con voce tremante:
— Perchè parla così?
Una gran luce usciva dagli occhi di Giovanni. Editta lo guardava incerta e curiosa.
— Perchè parla così? — ripetè il giovane prendendo l’ultimo fiorellino di verbena che era caduto sul vestito della fanciulla e accostandolo alle labbra — è una professione di scetticismo che non può avere nel cuore.
— Sa lei che cosa c’è nel mio cuore? — domandò Editta, buttando via il gambo della verbena.
— No — rispose semplicemente Giovanni. — Darei però metà della vita per saperlo.
L’altera fanciulla volse altrove il capo. Giovanni, fremente di passione, continuò:
— Ella sa bene che io l’amo.
Editta voleva parlare, ma il suo cuore era in sussulto, il cervello non le dava nessuna idea, nè la lingua una sola parola.
Egli le prese finalmente le mani — tutte e due — e Editta dovette sentire una lagrima calda, piena d’amore e di timore, caderle sulle dita prigioniere.
— Non ho ricchezze da offrirle, ma le offro tutto me stesso. Dica, vuole corrispondermi? Vuole essere mia moglie?
Con uno slancio vero, sincerissimo, Editta strinse quella mano leale, che si stendeva verso di lei per soccorrerla, per proteggerla.
— Grazie — disse — ella è un nobile cuore!
Era commossa. Sentiva tutto il valore di una offerta che le assicurava l’avvenire; quella prova certa di essere amata la riempiva di una dolce ebbrezza; ma il pensiero di vincolarsi per sempre ad un uomo inferiore, di rinunciare a’ suoi sogni grandiosi, alle sue poetiche speranze, di fermare a un tratto i voli della sua immaginazione e mettersi prosaicamente a cucir camicie a fianco di un marito che allevava galline....
In una vivida percezione del futuro le parve di scorgere Giovanni a piedi nudi in un tino d’uva, e côlta da un pazzo terrore, esclamò:
— Non siamo fatti l’uno per l’altra! Creda, signor Giovanni, le sono riconoscente... forse anch’io... ma è inutile farsi illusione; le nostre vie sono tracciate in un senso opposto; non saremmo felici. No.
Egli non disse una sola parola. La guardò intensamente con uno sguardo che dovette passare da parte a parte il cuore di Editta, perchè le forze le mancarono e si lasciò cadere sopra un gradino singhiozzando.
Il signor Giovanni si allontanò a passi lenti, mal sicuri, come un ubbriaco. Urtò una colonna, poi infilò una porta e sparve.
Amarilli dal salotto interno si accorse che qualche cosa di nuovo era successo sotto il portico; uscì fuori; vista la nipote accasciata su quel gradino colle mani sulla faccia, le si fece accanto chiamandola a bassa voce.
Nel riconoscere Amarilli Editta balzò in piedi, le prese il braccio con furia e la trascinò dalla parte del giardino. Là raccontò tutto piangendo a calde lacrime.
Amarilli l’ammonì di essersi condotta troppo leggermente, precipitando una risoluzione che metteva in giuoco due vite. Le disse che il signor Giovanni era un ottimo giovane, rispettabile e gentile, soggiunse che non le sarebbe mai più capitato un partito simile; pensava infine come la brusca risposta doveva ferire quel povero cuore e che opinione egli avrebbe recata di lei.
Editta piangeva sempre. Amarilli le disse ancora:
— Se non t’incontrava, dovevi assumere fin dal principio un conteggio diverso e non permettergli di arrivare al punto di una dichiarazione. Più volte io ho sorpreso il tuo sguardo che ricambiava il suo, più volte ti ho vista arrossire; come sarebbe avvenuto se non l’amavi?
Editta si fece tanto vicina a sua zia da metterle la bocca sull’orecchio: allora Amarilli udì queste parole mormorate come un sospiro:
— L’amo.
— L’ami e lo rifiuti? L’ami e l’offendi? O mia povera fanciulla, che strani sentimenti combattono nel tuo petto! come puoi essere così nemica di te stessa da ascoltare più l’orgoglio che l’amore? Se l’ami, in questo solo fatto sta la prova ch’egli è degno di te; e piangeresti così disperatamente se la coscienza non ti rimordesse di aver agito male? Comprendi ora di aver distrutta colle tue mani la tua felicità, ed è per questo che piangi; comprendi di aver offeso il più generoso degli uomini, ed è per questo che ti disperi.
Tali parole giuste e severe accrescevano le lagrime della fanciulla.
Amarilli aveva parlato come madre, ma le toccava anche la parte d’amica e di sorella, e dopo i rimproveri vennero le parole d’affetto e di compassione.
Oh! come riconosceva nella giovinetta impetuosa e fiera la sua povera sorella e quell’indomito carattere della sua famiglia che l’aveva sempre compresa di sgomento! Una dura esperienza fatta a suo costo le rendeva chiaro il grave errore commesso da Editta e se ne crucciava temendo con ragione che avesse da pentirsene per tutta la vita.
La sera passò malinconica.
Editta si ritirò presto. Aveva tante cosucce da fare, tanti piccoli preparativi per la partenza; eppure, giunta nella sua camera non diede neppure un’occhiata al baule scoperto ed alle vesti piegate giacenti sulle sedie. Aperse la finestra e guardò fuori nell’oscurità della notte.
Gli alberi del giardino erano immobili; nessun uccello zittiva sotto i rami; nessun gufo batteva l’ala trepida rasente i tetti. Un solo rumore lontano, monotono, rompeva l’altissimo silenzio.
Editta ascoltò quel rumore.
Aveva caldo. Il venticello che, accarezzandole le guancie, vi lasciava alla superficie una sensazione fresca come di foglia bagnata, non penetrava al di là dell’epidermide; nelle vene il sangue le scorreva bollente e ribelle.
Ascoltava con attenzione angosciosa quel rumore, che ora pareva un canto, ora un lamento, ora una preghiera — ed ella sapeva bene che cosa fosse.
Si spinse con tutto il busto sul davanzale della finestra tendendo le braccia quasi volesse implorare qualcuno, ed al suo tacito scongiuro rispose malinconica l’eco della Sonna.
— O Giovanni! — mormorò la fanciulla, mentre due lagrime inutilmente represse le scorrevano dagli occhi; e le cadenze meste e gravi del torrente sembravano ripetere: Giovanni!
Stette ancora un pezzo alla finestra, assorta nel magico incanto, poi chiuse i vetri, spogliatasi per metà si gettò sul letto, dove un sonno rapido la colse. Ma al primo raggio dell’aurora era già desta.
Balzò in piedi, guardò l’orologio e con una vivacità febbrile ravviò alla lesta i capelli, l’abito; tese l’orecchio nel giardino quasi buio ancora, sprofondato nel silenzio. Giunse le mani e davanti all’alba che spuntava recitò questa brevissima invocazione:
— Mio Dio, siete voi che lo volete. Aiutatemi!
Girò lentamente la molla dell’uscio, lo rinchiuse con precauzione ed uscì.
Quella mattina la vecchia Margii, appisolata nel suo letto fra le dolcezze dell’ultimo sonnellino, avrebbe giurato che qualcuno apriva la porta di casa; ma fatta persuasa dalla riflessione che nessuno in famiglia aveva l’abitudine di levarsi così presto, si riaddormentò placidamente.
⁂
Editta intanto correva sui verdi sentieri della Sonna, umidi di rugiada. Alcune fragole d’autunno rosseggiavano luccicanti sotto le goccioline, come giovani spose ornate di brillanti; il loro profumo si mesceva a quelli della menta e del sambuco.
Un vapore leggero si alzava dalla terra; la valle destandosi rimoveva al pari di una ninfa i suoi veli ed usciva nuda incontro al sole. Dalle colline le querce si incurvavano scotendo i lucidi rami per specchiarsi nel torrente. Una mezza luce soavissima, stemperata di rosa e di viola pallido, ondeggiava su tutto quel verde così fresco, così folto; l’aria era tranquilla, il paesaggio muto; i sentieri, nella rugiada della notte, si erano rifatta una verginità che le nascenti margherite e i panporcini selvatici imbalsamavano; Editta credeva di inoltrarsi per i viottoli del paradiso.
La decisione che aveva presa le metteva l’orgasmo addosso; non correva più, volava; il cuore le batteva come una campana a martello. Oltrepassò il mulino senza fermarsi, per evitare le interrogazioni della mugnaia che doveva rimanere sorpresa certamente nel vederla in giro a quell’ora.
Incominciò a salire la collina lungo i noccioli, i cui rami sottili le sferzavano i capelli, umettandoli di rugiada. Giunse al punto in cui la Sonna scompariva, e stette ferma qualche minuto ad ascoltarla come aveva fatto la sera prima, e le parve ancora che ripetesse: Giovanni!
Colle guance accese e i denti stretti tornò a salire, finchè vide la casetta bianca; allora le mancò il fiato e si sorresse contro un albero.
I colombi tubavano sul cornicione del tetto quasi a darle il benvenuto, e spiegando le candide ali scendevano fino alla rosea zona degli oleandri, rincorrendosi con graziosi trilli d’amore. Grandi farfalle dorate svolazzavano in silenzio dando opera al giornaliero lavoro e piccoli moscerini bruni uscivano di sotto ai cespugli chiedendo anch’essi una porzione di sole e di fiori.
Tutto era gaio e sereno intorno alla casetta; i grandi e i piccoli vi coglievano una eguale somma di felicità; l’uomo in buona armonia colla natura vi si era fatto un amico di ogni essere e di ogni cosa.
Editta si nascose dietro gli oleandri, tremante d’emozione, ma ferma nei suoi propositi e come un’ispirata martire raggiante dell’umiliazione che stava per subire.
Era uno slancio troppo poetico e troppo poco ragionato quello che spingeva Editta, ma a chi perdoneremo la poesia e lo sragionamento se non vogliamo perdonarli al divo Amore?
Dall’interno della casa si udivano i mille piccoli rumori che annunciano il principio della giornata. Usci aperti, imposte sbattute, mobili rimossi, legna spezzata, e più alto e più forte l’allegro chiocciare delle galline che copriva i lunghi sbadigli del bracco legato ancora alla sua catena.
Una finestra si schiuse e dietro la modesta tenda apparve per un istante la figura del proprietario. Editta lo vide e fu sul punto di fuggire. La sua posizione le sembrò, oltre che arrischiata, ridicola. Uscì dagli oleandri e mosse alcuni passi giù per la china; avrebbe voluto essere sotterra, poichè al di sopra non poteva più vivere, poichè non sapeva amare. Sentiva il cuore pesante, pieno com’era di rimorsi e di volontà in lotta fra di loro. Si lasciò cadere sull’erba, in ginocchio; allora giunse le mani, e appoggiandovi sopra la faccia pianse.
Le foglie secche dei noccioli, stridendo dietro a lei, le fecero sollevare gli occhi. Giovanni le stava vicino, pallido, immobile. Le tracce di una notte insonne solcavano le sue guance; i suoi sguardi mestissimi portavano l’impronta di un immenso dolore nobilmente sopportato.
Si guardarono entrambi senza aprir bocca; lei vermiglia in mezzo alle lagrime, lui bruno sotto la pelle bruna. Fu un momento solo, ma vi concentrarono l’eloquenza di due secoli.
Chi parlò pel primo? Chi tese le braccia? Chi domandò? chi rispose? Quale fu il più felice fra i due?
Rotte parole e sospiri, strette di mano da non finire mai, riempivano la lacuna che il bacio ognora tremante sulle loro labbra e mai concesso lasciava nei loro desiderii. No, mai concesso, neppure in quegli istanti di dolcissimo delirio; mai chiesto, quantunque la bocca amata sfiorasse quasi la sua, ed egli dovesse chiudere gli occhi per frenarsi.
— Giovanni — disse la fanciulla con accento di nobile modestia — darle il mio amore era poco; le ho sacrificato il mio orgoglio, e per questo sacrificio spero di essere perdonata.
Egli volle interromperla, ma internamente era contento della confessione; il suo maschio cuore gustava la voluttà di aver vinto un nemico degno di lui.
— Ho compiuto questo pellegrinaggio d’amore — continuò Editta esaltandosi — per castigare il mio orgoglio con un atto che il mondo non approverebbe, che la società segnerebbe col marchio del suo disprezzo; ma ho fatto il mio dovere con me stessa; mi sono rialzata agli occhi di colui che amo, per meritare il suo perdono e la sua fiducia...
— E la sua tenerezza per sempre, o Editta, mia amata e temuta Editta! — rispose Giovanni sorridendo, felice di una dolce e profonda ebbrezza.
Colsero due oleandri e se li scambiarono.
Una bellissima pesca pendeva da un alberello. Giovanni la staccò dividendola, ne porse mezza alla fanciulla.
— «Tu mangerai il mio pane... — voleva fermarsi, ma la citazione così spezzata non gli piaceva, e continuò arrossendo impercettibilmente: — e poserai la tua testa sul mio petto.»
— Così sia, Giovanni — disse la fanciulla coll’accento grave di chi pronunzia un giuramento.
Colle braccia intrecciate, guardandosi fino in fondo alle pupille, commossi, in estasi, discesero verso la Sonna e si fermarono per simultaneo impulso a quel posto dove si erano incontrati per la prima volta.
— Bell’acqua della Sonna — esclamò Editta — tu sei stata il mio Giordano; nel tuo puro lavacro ho cancellata la colpa originale!
— Commemoriamo una sì felice conversione — disse Giovanni in tono ilare, raccogliendo un po’ d’acqua colla mano e spruzzandola sulla fronte della fanciulla: — Siate battezzata in nome vostro e mio e dell’amore che ne congiunge!
Il sole aveva toccato la cima dei colli; tutta la valle splendeva. Era un incanto.
— Ecco là una rondine che ci abbandonerà fra poco — disse Giovanni alzando gli occhi al cielo; — essa cercherà un’altra rondine, e anderanno insieme a fabbricare il loro nido lontano. Ho trovato anch’io la mia rondinella, e il nostro nido lo poseremo in questa valle. Che ne pensa Editta?
Non dissero più altro; ma le loro mani non si disgiunsero finchè furono in vista delle prime case, e i loro cuori stretti il più possibilmente vicini non cessarono un solo istante dal ripetersi che si volevano bene.