Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano/22
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Traduzione dall'inglese di Davide Bertolotti (1820-1824)
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CAPITOLO XXII.
Mentre i Romani languivano sotto l’ignominiosa tirannia degli Eunuchi e dei Vescovi, si ripetevano con trasporto le lodi di Giuliano in ogni parte dell’Impero, fuorchè nel palazzo di Costanzo. I Barbari della Germania avevan provato, e sempre temevano le armi del giovane Cesare. I suoi soldati erano i compagni della sua vittoria. I Provinciali pieni di gratitudine godevano le beneficenze del suo regno. Ma i favoriti che si erano opposti alla sua elevazione, guardavano di mal occhio le sue virtù, ed a ragione consideravan l’amico del popolo come un nemico della Corte. Fintanto che fu dubbiosa la fama di Giuliano, i buffoni del palazzo, periti nel linguaggio della satira, sperimentarono l’efficacia di quelle arti, ch’essi avevano tante volte praticate con felice successo. Facilmente notarono che la sua semplicità non era esente da affettazione; applicarono all’abito e alla persona del filosofo guerriero i ridicoli nomi d’irsuto selvaggio e di scimia vestita di porpora, e le sue modeste relazioni venivan criticate come vane ed elaborate finzioni d’un Greco loquace, e d’uno speculativo soldato, che aveva studiato l’arte della guerra nei giardini dell’Accademia1. La voce però della maliziosa follìa finalmente fu fatta tacere dal suono della vittoria; non si potè più dipingere il conquistatore dei Franchi e degli Alemanni come un oggetto di disprezzo; ed il Monarca medesimo era bassamente ambizioso di defraudare il suo luogotenente dell’onorevol premio di sue fatiche. Nelle lettere coronate di lauro, che, secondo l’antico costume, furono mandate alle Province, si omise il nome di Giuliano. „Costanzo avea fatte tutte le disposizioni della guerra in persona, egli avea segnalato il suo valore nelle linee; la sua condotta militare assicurato avea la vittoria, ed il Re dei Barbari gli era stato condotto prigioniero nel campo di battaglia„: dal quale in quel tempo era distante più di quaranta giornate di cammino2. Ma una favola sì stravagante non poteva ingannare la pubblica credulità, e neppur soddisfare l’or- goglio dell’Imperatore medesimo. Conoscendo segretamente che l’applauso ed il favor dei Romani accompagnava la nascente fortuna di Giuliano, il suo spirito malcontento era pronto a ricevere il sottile veleno di quegli artificiosi adulatori, che colorivano i lor malvagi disegni con le più belle apparenze di verità e di candore3. Invece di abbassare i meriti di Giuliano, essi ne confessavano, ed eziandio n’esageravano la fama popolare, l’eminente ingegno e gl’importanti servigi. Ma oscuramente accennavano, che le virtù di Cesare potevano ad un tratto convertirsi nei più pericolosi delitti, se l’incostante moltitudine preferito avesse le proprie inclinazioni al dovere, o se il Generale d’un vittorioso esercito fosse tentato di anteporre alla sua fedeltà le speranze della vendetta, o di una indipendente grandezza. I personali timori di Costanzo erano interpretati dal suo Consiglio come una lodevole ansietà per la pubblica salute; mentre in privato, e forse anche dentro a se stesso egli mascherava col men odioso nome di timore i sentimenti d’odio e d’invidia, che aveva segretamente conceputi per le inimitabili virtù di Giuliano.
[A. D. 360] L’apparente tranquilità della Gallia, e l’imminente pericolo delle Province Orientali somministrarono uno specioso pretesto pei disegni che artificiosamente si concertarono dai ministri dell’Imperatore. Risolvettero essi di disarmar Cesare; di richiamare quelle fedeli truppe che guardavano la sua persona e dignità, e d’impiegare in una guerra lontana contro il Re di Persia i valorosi veterani che sulle rive del Reno avevan vinto le più fiere nazioni della Germania. Mentre Giuliano consumava le laboriose sue ore nei quartieri d’inverno a Parigi, amministrando la potenza che nelle sue mani riducevasi all’esercizio della virtù, fu sorpreso dal precipitoso arrivo d’un tribuno e d’un notaro con positivi ordini dell’Imperatore, ch’essi avevano la commission d’eseguire, ed a’ quali egli non dovevasi opporre. Costanzo indicò la sua volontà che quattro intere legioni, vale a dire quelle dei Celti, dei Petulanti, degli Eruli e dei Batavi, si separassero dalle bandiere di Giuliano, sotto di cui acquistato avevano la loro fama e disciplina; che si scegliessero in ciascheduna delle rimanenti trecento dei più valorosi giovani; e che questo numeroso distaccamento, che formava la forza dell’esercito Gallico, si ponesse immediatamente in marcia, e facesse ogni diligenza per arrivare avanti l’apertura della nuova campagna sulle frontiere di Persia4. Cesare previde le conseguenze di questo fatal comando, e se ne lagnò. Moltissimi ausiliarii, che volontariamente s’erano ascritti alla milizia, avevano stipulato di non poter essere mai costretti a passar le alpi. Si era impegnata la pubblica fede di Roma, ed il personal onore di Giuliano per l’osservanza di tal condizione. Un simil atto di tradimento e d’oppressione avrebbe distrutto la fiducia, ed eccitato lo sdegno degl’indipendenti guerrieri della Germania, che risguardavan la verità come la più nobile delle virtù, e la libertà come il più stimabile dei loro beni. I Legionari, che godevano il titolo ed i privilegi di Romani, s’erano arrolati per la difesa generale della Repubblica; ma quelle mercenarie truppe udivan con fredda indifferenza gli antiquati nomi di Repubblica e di Roma. Attaccati o per la nascita o per una lunga abitazione al clima ed ai costumi della Gallia, essi amavano ed ammiravan Giuliano, disprezzavano e forse odiavan l’Imperatore, temevano quella marcia laboriosa, i dardi Persiani, e gli ardenti deserti dell’Asia. Risguardavano come loro propria la terra che avevan salvata; e scusavan la loro mancanza di coraggio, adducendo il sacro e più immediato dovere di difender le famiglie e gli amici loro. Le apprensioni dei Galli nascevano da un imminente ed inevitabil pericolo. Tosto che si fossero private le Province della militare loro forza, i Germani avrebber violato un trattato, che non fondavasi che sui loro timori; e nonostante l’abilità ed il valor di Giuliano, il Generale d’un’armata di puro nome, a cui si sarebbero imputate le pubbliche calamità, dovea dopo una vana resistenza trovarsi, o schiavo nel campo dei Barbari, o reo nel palazzo di Costanzo. Se Giuliano ubbidiva agli ordini che avea ricevuti, sottoscriveva la propria sua distruzione e quella d’un popolo, che meritava il suo affetto. Ma una positiva disubbidienza era un atto di ribellione ed una dichiarazione di guerra. L’inesorabil gelosia dell’Imperatore, e la perentoria, e forse insidiosa natura de’ suoi comandi, non lasciavan luogo ad una plausibile apologia o candida interpretazione; e la dipendente situazione di Cesare appena gli dava tempo di deliberare. La solitudine accresceva la perplessità di Giuliano; egli non potea più contare su’ fedeli consigli di Sallustio, che dall’oculata malizia degli eunuchi era stato rimosso dal suo uffizio; non potea neppure corroborare le sue rappresentanze col concorso de’ Ministri, che avrebbero avuto paura o rossore d’approvar la rovina della Gallia. Fu preso il momento, in cui Lupicino5, Generale della cavalleria, era stato mandato nella Gran-Brettagna, per reprimer le incursioni degli Scoti, e de’ Pitti; e Florenzio era occupato a Vienna nell’esazione del tributo. Quest’ultimo, astuto e corrotto politico, evitando d’essere in alcun modo responsabile in tal pericolosa occasione, eluse i pressanti e replicati inviti di Giuliano, che gli rappresentava, che in ogni risoluzione d’importanza era indispensabile nel consiglio del Principe la presenza del Prefetto. Frattanto Cesare veniva incalzato dalle civili ed importune sollecitazioni de’ messaggieri Imperiali, che pretesero di suggerire, che s’egli aspettava il ritorno de’ suoi Ministri si sarebbe caricato della colpa d’aver differito, ed avrebbe riservato ad essi il merito dell’esecuzione. Incapace di resistere, e non volendo ubbidire, Giuliano espresse ne’ termini più serj il desiderio, ed eziandio l’intenzione che aveva, di dimetter la porpora, ch’egli non potea ritener con onore, ma che non potea per altro abbandonare con sicurezza.
Dopo un penoso contrasto, Giuliano fu costretto a riconoscere, che l’ubbidienza era la virtù propria del suddito più eminente, e che al solo Sovrano toccava di giudicare del pubblico bene. Ei diede gli ordini opportuni per eseguire la volontà di Costanzo; una parte delle truppe incominciò a marciare per le alpi; e dalle varie guarnigioni si mossero i distaccamenti verso i rispettivi luoghi d’unione. Avanzavano essi con difficoltà fra la tremante, e spaventata folla di Provinciali, che procuravan d’eccitare la lor pietà con tacita disperazione o con alti lamenti, nel tempo che le mogli de’ soldati, tenendo in braccio i lor figli, accusavano l’abbandono de’ loro mariti in un linguaggio misto di dispiacere, di tenerezza, e di sdegno. Questa scena di mestizia afflisse l’umanità di Cesare; egli concesse un numero sufficiente di carri per trasportare le mogli e le famiglie de’ soldati6, procurò d’alleggerire i travagli, ch’era costretto d’imporre, ed accrebbe con le più lodevoli arti la sua popolarità, e il disgusto dell’esuli truppe. La tristezza d’una moltitudine armata presto si converte in furore; i liberi discorsi, che si comunicavan di tenda in tenda sempre con maggiore audacia ed effetto, prepararono i loro animi ai più arditi atti di sedizione, e mediante la connivenza dei Tribuni fu segretamente sparso un opportuno libello in cui dipingevasi con vivi colori la disgrazia di Cesare, l’oppressione dell’esercito Gallico, e gl’imbelli vizi del tiranno dell’Asia. I servi di Costanzo rimasero sorpresi ed agitati dal progresso di tale spirito pericoloso. Stimolarono Cesare ad affrettar la partenza delle truppe; ma imprudentemente rigettarono l’onesto o giudizioso consiglio di Giuliano, che proponeva loro di non muovere le schiere verso Parigi, ed indicava il pericolo e la tentazione d’un ultimo abboccamento.
Tostochè fu annunziato l’avvicinarsi delle truppe, Cesare andò loro incontro e salì sul suo Tribunale che era stato eretto in una pianura fuori delle porte della Città. Dopo d’aver distinto gli Uffiziali ed i soldati, che pei loro posti ed azioni meritavan particolare attenzione, Giuliano si voltò con una studiata orazione alla moltitudine che lo circondava; celebrò con grato applauso le loro imprese, gl’incoraggiò ad accettare con allegrezza l’onore di militar sotto gli occhi d’un potente e generoso Monarca, e gli avvertì che i comandi d’Augusto richiedevano un immediata e volontaria ubbidienza. I soldati, che temevan d’offendere il lor Generale con indecenti clamori, o di mentire i lor sentimenti con false e venali acclamazioni, conservarono un ostinato silenzio, e dopo breve posa furono rimandati a’ loro quartieri. I principali Uffiziali ammessi furono alla mensa di Cesare, che protestava, col più tenero linguaggio dell’amicizia, il desiderio che aveva, e l’impotenza in cui si trovava di premiare, secondo i lor meriti, i prodi compagni delle sue vittorie. Essi partiron da tavola pieni di dolore e di pensieri, e si dolevano della durezza di loro sorte, che dividevagli dall’amato lor Generale, e dal lor paese nativo. Fu arditamente discusso, ed approvato l’unico espediente, che impedir potesse quella separazione; lo sdegno popolare si ridusse a poco o poco ed una regolare cospirazione; si ampliarono dalla passione i giusti motivi di querela; e siccome nella vigilia della partenza permettevasi alle truppe una licenziosa ricreazione, le loro passioni furono anche infiammate dal vino. Alla mezza notte l’impetuosa moltitudine con spade, con bicchieri, e con faci alla mano corse ne’ sobborghi; circondò il palazzo7; e non curando il futuro pericolo, pronunziò le fatali e irrevocabili parole: Giuliano Augusto. Il Principe, la cui ansiosa sospensione veniva interrotta dalle disordinate loro declamazioni, assicurò le porte, affinchè non s’introducessero nel palazzo; e per quanto fu in suo potere, non espose la propria persona e dignità agli accidenti d’un notturno tumulto. Allo spuntar del giorno i soldati, lo zelo de’ quali era irritato dalla opposizione, entraron per forza nel palazzo; s’impadronirono con rispettosa violenza dell’oggetto della loro scelta, accompagnarono con spade sguainate Giuliano per le strade di Parigi, lo collocarono sul Tribunale, e con replicate grida lo salutarono Imperatore. La prudenza non meno che la fedeltà gl’inculcarono il dovere di resistere a’ lor ribelli disegni, e di preparare alla sua oppressa virtù la scusa della violenza. Volgendosi or alla moltitudine, or agl’individui, ora implorava la lor compassione, ora esprimeva il suo sdegno; gli scongiurava a non macchiar la fama di loro immortali vittorie, e si avventurò a promettere, che se immediatamente tornavano al lor dovere, avrebbe procurato d’ottener dall’Imperatore non solo un libero e grazioso perdono, ma anche la rivocazione degli ordini, che avevano eccitato la loro collera. Ma i soldati, che conoscevan la propria colpa, vollero piuttosto dipendere dalla gratitudine di Giuliano, che dalla clemenza dell’Imperatore. Il loro zelo insensibilmente si ridusse ad impazienza, e l’impazienza a furore. L’inflessibil Cesare sostenne fino all’ora terza del giorno le preghiere, i rimproveri e le minacce di essi; nè volle cedere fintantochè non l’ebbero assicurato più volte, che s’egli voleva vivere, bisognava che acconsentisse a regnare. Fu innalzato sopra uno scudo in presenza, e fra le unanimi acclamazioni delle truppe; supplì alla mancanza del diadema8 un ricco collar militare, che trovarono a caso; la ceremonia si terminò con la promessa d’un moderato donativo9; ed il nuovo Imperatore, oppresso da un vero o affettato rammarico, si ritirò ne’ più segreti recessi del suo appartamento10.
Poteva il dispiacer di Giuliano provenire solo dalla sua innocenza; ma questa deve apparire estremamente dubbiosa11 agli occhi di quelli, che hanno appreso a sospettare de’ motivi, e delle proteste dei Principi. Il suo attivo e vivace spirito era suscettibile delle diverse impressioni di speranza e di timore, di gratitudine e di vendetta, di dovere e d’ambizione, d’amor della fama e di timor del biasimo. Ma è impossibile per noi il calcolare il respettivo peso, e l’azione di tali sentimenti, o il determinare i principj agenti, che sfuggir potevano all’osservazione di Giuliano medesimo, mentre ne guidavano, o piuttosto ne spingevano i passi. Il disgusto delle truppe nasceva dalla malizia de’ nemici di lui; il loro tumulto era un effetto naturale dell’interesse e della passione; e se Giuliano tentato avesse di nascondere un alto disegno sotto le apparenze del caso, avrebbe dovuto impiegare il più consumato artifizio senza necessità, e probabilmente senza frutto. Egli solennemente dichiara in faccia a Giove, al Sole, a Marte, a Minerva ed a tutte le altre divinità, che sino al termine della sera, che precedè la sua elevazione, fu affatto ignorante dei disegni de’ soldati12; e potrebbe sembrar poco generoso il non credere all’onor d’un Eroe, ed alla veracità d’un Filosofo. Pure la superstiziosa credenza che Costanzo fosse il nemico, ed egli il favorito degli Dei, poteva fargli desiderare, promuovere, ed anche affrettare il fausto momento del proprio regno, ch’era predestinato a restaurar l’antica religione dell’uman genere. Quando Giuliano ebbe avuto notizia della cospirazione, si abbandonò ad un breve sonno; e dopo raccontava a’ suoi amici d’aver veduto il Genio dell’Impero, che aspettava con impazienza alla sua porta, chiedendo con premura d’esser ammesso, e rimproverando la sua mancanza di coraggio, e d’ambizione13. Attonito e perplesso indirizzò le sue preghiere al gran Giove, che immediatamente con un chiaro e manifesto augurio indicogli di sottomettersi alla volontà del Cielo e dell’esercito. Allorchè uno spirito di fanatismo, sì credulo nel tempo stesso e sì artificioso, s’è insinuato in un’anima nobile, insensibilmente corrode i vitali principj di veracità, e di virtù.
Moderare lo zelo del suo partito, protegger le persone de’ suoi nemici, render vane, e disprezzar le segrete intraprese, che si facevano contro la sua vita e dignità, eran le cure che occuparono i primi giorni del nuovo Imperatore. Quantunque fosse fermamente risoluto di mantenersi nel posto, che aveva acquistato, era tuttavia desideroso di salvare lo Stato dalle calamità d’una guerra civile, d’evitar di combattere con le superiori forze di Costanzo, e di liberare il proprio carattere dalla taccia di perfidia e d’ingratitudine. Adornato delle insegne della pompa militare ed Imperiale, Giuliano si mostrò nel campo di Marte ai soldati, che ardevano d’un fervido entusiasmo nella causa del loro pupillo, capitano, ed amico. Egli recapitolò le loro vittorie, si dolse de’ loro travagli, ne applaudì la risoluzione, ne animò le speranze, e ne frenò l’impetuosità; nè licenziò l’assemblea finchè non ebbe ottenuto una solenne promessa dalle truppe, che se l’Imperatore d’Oriente avesse voluto divenire ad un discreto trattato, essi avrebbero rinunziato ad ogni mira di conquista, e si sarebbero contentati del tranquillo possesso delle Province di Gallia. Su tal fondamento egli compose in nome proprio e dell’esercito, una speciosa, e moderata lettera14, che fu consegnata a Pentadio, suo Maestro degli uffizj, e ad Euterio suo Ciamberlano, ch’esso destinò Ambasciatori per ricevere la risposta, ed osservar le disposizioni di Costanzo. In questa lettera egli si dà il modesto nome di Cesare. Ma richiede in una perentoria, sebben rispettosa maniera, la conferma del titolo d’Augusto. Egli confessa l’irregolarità della sua elezione, mentre in qualche modo giustifica il risentimento e la violenza delle truppe, che avevano estorto a forza il suo consenso. Riconosce la superiorità del fratello Costanzo; e s’impegna a mandargli un annuo presente di cavalli Spagnuoli, di reclutarne l’esercito con uno scelto numero di giovani barbari, e di ricever dalle mani di lui un Prefetto del Pretorio di provata discrezione e fedeltà. Ma si riserva l’elezione degli altri Uffiziali civili e militari con le truppe, l’entrate, e la sovranità delle Province oltre l’Alpi. Avverte l’Imperatore a consultare i dettami della giustizia; a diffidare degli artifizi di que’ venali adulatori, che non sussistono che per le discordie de’ Principi; e ad abbracciare l’offerta d’un equo ed onorevol trattato, vantaggioso alla Repubblica ugualmente che alla casa di Costantino. In questa negoziazione Giuliano non chiedeva più di quello che già possedeva. L’autorità delegata, che da gran tempo esercitava sulle Province di Gallia, di Spagna, e della Gran-Brettagna si continuò a venerare sotto un nome più indipendente ed augusto. I soldati ed il popolo furon contenti d’una rivoluzione, che non venne macchiata neppure dal sangue de’ rei. Florenzio fuggì; Lupicino fu arrestato. Quelli, che non amavano il nuovo governo, furono disarmati, e posti in sicuro; e si distribuirono gli uffizj vacanti, secondo la raccomandazione del merito, da un Principe che disprezzava gl’intrighi del palazzo, ed i clamori de’ soldati15.
I trattati di pace venivano accompagnati e sostenuti dalle più vigorose preparazioni per la guerra. L’esercito, che Giuliano teneva pronto per agire immediatamente, fu reclutato ed accresciuto da’ disordini de’ tempi. La crudel persecuzione del partito di Magnenzio aveva riempito la Gallia di numerose truppe di banditi, e di ladri. Questi volentieri accettaron l’offerta d’un generale perdono da un Principe del quale potevan fidarsi, si sottomisero al rigore della militar disciplina, e non ritennero che un odio implacabile contro la persona e il governo di Costanzo16. Subito che la stagione permise d’entrare in campagna, egli comparve alla testa delle sue legioni; gettò un ponte sul Reno nelle vicinanze di Cleves; e si preparò a gastigar la perfidia degli Attuarj, tribù di Franchi, i quali supponevano di poter devastare impunemente le frontiere d’un Impero diviso. La difficoltà, e la gloria di quest’impresa consisteva in una faticosa marcia; e Giuliano ebbe vinto, subito che gli riuscì di penetrare in un luogo che gli antecedenti Principi avevano stimato inaccessibile. Dopo d’aver concessa la pace a’ Barbari, l’Imperatore visitò diligentemente le fortificazioni lungo il Reno da Cleves a Basilea; esaminò con particolar attenzione i territorj, che avea ricuperati dalle mani degli Alemanni, passò per Besanzone17, che aveva molto sofferto dal lor furore, e fissò il suo principal quartiere a Vienna per il seguente inverno. Fu migliorata e fortificata la frontiera della Gallia con nuove fortificazioni; e Giuliano aveva qualche speranza, che i Germani, da esso tante volto soggiogati, potessero in assenza di lui esser tenuti a freno dal terror del suo nome. Vadomair18 era l’unico Principe degli Alemanni, ch’egli stimava o temeva; e mentre l’astuto Barbaro affettava d’osservar la fede de’ trattati, il progresso delle sue armi minacciava lo Stato d’una inopportuna, e pericolosa guerra. La politica di Giuliano condiscese a sorprendere il Principe degli Alemanni con le sue proprie arti; e Vadomair, che sotto il carattere d’amico aveva incautamente accettato un invito da’ Governatori Romani, fu arrestato nel mezzo del convito, e mandato prigioniero nel cuor della Spagna. Avanti che i Barbari fosser rinvenuti dalla lor sorpresa, l’Imperatore comparve armato sulle sponde del Reno, ed attraversato un’altra volta il fiume, rinnovò le profonde impressioni di terrore e di rispetto, che si eran già fatte da quattro precedenti spedizioni19.
Gli Ambasciatori di Giuliano avevano avuto l’ordine d’eseguire colla massima diligenza l’importante lor commissione. Ma nel passar che fecero per l’Italia e l’Illirico fur trattenuti dalle tediose ed affettate dilazioni de’ Governatori delle Province; furon condotti a lente giornate da Costantinopoli a Cesarea in Cappadocia; e quando finalmente vennero ammessi alla presenza di Costanzo, trovarono ch’egli avea già concepito da’ dispacci de’ suoi Uffiziali la più svantaggiosa opinione della condotta di Giuliano e dell’esercito Gallico. Si ascoltarono le lettere con impazienza; i tremanti Ambasciatori furono licenziati con ira e disprezzo; e gli sguardi, i gesti, ed il furioso linguaggio del Monarca esprimevano il disordine dell’animo suo. Il domestico vincolo, che avrebbe potuto riconciliare il fratello e il marito d’Elena, di fresco erasi sciolto per la morte di quella Principessa, di cui la gravidanza era stata più volte infruttuosa, ed alla fine riuscille fatale20. L’Imperatrice Eusebia avea con- servato fino all’ultimo momento della sua vita il tenero, ed anche geloso affetto, che concepito avea per Giuliano; e la dolce di lei autorità avrebbe potuto moderare lo sdegno d’un Principe, che, dopo la morte di quella, s’era abbandonato alle proprie passioni, ed alle arti de’ suoi eunuchi. Ma il timore d’una straniera invasione l’obbligò a sospendere il gastigo d’un nemico domestico; continuò la sua marcia verso i confini della Persia, e stimò sufficiente l’indicare le condizioni, che avrebber potuto render Giuliano ed i suoi rei seguaci, degni della clemenza dell’offeso loro Sovrano. Egli esigeva, che il presuntuoso Cesare espressamente rinunziasse il nome e la dignità d’Augusto, che ricevuto avea da’ ribelli; che discendesse all’antico suo posto di limitato e dipendente ministro; che rimettesse le forze dello Stato, e dell’armata nelle mani degli Uffiziali, ch’erano deputati dalla Corte Imperiale; e che affidasse la propria salute alle assicurazioni di perdono, che si portavano da Epitteto, Vescovo Gallico, ed uno degli Arriani favoriti di Costanzo. Inutilmente si consumarono varj mesi in una negoziazione, che si trattava alla distanza di tremila miglia tra Parigi ed Antiochia; e quando Giuliano s’accorse, che il suo moderato e rispettoso contegno non serviva che ad irritare l’orgoglio d’un implacabil nemico, arditamente risolse di commetter la sua vita e il suo stato alla sorte d’una guerra civile. Diede una pubblica, e militar udienza al Questore Leonas; fu letta la superba lettera di Costanzo all’attenta moltitudine; e Giuliano si protestò con la più adulante deferenza, ch’egli era pronto a dimettere il titolo d’Augusto, se poteva ottenere il consenso di quelli ch’ei riguardava come autori della sua elevazione. La timida proposizione impetuosamente fu rigettata, e da ogni parte del campo nel tempo stesso rimbombarono queste acclamazioni „Giuliano Augusto, continua a regnare per l’autorità dell’esercito, del popolo e della Repubblica, che hai salvata„, onde spaventato rimase il pallido Ambasciator di Costanzo. In seguito fu letta una parte della lettera, in cui l’Imperatore accusava l’ingratitudine di Giuliano, ch’esso aveva insignito dell’onor della porpora; che aveva educato con tanta cura, e tenerezza; che aveva difeso nella sua infanzia, quando ei restò un orfano senza soccorso; „Orfano! interruppe Giuliano, che giustificava la propria causa nel tempo che soddisfaceva le sue passioni; „L’assassino di mia famiglia mi rinfaccia che io rimasi orfano? Egli mi spinge a vendicar quelle ingiurie, che lungamente ho procurato di porre in obblio„. Fu licenziata l’assemblea; e Leonas, che s’era difficilmente difeso dal furor popolare, fu mandato al suo Signore con una lettera, in cui Giuliano esprimeva co’ tratti della più veemente eloquenza i sentimenti d’ira, d’odio, e di disprezzo, ch’erano stati soppressi ed inveleniti dalla dissimulazione di venti anni. Dopo questa ambasceria, che si potè risguardare come il segno d’una irreconciliabile guerra, Giuliano, che poche settimane avanti avea celebrato la festa Cristiana dell’Epifania21, fece una pubblica dichiarazione ch’egli commetteva la cura della sua salvezza ai Numi immortali; e così rinunziò pubblicamente alla religione, ugualmente che all’amicizia di Costanzo22.
La situazione di Giuliano richiedeva una vigorosa, ed immediata risoluzione. Egli aveva scoperto per mezzo di lettere intercettate, che l’avversario, sacrificando l’interesse dello Stato a quello del Monarca, aveva di nuovo eccitato i Barbari ad invader le Province dell’Occidente. La disposizione di due magazzini, stabiliti uno sulle sponde del lago di Costanza, l’altro a piè delle Alpi Cozie, pareva che indicasse la marcia di due armate; e la grandezza di que’ magazzini, ciascheduno de’ quali conteneva seicentomila sacca di grano, o piuttosto farina23, era una minacciante prova della forza, e del numero de’ nemici che si preparavano a circondarla. Ma le legioni Imperiali erano sempre nelle distanti Province dell’Asia; il Danubio era guardato debolmente, e se Giuliano con una repentina invasione riusciva ad occupare le importanti Province dell’Illirico, poteva sperare che sarebbe corso a’ suoi stendardi un popolo di soldati, e che le ricche miniere d’oro e d’argento che v’erano, avrebbero contribuito alle spese della guerra civile. Propose quest’audace impresa all’assemblea de’ soldati; inspirò loro una giusta fiducia nel Generale ed in se stessi; e gli esortò a mantenere la propria riputazione di esser terribili a’ nemici, moderati verso i propri concittadini, ed ubbidienti a’ loro Uffiziali. L’animoso di lui discorso fu ricevuto con le più alte acclamazioni, e le medesime truppe, che avean prese le armi contro Costanzo, quando intimò loro di abbandonare la Gallia, ora dichiarano allegramente che avrebber seguitato Giuliano fino alle ultime estremità dell’Europa o dell’Asia. Fu dato loro il giuramento di fedeltà; ed i soldati, facendo strepito con gli scudi, e ponendosi la punta delle spade nude alla gola, si obbligarono con le più orride imprecazioni al servizio d’un Capitano, ch’essi celebravano come il liberator della Gallia ed il vincitor de’ Germani24. A tal solenne obbligazione, che pareva dettata dall’affetto più che dal dovere, non si oppose che il solo Nebridio, ch’era stato ammesso all’Uffizio di Prefetto del Pretorio. Il fedele Ministro, solo e senz’aiuto, sostenne i diritti di Costanzo in mezzo ad un’armata e fervida moltitudine, al furor della quale poco mancò, che non restasse onorevolmente, ma invano sacrificato. Dopo che un colpo di spada gli ebbe troncata una mano, egli abbracciò le ginocchia del Principe, che aveva offeso. Giuliano cuoprì il Prefetto col suo manto Imperiale, e difendendolo dal zelo de’ suoi seguaci, lo mandò alla propria casa con minor rispetto di quello ch’era forse dovuto alla virtù d’un nemico25. Il sublime posto di Nebridio fu dato a Sallustio; e le Province di Gallia, che allora si trovavan libere dall’intollerabile oppression delle tasse, goderono dell’equa e dolce amministrazione dell’amico di Giuliano, a cui permettevasi di praticar quelle virtù, che aveva instillato nell’animo del suo allievo26.
Le speranze di Giuliano dipendevano assai meno dal numero delle truppe, che dalla celerità de’ suoi movimenti. Nell’esecuzione d’un’ardita intrapresa, pose in opera ogni precauzione che suggerir potea la prudenza; e dove questa non poteva più accompagnare i suoi passi, affidò l’evento al valore, ed alla fortuna. Egli riunì, e divise il suo esercitonota nelle vicinanze di Basilea. Ad un corpo di diecimila uomini, sotto il comando di Nevitta Generale di cavalleria, fu ordinato d’avanzarsi verso le parti mediterranee della Rezia e del Norico. Una simil divisione di truppe, sotto gli ordini di Giovio e di Giovino, si preparò a seguitare l’obbliquo corso delle pubbliche strade per le Alpi ed i confini settentrionali d’Italia. Le istruzioni pei Generali eran concepite con energia e precisione: di affrettare cioè la lor marcia in chiuse e serrate colonne, che secondo la disposizione del luogo potessero facilmente cangiarsi in qualunque ordine di battaglia; d’assicurarsi dalle sorprese notturne per mezzo di forti posti, e di vigilanti sentinelle; di prevenire la resistenza coll’inaspettato loro arrivo; e mediante la repentina partenza, eluder le osservazioni; di spargere una grande opinione delle loro forze, ed il terror del suo nome; e di riunirsi al loro Sovrano sotto le mura di Sirmio. Per se Giuliano avea riservato la parte dell’opera più straordinaria, e difficile. Scelse tremila bravi ed attivi volontari, e risolvè, co- 27 me loro condottiero, di togliere ad essi qualunque speranza di ritirata. Alla testa di questa fedele truppa, senza timore gettossi nell’interno della Marciana, o sia della Foresta Nera, che nasconde la sorgente del Danubio28, e per molti giorni restò incognito al Mondo il destin di Giuliano. Mediante la segretezza della sua marcia, e per la diligenza e vigore con cui operò, vinse ogni ostacolo; proseguì a viva forza il suo viaggio per monti e paludi, occupò i ponti, passò a nuoto i fiumi, non traviando mai dal retto suo corso29, senz’avvertire se traversava territorj di Romani o di Barbari; e finalmente sboccò fra Vienna, e Ratisbona, in quel luogo appunto dove avea disegnato d’imbarcar le sue truppe sul Danubio. Mediante un ben concertato stratagemma, s’impossessò d’una flotta di legni leggieri30, che ivi si trovava sulle ancore; l’assicurò di grosse provvisioni, sufficienti a saziare il non delicato e vorace appetito d’un esercito Gallico; ed arditamente s’abbandonò al corso del Danubio. Gli sforzi de’ suoi marinari, che faticavano con diligenza continua, e la stabil costanza d’un vento favorevole, fecero progredir la sua flotta più di seicento miglia in undici giorni31; ed aveva già sbarcate le sue truppe a Bologna, distante non più di diciannove miglia da Sirmio, avanti che i nemici avessero alcuna certa notizia, ch’egli avea lasciate le rive del Reno. Nel corso di questa lunga e rapida navigazione l’animo di Giuliano era fisso nell’oggetto della sua intrapresa; e quantunque accettasse le deputazioni di alcune città, che s’affrettavano ad acquistare il merito d’una pronta sommissione, passò davanti alle fortezze nemiche situate lungo il fiume, senza cedere alla tentazione di segnalare un vano ed inopportuno valore. Le sponde del Danubio da una parte e dall’altra erano coronate di spettatori, che ammiravan la pompa militare, prevedevano l’importanza del fatto, e spargevan per le vicine regioni la fama d’un giovin Eroe, che s’avanzava con una velocità più che mortale alla testa delle innumerabili forze d’Occidente. Luciliano, che col grado di Generale di cavalleria comandava la milizia dell’Illirico, rimase agitato e perplesso dalle dubbiose relazioni, ch’ei non poteva nè rigettare, nè credere. Avea egli prese alcune lente ed irresolute misure ad oggetto di levar truppe, quando fu sorpreso da Dagalaifo, attivo Uffiziale, che Giuliano, appena sbarcato a Bologna, avea spedito avanti con qualche corpo d’infanteria leggiera. Il Generale prigioniero, incerto della vita o della morte, fu posto in fretta sopra un cavallo, e condotto alla presenza di Giuliano, che l’alzò cortesemente da terra, e sgombrò il terrore e la sorpresa, che sembrava avessero instupidite le sue potenze. Ma tosto che Luciliano ebbe ripreso lo spirito, dimostrò la sua mancanza di discernimento col pretendere d’ammonire il suo vincitore per essersi temerariamente arrischiato con un pugno di soldati ad esporre la sua persona in mezzo a’ nemici. „Riserva coteste timide rimostranze al tuo Signore Costanzo„, replicò con un sorriso di disprezzo Giuliano, „quando io ti ho dato a baciare la mia porpora, ti ho ricevuto come un supplichevole, non come un consigliero„. Sapendo che il solo successo era quello che giustificar poteva il suo tentativo, e che il solo ardire poteva dominar sull’evento, immediatamente s’avanzò alla testa di tremila soldati ad attaccar la più forte e più popolata città delle Province Illiriche. Entrato nel lungo sobborgo di Sirmio, fu ricevuto dalle liete acclamazioni dell’esercito e del popolo, che coronato di fiori, e tenendo in mano fiaccole accese, conduceva all’Imperial sua residenza il proprio già riconosciuto Sovrano. Furono destinati due giorni alla pubblica gioia, che celebrossi co’ giuochi del Circo; ma il terzo giorno di buon mat- tino Giuliano mosse ad occupare lo stretto passo di Succi nelle angustie del monte Emo, che posto quasi in mezzo fra Sirmio e Costantinopoli, separa fra loro le Province di Tracia e di Dacia, mediante una dirupata discesa verso la prima, ed un dolce declivo dalla parte dell’altra32. Fu affidata la difesa di questo importante luogo al bravo Nevitta, il quale non meno che i Generali della divisione Italiana, aveva con buon successo eseguito il piano della marcia e l’unione, che il loro Principe sì saviamente avea divisata33.
L’omaggio, che ottenne Giuliano dal timore o dalla inclinazione del Popolo, s’estese molto al di là dell’immediato effetto delle sue armi34. S’amministravan le Prefetture d’Italia e d’Illirico da Tauro e da Florenzio, che univano quest’importante uffizio ai vani onori del consolato; e siccome que’ Magistrati precipitosamente si ritirarono alla Corte d’Asia, Giuliano, che sempre non potea raffrenar la leggerezza del suo naturale, notò la lor fuga coll’aggiungere in tutti gli atti di quell’anno a’ nomi de’ due Consoli il titolo di fuggitivi. Le Province, che si trovarono abbandonate da’ primi lor Magistrati, riconobber l’autorità di un Imperatore, che conciliando le qualità di soldato con quelle di filosofo, era ugualmente ammirato nei campi del Danubio, e nelle Città della Grecia. Dal suo palazzo, o piuttosto da’ suoi generali quartieri di Sirmio e di Naisso, mandò alle principali Città dell’Impero un’elaborata apologia della sua condotta; pubblicò i segreti dispacci di Costanzo; e chiese il giudizio del genere umano fra due competitori, l’uno de’ quali aveva espulsi, e l’altro chiamati i Barbari35. Giuliano, il cui animo era profondamente sensibile alla taccia d’ingratitudine, tendeva a conservare con gli argomenti, non meno che colle armi, la superiorità della sua causa, e ad esser eccellente non solo nell’arti della guerra, ma anche in quelle di scrivere. Sembra che la sua lettera al Senato ed al Popolo d’Atene36 fosse dettata da un elegante entusiasmo, che gli faceva sottometter le proprie azioni e i motivi di esse a’ degenerati Ateniesi de’ suoi tempi, con quell’umile deferenza con cui avrebbe arringato, al tempo d’Aristide, avanti il Tribunale dell’Areopago. La sua richiesta al Senato di Roma, al quale tuttavia permettevasi di conferire i titoli dell’Imperial potestà, fu coerente alla forma d’una spirante Repubblica. S’intimò un’assemblea da Tertullo, Prefetto della Città; vi si lesse l’epistola di Giuliano; e siccome si vedeva, ch’egli era padrone d’Italia, i suoi diritti furono ammessi senza che alcun dissentisse. Con minor soddisfazione ascoltossi la sua indiretta censura delle innovazioni di Costantino, e l’appassionata invettiva contro i vizi di Costanzo, ed il Senato, come se Giuliano fosse stato presente, tutto insieme esclamò: „Rispettate, di grazia, l’Autore della vostra fortuna„37: artificiosa espressione, che si poteva interpretar differentemente secondo la sorte della guerra, o come una viril disapprovazione dell’ingratitudine dell’usurpatore, o come un’adulante confessione, che quel solo atto, di tanto vantaggio allo Stato, dovea servire a purgare tutti i difetti di Costanzo.
Immediatamente fu data notizia della marcia e del rapido progresso di Giuliano al suo rivale, che, mediante la ritirata di Sapore, aveva ottenuto qualche respiro dalla guerra Persiana. Mascherando l’angustia dell’animo suo coll’apparenza del disprezzo, Costanzo dichiarò la sua intenzione di tornare in Europa, e dar la caccia a Giuliano; giacchè non parlò mai di tal militare spedizione, che come d’una partita di caccia38. Nel campo di Gerapoli in Siria comunicò questo disegno all’esercito: toccò di volo la colpa e la temerità del Cesare, ed osò assicurare i soldati, che se gli ammutinati Galli ardivano di venir loro incontro nel campo, sarebbero stati incapaci di sostenere l’ardor de’ lor occhi, e l’irresistibile forza de’ loro clamori d’attacco. Si fece applauso militare al discorso dell’Imperatore; e Teodoto, Presidente del consiglio di Gerapoli, fece istanza con lacrime d’adulazione che la sua città venisse adornata del capo del soggiogato ribelle39. Fu spedito in carri di posta uno scelto distaccamento per assicurare, se fosse stato possibile, il passo di Succi; le reclute, i cavalli, le armi, ed i magazzini, che s’erano preparati contro Sapore, si applicarono all’uso della guerra civile, e le domestiche vittorie di Costanzo inspiravano a’ suoi partigiani la più certa sicurezza di buon successo. Il notaro Gaudenzio aveva occupato in suo nome le Province dell’Affrica; fu intercettata la sussistenza di Roma; e s’accrebbe la strettezza di Giuliano per un inaspettato accidente, che avrebbe potuto produrre conseguenze fatali. Giuliano aveva accettato la sommissione di due legioni e d’una coorte d’arcieri, ch’erano di guarnigione a Sirmio; ma ebbe con ragione sospetto della fedeltà di quelle truppe, ch’erano state distinte dall’Imperatore; e fu creduto espediente, sotto pretesto che la frontiera di Gallia era esposta, d’allontanarle dalla scena più importante d’azione. Essi avanzarono con ripugnanza fino a’ confini dell’Italia; ma temendo la lunghezza del viaggio e la barbara ferocia de’ Germani, risolvettero, instigati da uno de’ loro Tribuni, di fermarsi ad Aquileia, e d’innalzar sulle mura di quella inespugnabil città le bandiere di Costanzo. La vigilanza di Giuliano vide nel tempo stesso e l’estensione del male, e la necessità d’applicarvi un immediato rimedio. Giovino dunque ebbe l’ordine di condurre indietro una parte dell’esercito in Italia, e speditamente fu posto l’assedio ad Aquileia e proseguito con vigore. Ma i legionari, che pareva avessero scosso il giogo della disciplina, regolarono la difesa della piazza con perseveranza e sapere; invitarono il rimanente dell’Italia ad imitar l’esempio del coraggio e della fedeltà loro; e minacciarono d’impedire la ritirata di Giuliano, se mai si fosse trovato nella necessità di cedere al numero superiore delle armate di’ Oriente40.
Ma l’umanità di Giuliano fu liberata dalla crudele alternativa, di cui esso pateticamente dolevasi, di distrugger cioè, o d’esser distrutto; e l’opportuna morte di Costanzo risparmiò all’Impero le calamità della guerra civile. L’approssimarsi dell’inverno non potè ritenere il Monarca in Antiochia; ed i suoi favoriti non ardirono d’opporsi al suo desiderio di vendetta. Una lenta febbre, che forse fu cagionata dall’agitazione del suo spirito, s’accrebbe per le fatiche del viaggio; e Costanzo fu obbligato a fermarsi nella piccola Città di Mopsucrene, dodici miglia sopra Tarso, dove spirò dopo una breve malattia nel quarantesimo quinto anno della sua età, e nel ventesimo quarto anno del regno41. Si è pienamente spiegato nella precedente narrazione de’ fatti, sì civili che ecclesiastici, il suo genuino carattere, ch’era composto d’orgoglio e di debolezza, di superstizione e di crudeltà. Il lungo abuso che fece del potere, lo rendè un oggetto considerabile agli occhi de’ suoi contemporanei; ma siccome il solo merito personale può meritar la notizia della posterità, così l’ultimo tra’ figli di Costantino può licenziarsi dal Mondo con l’osservazione ch’egli ereditò i difetti senza ereditare l’abilità del padre. Si dice, che Costanzo, avanti di spirare, nominasse per suo successore Giuliano; nè sembra impossibile, che l’ansiosa di lui premura per la sorte di una gioe tenera moglie ch’ei lasciava gravida, potesse prevalere negli ultimi suoi momenti alle più aspre passioni della vendetta, e dell’odio. Eusebio ed i suoi rei compagni fecero un vano tentativo di prolungare il regno degli Eunuchi, mediante l’elezione d’un altro Imperatore, ma si rigettaron con disdegno i loro intrighi da un esercito, che allora abborriva il pensiero della discordia civile; e furono subito spediti due uffiziali d’alto grado ad assicurar Giuliano, che ogni spada nell’impero si sarebbe adoprata in servigio di lui. Furono prevenuti da questo fortunato accidente i militari disegni di quel Principe, che avea formato tre differenti attacchi contro la Tracia, e senza spargere il sangue de’ suoi concittadini, egli evitò i pericoli d’un dubbioso combattimento, ed acquistò i vantaggi d’una compita vittoria. Impaziente di visitare il luogo della sua nascita, e la nuova Capitale dell’Impero, s’avanzò da Naisso per le montagne dell’Emo, e le città della Tracia. Quando giunse in Eraclea, alla distanza di sessanta miglia, tutta Costantinopoli uscì ad incontrarlo; ed egli fece il trionfale suo ingresso fra le rispettose acclamazioni de’ soldati, del popolo, e del Senato. Una moltitudine innumerabile s’affollò intorno ad esso con ardente rispetto; e forse restò sorpresa quando vide la piccola statura, ed il semplice abito d’un Eroe, che nella sua inesperta gioventù aveva vinto i Barbari della Germania, e allora aveva traversato con un prospero corso tutto il continente d’Europa, da’ lidi del mare Atlantico fino a quelli del Bosforo42. Pochi giorni dopo, allorchè fu sbarcato nel porto il corpo del defunto Imperatore, i sudditi di Giuliano applaudirono alla reale, o affettata umanità del loro Sovrano. A piedi, senza diadema, e vestito a lutto, egli accompagnò il funerale fino alla Chiesa de’ santi Apostoli, dove fu depositato il cadavere; e se possono interpretarsi questi segni di rispetto, come un tributo fatto in riguardo di se stesso alla nascita ed alla dignità dell’Imperial suo cugino, le lacrime di Giuliano protestarono al Mondo ch’egli aveva dimenticato le ingiurie, e si rammentava solo delle obbligazioni, che professava a Costanzo43. Appena le legioni d’Aquileia furono assicurate della morte dell’Imperatore, aprirono le porte della città, e, col sacrifizio de’ loro colpevoli Capi, ottennero un facil perdono dalla prudenza, o dalla mansuetudine di Giuliano, che nel trentesimo secondo anno della sua età acquistò l’intero possesso del Romano Impero44.
La filosofia aveva insegnato a Giuliano a paragonare fra loro i vantaggi dell’azione e del ritiro; ma l’elevatezza della sua nascita, e gli accidenti della sua vita non gli lasciarono mai la libertà della scelta. Può essere ch’egli sinceramente avrebbe preferito i boschi dell’Accademia, o la società d’Atene; ma fu costretto a principio dalla volontà, ed in seguito dall’ingiustizia di Costanzo ad esporre la sua persona e la sua fama a’ pericoli dell’Imperiale grandezza, ed a farsi mallevadore al Mondo ed alla posterità della felicità di milioni di uomini45. Giuliano rifletteva con terrore a quell’osservazione del suo maestro Platone46 che il governo de’ nostri armenti e de’ nostri greggi si commette ad enti d’una specie superiore ad essi; e che la condotta delle nazioni meriterebbe, e richiederebbe le celesti facoltà degli Dei, o de’ Genj. Da questo principio a ragione concludeva, che l’uomo il qual pretende di regnare, aspirar dovrebbe alla perfezione della natura divina; che dovrebbe purgare il suo spirito da ogni parte mortale e terrestre, estinguere i suoi appetiti, illuminar l’intelletto, regolar le passioni, e soggiogare la selvaggia fiera, che, secondo la viva metafora d’Aristotile47, rare volte manca di salire il trono d’un despota. Il trono di Giuliano, che dalla morte di Costanzo fu stabilito sopra una indipendente base, era la sede della ragione, della virtù, e forse della vanità. Ei disprezzava gli onori, rinunziava a’ piaceri, ed eseguiva con assidua diligenza i doveri dell’alto suo posto; e pochi vi sarebbero stati tra’ suoi sudditi che avessero acconsentito ad alleggerirlo del peso del diadema, se fossero stati costretti a sottoporre il lor tempo e le loro azioni a quelle rigorose leggi, che il filosofico Imperatore imponeva a se stesso. Uno de’ suoi più intimi amici48, che aveva spesso partecipato della frugale semplicità di sua mensa ha osservato che il suo parco e leggiero cibo (ch’era per ordinario di vegetabili) lasciavagli lo spirito e il corpo sempre libero e attivo per eseguire le varie ed importanti incumbenze d’Autore, di Pontefice, di Magistrato, di Generale, e di Principe. In uno stesso giorno dava udienza a più Ambasciatori, e scriveva o dettava un gran numero di lettere a’ Generali, ai Magistrati civili, a’ suoi privati amici, ed alla diverse città de’ suoi Stati. Ascoltava le suppliche che s’erano ricevute, considerava il soggetto della domanda, e indicava le sue intenzioni più rapidamente di quel che se ne potesse prender memoria dalla diligenza de’ suoi segretari. Godeva tal flessibilità nel pensare, e tal fermezza d’attenzione, che impiegar poteva la mano a scrivere, l’orecchio ad udire, e la voce a dettare; e seguitare nel tempo stesso tre differenti serie d’idee, senza esitazione e senz’errore. Mentre i suoi ministri dormivano, il Principe agilmente passava da un lavoro all’altro; e dopo un frettoloso pranzo, ritiravasi nella sua libreria, finchè i pubblici affari, che aveva fissati per la sera, lo ritraessero dal proseguire i suoi studi. La cena dell’Imperatore era sempre di minor sostanza del primo cibo; il suo sonno non veniva mai ottenebrato da’ fumi dell’indigestione; ed eccettuato il breve intervallo d’un matrimonio, che fu effetto della politica piuttosto che dell’amore, il casto Giuliano non divise mai il proprio letto con femminil compagnia49. Egli veniva presto svegliato dall’entrar che facevano i nuovi segretari, che avevan dormito il giorno avanti, ed i suoi servi eran obbligati a vegliare a vicenda, mentre l’instancabile padrone appena lor permetteva altro sollievo che quello di cangiare le occupazioni. Il zio di Giuliano, il fratello, ed il cugino, suoi antecessori, s’abbandonavano al puerile lor gusto per li giuochi del Circo sotto lo specioso pretesto di compiacere alle inclinazioni del Popolo; e spesso restavano la maggior parte del giorno come oziosi spettatori, e come facienti una parte dello splendido spettacolo, fintantochè non fosse compito l’ordinario giro di ventiquattro corse50. Nelle feste solenni, Giuliano, che sentiva e confessava un insolito disamore per questi frivoli divertimenti, condiscendeva a comparire nel Circo; e dopo aver gettato un non curante sguardo su cinque o sei corse, tosto si ritirava coll’impazienza d’un filosofo, che risguardava come perduto ogni momento, che non fosse consacrato al vantaggio del Pubblico, od al miglioramento del suo spirito51. Mediante quest’avarizia di tempo, sembra che prolungasse la breve durata del suo Regno; e se le date fossero stabilite con minor certezza, ricuseremmo di credere, che non passassero più di sedici mesi fra la morte di Costanzo, e la partenza del suo successore per la guerra Persiana. La diligenza dell’Istorico ha potuto sol conservarci le azioni di Giuliano; ma quella de’ suoi voluminosi scritti, che tuttora sussiste, è un monumento dell’applicazione ugualmente che del genio dell’Imperatore. Il Misopogon, i Cesari, varie delle sue orazioni, e la sua elaborata opera contro la religione Cristiana furon composti nelle lunghe notti dei due inverni che passò, il primo a Costantinopoli, ed il secondo in Antiochia.
[A. D. 361-363] La riforma della Corte Imperiale fu uno de’ primi, e più necessari atti del governo di Giuliano52. Appena entrato nel Palazzo di Costantinopoli, ebbe occasione di servirsi d’un barbiere. Gli si presentò subito un uffiziale, magnificamente vestito; „Ho bisogno d’un barbiere (esclamò il Principe con affettata sorpresa) non d’un ricevitor generale di Finanze53„. Dimandò a quest’uomo quanto gli rendesse il suo impiego; ed intese, che oltre un grosso salario, ed alcuni valutabili incerti, godeva una quotidiana prestazione per venti servi, ed altrettanti cavalli. Eran distribuiti, ne’ varj uffizj di lusso, mille barbieri, mille coppieri, mille cuochi; e il numero degli Eunuchi non poteva paragonarsi che agl’insetti d’un giorno d’estate54. Il Monarca che abbandonava a’ suoi sudditi la superiorità nel merito, e nella virtù, si distingueva mediante l’oppressiva magnificenza degli abiti, della tavola, degli edifizi, e del suo seguito. I superbi palazzi, eretti da Costantino e da’ suoi figli, eran ornati di molti marmi di varj colori, e di finimenti d’oro massiccio. Si procuravano i cibi più squisiti per soddisfare la loro vanità piuttosto che il gusto: uccelli delle più remote regioni, pesci de’ mari più distanti, frutti fuori delle stagioni lor naturali, rose d’inverno, e nevi d’estate55. La spesa della domestica turba del palazzo sorpassava quella delle legioni; eppure la minima parte di tal dispendiosa moltitudine serviva all’uso, o allo splendore del Trono. Veniva infamato il Monarca, ed offeso il popolo dall’instituzione e dalla vendita d’un numero infinito di oscuri impieghi, ed anche di semplice titolo, ed i più indegni tra gli uomini potevan acquistare il privilegio d’esser mantenuti, senza bisogno di lavorare, dalle pubbliche rendite. Le spoglie d’una enorme famiglia, l’ampiezza delle mancie e degl’incerti, che ben presto si pretendevano come legittimamente dovuti; e i doni ch’estorcevan da quelli, che ne temevano l’inimicizia, e ne sollecitavano il favore, facean presto arricchire questi orgogliosi servi. Essi abusavano della presente fortuna, senza riflettere alla passata o futura lor condizione; e la rapace venalità di costoro non poteva uguagliarsi che dalla stravaganza delle loro dissipazioni. Le vesti di seta che usavano, erano ricamate d’oro, le mense loro servite con delicatezza e con profusione; le case che fabbricavano per loro uso, avrebber occupato l’intiero fondo d’un antico Console; ed i più onorevoli Cittadini eran costretti a smontare da’ loro cavalli e rispettosamente salutare un Eunuco, che avessero incontrato nella pubblica strada. Il lusso del palazzo eccitò il disprezzo e lo sdegno di Giuliano, che ordinariamente dormiva sulla terra, che cedeva con ripugnanza a’ bisogni indispensabili della natura, e che faceva consister la sua vanità non già in emulare, ma in disprezzar la pompa reale. Mediante la total estirpazione d’un male, che veniva magnificato anche oltre i suoi veri confini, egli era impaziente di sollevare le angustie, e di quietare i romori del popolo, che tollera con minor dispiacere il peso delle tasse, quando è convinto che i frutti della propria industria s’impiegano in servizio dello Stato. Ma nell’esecuzione di quest’opera salutare, viene accusato Giuliano d’aver proceduto con troppa fretta, e con inconsiderato rigore. Con un solo editto ridusse il palazzo di Costantinopoli ad un immenso deserto, ed ignominiosamente licenziò l’intiero treno degli schiavi, e dei dipendenti56, senza fare alcuna giusta, o almeno benefica eccezione in favor dell’età, de’ servigi, della povertà, e de’ fedeli domestici della Famiglia Imperiale. Tale in fatti era l’indole di Giuliano, che rare volte si rammentava di quella fondamental massima d’Aristotile, che la vera virtù si trova in egual distanza fra gli opposti vizi. Lo splendido ed effeminato vestir degli Asiatici, i ricci ed il liscio, le collane e gli anelli che parevan tanto ridicoli nella persona di Costantino, furono costantemente rigettati dal filosofico di lui successore. Ma Giuliano, insieme colle superfluità, affettava di non curare neppur la decenza del vestire; e pareva che si facesse un pregio di trascurar le leggi della pulizia. In un’opera satirica, destinata per comparire al pubblico, l’Imperatore decanta con piacere, ed eziandio con vanità la lunghezza dello sue ugne, ed il color d’inchiostro delle sue mani; dichiara, che sebbene la maggior parte del suo corpo fosse coperta di peli, l’uso del rasoio era limitato al solo suo capo; e vanta con visibile compiacenza l’irsuta, e popolata57 barba, ch’egli ad esem- pio de’ Greci filosofi amava teneramente. Se Giuliano consultato avesse i puri dettami della ragione, il primo Magistrato de’ Romani avrebbe deriso l’affettazione di Diogene egualmente che quella di Dario.
Ma sarebbe restata imperfetta l’opera della pubblica riforma, se Giuliano soltanto avesse corretto gli abusi, senza punire i delitti del regno del suo predecessore. „Noi siamo adesso maravigliosamente liberati„ dic’egli in una lettera famigliare ad uno de’ suoi intimi amici „dalle fauci voraci dell’Idra58. Io non intendo d’applicar quest’epiteto al mio fratello Costanzo. Esso non è più; possa la terra esser leggiera sopra il suo capo! Ma gli artificiosi e crudeli suoi favoriti procuravano d’ingannare e di inasprire un Principe, di cui non può lodarsi la natural dolcezza senza qualche sforzo d’adulazione. Ciò nonostante non è mia intenzione, che anche questi uomini vengan oppressi; sono essi accusati, e goderanno il vantaggio d’un giusto imparziale processo„. Per dirigere quest’esame, Giuliano deputò sei Giudici del più alto grado nello Stato, o nell’esercito; e siccome desiderava d’evitar la taccia di condannare i suoi personali nemici, stabilì a Calcedonia sulla parte Asiatica del Bosforo quel tribunale straordinario; e diede a’ Commissari un assoluto potere di pronunziare, e d’eseguire la lor sentenza definitiva senza dilazione e senz’appello. S’esercitò l’uffizio di presidente dal venerabil Prefetto Orientale, secondo Sallustio59. Le sue virtù gli conciliaron la stima dei Greci sofisti, e de’ Vescovi Cristiani. Fu egli assistito dall’eloquente Mammertino60, uno de’ Consoli eletti, di cui altamente si celebra il merito dalla dubbiosa testimonianza del suo proprio applauso. Ma il sapere civile de’ due Magistrati fu contrabbilanciato dalla feroce violenza de’ quattro Generali Nevitta, Agilone, Giovino ed Arbezione. Quest’ultimo, che il Pubblico avrebbe veduto con minor maraviglia a’ cancelli, che sul tribunale, si supponeva che avesse il segreto della commissione. Circondavano il Tribunale gli armati ed ardenti Capitani delle bande Gioviana, ed Erculea; ed i Giudici eran dominati a vicenda dalle leggi della giustizia, e da’ clamori della fazione61.
Il ciamberlano Eusebio, che aveva per tanto tempo abusato del favor di Costanzo, espiò con una ignominiosa morte l’insolenza, la corruzione, e la crudeltà del servile suo regno. L’esecuzioni di Paolo e d’Apodemio (il primo de’ quali fu bruciato vivo) si riceveron come una non adeguata espiazione dalle vedove e dagli orfani di tante centinaia di Romani, che que’ legali tiranni avevan traditi e posti a morte. Ma la giustizia medesima (se è permesso d’usare la patetica espressione d’Ammiano62), parve che piangesse il fato d’Ursulo, tesorier dell’Impero, ed il suo sangue accusò l’ingratitudine di Giuliano, di cui si eran opportunamente sollevate le strettezze dall’intrepida liberalità di quell’onesto ministro. Il furor dei soldati, che egli aveva irritati con la sua indiscretezza, fu la causa e la scusa della sua morte, e l’Imperatore, profondamente colpito da’ propri rimorsi e da quelli del pubblico, diede qualche conforto alla famiglia d’Ursulo, mediante la restituzione de’ confiscati suoi beni. Avanti la fine dell’anno, in cui vennero decorati delle insegne della Pretura e del Consolato63, Tauro e Florenzio ridotti furono ad implorar la clemenza dell’inesorabil tribunale di Calcedonia. Il primo fu bandito a Vercelli in Italia, e contro il secondo fu pronunziata sentenza di morte. Un Principe saggio avrebbe premiato il delitto di Tauro. Il fedel ministro, quando non fu più capace d’opporsi al progresso d’un ribelle, erasi rifuggito nella Corte del suo benefico e legittimo Principe. Ma la colpa di Florenzio giustificò il rigore de’ giudici; e la sua fuga servì a manifestare la magnanimità di Giuliano, che nobilmente frenò l’interessata diligenza di un delatore, e ricusò di sapere qual luogo celasse il misero fuggitivo dal giusto suo sdegno64. Alcuni mesi dopo che fu disciolto il tribunale di Calcedonia, furono decapitati in Antiochia il Vicario pretorio d’Affrica, il notaro Gaudenzio ed Artemio65 duce d’Egitto. Artemio aveva dominato da corrotto e crudel tiranno sopra una gran provincia; Gaudenzio avea lungamente praticato le arti della calunnia contro gl’innocenti, i virtuosi, ed eziandio contro la persona di Giuliano medesimo. Pure furono così mal maneggiate le circostanze del processo e della condanna loro, che questi malvagi uomini ottennero nella pubblica opinione la gloria di patire per l’ostinata fedeltà, con cui sostenuto avevan la causa di Costanzo. Gli altri suoi servi furon difesi da un atto di generale obblivione; e fu lasciato che impunemente godessero i doni, che aveano accettati o per difender gli oppressi, o per opprimere i nemici. Quest’atto, che secondo i più alti principj di politica può meritar la nostra approvazione fu eseguito in un modo, che parve degradasse la maestà del trono. Giuliano era tormentato dalle importunità d’una moltitudine, in particolare d’Egiziani, che altamente richiedevano i doni, che per imprudenza o illegittimamente avean fatti; egli previde la infinita catena di vessanti liti; e s’obbligò con una promessa, che avrebbe sempre dovuto essere inviolabile, che se fossero essi comparsi a Calcedonia, avrebbe ascoltato in persona, e decise le loro querele. Ma tosto che furono sbarcati, mandò un ordine assoluto che vietava a’ marinari di trasportare a Costantinopoli Egizio veruno; e così ritenne i suoi sconcertati clienti sul lido Asiatico, finchè dopo d’aver esausta tutta la lor pazienza, e il denaro, furon costretti a tornare con isdegnosi lamenti al nativo loro paese66.
Il numeroso esercito di spie, di agenti, e di delatori, ascoltati da Costanzo per assicurare il riposo di un uomo solo, e per turbar quello di milioni d’uomini, fu immediatamente disperso dal generoso di lui successore. Giuliano era lento ne’ sospetti, e mite nelle pene, ed il suo disprezzo de’ tradimenti era un risultato di giudizio, di vanità e di coraggio. Sapendo di avere un preminente merito, egli era persuaso che pochi fra’ suoi sudditi avrebbero ardito d’affrontarlo in campo, d’insidiar la sua vita, o anche di occupare il vacante suo trono. Come filosofo potea scusare le precipitate imprudenze del malcontento; e com’Eroe potea disprezzar gli ambiziosi progetti, che sorpassavano la fortuna o l’abilità di temerari cospiratori. Un cittadino d’Ancira s’era preparato un abito di porpora; e questa imprudente azione, che sotto il regno di Costanzo si sarebbe risguardata come un delitto capitale67, fu riferita a Giuliano dall’officiosa importunità d’un privato nemico. Il Monarca, fatta qualche ricerca intorno al grado ed al carattere del suo rivale, rimandò l’accusatore col presente d’un paio di scarpe di porpora per compir la magnificenza dell’Imperiale sua veste. Si formò una cospirazione più pericolosa da dieci guardie domestiche, le quali avean risoluto di ammazzar Giuliano nel campo degli esercizi vicino ad Antiochia. La loro intemperanza rivelò il delitto; ed essi furon condotti in catene alla presenza dell’ingiuriato loro Sovrano, che dopo una viva rappresentazione della malvagità e follìa di loro intrapresa, invece d’una tormentosa morte ch’essi meritavano ed aspettavano, pronunziò la sentenza d’esilio contro i due rei principali. L’unico fatto in cui parve che Giuliano si scostasse dalla solita sua clemenza, fu la esecuzione d’un temerario giovane, che aspirato aveva con una debole mano a prender le redini dell’Impero. Ma questo giovane era figlio di Marcello, Generale di cavalleria, che nella prima campagna della guerra Gallica avea disertato dalle bandiere di Cesare e della Repubblica. Senz’apparire di secondare il personale suo sdegno, Giuliano potea facilmente confondere il delitto del figlio e del padre; ma fu acquietato dal dolore di Marcello, e la generosità dell’Imperatore procurò di medicar la ferita ch’era stata fatta dalla mano della giustizia68.
Giuliano non era insensibile a’ vantaggi della libertà69. Mercè de suoi studi aveva succhiato lo spirito degli antichi Saggi ed Eroi; la sua vita e fortuna era stata sottoposta al capriccio d’un tiranno; e quando salì sul trono, la sua vanità veniva qualche volta mortificata dalla riflessione che schiavi, i quali non avessero ardito di censurare i suoi difetti, non erano degni d’applaudire alle sue virtù70. Egli sinceramente abborriva il sistema d’oriental dispotismo, che Diocleziano, Costantino, e la paziente abitudine d’ottanta anni avevano stabilito nell’Impero. Un motivo di superstizione lo distornò da eseguire il disegno, che più volte avea meditato, di sgravare il suo capo dal peso d’un grave diadema71: ma ricusò assolutamente il titolo di Dominus o di Signore72, voce, ch’era diventata sì famigliare agli orecchi de’ Romani, che non si ricordavano più della servile ed umiliante sua origine. S’amava l’uffizio o piuttosto il nome di Console da un Principe, che contemplava con rispetto le rovine della Repubblica; e l’istesso contegno, che Augusto aveva tenuto per prudenza, fu da Giuliano adottato per scelta e per inclinazione. Nelle calende di Gennaio, allo spuntar del giorno, i nuovi Consoli, Mammertino e Nevitta, s’affrettarono d’andare al palazzo per salutare l’Imperatore. Tosto che fu informato del loro arrivo, scese dal trono, s’avanzò in fretta ad incontrarli, e costrinse i Magistrati, pieni di rossore, a ricevere le dimostrazioni della sua affettata umiltà. Dal palazzo si portarono al Senato. L’Imperatore andò a piedi avanti alle loro lettighe, e la moltitudine, osservandolo, ammirava l’immagine dei tempi antichi, ovvero segretamente biasimava una condotta che a’ lor occhi avviliva la maestà della porpora73. Ma il contegno di Giuliano fu sostenuto con uniformità. Nel tempo de’ giuochi del Circo egli aveva, o a caso, o premeditatamente, fatta la manumissione d’uno schiavo alla presenza del Console. Ma quando si sovvenne d’aver invasa la giurisdizione di un altro Magistrato, si condannò al pagamento di dieci libbre d’oro; e prese quest’occasione, per dichiarar pubblicamente al Mondo, ch’egli era soggetto come gli altri suoi concittadini, alle leggi74 ed anche alle formalità della Repubblica. Lo spirito della sua amministrazione ed il riguardo ch’ebbe al luogo della sua nascita, mossero Giuliano a conferire al Senato di Costantinopoli gli stessi onori, privilegi, ed autorità, che tuttavia si godevano dal Senato dell’antica Roma75. Fu introdotta, ed appoco appoco stabilita una finzione legale, che la metà del consiglio nazionale fosse passata in Oriente; e i dispotici successori di Giuliano, accettando il titolo di Senatori, si riconoscevano membri d’un rispettabile Corpo, a cui era permesso di rappresentare la maestà del nome Romano. Da Costantinopoli s’estese l’attenzion del Monarca a’ Senati Municipali delle Province. Abolì con più editti le ingiuste e perniciose esenzioni, che avevano tolto tanti oziosi cittadini al servigio della patria; ed imponendo una distribuzione eguale di pubblici tributi, restituì la forza, lo splendore, o secondo la viva espression di Libanio76, l’anima alle spiranti città dell’Impero. La venerabile antichità della Grecia eccitava nell’animo di Giuliano la più tenera compassione; egli si sentiva rapire, quando si rammentava degli Dei, degli Eroi, e degli uomini superiori agli Eroi ed agli Dei, che avevan lasciato all’ultima posterità i monumenti del loro genio, e l’esempio delle loro virtù. Sollevò le angustie, e restituì la bellezza alle città d’Epiro, e del Peloponeso77. Atene lo riconobbe per suo benefattore; Argo per liberatore. L’orgoglio di Corinto, che risorgeva dalle sue rovine con gli onori di colonia Romana, esigeva un tributo dalle vicine Repubbliche per le spese de’ giuochi dell’Istmo, che si celebravano nell’anfiteatro con la caccia di orsi, e pantere. Le città d’Elide, di Delfo, e d’Argo, le quali avevano ereditato da’ remoti loro Maggiori il sacro uffizio di perpetuare i giuochi Olimpici, Pitj, e Nemei, pretendevano una giusta esenzione da questo tributo. I Corintj rispettarono l’immunità d’Elide, e di Delfo; ma la povertà d’Argo tentò l’insolenza della oppressione, e fu imposto silenzio alle deboli querele de’ suoi deputati dal decreto d’un Magistrato provinciale, che pare avesse consultato soltanto l’interesse della capitale in cui risiedeva. Sette anni dopo questa sentenza, Giuliano78 concesse che la causa fosse rivista in un tribunal superiore; e s’interpose la sua eloquenza, molto probabilmente con successo felice, in difesa d’una città ch’era stata la sede reale d’Agamennone79, ed avea dato alla Macedonia una stirpe di conquistatori e di Re80.
La faticosa amministrazione degli affari militari e civili, ch’eran moltiplicati a misura dell’estensione dell’Impero, esercitò l’abilità di Giuliano; ma egli di più frequentemente assumeva i caratteri di Oratore81, e di Giudice82, che son quasi incogniti a’ moderni Sovrani d’Europa. Le arti della persuasione, sì diligentemente coltivate da’ primi Cesari, si trascurarono dalla militar ignoranza e dall’Asiatico orgoglio de’ lor successori; e se condiscendevano ad arringare i soldati, ch’essi temevano, trattavan con tacito orgoglio i Senatori, che disprezzavano. Le assemblee del Senato, che s’erano evitate da Costanzo, si risguardarono da Giuliano come il luogo dove spiegar potesse con la maggior decenza le massime di un repubblicano, ed i talenti di un retore. Alternativamente praticava, come in una scuola di declamazione, le varie maniere di lode, di censura, di esortazione; ed il suo amico Libanio ha osservato, che lo studio d’Omero insegnogli ad imitare il semplice e conciso stile di Menelao, la copia di Nestore, di cui le parole cadevano come fiocchi di neve nell’inverno, o la forte e patetica eloquenza d’Ulisse. Le funzioni di Giudice, che sono alle volte incompatibili con quelle di Principe, s’esercitavano da esso non solo come un dovere, ma eziandio come un divertimento; e sebbene potesse fi- darsi dell’integrità, e del discernimento de’ suoi Prefetti del Pretorio, spesso tuttavia ponevasi loro a lato sul tribunale. L’acuta penetrazione della sua mente piacevolmente s’occupava in discoprire, ed abbattere i cavilli degli Avvocati, che si studiavano di mascherare la verità de’ fatti, e di pervertire il senso delle leggi. Qualche volta per altro dimenticò la gravità del suo posto, fece questioni indiscrete o inopportune, e dimostrò coll’alto suo tuono di voce, e coll’agitazione del corpo l’ardente veemenza con cui sosteneva la sua opinione contro i Giudici, gli Avvocati e i loro clienti. Ma la cognizione che avea del proprio temperamento, fece sì che incoraggiasse, ed anche sollecitasse la riprensione de’ suoi ministri ed amici; ed ogni volta ch’essi osavano d’opporsi all’impeto sregolato di sue passioni, gli spettatori poterono osservare il rossore, ugualmente che la riconoscenza del loro Monarca. I decreti di Giuliano eran quasi sempre appoggiati a’ principi di giustizia; ed egli avea la fermezza di resistere alle più pericolose tentazioni, che assalgono il tribunal d’un Sovrano sotto le speciose apparenze di compassione, e d’equità. Decideva il merito della causa senza pesare le circostanze delle parti; ed il povero, ch’esso desiderava di sollevare, veniva condannato a soddisfar le giuste domande di un nobile e ricco avversario. Distingueva con esattezza il giudice dal legislatore83; e quantunque medi fare una riforma necessaria alla Romana Giurisprudenza, pure pronunziava le sentenze secondo la stretta e letterale interpretazione di quelle leggi, che i magistrati obbligati erano ad eseguire, ed i sudditi ad osservare.
In generale, se i Principi, spogliati della porpora, fosser gettati nudi nel Mondo, essi cadrebbero immediatamente nella classe più bassa della società, senza speranza d’uscire dall’oscurità loro. Ma il merito personale di Giuliano era in qualche modo indipendente dalla sua fortuna. Qualunque genere di vita avesse egli scelto, per la forza dell’intrepido suo coraggio, dello spirito vivace, e dell’intensa applicazione, avrebbe ottenuto, o almeno meritato i più alti onori della professione, che avesse abbracciato. Giuliano avrebbe potuto per se stesso innalzarsi al grado di Ministro o di Generale in quello Stato, in cui fosse nato privato cittadino. Se il geloso capriccio del potere avesse deluso le sue speranze; o s’egli avesse prudentemente deviato dal sentiero della grandezza, l’uso degli stessi talenti in una studiosa solitudine avrebbe posto la sua felicità presente e la sua fama immortale al di sopra della giurisdizione dei Re. Quando noi guardiamo con minuta, o forse malevola attenzione il ritratto di Giuliano, sembra che manchi qualche cosa alla grazia, e perfezione dell’intiera figura. Il suo genio era meno potente e sublime di quello di Cesare, nè possedeva la consumata prudenza d’Augusto; le virtù di Traiano appariscono più stabili e naturali, e la filosofia di Marco è più semplice e soda. Nondimeno Giuliano sostenne l’avversità con fermezza, e la prosperità con moderazione. Dopo lo spazio di centoventi anni dalla morte d’Alessandro Severo, i Romani videro un Imperatore, che non distingueva i propri doveri da’ suoi piaceri; che procurava di sollevare le angustie, e di far risorgere lo spirito de’ suoi sudditi; e che cercava sempre d’unire l’autorità con il merito e la felicità con la virtù. Anche la fazione, e la fazion religiosa fu costretta a riconoscere la superiorità del suo genio in pace ed in guerra, ed a confessare sospirando, che l’apostata Giuliano fu amante della sua patria, e meritò l’Impero del Mondo84.
Note
- ↑ Omnes qui plus poterant in palatio, adulandi professores jam docti, recte consulta prospereque completa {{pt|tebant|vertebant|}} in deridiculum, talia sine modo strepentes insulse; in odium venit cum victoriis suis; capella, non homo; ut hirsutum Julianum carpentes, appellantesque loquacem talpam, et purpuratam simiam, et litterionem Graecum: et his congruentia plurima atque vernacula Principi resonantes, audire haec taliaque gestienti, virtutes ejus obruere verbis impudentibus conabantur, et segnem incessentes, et timidum et umbratilem, gestaque secus verbis comptioribus exornantem. Ammian. XVIII. 11.
- ↑ Ammiano XVI. 12. L’oratore Temistio (IV. p. 56, 57) credè tutto ciò che si conteneva nelle lettere Imperiali, spedite al Senato di Costantinopoli. Aurelio Vittore, che pubblicò il suo compendio nell’ultimo anno di Costanzo, attribuisce le vittorie Germaniche alla saviezza dell’Imperatore ed alla fortuna di Cesare. Pure l’Istorico poco dopo fu debitore al favore o alla stima di Giuliano dell’onore di una statua di rame, e degl’importanti uffizj di Consolare della seconda Pannonia e di Prefetto di Roma. Ammiano XXI. 10.
- ↑ Callido nocendi artificio accusatoriam diritatem laudum titulis peragebant... Hae voces fuerunt ad inflammanda odia probris omnibus potentiores. Vedi Mammertino in act. Gratiar. in Vet. Paneg. XI. 5. 6.
- ↑ Il piccolo intervallo, che passa fra l’hyeme adulta, ed il primo vere d’Ammiano (XX. I. 4) invece di dare un sufficiente spazio per una marcia di tremila miglia renderebbe gli ordini di Costanzo altrettanto stravaganti, quanto erano ingiusti. Le truppe della Gallia non potevan giungere in Siria che al fine dell’autunno. Bisogna che le memorie d’Ammiano fossero inesatte, o le sue espressioni scorrette.
- ↑ Ammiano XXI. Si riconosce il valore, e la militar perizia di Lupicino dall’Istorico, il quale nell’affettato sua stile accusa il Generale d’innalzar le corna del suo orgoglio, ruggendo con tragico tuono, e facendo dubitar s’egli fosse più crudele o più avaro. Il pericolo eccitato dagli Scoti, e da’ Pitti era tanto serio, che Giuliano medesimo ebbe qualche idea di passare in persona nell’Isola.
- ↑ Ei loro permise il cursus clavularis, o clabularis. Di questi carri di posta si fa spesso menzione nel Codice, e si suppone, che portassero mille cinquecento libbre di peso. Vedi Vales. ad Ammian. XX. 4.
- ↑ Ch’era molto probabilmente il palazzo de’ bagni (Thermarum) di cui sussiste ancora una solida ed alta stanza nella via De la Harpe. Quelle fabbriche cuoprivano un considerabile spazio del moderno quartiere dell’Università; ed i giardini sotto i Re Merovingi comunicavano coll’abbazia di S. Germano des Prez. Dalle ingiurie del tempo, e de’ Normanni quest’antico palazzo fu ridotto nel duodecimo secolo ad un mucchio di rovine, gli oscuri nascondigli del quale servivan di scena a’ licenziosi amori.
Explicat aula sinus, montemque amplectitur alis;
Multiplici latebra scelerum tersura ruborem.
. . . . pereuntis saepe pudoris.
Celatura nefas, Venerisque accommoda furtis.Questi versi son presi dall’Architrenius lib. IV. c. 8. opera poetica di Giovanni di Hauteville, o Hauville Monaco di S. Albano verso l’anno 1190. Vedi Warton Istor. della Poes. Ingl. Vol. 1 dissert. 2). Tali furti però erano forse meno perniciosi per il genere umano delle Teologiche dispute della Sorbona, che di poi si sono agitate sul medesimo terreno. Bonamy Mem. de l’Acad. Tom. XX. p. 678-682.
- ↑ Anche in quel tumultuoso momento Giuliano badò alla formalità della superstiziosa cerimonia; ed ostinatamente ricusò l’infausto uso d’una collana femminile, o d’un collare da cavalli, che gl’impazienti soldati volevano adoperare in luogo di diadema.
- ↑ Cioè un’ugual porzione d’oro e d’argento, cinque monete di quello, ed una libbra di questo, che in tutto ascendeva a circa cinque lire Sterline, e dieci Scellini.
- ↑ Per l’intera narrativa di questa ribellione possiamo rimetterci a materiali originali ed autentici, quali sono Giuliano medesimo (ad S. P. Q. Athen. pag. 282, 283, 284). Libanio (Orat. Parent. c. 44-48. in Fabric. Bibliot. Graec. Tom. VII. p. 269-273) Ammiano (XX. 4) e Zosimo (l. III. p. 151, 152, 153) che nel regno di Giuliano par che seguiti l’autorità più rispettabile d’Eunapio. Con tali guide potremmo fare di meno degli abbreviatori e degl’Istorici Ecclesiastici.
- ↑ Eutropio ch’è un rispettabile testimone, usa la dubbiosa espressione consensu militum (X. 15). Gregorio Nazianzeno di cui l’ignoranza potrebbe scusare il fanatismo, direttamente accusa l’apostata di presunzione, d’empietà e d’empia ribellione. αυθαδεια, απονοια, ασεβεια Orat. III. p. 67.
- ↑ Juliano ad S. P. Q. Athen. p. 284. Il divoto Abbate de la Bleterie (Vit. di Giuliano p. 159) è quasi disposto a rispettare le divote proteste d’un Pagano.
- ↑ Ammiano XX. 5 con l’annotazione di Lindenbrogio sul Genio dell’Impero. Giuliano medesimo in una lettera confidenziale ad Oribasio, amico e medico suo, (Epist. XVII. p. 384) fa menzione d’un altro sogno a cui prima dell’avvenimento ei prestò fede, cioè d’un grosso albero gettato a terra, e di una piccola pianta che gettava in terra profonde radici. Anche nel sonno la mente di Cesare doveva essere agitata dalle speranze e da’ timori di sua fortuna. Zosimo (l. III. p. 155) riporta un sogno fatto dopo.
- ↑ A questa lettera ostensibile dice Ammiano, che ne aggiunse delle private objurgatorias et mordaces, che l’Istorico non aveva vedute, e non avrebbe neppur pubblicate. Forse non sussisterono giammai.
- ↑ Vedi le prime azioni del suo Regno appresso Giuliano medesimo ad S. P. Q. Athen. pag. 285, 286. Ammiano XX. 5, 8. Liban. Orat. parent. c. 49, 50. pag. 273-275.
- ↑ Liban. Orat. parent. c. 50. p. 275, 276. Fu questo uno strano disordine, poichè continuò più di sette anni. Nelle fazioni delle Repubbliche Greche gli esiliati ascendevano a 20,000 persone; ed Isocrate assicura Filippo, che sarebbe stato più facile di levar un’armata fra vagabondi, che dalle città. Vedi Hume. Saggi Tom. I. p. 426-427.
- ↑ Giuliano (Epist. 38. p. 44) fa una breve descrizione di Vesonzio, o Besanzone come di una sassosa penisola quasi circondata dal fiume Doubs, una volta magnifica Città piena di tempj ec., e poi ridotta ad una piccola terra, che risorgeva però dalle sue rovine.
- ↑ Vadomair entrò nella milizia Romana, e dal grado di Re barbaro fu promosso a quello di Duce di Fenicia. Egli mantenne sempre il medesimo artificioso carattere (Ammiano XXI. 4). Ma sotto il Regno di Valente segnalò il suo’valore nella guerra d’Armenia (XXIX. 1).
- ↑ Ammiano XX. 10. XXI. 3. 4. Zosimo lib. III. p. 155.
- ↑ Il suo corpo fu mandato a Roma, e sotterrato vicino a quello di Costantina sua sorella nel sobborgo della via Nomentana. Ammiano XX. l. Libanio ha composto una ben debole apologia per giustificare il suo Eroe da un’accusa molto assurda, vale a dire d’avere avvelenato la propria moglie, e premiato il medico di essa con le gioie di sua madre (Vedi la settima delle diciassette nuove Orazioni pubblicate a Venezia nel 1754 da un MS. della libreria di S. Marco p. 117-127). Elpidio, Prefetto del Pretorio d’Oriente, alla testimonianza del quale s’appella l’accusator di Giuliano, si caratterizza da Libanio per un effeminato ed ingrato; si loda però la religione d’Elpidio da Girolamo (Tom. I. p. 243) e la sua umanità da Ammiano (XXI. 6).
- ↑ „Feriarum die, quem celebrantes mense Januario Christiani Epiphania dictitant, progressus in eorum Ecclesiam, solemniter numine orato discessit„ Ammiano XXI. 2. Zonara osserva, che ciò seguì nel giorno di Natale; e può la sua asserzione esser vera; mentre le Chiese d’Egitto, d’Asia, e forse di Gallia celebravano il medesimo giorno (sei di Gennaro) la natività ed il Battesimo del Salvatore. I Romani, ugualmente ignoranti che i lor confratelli della vera data della sua nascita ne fissarono la solenne festa a’ 25 di Decembre Brumalia, o solstizio d’inverno, quando i Pagani annualmente celebravan la nascita del sole. Vedi Bingam. Antich. della Chies. Cristian lib. XX. c. 4. e Beausobre Hist. Critic. du Manic. T. II. p. 690-700.
- ↑ Le pubbliche e segrete negoziazioni fra Costanzo e Giuliano debbono trarsi con qualche cautela da Giuliano medesimo (Orat. ad S. P. Q. Athen. pag. 286), da Libanio (Orat. parent. cap. 61. pag. 276), da Ammiano (XX. 9.), da Zosimo (lib. III p. 154), ed anche da Zonara (T. II lib. XIII. p. 20 ec.), che in questo proposito pare, che avesse ed usasse dei valutabili materiali.
- ↑ Trecento miriadi, ovvero tre milioni di medimni, misura comune appresso gli Ateniesi, che conteneva sei modj Romani. Giuliano dimostra da Soldato e da Politico il rischio della sua situazione e la necessità ed i vantaggi di una guerra offensiva (ad S. P. Q. Athen. pag. 286. 287).
- ↑ Vedi la sua orazione ed il contegno delle truppe appresso Ammiano XXI. 5.
- ↑ Egli aspramente ricusò la sua mano al supplichevole Prefetto, che fu mandato in Toscana (Ammiano XXI. 5). Libanio con barbaro furore insulta Nebridio, applaude ai soldati, e quasi censura l’umanità di Giuliano (Orat. Parent. c. 53. p. 278).
- ↑ Ammiano XXI. 8. In tal promozione osservò Giuliano la legge che aveva pubblicamente imposto a se stesso: Neque civilis quisdam Judex, nec militaris rector, alio quodam praeter merita suffragante, ad potiorem veniat gradum (Ammiano XX. 5). L’assenza non indebolì il suo riguardo per Sallustio, col nome del quale onorò il Consolato dell’anno 363.
- ↑ Ammiano (XXI. 8) attribuisce ad Alessandro Magno, e ad altri abili Generali la stessa pratica e l’istesso motivo.
- ↑ Questo bosco era una parte della gran foresta Ercinia, che al tempo di Cesare s’estendeva dal paese de’ Rauraci, Basilea, sino alle indefinite regioni del Nort. Vedi Cluver. German. antiq. l. III. c. 47.
- ↑ Si paragoni Libanio Orat. Parent. c. 53. p. 278-279, con Gregorio Nazianzeno Orat. III. p.68. . . Anche il Santo ammira la celerità e la segretezza della sua marcia. Un moderno Teologo forse applicherebbe al progresso di Giuliano que’ versi, che originalmente appartengono ad un altro apostata (Milton).
. . . . . . . In questa guisa il truce
Viandante infernal per l’aspro e ’l piano,
Il denso, il raro, i ripidi, i burroni
Capo e mani, ali e piedi oprando a gara,
Il suo cammin sospinge, ed or s’attuffa,
Ora nuota, ora striscia, or guazza, or vola. - ↑ In quello spazio la Notizia colloca due o tre flotte, la Lauriacense (a Lauriacum o Lorch) l’Arlapense, la Maginense; e fa menzione di cinque legioni o coorti di Liburnarj, che dovevano essere una specie di soldati di marina. Sect. 58. Edit. Labb.
- ↑ Il solo Zosimo (l. III. p. 156) ha specificato quest’ interessante circostanza. Mammertino (in Paneg. vet. XI. 6, 7, 8) che accompagnava Giuliano come Conte delle sacre largizioni, descrive questo viaggio in una florida e pittoresca maniera, sfida Trittolemo e gli argonauti di Grecia ec.
- ↑ La descrizione d’Ammiano, che può esser fiancheggiata da altre prove, assicura la situazione precisa delle Angustiae Succorum, o passo di Succi. Danville per una debole somiglianza di nomi l’ha posto fra Sardica e Naisso. Io son costretto per giustificarmi a far menzione dell’unico errore, che ho scoperto nelle carte o negli scritti di quell’ammirabil Geografo.
- ↑ Per quante circostanze possiamo prendere altrove, Ammiano (XXI. 8, 9, 10) somministra sempre la sostanza della narrazione.
- ↑ Ammiano XXI. 9, 10. Liban. Orat. Parent. c. 54. p. 279. 280. Zosimo lib. III p. 157.
- ↑ Giuliano (ad S. P. Q. Athen. p. 286) positivamente asserisce, che aveva intercettate le lettere di Costanzo a’ Barbari; e Libanio afferma con ugual sicurezza che nella sua marcia le lesse alle truppe ed alle città. Contuttocciò Ammiano XXI. 4 s’esprime con una fredda ed ingenua dubbiezza: Si famae solius admittenda est fides. Specifica però una lettera intercetta e scritta da Vadomair a Costanzo, che suppone un’intima corrispondenza fra loro; Caesar tuus disciplinam non habet.
- ↑ Zosimo rammenta le lettere di Giuliano agli Ateniesi, a’ Corintj, ed a’ Lacedemoni. La sostanza era probabilmente l’istessa, quantunque ne fosse variata la direzione. L’epistola agli Ateniesi tuttavia sussiste p. 268-287, ed ha somministrato notizie assai valutabili. Essa merita le lodi dell’Abbate della Bleterie (Pref. a l’Hist. de Jovien. p. 24, 25) ed è uno de’ migliori manifesti, che si possano trovare in qualsivoglia linguaggio.
- ↑ Auctori tuo reverentiam rogamus. Ammiano XXI 10. È molto piacevole l’osservare i segreti contrasti del Senato fra l’adulazione ed il timore. Vedi Tacito Hist. I. 85.
- ↑ Tamquam venaticam praedam caperet; hoc enim ad leniendum suorum metum subinde praedicabat. Ammiano XXI. 7.
- ↑ Vedi il discorso ed i preparativi in Ammiano XXI 13. Il vil Teodoto implorò in seguito ed ottenne il perdono dal pietoso conquistatore, che indicò il desiderio che aveva di scemare il numero de’ nemici e di accrescere quello degli amici (XXII 14).
- ↑ Ammiano XXI. 7. 11. 12. Par ch’ei descriva con fatica superflua le operazioni dell’assedio d’Aquileia, che in quest’occasione mantenne la sua fama d’insuperabile. Gregorio Nazianzeno (Orat. III. p.68.) attribuisce quest’accidentale rivolta all’abilità di Costanzo, di cui annunzia la sicura vittoria con qualche apparenza di verità. Constantio quem. credebat procul dubio fore victorem: nemo enim omnium tunc ab hac constanti sententia discrepebat. Ammiano XXI. 7.
- ↑ Ammiano rappresenta fedelmente la morte ed il carattere d’esso (XXI. 14. 156.) ed abbiam motivo di non ammettere, e di detestar la stolta calunnia di Gregorio (Orat. III. p. 68.) che accusa Giuliano d’aver macchinata la morte del suo benefattore. Il privato pentimento dell’Imperatore d’aver risparmiato, e promosso Giuliano (p. 69. ed Orat. XXI. p. 389.) in se stesso non è improbabile, nè incompatibile col pubblico suo verbal Testamento, che potè negli ultimi momenti della sua vita esser dettato da considerazioni prudenziali.
- ↑ Nel descrivere il trionfo di Giuliano, Ammiano (XXI, 1, 2.) assume il sublime accento di oratore, o di poeta;
- ↑ I funerali di Costanzo vengon descritti da Ammiano (XXI 16), da Gregorio Nazianzeno (Or. VI. p. 119), da Mammertino (in Paneg. vet. XI. 27), da Libanio (Orat. parent. c. 56. p. 283), ed a Filostorgio (l. VI. c. 6. con le dissertaz. del Gottofredo p. 265). Questi Scrittori, e quelli, che gli han seguitati, secondo la propria professione di Pagani, di Cattolici, e di Arriani, osservano l’Imperatore sì vivo che morto con occhi assai differenti.
- ↑ Non sono ben determinati l’anno ed il giorno della nascita di Giuliano. Il giorno è probabilmente il sei di Novembre, e l’anno dev’essere il 331, o il 332. Tillemont. Hist. des Emper. T. IV. p. 693. Ducange Fam. Byzant. p. 50. Io ho preferito la data più antica.
- ↑ Giuliano medesimo p. 253-259. ha espresso queste idee filosofiche con molta eloquenza, e con qualche affettazione in una lettera molto elaborata a Temistio. L’Ab. della Bleterie (Tom. II. p. 146-183.) che ne ha fatta un’eloquente traduzione, è inclinato a credere, che questi fosse il celebre Temistio, di cui tuttavia sussistono le orazioni.
- ↑ Julian. ad Temist. p. 258. Il Petavio not. p. 95. osserva, che questo passo è preso dal libro quarto De Legibus; ma o Giuliano citava a mente, o i suoi manoscritti eran diversi da’ nostri. Senofonte incomincia la Ciropedia con una riflessione simile.
- ↑ Ο ὸε αγθρωπον κελἐυων αρχειν προςιθησι. καί θηριοι (chi esorta l’uomo a comandare l’insuperbisce, e lo muta in fiera.) Arist. ap. Julian. p. 26l. Il MS. di Vossio, non contento d’una sola bestia, somministra la più forte lezione di θηπια fiere, che può garantirsi dall’esperienza del dispotismo.
- ↑ Libanio Orat. parent. c. 84, 85. p. 310, 311-312 ci ha dato quest’interessante ragguaglio della vita privata di Giuliano, Egli stesso in Misopogon p. 350. fa menzione del suo cibo vegetabile, e biasima il grossolano e sensuale appetito del popolo d’Antiochia.
- ↑ Lectulus... Vestalium toris purior. È la lode, che Mammertino (Paneg. vet. XI. 13.) indirizza a Giuliano medesimo. Libanio afferma in un semplice e perentorio linguaggio che Giuliano non ebbe mai commercio con donne, prima del suo matrimonio, o dopo la morte della sua moglie (Orat. parent. c. 88. p. 323). La castità di Giuliano vien confermata dall’imparzial testimonianza d’Ammiano (XXV. 4.) e dal parzial silenzio de’ Cristiani. Pure Giuliano ironicamente insiste sul rimprovero del Popolo d’Antiochia, che esso quasi sempre ως επιπαν (in Misopogon p. 345) stava solo. L’Ab. della Bleterie spiega questa sospettosa espressione (Hist. de Jovien. Tom. II. p. 103-109.) con candore ed ingenuità.
- ↑ Vedi Salmas. ad Sueton. in Claud. 2l. 1i fu aggiunta una ventesima quinta corsa, o missus, per compire il numero di cento cocchi, quattro de’ quali, distinti da quattro colori, correvano ad ogni corsa.
Centum quadrijugos agitabo ad flumina cursus.
Sembra che corressero cinque o sette volte intorno alla meta. Svet. in Domit. c. 4. E secondo la misura del Circo Massimo a Roma, dell’Ippodromo a Costantinopoli ec. poteva essere un corso di circa quattro miglia.
- ↑ Juliano in Misopogon p. 340. Giulio Cesare aveva offeso il Popolo Romano leggendo le lettere nel tempo della corsa. Augusto secondò il genio di esso ed il proprio con una costante attenzione all’importante affare del Circo, per cui dichiarava d’avere la più forte inclinazione; vet. in August. c. 45.
- ↑ La riforma del Palazzo è descritta da Ammiano (XXII. 4), da Libanio (Orat. parent. c. 62. p. 288), da Mammertino (in paneg. Vet. 11.), da Socrate (l. III. c. 1), e da Zonara (Tom. II. l. 13, p. 24).
- ↑ Ego non Rationalem jussi, sed tonsorem accivi. Zonara usa l’immagine meno naturale d’un senatore. Pure un uffizial di finanze, saziato dalle ricchezze, desiderar poteva ed ottener gli onori del Senato.
- ↑ Μαγειρους μεν χιλιους, καρεας δε ουκ ελαττους, οινοχους δε πλειους, σμηνη τραπεήοποιων, ευνουχους υπου, τας παρα τοις ποιμεοι εν ηρι Mille cuochi, non minor numero di tonsori, maggiore di coppieri, sciami di serventi alle tavole, eunuchi più delle mosche intorno a’ greggi nell’estate. Queste son le parole originali di Libanio, che ho fedelmente citate affinchè non si sospettasse, che io avessi amplificato gli abusi della casa Reale.
- ↑ L’espressioni di Mammertino son forti e vivaci. Quin etiam prandiorum et coenarum laboratas magnitudines Romanus Populus sensit; cum quaesitissimae dapes non gustui sed difficultatibus aestimarentur; miracula avium, longinquae maris pisces; alieni temporis poma, aestive nives, hybernae rosae.
- ↑ Nondimeno Giuliano medesimo fu accusato di aver concesso delle intiere città agli Eunuchi (Orat. VII. contr. Policlet. pag. 117-127). Libanio si contenta d’una fredda ma positiva negazione del fatto, che realmente sembra piuttosto appartenere a Costanzo. Tale accusa però si può riferire a qualche incognita circostanza.
- ↑ Nel Misopogon (p. 338, 339) fa una pittura molto singolare di se stesso, e le seguenti parole sono caratteristiche al sommo αὐτὸς προστέθεικα τὸν βαθὺν τουτονὶ πώγωνα,... ταῦτά τι διαθεόντων ἀνέχομαι τῶν φθειρῶν ὥσπερ ἐν λόχμῃ τῶν θηρίων. . Ho fatto crescere questa profonda barba.... così difendo gl’insetti, che trattan fra loro, come in un recinto di fiere. Gli amici dell’Ab. della Bleterie lo scongiurarono, in nome della nazione Francese, a non tradur questo passo che così offendeva la loro delicatezza. Hist. de Jovien. T. II. p. 94. Io mi son contentato, come egli fa, d’una passeggiera allusione; ma il piccolo animale, che Giuliano nomina, è il più famigliare all’uomo, e significa amore.
- ↑ Julian Epist. XXIII. p. 389. Egli adopera le parole πολοκε φαλον υδραν scrivendo al suo amico Ermogene, che conversava com’esso co’ Poeti Greci.
- ↑ Si debbon diligentemente distinguere i due Sallustj, il Prefetto di Gallia e quello d’Oriente (Hist. des Emper. Tom. IV. p. 696). Ho usato il soprannome di secondo come conveniente epiteto. Il secondo Sallustio godè la stima dei Cristiani medesimi: e Gregorio Nazianzeno, che condannava la sua religione, ha celebrato le sue virtù Orat. III. p. 90. Vedi una curiosa nota dell’Ab. della Bleterie Vie de Julien. p. 463.
- ↑ Mammertino loda l’Imperatore (XI. 1.) per aver dati gli uffizi di Tesoriere e di Prefetto ad un uomo d’abilità, di fermezza, d’integrità come egli stesso. Pure anche Ammiano lo pone (XX. 1) fra’ ministri di Giuliano quorum merita, norat et fidem.
- ↑ Le processure di questo Tribunal di giustizia son riferite da Ammiano (XXII. 3.) e lodate da Libanio (Orat. parent. c. 74. p. 299. 300).
- ↑ Ursuli vero necem ipsa mihi videtur flesse justitia. Libanio, che attribuisce tal morte a’ soldati, tenta di accusare anche il Conte delle largizioni.
- ↑ Si conservava sempre tal venerazione per li rispettabili nomi della repubblica, che il Pubblico fu sorpreso, e scandalizzato nell’udir Tauro, citato come reo, sotto il consolato di Tauro. La citazione del collega Florenzio probabilmente fu differita fino al principio dell’anno seguente.
- ↑ Ammiano XX. 7.
- ↑ Intorno ai delitti ed alla punizione di Artemio, vedi Giuliano (Epist. X p. 379) ed Ammiano (XXII. 6 e Vales. ivi). Il merito di Artemio, che consiste nell’aver demolito templi, ed essere stato posto a morte da un apostata, ha tentato le Chiese Greca e Latina ad onorarlo come un martire. Ma l’istoria ecclesiastica afferma ch’egli non solo fu un tiranno, ma anche un Arriano, onde non è troppo agevole il giustificare questa promozione indiscreta. Tillemont, Mem. Eccl. T. VII. p. 1319.
- ↑ Vedi Ammiano XXII. 6. Valesio Iv. il Cod. Teodosiano lib. II. Tit. XXXIX. leg. 1 e Gottofredo Comment. Iv. Tom. 1. v. 218.
- ↑ Il presidente di Montesquieu (Consider. sur la Grand. des Rom. c. 14. nelle sue opere Tom. III. p. 448. 449) scusa tal minuta, ed assurda tirannia col supporre, che azioni le più indifferenti a’ nostri occhi dovevano eccitare in una mente Romana l’idea di delitto e di pericolo. Questa strana apologia vien sostenuta da una strana mal’interpretazione delle leggi Inglesi: Chez une nation.... où il est défendu de boire à la santé d’une certaine personne.
- ↑ La clemenza di Giuliano, e la cospirazione, che si formò contro di lui ad Antiochia, si descrivono da Ammiano (XXII 9, 10 c. Vales. Iv.) e da Libanio (Orat. parent. c. 99. p. 323).
- ↑ Secondo alcuni, dice Aristotile (come vien citato da Giuliano ad Themist. pag. 261), la forma d’un assoluto Governo, la παμβασιλεια è contraria alla natura. Sì il Principe, che il Filosofo però vogliono avvolger questa verità eterna in un’artificiosa elaborata oscurità.
- ↑ Tal sentimento è espresso quasi nei termini di Giuliano medesimo. Ammiano XXII. 10.
- ↑ Libanio (Orat. Parent. c. 95, p. 320) che fa menzione del desiderio, e del disegno di Giuliano indica in un misterioso linguaggio θεων, ουτω γνοντων... αλλ‘ ην αμεινον ό κωλυων Così disponendo gli Dei.... Ma era miglior consiglio quello d’impedirlo che l’Imperatore fu ritenuto da qualche speciale rivelazione.
- ↑ Juliano in Misopogon p. 343. Siccome non abolì mai con alcuna pubblica legge i superbi nomi di despota, o dominus, questi tuttavia sussistono nelle sue medaglie (Du Cange Fam. p. 38, 39); ed il privato dispiacere, che affettava d’esprimere, non fece che dare uno stile diverso alla servil maniera della Corte. L’Ab. della Bleterie (Hist. de Jovien. Tom. II p. 99-102) ha curiosamente investigato l’origine, ed il progresso della parola dominus sotto il governo Imperiale.
- ↑ Ammiano XXII. 7. Il Console Mammertino (in Paneg. vet. XI 28, 29, 30) celebra quel fausto giorno, come un eloquente schiavo, attonito ed inebbriato per la condiscendenza del suo signore.
- ↑ La satira personale si condannava dalle leggi delle dodici tavole: si mala condiderit in quem quis carmina, jus est, judiciumque. Giuliano (in Misopogon p. 337) si confessa sottoposto alla legge; e l’Ab. della Bleterie (Hist. de Jov. Tom. II. p. 92.) ha prontamente abbracciato una dichiarazione sì favorevole al suo sistema, ed al vero spirito dell’Imperiale costituzione.
- ↑ Zosimo l. III. p. 158.
- ↑ ή της βουλης ισχυς ψυχη πολεως εςιν La forza del Senato è l’anima della città. Vedi Libanio (Orat. parent. c. 71. p. 296). Ammiano (XXII. 9.) ed il Codice Teodosiano (lib. XII. Tit. I. leg. 50-55. col Coment. del Gottofredo Tom. IV. p. 390-402). Pure tutto il soggetto delle Curie, non ostanti gli ampi materiali che vi sono, rimane sempre il più oscuro nell’Istoria legale dell’Impero.
- ↑ Quae paulo ante arida, et sibi anhelantia visebantur, ea nunc perlui, mundari, madere; fora, deambulacra, gymnasia laetis et gaudentibus Populis frequentari; dies festos et celebrari veteres et novos in honorem Principis consecrari (Mammertino XI. 9). Esso particolarmente restaurò la città di Nicopoli, ed i giuochi Aziaci instituiti da Augusto.
- ↑ Juliano Ep. XXXV. p. 407-411. Questa lettera, che illustra la decadente età della Grecia, è omessa dall’Ab. della Bleterie, e stranamente sfigurata dal traduttore latino, che indicando ατελεια immunità per tributo e ιδιωται privati per populus, direttamente contraddice al senso dell’Originale.
- ↑ Esso regnò in Micene alla distanza di cinquanta stadi, o di sei miglia da Argo, ma queste Città che florirono al- ternativamente, son confuse fra loro da’ Poeti Greci. Strab. l. VIII. p. 879. edit. Amstel. 1707.
- ↑ Marsham. Can. Chron. p. 420. Questa provenienza da Temeno ed Ercole può esser sospetta; pure fu accordata dopo un rigoroso esame da’ giudici de’ giuochi Olimpici (Erodoto l. V. c. 22.) in un tempo nel quale i Re di Macedonia eran oscuri, e non popolari nella Grecia. Quando la lega Achea si dichiarò contro Filippo, fu creduto conveniente, che i deputati d’Argo si ritirassero. T. Liv. XXXII.
- ↑ È celebrata la sua eloquenza da Libanio (Orat. parent. c. 75. 76. p. 300. 301.) che fa menzione distintamente degli Oratori d’Omero. Socrate (l. III c. 1.) ha imprudentemente affermato, che Giuliano fu il solo Principe dopo Giulio Cesare, che arringò nel Senato. Tutti i predecessori di Nerone, (Tacit. Annal. XIII. 3) e molti de’ suoi successori possederono la facoltà di parlare in pubblico; e si potrebbe provare con varj esempj, ch’essi l’esercitarono frequentemente in Senato.
- ↑ Ammiano (XXII. 10.) ha imparzialmente narrati i meriti, ed i difetti delle sue processure giudiciali. Libanio (Orat. parent. c. 90. 91. p. 315.) ha veduto solo il lato buono, e la sua pittura, se adula la persona, esprime almeno i doveri del giudice. Gregorio Nazianzeno (Orat. IV. p. 120.) che sopprime le virtù, ed esagera eziandio i più piccoli difetti dell’apostata, trionfalmente domanda, se un tal giudice fosse atto a sedere fra Minosse e Radamanto ne’ campi elisi.
- ↑ Delle leggi, che Giuliano fece in un regno di sedici mesi, cinquantaquattro sono state ammesse ne’ codici di Teodosio, e di Giustiniano (Gothofr. Chron. Leg. p. 64-67.) L’Ab. della Bleterie (T. II. p. 329-336.) ha scelto una di queste leggi per dare un’idea dello stile latino di Giuliano, ch’è forte ed elaborato, ma men puro del suo stile Greco.
- ↑
. . . . . Ductor fortissimus armis;
Conditor et legum celeberrimus; ore manuque
Consultor patriae; sed non consultor habendae
Religionis; amans tercentum milia divum.
Perfidus ille Deo, sed non et perfidus orbi.Prudent. Apotheos. 450. Sembra che la coscienza d’un sentimento generoso abbia innalzato il Poeta Cristiano sopra la solita sua mediocrità,