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sti giorni di vaste e mortali battaglie, in cui tutti i posti di medicazione, i piccoli e i grandi ospedali sono gremiti, è stato destinato come infermiere, presso quella tenda-ospedale, dopo la prima linea di azione. Santillo, il robusto e gaio calabrese, dal viso forte ma fresco di gioventù, dalle membra grosse ma agili, fa l’infermiere rassegnatamente.

— Anche se non mi vada, questa giubba... Anche frusta, ma non mi lasciare con questo sangue sul petto! È sangue umano, lo sai?

— Ma come ti sei conciato così, preticchio mio?

— Ero presso il letto del capitano Mario Falcone, gli parlavo, curvato verso lui... — narra, con una espressione di tristezza e di noia, don Giulio Lanfranchi. — Ha voluto esser sollevato sull’origliere, Santillo: e, a un tratto, mi è caduto addosso, con uno sbocco di sangue... Ah Santillo, è troppo, è troppo! — e palpita nelle ultime parole, la sua esasperazione.

— Il povero Falcone se ne va, ci lascia, sai: forse domattina, forse stanotte... Che bel soldato, amico mio: due medaglie: trentanni e via... — conclude, sospirando, crollando il capo, il buon Santillo. — Io non ho giubbe, da farti cambiare la tua. Che ti fa, tenertela addosso, con le macchie di sangue? Guarda il mio camice: non sembro un macellaio?

— Schifo, schifo mi fa, il sangue umano, sul mio petto, hai capito? — prorompe Lanfranchi.— E non ne posso più, non ne posso più!

— Tutti non ne possiamo più, preticchio! — borbotta Santillo. — Ma non vedi quanti feriti, quanti morti, che fuoco, dappertutto? Siamo alla fine...

— Non ci credo, Santillo! E perchè mi chiami preticchio? — domanda, irritato, nervoso, don Giulio Lanfranchi.

— Ti offendi, eh? Perchè ti voglio bene, ti chiamo preticchio. È un vezzeggiativo calabrese... Non sei, forse, prete e soldato? E io che sono io? Un miserabile infermiere.