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assopiti e trascorra rapidamente, quasi anelante di fuggire, fuori, all’aria, si accorgono di lui e chiamano, piano:
— Lanfranchi....
— Don Giulio....
— Don Lanfranchi....
Ecco, don Giulio deve fermarsi, curvarsi verso un origliere ove è profondata una testa tutta bendata e solo si scorge metà di quel viso, con un naso affilato, una bocca che si contrae: deve raccogliere un lagno, rispondere amorosamente, toccare una fronte che brucia, toccare una mano che si stira, passare avanti, a un’altro ferito, udire, acconsentire, con un cenno, con un motto, con un breve gesto di affetto, e andare più oltre, ancora, e, di nuovo, soccorrere come sa, come può, qualcuno di questi miserelli, martoriati nel loro corpo, sperduti nella loro coscienza: e, ogni volta don Giulio Lanfranchi si rialza, con un movimento di disperata stanchezza, e ogni volta si curva di nuovo, con un moto di spasimante insofferenza, verso un altro ferito che l’ha invocato. Il capitano Mario Falcone è lì, disteso sovra un lettuccio, con un viso più che pallido, livido, ha gli occhi largamente spalancati, ma quasi senza sguardo, con le mani esangui che stringono, ogni tanto, il lenzuolo, in quel segno dei moribondi, che strazia chi li assiste. Egli non si è accorto del passaggio di Lanfranchi: e, costui, è giunto infine presso la porta di tela, ed esce velocemente, e si mette a correre, così, a capo basso, per allontanarsi, per esser solo, portando sul petto scarno la camicia bagnata di sangue umano, la giubba sozza tutta di sangue umano e guardandosi, macchinalmente, ogni tanto, le mani, per vedere se, ancora, vi sieno traccie di sangue. Ha le labbra strette, i denti stretti, Giulio Lanfranchi, per domare i sussulti della insofferenza del suo animo. Giù, giù, alle spalle della tenda-ospedale, fra l’erba folta, ha trovato un grosso macigno, e vi si è buttato a sedere, curvo su sè stesso, con le mani che abbracciano le sue ginoc-