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— È impossibile. È troppo tardi.

— Resterà sempre così?

— Già. Anche sotterra.

Il brutto dialogo finisce in un silenzio. Fratta consegna a Guido Soria un portafogli di cuoio bruno ove sono delle carte, un taccuino di raso azzurro cupo, ricamato, chiuso da un bottoncino che è una turchese, e la targhetta del nome del morto.

— È tutto? — domanda, seccamente, Soria.

— È tutto — risponde Fratta. — Se vuoi, puoi frugarlo...

— Non era armato?

— Non era armato,

— Proprio, non era armato?

— No; aveva un frustino e una macchinetta fotografica. Ha preso tutto il mio compagno.

Senza parlare, Guido Soria mette la mano in quella di Fratta, la sua palma covre il biglietto da cinquecento lire, che gli consegna e che, subito, Fratta stringe e nasconde nel suo pugno chiuso. Soria interroga con gli occhi il portatore, per una ultima domanda. Costui comprende, risponde pianissimo.

— Trecento corone. — Poi, soggiunge, sempre più a bassa voce: — Senti, io sono un ladro, un farabutto, è vero; a questo mi ha spinto, ridotto e condannato, questa vita di beccamorlo, che mi han fatto fare.... Ho preso il tuo denaro e quello dell’austriaco, ma io, Soria, il denaro, le carte, tutto quello che aveva Gianni Scalese, morto, addosso, non l’ho preso... Era un santo, Scalese; e io sono un mascalzone, ma io ho dato la sua roba al cappellano, capisci, perchè la mandi alla sua povera madre! Adesso, addio, Soria.

— Addio, Fratta.

Il portatore ha rifatto il rotolo della sua branda, ha acceso la sua bruna pipa e con un passò pesante e strascicato, se ne è andato, col suo compagno.

Soria è solo, col suo morto. È in quel corpo esanime, che il suo furore di guerra, che

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