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Il soldato è tornato, col cannocchiale. Adesso, aggiustatolo bene, Guido Soria ha sotto il suo sguardo, l’austriaco, il suo nemico, che egli ha colpito mortalmente, e, forse, è morto: e gli sembra di vederne sovra un braccio piegato, il viso bianchissimo, come esangue e gli occhi aperti, spalancati. Gli sembra. La distanza è grande: il cannocchiale, anche possente, può ingannarlo. Guido Soria aspetta dieci minuti, venti, riprendendo sempre il canocchiale. L’uomo è lì, o gravemente ferito, o morto. Ma nessuno è escito di trincea, a soccorrerlo. E lentamente Guido Soria, si sgranchisce le gambe, con un moto di soddifazione fisica, respira largamente, va, va, verso la sua trincea, verso il suo ricovero, con un passo leggero, con un sorriso sulle labbra: e non si accorge che parla a sè stesso:

— Debbo scriverlo al nonno... il nonno sarà così felice, così felice...

Più che felice, ebbro egli è, in quella sua miserabile cabina, che gli sembra così angusta, a contenere la sua ebbrezza. Vorrebbe parlare, narrare, gridare il suo inebbriante evento, a qualcuno, a molti: ma è solo, adesso. Il suo fante Franceschi è andato incontro al postino, che porta lettere e giornali a ufficiali e a soldati. Freme, Guido Soria, non solo nell’anima, ma nei nervi, nei muscoli, freme del fremito bellico, nel violento desiderio di aver dinanzi un altro nemico da abbattere, venti nemici, cento nemici contro cui scagliarsi, insieme ai compagni, a cento compagni, tutti sospinti dalla stessa furia di guerra, e combattere, con tutte le armi, il fucile, la baionetta, la bomba a mano, la pistola, persino il pugnale degli «arditi» e colpire, e ferire, e sanguinare, e continuare, sanguinante, a ferire, a uccidere... Ebbrezza, ebbrezza solitaria!

— Scrivo al nonno. Che grande notizia, pel mio nonno!

Ma non può scrivere. È troppo turbato di gioia. Palpitante, esce due o tre volte di trincea, Guido