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Moles guarda, accigliato, il caporale Lorenzi. Ma non dice che questo:

— Domattina, all’alba: si va in contrada Nerelle.

Non altro. Il capitano Moles rientra presto, in casa, poichè deve levarsi prima dell’alba. Il suo attendente gli è intorno, ma non osa chieder notizie, vedendo l’umor nero del suo ufficiale e comprendendo, però, dai secchi ordini che vi è, sotto, qualche cosa che riguardi la spia. Egli sparisce subito, rinviando alla mattina qualche timida dimanda. Moles non va subito a letto: passeggia, lentamente, dalla sua camera al salone del palazzo patrizio, fra i mobili di broccato cremisi, dalle cornici dorate: passeggia per calmare l’ira che si leva nel suo animo, di fronte alla inane pietà che sente palpitare, intorno a sè, per Franziska Kroll, la creatura di frode, di agguato e di morte: passeggia e rammenta, ai primi tempi di guerra, la bella, impetuosa, figura di Massimo Capece, figura ove la nobiltà dell’antico sangue, si univa a un alto valore personale. Massimo Capece che avrebbe voluto combattere e cadere in un’aperta e clamorosa battaglia, ed era scomparso, per Franziska Kroll, in uno stupido e tragico tranello, non si sa dove, misero cadavere insepolto, ceneri portate via dal vento, in un paesaggio senza nome. E rammenta, Camillo Moles, come se fosse accaduto ieri, quella ricerca affannosa, negli orridi campi di Mettler, e la figura bizzarra e attraente della piccola spia, una giovinetta, quasi, apparente e sparente nella nera boscaglia e ha, l’ufficiale, nelle orecchie il suo canto sottile, trillante, come quello di un’allodola al mattino, e il suo riso beffardo, stridulo, come un malvagio uccello di rapina. Franziska Kroll, assetata di sangue, vampiro, vampiro! Ha passeggiato, Camillo Moles, più di un’ora, avanti e indietro, e il suo sdegno si è sedato, nel suo animo e il suo cuore si è anche più irrigidito, nel suo petto, come un ordegno di acciaio, su quello che è il suo implacabile dovere, la punizione di questo mostro umano. Adesso,

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