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— Scalese? Scalese? — domanda, un po’ pallido, Guido Soria.
— Una bomba lo ha crivellato di ferite... È vissuto un’ora; ha chiamato la mamma, varie volte. Era un buon figliuolo. È la guerra! Addio, tenente Soria; si ricordi le mie istruzioni.
— Bene, capitano.
— Tenente Soria, in bocca al lupo, per stanotte, per domattina!
— Grazie, capitano Dellara.
Il piccolo gruppo si allontana, sparisce. La sera discende. A passi cheti, il tenente Soria ritorna nel suo rifugio. Adesso, come un velo bigio covre la sua vibrante gioia di guerra.
— Ha chiamato la sua mamma... — egli dice, a se stesso. E soggiunge, macchinalmente: — È la guerra...
È l’ora di chetarsi, di raccogliersi, di dormire, dopo aver dato tutti gli ordini necessarii; ed essersi accertato che sieno stati eseguiti. Dormire? È notte; bisogna dormire, perchè il risveglio sia rapido e l’uomo sia fresco di forze e pronto alla battaglia. Ma la notte non porta sonno a Guido Soria; egli non sente il bisogno di stendersi su quella branda sconquassata, su quel materasso di paglia scricchiolante, ove, pure, ha dormito i sonni profondi della giovinezza. Il suo stato di esaltazione continua, con un ritmo più pacato, forse, ma sempre tenendolo in fervore, non solo, ma nella più vivida attesa, di un più largo indomani. Questa è, per lui, una veglia delle armi. Un nemico ucciso, son poche ore, mentre voleva uccidere; altri nemici, domattina, che vorranno passare e che non passeranno. Perchè dormire? La notte è nera; ma l’alba sarà bella, fra poco. Del resto, non dormono, in quelle trincee, quella notte, che pochi neghittosi; e quel sussurro, quel tramestìo, che è cominciato, nel pomeriggio, seguita, sotterra, lungo tutta la vallata, che pare deserta. In qualche trincea, per vegliare, si ricominciano quelle interminabili partite a carte, al lume di un