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— Scriverò per lei. Non dubiti. Andrà qualche altro avvocato al Tribunale di Guerra di Napoli: e ne sarà, probabilmente, felicissimo. Come lei, a restar con noi!

— La ringrazio di cuore, colonnello. E, ancora, la prego, non lasci inoperoso, in questa città poco simpatica, questo suo buon soldato, come mi ha chiamato. Non mi risparmi. Nulla mi sembrerà duro o difficile. Voglio servire, colonnello!

— Bene, bene; ci conti, capitano Moles.

Il capitano Moles si è ricomposto, saluta, si allontana, esce nelle vie della città conquisa, che era austriaca e austriacante, anche prima della guerra, odiando mortalmente gli italiani. Anche nella larga via principale, vi sono i segni di una occupazione, che ha fatto fuggire gran parte degli abitanti: molte botteghe sono sbarrate; poche, semiaperte; in pochissime, si traffica: movimento raro e fiacco. Molte case, sovratutto quelle più signorili, sono coi portoni chiusi e le finestre serrate: ad altre finestre, semiaperte, pende un pauroso e ipocrita vessillo tricolore. E la scarsa popolazione rimasta, o chetamente rientrata, acclama con enfasi precipitosa gli italiani, mentre impreca sottovoce contro i vincitori e spera pazzescamente nel ritorno dei vinti. La città formicola di spie: ufficiali e soldati vivono comodamente e con larghezza, nella città, ma in uno stato di disagio morale e di continua diffidenza. Ogni tanto, una presunta spia è afferrata e bastonata: altre volte la spia giunge a fuggire: le prigioni, poi, sono gremite di spie vere o false. Il capitano Moles si dirige verso un nobile palagio, disertato dai suoi proprietarii e dove egli occupa, tutto solo, un vasto e sontuoso appartamento: egli vi vive male, annoiato, preoccupato, in un ambiente che pare circondato da misteriosi pericoli, in una città piena di trabocchetti nemici. Non è, però, ancora giunto a casa, quando levando gli occhi, vede avanzarsi, con un passo ritmico, un’alta e snella figura di donna, tutta vestita di lutto. Accanto a lei, è un