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oppressi, ma che il grido della sala operatoria, ha ridestato,

— Non ci reggo, Santillo, non ci reggo! — esclama Lanfranchi, in un novello scoppio d’insofferenza.

— Ma che, sei una feminetta? E chiedi forza a Dio, che ti è amico, che ti concede tutto... Andiamo da questi infelici. Sai che alcuni di essi sono in agonia. Tu non hai viatico, tu non hai olio santo... che prete sei?

— Il più indegno tra i preti — risponde, fosco, don Giulio Lanfranchi. — E non ho viatico e non ho olio santo...

— Alla chiesa di Sant’Anna, non te lo potevi procurare?

— Santillo, la chiesa è lontana: e io non sto in piedi, guardami, guardami!

— Hai ragione, povero figlio mio... Andiamo, vieni a dire qualche parola buona, amorosa, come la sai dire tu, a questi morenti.

— Sì: ora esco, a respirare un sorso di aria, amico mio... Ma torno subito... Non dubitare, io torno.

— Sai bene che quei poveretti ti vogliono, per morir in pace.

— E io li invidio, Santillo! — grida Lanfranchi, come se non potesse frenarsi.

— Che diamine dici?

— Niente! Vado. Ora ritorno.

Ma per venir fuori dal padiglione, Giulio Lanfranchi deve attraversare tutto il reparto ove sono, in giro, i tettucci dei feriti. Alcuni, cerei, con le palpebre scure abbassate, sembrano già morti, mentre non sono che immobili e incapaci anche di aprir gli occhi, tanta è la loro debolezza: altri hanno il viso acceso e gli occhi lustri, ma smarriti, cercanti, qua e là, non si sa che cosa: altri stanno con gli occhi spalancati, ma fissano un punto lontano, forse il vuoto, con le mani raggricchiate sulle coltri. Costoro, malgrado che Giulio Lanfranchi trascorra, cauto, per non destare gli