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— Lei, poi, domani mi darà il nome e il cognome del morto. Io li scrivo, a grossi caratteri, con un inchiostro che non si cancella, sovra una targhetta di legno; e attacco la targhetta alla sua croce.

— ....

— Se qualcuno, dopo, vuol ritrovarlo, questo morto, capirà, così, lo ritrova.

— Qualcuno?

— Avrà qualcuno, costui, in Austria, che gli vuol bene, che lo piangerà, che ne ricercherà la fossa. Tutti hanno qualcuno, tenente.

Il singolare dialogo è finito.



Il colonnello Carmelo Galatioto, il siciliano taciturno, dalla fisonomia quieta e dagli occhi nerissimi che ogni tanto sfavillano, depone il foglio che ha Ietto all’ufficiale, il quale è in piedi, dinanzi alla sua scrivania. È il capitano Camillo Moles, in cui amici e conoscenti che non lo rivedono, da circa tre anni, che non lo hanno mai incontrato, nelle sue fugacissime riapparizioni in Roma, non ritroverebbero la caratteristica fisonomia di colui che era stato, in Roma, nell’alto professionismo forense, una lucida mente, una parola limpida, appassionata e travolgente. Tutto è mutato, nel capitano Camillo Moles; la sua persona che ha perduta ogni traccia di pinguedine, fattasi magra, pare più alta ed è più agile; ogni suo gesto è sobrio ed è corto; il suo passo è cadenzato, militaresco; nel viso non vi è nè gonfiezza nè pallore, le linee sono angolose, quasi taglienti, sotto la carnagione olivastra; la bocca pare si sia adattata al silenzio, e il fluido sguardo, ove era tanto fascino, è torbido, senza espressione. Egli porta bene l’uniforme e non manca di una severa eleganza, che l’altro Moles non ha mai avuta.